venerdì 30 dicembre 2022

Recensione [romanzo e film]: Bones and All, di Camille DeAngelis

 | Bones and All, di Camilla DeAngelis. Mondadori, € 15, pp. 312 |

“A diciassette anni ho iniziato a morire di fame”, canta Florence Welch. “Pensavo che l'amore fosse una specie di vuoto nella pancia”. Per Maren e Lee, a quell'età, l'amore altro non è che sazietà sconsiderata e bulimica. Cannibalismo. Sono venuti presto a capo della loro natura. Lei, ad esempio, l'ha scoperta mangiando la sua babysitter: la madre l'ha trovata infante o poco più in una pozza di sangue, con un osso della donna per ciuccio. È da allora che Maren fugge, sapendo che è destinata a distruggere tutto ciò che ama. Abbandonata dalla madre e in cerca del padre, la protagonista incrocia un proprio simile in viaggio verso il Minnesota. E se ne innamora. Accanto a Lee scoprirà la fallibilità degli adulti, il turbamento del sesso e, soprattutto, i lati oscuri di una America degradante zeppa di stazioni di servizio abbandonate e alienanti centri commerciali. Novelli senzatetto, invisibili agli occhi dei più, i protagonisti viaggiano con il pollice teso per fare l'autostop – i bagagli leggeri, i cuori pesanti. Stare insieme è un misto inestricabile di paura e tenerezza. Il loro percorso, sprovvisto di particolari scene madri, è una strada dritta ma dall'asfalto sbeccato; un intreccio che non punta mai ai colpi di scena, ma all'universalità di una storia che parte dall'horror per raccontare la violenza delle prime volte. Crescere è uno strappo. C'è chi li braccherà, chi invidierà la loro sintonia al punto da implorare di essere mangiato pur di divenire finalmente parte di qualcosa di grande e significativo, chi al luna park riceverà in regalo un peluche di ET – L'extraterrestre. Il loro sentimento, acerbo, è al centro di un romanzo che acerbo lo è altrettanto. L'esordio di Camille DeAngelis ricorda le contaminazioni di Lasciami entrare e Non mi uccidere, ma perde poi la bussola in un epilogo monco e sospeso.

Quella sera ho scoperto che ci sono due tipi di fame. Ce n'è uno che posso soddisfare con gli hamburger e il latte al cioccolato, ma c'è un'altra parte di me che resta in attesa. Può aspettare per mesi, magari anche anni, ma prima o poi dovrò cederle. È come se ci fosse una voragine dentro di me, e quando assume quella forma là c'è soltanto una cosa che la possa riempire.

Per fortuna, pur non traendone il capolavoro decantato da alcuni, Luca Guadagnino ha setacciato i pregi del romanzo Young Adult e li ha potenziati. In una calda estate italiana, d'altronde, un adolescente si masturbava con una pesca mentre la radio cantava Battiato. Ci può forse stupire che l'autore di Chiamami col tuo nome sappia raccontare con delicatezza una storia d'amore e cannibalismo destinata a un pubblico adolescenziale? Senza mai scivolare nel ridicolo a dispetto della sceneggiatura un po' lacunosa, questo Guadagnino non sorprende ma perturba. Ibrido non sempre equilibrato (aveva già fatto qualcosa di simile, e meglio, il francese Raw), Bones and All usa lo splatter per scavare a mani nude tra le incertezze della crescita e tra i segreti di un Paese in cerca di autoaffermazione. I protagonisti, due romantici serial killer, seminano per due ore sospiri, raccapriccio e vittime straziate. Russell, con i suoi grandi occhi da cerbiatto, si lascia condurre dal più smaliziato Chalamet: in sintonia, i due si intrattengono con gli irriconoscibili Stuhlberg e Sevigny mentre fuggono via da un gigioneggiante Rylance. Si leccano a vicenda labbra e ferite. Ma, ancora una volta, si ha la sensazione di conoscere in anticipo le tappe di questo viaggio chiamato crescita; risvolti shock compresi. Restano la bellezza dei movimenti di macchina e quella della gioventù; la fame di pesche, che batte prevedibilmente quella di carne umana; il sole negli occhi, il vento nei capelli. E il sangue sulla faccia.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – Hunger

lunedì 12 dicembre 2022

I bellissimi dell'ultimo periodo: Pinocchio | Blonde | Everything Everywhere All at Once | Cha Cha Real Smooth | The Batman

Nella prima edizione della storia, Pinocchio moriva impiccato e irredento: Italo Calvino lo considerava il protagonista dell'unico romanzo horror italiano. Al centro di innumerevoli trasposizioni (questa è la terza in tre anni), il piccolo bugiardo di Collodi trova finalmente la sua dimensione ideale nelle mani di Del Toro. E diventa inquietante, politico, dolcissimo, proprio come ci si aspetterebbe dal regista del Labirinto del fauno. Ambientata in un borgo dell'Italia in guerra e destinata a concludersi tra le acque insidiose dello Stretto, la trasposizione Netflix è una riscrittura brillante e personalissima in cui manca Mangiafuoco, la fata turchina ha una spaventosa gemella che veglia sui vivi e i morti, il Paese dei balocchi è un casermone dove plasmare la gioventù fascista. Lucignolo è il figlio del podestà, Geppetto intaglia crocifissi e piange il figlio perso nei bombardamenti, l'immortale Pinocchio fa gola tanto agli impresari senza scrupoli quanto al regime. Mussolini in persona non si divertirebbe forse a vederlo cantare e ballare? Ma questo burattino senza i fili e con un cuore grandissimo (nell'incavo del suo petto dorme il Grillo parlante) sfida il Duce e il mare pieno di bombe, insegnando che i genitori nutrono talora aspettative da smentire e che le bugie possono salvare la vita. Per il resto: sappiamo tutti come va a... O forse no? In lacrime, mi sono scoperto turbato per lo struggimento scorto sui volti in stop motion dei protagonisti e per la (non) morale di questo capolavoro della buonanotte. Una fiaba inedita, per bambini ribelli. E antifascisti. (8,5)


«Non sono una stella, sono soltanto una bionda». È abituata a sminuirsi, anche se legge Dostoevskij e Cechov; a nascondersi dietro un cliché, cosicché il mondo non la bracchi. Norma Jeane lo affronta con gli occhi di un cerbiatto abbagliato dai fari. E con gli stessi occhi si guarda da fuori con lucidità spaventosa. Si scolla da sé e allo specchio, sullo schermo, vede materializzarsi Marilyn: a volte alleata, altre nemica, è reclamata come un supereroe. Dove comincia una e finisce l'altra? Quale delle due ammortizza al meglio le violenze fisiche e psicologiche, gli aborti e i voltafaccia di quattro uomini tutti uguali ma tutti diversi? Dominik adatta Oates, e trasforma un flusso di coscienza in un'opera d'arte destinata a farsi amare e odiare su una piattaforma di consumo. Divisivo, Blonde metterà d'accordo per l'audacia del comparto tecnico e per la scommessa vinta da Ana De Armas, splendida e vulnerabile; scontenterà per tutto il resto. Ma questa via crucis lunga tre ore resta uno degli esempi di cinema più fulgidi di quest'anno accanto a Spencer: ancora una volta, un horror psicologico con un'icona tormentata dai ghigni dei paparazzi. Diana, però, si riappropriava perfino del suo cognome originario. Marilyn, invece, resta “la bionda”: è una prigionia senza fine, la sua, raccontata da un falso biopic terribile e bellissimo al contempo. A disagio, ho chiesto scusa a un fantasma vergognandomi di me stesso: mia Norma (anzi, al bando i possessivi: non “mia”, ma finalmente di te stessa), se puoi, per favore, perdonaci tutti. L'unico difetto di questo film è renderci complici, di nuovo, dalla sua autodistruzione, grazie a (o a causa di) un cinema che è voyeurismo e requiem solenne. Sono in difetto, poiché inerme e maschio. E, per questo e altro, sono colpevole anch'io. Perdonaci. Perdonami. (8,5)

Evelyn è la direttrice di una lavanderia a gettoni. Sull'orlo del divorzio, sommersa dalle richieste dei creditori, amareggiata per i dissapori con il padre anziano e la figlia omosessuale, rischia di perdere la testa. E di trascinarci tutti nel suo caos interiore, in un film pazzo e irresistibile che la vede protagonista di un'avventura senza precedenti: proteggere gli equilibri del multiverso, minacciato da una forza maligna di cui lei stessa è artefice. Ci sono innumerevoli Evelyn, con innumerevoli abilità a carico: ogni Evelyn ha imboccato, però, una direzione diversa. Quella che abita il nostro universo farà davvero da ago della bilancia in un conflitto millenario? Siamo nel nuovo film dei Daniels. Reduci dai fasti del sottovalutato Swiss Army Man, questa volta puntano agli Oscar con un piccolo film destinato a grandi incassi. Se lo stanno amando tutti, in lungo e in largo, c'è un perché. Nella sceneggiatura, geniale, ci sono: arti marziali, sassi parlanti, procioni da salvare, dita a forma di hot dog, marsupi che diventano nunchaku e butt plug che diventano trofei. Nel corso della visione i corpi esplodono in cascate di coriandoli e la bravissima Michelle Yeoh, qui al centro di un tripudio di colori e metamorfosi, è una padrona di casa cazzuta e perfetta. Al centro di un cast un po' cinese e un po' americano, incarna le faticose contraddizioni di una madre straniera in terra straniera: questo, infatti, è un film che parla di conflitti fisici e conflitti generazionali; di migrazioni concrete e metaforiche, al termine delle quali le identità dei protagonisti si scoprono in bilico. Chi saremmo senza i nostri errori e i nostri rimpianti, senza i nostri viaggi? La pazienza, la gentilezza e l'amore, all'ultimo, ci salveranno. Sempre. Ogni giorno, e in ogni universo parallelo, anche quando un gigantesco buco nero a forma di bagel minaccerà di divorarci tutti. Ho riso tra le lacrime per due ore e dieci. Viva le famiglie infelici a modo loro. Viva i Daniels. (9)

Lui, ventidue anni, ha appena finito l'università ed è tornato a casa dai genitori con la coda tra le gambe. Ha mamma e fratello minore per migliori amici e vive una doppia vita: di giorno commesso in un fast food, di notte animatore di feste per bambini ebrei. Lei, di una decina d'anni più grande, è madre di un'adolescente autistica e si sforza a tutti i costi di impegnarsi come genitrice e compagna. Ma, tra crisi di pianto e flirt, non riesce a rispettare il buon proposito di crescere. Chi vorrebbe diventare un'adulta responsabile, infatti, con accanto qualcuno come Cooper Raiff? Classe 1997, attore, sceneggiatore e regista, presta il suo sorriso pieno di candore a un Peter Pan infantile e straordinariamente maturo insieme. Goffo, dolcissimo e fuori luogo, è il cuore di una commedia romantica in stile Sundance nonché l'insospettabile interesse amoroso di Dakota Johnson. A fuoco come mai prima, la star di Cinquanta sfumature di grigio è un incanto con quelle smorfie un po' ironiche, un po' sensuali: nel cinema indie ha definitivamente trovato la sua isola felice. Uniti da un'alchimia palpabile e dalle perle di una sceneggiatura brillante nella sua semplicità, i due regalano un nuovo e prezioso spaccato di quella “quarter-life crisis” che tanto mi fa penare. Per fortuna ci sono film così, piccoli ma dal grande cuore, che ci fanno sentire tutti meno incompresi. Per fortuna, combattuti a giorni alterni tra gioia infantile e struggimento post-adolescenziale, possiamo fare come Cooper e Dakota: ballare, sbagliare, ricominciare. E, ancora e ancora, ballare. (8)

Mentre una Kristen Stewart da Oscar ha dato corpo alla “principessa triste”, Robert Pattinson ha prestato la sua mascella scolpita al “cavaliere oscuro”. Stranamente simmetrici, gli ex protagonisti di Twilight sono cresciuti. Bellissimi, arrabbiati e nevrotici, si confermano icone generazionali: negli occhi hanno l'inquietudine dei trentenni di oggi. In una Gotham derelitta e pericolosa, Batman semina il terrore: basta la sola apparizione del suo simbolo per far tremare i criminali. Isolato nella sua torre d'avorio, raramente getta via la maschera e mai, soprattutto, si lascia andare a gesti di gentilezza: cerca vendetta. È proprio questa stessa sete, inappagata, a legarlo a Catwoman (Zoe Kravitz: da infarto) e ai tranelli dell'Enigmista (Paul Dano, uno dei giovani attori più straordinari su piazza): come lui, i comprimari sono orfani alle prese con le promesse della generazione precedente. I figli erediteranno le colpe dei padri. E quante storture abbiamo ereditato noi? Quanti debiti, quante macerie, quanta immondizia? The Batman è un neo-noir denso e fluviale, alla David Fincher. È un una riflessione sul potere, che in ogni epoca e in ogni dove gronda sangue e bile come in Machiavelli. È la storia di un lutto mai elaborato. Oltre al mantello, Pattinson si trascina dietro una tristezza atavica e contemporanea al tempo stesso. Gli invidiamo l'armatura scintillante: nasconde quel disagio esistenziale in virtù del quale, per la prima volta, è stato possibile identificarsi con un supereroe del grande schermo. (7,5)

mercoledì 7 dicembre 2022

Recensione: Tasmania, di Paolo Giordano

| Tasmania, di Paolo Giordano. Einaudi, € 19,50, pp. 258 |

Ai miei studenti, nell'ora di epica e mitologia, ho rivolto una domanda: cosa portereste con voi in caso di giudizio universale? A casa, qualche giorno dopo, correggendo a penna rossa i loro temi, mi sono trovato a sorridere della banalità di alcune risposte: cellulari, trucchi, profumi... Forse, però, sorridevo soltanto di me stesso. Cosa avrei scritto al posto loro? Cosa mi affannerei a salvare? Cambierei forse hobby e priorità in prossimità dell'apocalisse? La fine del mondo è già qui, ci rivela l'ultimo libro di Paolo Giordano. Tasmania, a metà tra il saggio e l'autofiction, è un decalogo minuzioso del peggio che ci è capitato in questi folli anni: gli attentati terroristici, il Covid-19, il riscaldamento climatico, gli scandali sessuali. Il narratore, presumibilmente lo stesso Giordano, è un uomo di scienza prestato alla letteratura.

Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere.

Ha compiuto da poco quarant'anni, è in crisi esistenziale e, in un pianeta in crisi, fa ricerche su ricerche per il suo prossimo successo: un libro sulla bomba atomica. Esorcizza la paura con la paura. Con un software online simula l'esplosione di un ordigno sul tetto della propria casa e fa una conta approssimativa dei danni. Sempre online, non visto, cerca video di decapitazioni. Nell'altra stanza c'è Lorenza, la compagna di qualche anno più grande, già madre di un adolescente in partenza per gli Stati Uniti, che vorrebbe un altro figlio prima dell'arrivo della menopausa. E altrove, sparsi in giro per il mondo, ci sono amici e conoscenti che si innamorano, si tradiscono, flirtano, sabotano la loro carriera per una parola di troppo, premettono il sesso alla vocazione, si prendono, si mollano e infine si ripigliano.

Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?

Viviamo, smarriti, in un tempo pre-traumatico. Patiamo l'ansia sociale, la sindrome di Cassandra, i notiziari. Siamo spacciati. Allora perché, come i miei studenti – superficiali o forse soltanto pragmatici –, continuiamo a badare al superfluo? Perché, come Paolo e i suoi amici accademici, nutriamo quest'insensata ossessione per il futuro? Perché la vita, nonostante tutto? Di recente anche al cinema con il bel Siccità, di cui è stato sceneggiatore accanto a Paolo Virzì, l'autore piemontese continua il suo viaggio fra le ansie della nostra generazione. Ne viene fuori una lettura dal taglio divulgativo, all'apparenza distante da quelle che solitamente preferisco intraprendere, ma capace di toccare corde tutte sue – e tutte nostre. In caso di giudizio universale, mi porterei dietro beni di prima necessità e un libro così: un manualetto dotto, poetico e autoironico, sull'arte del reinventarsi e sul vizio della speranza. È possibile trovare scampo dal presente, dagli altri esseri umani, dalle responsabili della vita adulta? Giordano ci fornisce indicazioni preziose sulle vie di fuga. I più ricchi si stanno già procurando stanze antipanico superaccessoriate e navicelle spaziali. A noi non restano che le coordinate per raggiungere la Tasmania, novella terra dell'oro in cui Nick Cave ospitò il suo primo concerto all'indomani della straziante perdita del figlio. E gli abbracci spaccaossa delle persone che amiamo: che sono bunker antiaerei; che son casa.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Levante – Andrà tutto bene

lunedì 14 novembre 2022

Recensione: Avere tutto, di Marco Missiroli

Avere tutto, di Marco Missiroli. Einaudi, € 18, pp. 160 |

Da quando mi sono trasferito a Torino, mio padre mi telefona ogni sera. Abbiamo vissuto insieme tutta la vita senza mai saperci rivelare molto l'uno dell'altro. Tra noi avvengono conversazioni goffe, brevissime, piene di convenevoli. “Hai cenato?”, “Com'è il tempo?, “I coinquilini, il lavoro, lo smog?”. Un copione reiterato, sera dopo sera, da pronunciare a memoria quando ci si vuole bene, ma si è d'altri tempi e di poche parole. Ho trovato la stessa laconicità e la stessa tenerezza nell'ultimo Marco Missiroli, tornato in libreria a tre anni di distanza dal controverso Fedeltà. Lontano da temi spinosi e ambiguità sentimentali, questa volta non sembra scontentare i lettori. Avere tutto è un romanzo intimo e minimalista sui non detti tra un padre e un figlio all'alba di una tragedia: il vecchio, vedovo da un po', sta morendo di un male inguaribile; il giovane, pubblicitario di città non più così giovane, si prende cura di lui con le parole e, soprattutto, con i fatti. Quindi c'è Nando, che in gioventù faceva faville nelle balere e che ora, alla stregua di un animale sofferente, tende a nascondersi a bordo della sua sgangherata Renault. E poi c'è Sandro, il figliol prodigo, che torna a Rimini con la coda tra le gambe per fuggire al vizio del gioco d'azzardo e correre incontro al destino amaro del genitore.

Gli confidavo tutto senza confidargli niente. Da bambino gli parlavo nella testa e subito speravo di notargli una reazione: il sopracciglio ad arco, il tamburellare delle dita, una moina complice come se mi avesse ascoltato per telepatia. E la felicità nelle ore in cui lo seguivo e lui sceglieva mansioni dove potevo osservarlo: sturare un lavandino, potare il roseto, pulire l'abitacolo della macchina. Gli incantesimi delle sue mani.

Tra i due corrono silenzi, segreti e sigarette; un'intimità dolente, animata dagli sbuffi e dai mugugni di due uomini soli. Già nel romanzo precedente, d'altronde, l'autore romagnolo aveva raggiunto i picchi migliori alle prese con il personaggio di un'anziana: Anna, la madre di Margherita. Proprio come in Fedeltà, tuttavia, finisce per appesantire la narrazione con un vizio superfluo: non più le lotte clandestine tra cani, bensì il poker. Le digressioni sull'argomento frammentano l'intensità di una vicenda già esile di per sé e fanno sentire la mancanza di Nando, l'attore non protagonista che vorremmo fosse sempre in scena. Il tema della malattia, per quanto sentito, è affrontato in maniera consueta. Tutto va come previsto, fra imbarazzi iniziali e dettagli meticolosi dell'agonia conclusiva. Tutto è ben scritto, comprese le dinamiche al tavolo da gioco, ma purtroppo già svelato in quarta di copertina. Si può riprendere il controllo della propria vita mentre un padre sta perdendo il controllo della propria? Si può ricominciare daccapo al principio di una fine annunciata? L'ultimo Missiroli (si) emoziona senza bluffare. Ma, un po' come le telefonate con papà, racconta smanie e nostalgie in un sussurro che nulla aggiunge e nulla toglie al lessico del dolore.

Il mio voto: ★★★

lunedì 31 ottobre 2022

Storie vere, storie nere: The Staircase | Landscapers | Pam e Tommy | Black Bird

Quando la moglie viene trovata in un bagno di sangue riversa ai piedi delle scale, Michael Peterson (scrittore, padre di cinque figli, segretamente bisessuale, bugiardo patologico) diventa il famigerato protagonista di un'ordalia giudiziaria lunga quasi vent'anni. Si è trattato di un incidente, di un delitto passionale o, ancora, del bizzarro attacco di un rapace notturno? Il ritrovamento di un cadavere con ferite simili e un polverone mediatico sulla corruzione del sistema giudiziario americano semineranno confusione, mentre i figli dell'imputato tentano di ricostruirsi una vita e lui, di nuovo innamorato, entra ed esce di galera. L'agghiacciante caso di cronaca, tutt'ora irrisolto, diventa l'ennesimo gioiello di regia, scrittura e recitazione di casa HBO: vedasi le nomination agli Emmy. L'avvocato difensore è un umano Michael Stuhlbarg, la documentarista francese che fa battere il cuore all'imputato una sempre incantevole Juliette Binoche, i figli alcuni fra i giovani attori più promettenti della nuova generazione (Odessa Young, Sophie Turner, Dane DeHaan, Patrick Schwarzenegger). Ma sono la nevrotica Toni Collette e Colin Firth, per me protagonista della performance della vita, a seminare brividi tra visioni di morte e indimenticabili sguardi in camera. Nell'impossibilità di portare alla luce alla verità, ambiguo fino alla fine, The Staircase conquista diventando la visione più oscura di American Beauty. Il sogno americano? Genera mostri. (8)

La storia, verissima, di due coniugi inglesi all’apparenza insospettabili accusati di aver ucciso e sepolto in giardino i genitori di lei. La storia, d’amore, sconfinato e scriteriato amore, tra due alieni con il pallino dei film d’altri tempi e delle bellezze di Parigi, in fuga da un fatto di sangue e da un mondo, forse, che non li ha mai compresi fino in fondo. Landscapers, passata ingiustamente sotto silenzio, regala quattro episodi metatelevisivi, folli e sopra le righe, che infrangono le regole consolidate del true crime e sperimentano ora il bianco e nero della Nouvelle Vague, ora i colori saturi di David Lynch e Dario Argento, ora il 16:9 degli intramontabili western di Sergio Leone. Il regista Will Sharpe non porta a processo i suoi assassini della porta accanto. Ma ci porta, piuttosto, nel loro mondo: oscuro e tenerissimo, farebbe sincera invidia a Jean Paul Jeunet. Il tutto, già destinato a finire nel meglio dell’annata presente, con un David Thewlis finalmente in un ruolo da protagonista e una Olivia Colman straziante, che puntualmente alza l’asticella del suo indicibile talento. Qual è il vero crimine nella società odierna: l’omicidio, o essere diversi da tutti gli altri? (8)

Una serie TV per raccontare la diffusione del sex tape con i divi più iconici degli anni Novanta. Lei sogno erotico tutto curve, nel suo costume rosso sgamato. Lui batterista maledetto e narcisista, così orgoglioso del suo pene da arrivare perfino a dialogarci. I diretti interessati si sono tirati fuori dall’ideazione della serie. Una vicenda, a ben vedere, dolorosissima: portò la coppia al tracollo e Pamela a riabilitare faticosamente la propria immagine. All’apparenza dissacrante, sfrontata e sopra le righe, Pam & Tommy sceglie il regista di I, Tonya e i toni della commedia. Ma, nonostante il sesso, i nudi e le sequenze grottesche, ha molto a cuore i suoi personaggi. Io stesso partivo scettico: a torto, la immaginavo pura speculazione. C'è tanta umanità, invece, nel personaggio di Seth Rogen: un manovale non pagato che, stanco di vivere di espedienti, si rende l'eroe di una lotta di classe a colpi di vendetta. E, vero, c'è un po' di benevolenza di troppo verso il rocker di Sebastian Stan: si ghigna per gli sbarellamenti e le esagerazioni di Lee, finendo per dimenticare il dettaglio che fosse un violento – presumibilmente anche con sua moglie. Ma Pam & Tommy, per fortuna, appartiene soprattutto a Pam. E appare una lunga e sentita lettera di scuse alla vittima che fu trasformata nella colpevole della storia. Durante una deposizione, nell'episodio più toccante, è costretta a vedere stralci del video trafugato in una stanza piena di avvocati maschi. E lei, ragazza di provincia candida anche quando ammiccante, Alice nel paese delle meraviglie nella mansion di Playboy, si sente d'un tratto sporca. E, peggio, degna di essere sbeffeggiata dall'opinione pubblica. Attualissimo e potente, il messaggio passa attraverso la prova da applausi di un'irriconoscibile Lily James: quanta emozione sotto il trucco prostetico, quante riflessioni oltre il pregiudizio. (7,5)

Su AppleTV c'è da un po' una nuova serie true crime. Perfetta per i fan di Mindhunter e True Detective, racconta la storia (ancora una volta, vera) di uno spacciatore dalla lingua sciolta che, in cambio del completo annullamento della pena, cerca di strappare una confessione a un serial killer di adolescenti. Larry, allevato in una famiglia di becchini, è realmente un orco o un mitomane, come tutti pensano? Nonostante scriva il Dennis Lehane di Shutter Island e Mystic River, la sceneggiatura ha ritmi imperdonabilmente televisivi e, molto piatta a tratti, si dilunga eccessivamente nella sottotrama investigativa per poi brillare nei testa a testa dietro le sbarre: tesi, vibranti, teatrali, sono retti alla perfezione da Taron Egerton – muscolosissimo, conserva l'aria truce ma ha lacrime di rabbia perennemente in agguato – e da un gigantesco Paul Walter Hauser, capace di suscitare insieme tenerezza e disgusto profondi; con loro c'è il compianto Ray Liotta, scomparso a qualche mese dalle riprese. Chiudendo un occhio sui difetti sparsi, Black Bird resta una miniserie tutt'altro che indimenticabile, ma il quinto episodio – un piccolo capolavoro di scrittura e recitazione – garantisce agli spettatori una sfida attoriale da applaudire fino a spellarsi le mani. (7)

lunedì 26 settembre 2022

Recensione: Il cardellino, di Donna Tartt

Il cardellino, di Donna Tartt. Rizzoli, € 17, pp. 890 |

Ho iniziato a leggerlo ad agosto, su un treno per il Salento. Quel tomo ingombrante, dalla copertina avorio, aveva attirato le attenzioni di più di qualcuno – compreso il controllore che, stupito per la mia buona volontà, si era complimentato per la scelta. Era un grande fan di Donna Tartt. Avevo letto altro dell'autrice Premio Pulitzer? Sì, avevo risposto, Dio di illusioni: affascinantissimo, mi aveva irretito nella prima metà e deluso nell'ultima. A distanza di anni ricordavo una penna di sconfinata classe, atmosfere torbide e affascinanti, ma un mistero dalla gestione un po' goffa. Potrei scrivere lo stesso del Cardellino: straordinario all'inizio, ma destinato a una parabola discendente – rocambolesca, delirante, retorica – mai completamente metabolizzata. Arrabbiato, a fine lettura avevo richiesto confronti con alcuni lettori. Cercavo il romanzo dell'estate, infatti, ma la frustrazione del momento lo aveva trasformato nella mia memoria in qualcosa di ben peggiore di un'esperienza mediocre: una lettura – di quasi 900 pagine, per di più – destinata a scontentare proprio sul più bello. Come aveva potuto Tartt fidelizzarmi per poi lasciarmi in balia di un epilogo febbricitante, dove l'azione avviene fuori scena e la morale della storia è condensata in uno spiegone grossolano? All'epoca del viaggio, però, non potevo saperlo. E con il controllore avevo scambiato impressioni entusiastiche sulle disavventure d'altri tempi di Theo Decker: un orfanello di dickensiana memoria che, dopo la morte della madre amatissima durante un attentato terroristico, si muove tra benefattori e carcerieri, tragedie e fortune esagerate, in città piene di bellezze insidiose.

Tutto ciò che sopravvivere alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo.

Prima ospite della famiglia Barbour nella signorile New York, poi affidato al padre e alla nuova compagna in una Las Vegas indimenticabile nella sua dissolutezza, Theo potrò contare su una manciata di costanti in un'esistenza per il resto raminga: il negozio di antiquariato di Hobie, sua guida e maestro; l'amore platonico per Pippa e l'amicizia autodistruttiva con Boris, adorabile “lucignolo” dall'inconfondibile accento russo; soprattutto, il dipinto-feticcio di Carel Fabritius, rubato e mai restituito nella confusione dell'attentato terroristico iniziale. Conoscerà la ricchezza e la misera più sfrenate, sperimenterà droghe leggere e pesanti per fuggire al disturbo post-traumatico da stress, diventerà genio e criminale per mezzo delle sue naturali capacità seduttive. Soprannominato Potter per via degli occhiali a fondo di bottiglia e della frangia impettinabile, si fa voler bene proprio come il personaggio di J.K. Rowling: eroe di un'epopea varia, coinvolgente, totalizzante, in cui l'assoluta libertà del protagonista diventa anche specchio della sua struggente solitudine. Come l'uccellino immortalato dal pittore fiammingo, Theo trasmette insieme energia e inquietudine: benché il suo petto sembri continuamente pulsare di vita, è prigioniero del proprio trespolo. Esiste, per lui, via di fuga? Bisogna forse ricercarla nella bellezza, nell'arte, nell'amore? Il cardellino fallisce quando prova ad abbozzare risposte, a cercare un senso al girotondo del suo primattore, ad arginare il suo caos – cosmico e narrativo – in una struttura da thriller americano. La scrittura di Donna Tartt è sconvolgente: l'esplosione di una bomba. Ma quando prova a mettere ordine, a trarre una morale di fondo, compie il medesimo errore di Fabritius. E mette un capolavoro in una cornice laccata; una catena d'argento alla zampa della sua creaturina piumata, condannandola, infine, alla cattività.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead – Karma Police

giovedì 15 settembre 2022

Recensione: La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo

La notte scorsa al Telegraph Club, di Malinda Lo. Mondadori, € 20, pp. 456 |

Come in Carol, lo splendore intramontabile degli anni Cinquanta fa da sfondo all'amore proibito fra due donne. Come in Victor Victoria, la maggiore attrazione di un nightclub è una cantante che si esibisce in abiti maschili e, seducente, ammicca alle spettatrici sedute in prima fila. Come nella Fantastica Signora Maisel, la vita notturna della città offre sorprese e talenti: peccato che i raid della polizia siano all'ordine del giorno. Risulta semplice immaginare il frusciare delle gonne a campana, l'odore della lacca, le luci e le ombre delle insegne al neon. Ma siamo nella multietnica San Francisco, in una famiglia cinese tutta d'un pezzo. Allevata con rigore per diventare una brava donna di casa, la diciassettenne Lily sogna le dive del cinema e di andare sulla luna. Ritaglia fotografie di Katherine Hepburn sui giornali, occhieggia le donne prorompenti sulle copertine dei romanzi rosa, custodisce gli articoli sulla artista di punta del Telegraph Club. Bravissima nella resa di un contesto storico attendibile e dettagliato, Malinda Lo firma una storia per giovani lettori che racconta i primi palpiti, le gioie del contatto fisico, lo sconcerto dello scoprirsi diversi dagli altri. Per farlo si affida ai suoi personaggi, lasciandosi guidare alla scoperta della loro identità – di genere, sessuale, culturale. Ma talora ne risentono i ritmi, piatti soprattutto nella seconda metà, e appesantiti da qualche tematica di troppo. Accanto ai classici espedienti del genere (il ballo scolastico da organizzare, una migliore amica da sostenere per un concorso di bellezza a Chinatown, l'attrazione ricambiata per una coetanea con il mito di Amelia Earhart), infatti, ci sono gli sconvolgimenti politici (la minaccia di russi e giapponesi, la caccia ai simpatizzanti comunisti) e i flashback sugli immigrati di prima generazione (i genitori di Lily, la zia paterna). Combattuto al pari della sua protagonista fra senso d'appartenenza e desiderio di ribellione, La notte scorsa al Telegraph Club è la cronaca discontinua ma toccante dell'ultimo anno di libertà prima del college. Cosa comporta uscire dai confini angusti del proprio quartiere? Cosa significa, oggi come ieri, sentirsi parte di una minoranza? Bisogna spingersi fino a Marte, colonizzare un altro pianeta, per trovare il coraggio di mostrarsi senza maschere? In un momento storico in cui appariva più plausibile un'odissea nello spazio che la parità – nel 1969 Armstrong volerà sulla luna, ma bisognerà aspettare il nuovo millennio per la legalizzazione delle unioni omosessuali –, Lily scoprirà con meraviglia che non è necessario spingersi troppo lontano per liberarsi dalla forza di gravità e dalle convenzioni sociali. Basta un bacio in un vicolo deserto. O la luce rivelatrice di un torbido locale notturno.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Ronettes – Be My Baby

lunedì 5 settembre 2022

Recensione: Il senso di una fine, di Julian Barnes

Il senso di una fine, di Julian Barnes. Einaudi, € 11, pp. 150 |

Siamo davvero le brave persone che millantiamo di essere? Tony Webster – un pacato inglese sulla sessantina, divorziato ma in ottimi rapporti con l'ex moglie, padre e nonno – ha sempre immaginato di sì. Bontempone nostalgico ma non senza ironia, mette tutto in discussione quando il passato torna a bussare alla porta sotto forma di un lascito misterioso. E allora che, scoperchiando un vaso di Pandora ormai dimenticato, riallaccerà i rapporti con una vecchia fiamma di gioventù, la timida ma spregiudicata Veronica, e diventerà il protagonista di un enigmatico amarcord. Nessuna identità, infatti, è abbastanza solida da restare incolume dopo lo scrupoloso esame di coscienza firmato da Julian Barnes.

Sì, certo, eravamo presuntuosi, se no a che serve essere giovani?

Lo scrittore britannico, vincitore un decennio fa del Booker Prize, accumula aneddoti color seppia, corrispondenze via email, interrogativi sul mistero di Finn – il migliore amico di Tony – e sul conto del suo stesso protagonista. Si sposta, così, dalla routine sonnacchiosa del pensionato – rianimata, all'improvviso, dal sopraggiungere di una nuova ossessione – alla rievocazione palpabile della Swinging London, quando i personaggi filosofeggiavano di sesso, vita e morte ai tempi d'oro dell'università. Cosa accadde nel weekend trascorso a casa dei genitori di Veronica ben trent'anni prima? Perché tutti, insegnanti compresi, si contendevano così accanitamente le attenzioni di Finn – talentuoso e dannato in parti uguali? Soprattutto, di quale colpa si macchiò Tony, messo sotto processo dal lettore in persona? A metà tra L'attimo fuggente ed Espiazione, ma decisamente meno memorabile di entrambi, Il senso di una fine sfodera un amato-odiato narratore inaffidabile e un intreccio bipartito, dove la nostalgia lascia presto spazio a un profondo rimorso.

Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come sostenni una volta disinvoltamente, con il vecchio Joe Hunt; adesso lo so. È fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti.

La verità, benché addolcita dal tempo, è comunque destinata a riemergere con il suo carico di amarezze e tragedia. L'irruenza della gioventù è forse un'attenuante? Le parole hanno un peso specifico. E a volte, se usate a sproposito, generano anatemi. Barnes, al contrario, sa usare quelle più giuste: sintetico e rigoroso, anche se sin troppo algido per i miei gusti, è abilissimo nell'infarcire la voce del suo narratore tanto di sentenze sgradevoli quanto di poetiche perle di saggezza. Il suo è un superbo esercizio di stile, perfetto nella forma ma incerto nelle intenzioni. Sul finire mi sono trovato spesso a domandarmi quale fosse il punto della storia: lo scoppio di un amore tardivo, un inno alle seconde occasioni, un giallo in tocco e toga, o tutto insieme? Vizi e virtù di un thriller dei sentimenti prolisso, perfino con i suoi infiniti non detti.

Il mio voto: ★★★

sabato 3 settembre 2022

Al blog ancora non l'ho detto

Sono cambiamenti solo se spaventano”, cantavano i Subsonica nella loro Domenica. Spaventato, ho preferito metabolizzarli gradualmente in un'estate di latitanza: ho letto poco e scritto meno ancora. Questi cambiamenti, in realtà, sono cominciati nella prima metà dell'anno. Correva il mese di febbraio quando il Ministero dell'Istruzione, dopo due anni di fermo a causa dell'emergenza sanitaria, ha deciso di ripristinare dall'oggi al domani il concorso ordinario. Ho avuto un mese scarso per prepararmi e per raggiungere le sedi dall'altra parte d'Italia. Cinquanta domande a risposta multipla su tutto lo scibile umano, cento minuti. Al concorso per insegnare alle scuole medie sono stato bocciato. Scoraggiato, dieci giorni dopo sono salito nuovamente per quello per le superiori: si è svolto lo stesso giorno del mio ventottesimo compleanno e, a sorpresa, l'ho passato con un ottimo punteggio. Per l'orale ho avuto altri due mesi: ventiquattro ore prima della discussione ho estratto una traccia – la mia era di letteratura italiana, sul poeta triestino Umberto Saba – e in una giornata al cardiopalma ho preparato un'unità di apprendimento lunga trenta slide (comprensiva di normativa scolastica, studiata dal nuovo proprio per l'occasione). Ho atteso la pubblicazione dei risultati con una Tennent's ghiacciata, in un cortile a settecento chilometri da casa mia, mentre il mio destino imprevedibilmente cambiava. Il primo settembre, alle otto in punto, ho firmato la presa di servizio. Per farlo ho saltato il matrimonio di alcuni fra i miei amici più cari. Con la penna in mano, ho avuto un attimo di titubanza ma poi ho barrato la casella esatta: docente a termo indeterminato. Sono professore di ruolo nel liceo di Orbassano, Torino: discipline letterarie e latino. Mi sono trasferito in Piemonte ormai da qualche giorno. A volte mi manca il mare della mia piccola città, altre mi autosaboto dicendomi che non sarò mai all'altezza – avrò venti ore settimanali, un totale di cinque classi. Con il tempo che scarseggia, mi è più facile raccontarmi grazie all'immediatezza della pagina Instagram, ma ho intenzione di mettere radici quanto prima e di tornare a scrivere a tempo pieno anche su Diario di una dipendenza. Avrò bisogno di voi, miei compagni d'avventura da un decennio, e del coraggio che naturalmente infondete. Al blog, sapete, ancora non l'avevo detto.


venerdì 12 agosto 2022

Recensione: Patria, di Fernando Aramburu

Patria, di Fernando Aramburu. Guanda, € 19, pp. 640 |

Quando andavo a scuola, la mia professoressa prediligeva un aggettivo alternativo per spiegarci la tragedia delle guerre civili: preferiva definirle intestine. Mentre prendevo appunti, tra me e me mi figuravo un groviglio di budella dolorosamente intrecciate; un corpo umano che, a un certo punto, si autosabota. Qualcosa di violento: contronatura. Ho ripensato alla violenza di quella definizione – guerre intestine –, leggendo il mio primo Fernando Aramburu: stando a oggi, il romanzo più bello dell'anno. Ambientato tra passato e presente, scava nei traumi del terrorismo di estrema sinistra: i Paesi Baschi, in cerca d'indipendenza dalla Spagna, seminarono per decenni molotov e intimidazioni. Alcuni baschi videro nell'ETA l'incarnazione dell'eroismo: i giovani terroristi, infatti, erano disposti perfino a perdere la libertà pur di salvaguardare la cultura, la lingua e l'identità del proprio popolo. Altri invece, lontani dagli eccessi nazionalistici e accusati di tramare dunque contro la patria stessa, furono giustiziati a sangue freddo dai reazionari. Omicidi spietati o atti di giustizia?

Mi sono resa conto di una storia. Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quello che le va.

In maniera esemplare, l'autore spagnolo esemplifica il conflitto facendo specchiare in esso le dinamiche di due famiglie agli antipodi: prima amiche, poi rivali, naufragheranno in un rancore senza fine quando il figlio dell'una ucciderà il patriarca dell'altra. Sul cemento, una macchia rosso ruggine che neanche la pioggia più persistente riuscirà a cancellare. Tutt'intorno, nel “paese dei muti”, i compaesani volgeranno lo sguardo altrove. Cos'è dei protagonisti oggi? Bittori, la vedova della vittima, madre di un chirurgo impegnatissimo e di un'avvocata perennemente innamorata dell'amore, si è trasferita altrove e altrove ha sepolto il compianto Txato per proteggerlo dai vandali: ai piedi della tomba, a riparo sotto un ombrello rosso, dialoga col morto e borbotta al ricordo di come rifiutò di finanziare la lotta armata. Miren, la madre dell'assassino, ha altri due figli – la prima immobilizzata da un ictus, il secondo scrittore omosessuale – e un marito pensionato, dedito alla cura dell'orto: non ha mai smesso di professare l'innocenza di Joxe Mari, torturato dalla polizia e condannato a 126 anni di carcere.

Però un uomo può essere una nave. Un uomo può essere una nave con lo scafo d'acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l'acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l'acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all'errore, e quell'acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna. E così l'uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all'altro.

La trama prende avvio nel momento in cui Bittori osa tornare in paese, riaprire le tapparelle impolverate, esporre un geranio in balcone: perché semina inquietudine e medita vendetta, mentre tutti gli altri – passato il peggio – vorrebbero soltanto dimenticare? Fluviale, struggente e caleidoscopico, Aramburu architetta una saga familiare indimenticabile dove i capitoli brevissimi e l'alternanza dei punti di vista ci gettano a capofitto nel caos della storia contemporanea. Come in una puntata del family drama This is us, il tempo si frantuma: a volte accelera e a volte rallenta, per indugiare spesso lungo il perimetro di un “ground zero” di rancore e solitudine. Mentre gli uomini, miti, se ne stanno ai margini dell'intreccio, Bittori e Miren – stoiche, orgogliose, titaniche – vivono esistenze a metà e simboleggiano le contraddizioni di un luogo spaccato in due dalla paura del diverso, del vicino di casa, dei fantasmi del passato. Sarebbe stato meglio sostenerli oppure denunciarli, quei figli idealisti e ribelli? Gli imprenditori come Txato avrebbero fatto meglio a piegarsi alle minacce?

In realtà, la cosa strana e eccezionale è essere vivi.

Ormai anziane, le protagoniste si aggrappano a ciò che resta della loro vita in nome dell'orgoglio: cresciute insieme ma diventate tristemente rivali, domandano giustizia in un'appassionata epopea a corto tanto di vincitori quanto di vinti. Con l'arma più potente di tutte – la parola scritta –, Aramburu marcia lungo le strade sbeccate e guida un movimento reazionario di liberazione personale. La lotta armata è finita da tempo, ma non ha portato la pace sperata. Perdonare significa forse dimenticare? Quando il tetto dell'abitazione ti frana sul tavolo della cucina, non curarti dello stato. Senza pasti consumati gomito a gomito, non c'è casa. Senza casa, non c'è umanità. E senza umanità, non c'è patria.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Franco Battiato – Povera patria

venerdì 5 agosto 2022

Recensione: Un oceano senza sponde, di Scott Spencer

|Un oceano senza sponde, di Scott Spencer. Sellerio, € 17, pp. 350 |

In ogni relazione c'è un dislivello invisibile. Osservate attentamente le coppie che conoscete. C'è sempre una persona più affezionata dell'altra. C'è sempre chi ama e chi ama essere amato. Quando il dislivello si acuisce, come su uno di quei dondoli al parco giochi, l'equilibrio viene meno. E un membro della coppia – il più fragile –, viene schiacciato dal divario. I cuori di Kip e Thaddeus non hanno lo stesso peso. Legati dai tempi dell'università, i due oscillano sul dondolo che Scott Spencer ha costruito per monitorare i sali-scendi della loro storia. Si tratta soltanto di una buona amicizia? All'apparenza scapolo inguaribile, Kip lavora come broker a Wall Street, ma per codardia cela la propria sessualità: anziché scendere a marciare per strada nell'era dell'Aids, vive nascosto in un attico che lo taglia fuori dal mondo. Il suo mondo comincia e finisce nella venerazione per Thaddeus: sceneggiatore frustrato, marito e padre in crisi, ostenta una forzata giovialità. Rischia di perdere infatti una villa sul fiume Hudson, simbolo di una breve gloria lavorativa, e insieme alla villa la sua stessa famiglia.

Ho appreso una delle lezioni della solitudine, uno dei suoi sconvolgenti effetti collaterali: quando versi in uno stato di brama inappagata, il desiderio va avanti all'infinito, come un oceano senza sponde.

Tormentandosi in preda a un amore impossibile, il protagonista si fa presto custode del matrimonio dell'altro: da un lato vorrebbe che deragliasse – soltanto così, forse, troverebbe il coraggio di dichiararsi –, dall'altro vorrebbe che l'amico fosse felice. Stando al parere di un personaggio secondario, tra loro finirà malissimo: Thaddeus lo distruggerà senza neanche farlo apposta. A ogni telefonata quanto è desideroso di sentirlo davvero e quanto è mosso dall'opportunismo? Ignora deliberatamente i sentimenti dell'altro, ma si bea nel frattempo dell'ascendente che esercita su di lui? Il romanzo di Spencer è una storia di conflitti: quelli che albergano nell'animo di Kip, combattuto tra desiderio e paura; quelli che scandiscono le scelte di Thaddeus, incapace di rassegnarsi a un'esistenza vissuta al di sotto delle sue presunte potenzialità; quelli che agitano la periferia newyorchese, che osteggia la gentrificazione a suon di sassate e guarda con preoccupazione all'apertura di una fabbrica di calcestruzzo.

Ecco un'altra cosa riguardo a noi innamorati non corrisposti: siamo possessivi nei confronti dell'amato e disposti a tutto pur di tenerci aggrappati all'idea che abbiamo di lui. In effetti quell'idea è tutto ciò che abbiamo. Quando pensi a qualcuno più o meno tutto il tempo cominci a credere – anche se non lo ammetteresti mai, nemmeno con te stesso – che lui ti appartenga. Diventi un carceriere che fa avanti e indietro davanti alla porta della cella, tenendo d'occhio il prigioniero per accertarti che sia dove deve stare, che faccia solo ciò che gli è concesso.

Kip, prigioniero di un vecchio sogno erotico, si finge eterosessuale. Su cosa mente invece Thaddeus, prigioniero al contrario di vecchi sogni di gloria? Qual è il prezzo per continuare a nutrire un'illusione lunga trent'anni? Quand'è che, finalmente, ci si sveglia? Un oceano senza sponde si dipana in maniera più lineare del previsto e l'epilogo, un po' precipitoso, potrebbe amareggiare gli eterni romantici. Ma sontuoso, struggente ed enfatico, si legge con un'ammirazione vicina a quella provata per la prosa di Vladimir Nabokov: anche qui il narratore, inaffidabile, si rivolge a una giuria – vera o immaginaria? – per discolparsi di qualcosa; anche qui un sentimento irrazionale, di pancia, è raccontato con il cuore e con la testa. E il dislivello invisibile di cui scrivevo in apertura si manifesta, infine, come un messaggio scritto con l'inchiostro simpatico. E l'oceano del desiderio, tempestoso come non mai, trova pagine bellissime a fargli da sponde.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Senza fine - Gino Paoli 

sabato 30 luglio 2022

Addii e arrivederci: This is Us s06 | Stranger Things s04

Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Da adolescente ho letto questa da frase da qualche parte e ho finito per farla mia. Non sapevo niente di Anna Karenina, ma sapevo dove appartenevo. E in preda alla supponenza della gioventù, fiero perfino dei miei dolori, mi mostravo sprezzante verso l'armonia degli altri. Noi eravamo infelici, ma unici. Quando sei anni fa la mia famiglia è finita – almeno per come l'avevo conosciuta fino ad allora –, il distacco ha fatto male comunque e tuttora, sotto i vestiti, nascondo i bordi frastagliati di quel primo strappo. È stato allora che ho conosciuto i Pearson. Con loro, per sei anni e 106 episodi, è stato Natale tutti i giorni. E oggi, un po' più solo di quanto non fossi ieri, voglio ringraziarli per i sorrisi tra le lacrime e la compagnia. Tra alti e bassi, hanno compiuto un miracolo della serialità americana: fidelizzarci tutti mettendo in scena l'ordinario. Chiamala ordinaria, poi, una famiglia che resiste alla morte improvvisa del patriarca (Ventimiglia, l'uomo perfetto); una mamma che, divorata dall'Alzheimer, conserva gentilezza e dignità (Mandy Moore, da Emmy); una squadra di fratelli, nuore e genere, figli biologici e adottivi, radunata per un addio che si trasforma in una festa. I “Big Three” sono cresciuti e, stretti sotto un portico, nella baita che hanno costruito, si aggrappano gli uni agli altri temendo di andare alla deriva: Randall presta i suoi discorsi solenni alla vita politica; Kevin, padre di due gemelli, scende a compromessi; Kate, sempre mal sopportata, stupisce mostrandosi controcorrente tanto nelle scelte sentimentali quanto nei testa a testa coi fratelli. Le perle di saggezza, però, spettano ai personaggi secondari: da Beth, la mia preferita, che definisce un dono e un fardello l'incontro con una famiglia tanto ingombrante, fino a giungere a William: in uno struggente dialogo tra la vita e la morte, guida Rebecca lungo il treno dei ricordi e rassicura lo spettatore inconsolabile. Se la fine di una cosa ci rattrista, insegna, è perché era particolarmente bella mentre accadeva. Tutto era già scritto nella fine dei Pearson: ce lo avevano anticipato i flashforward. Ma quando l'inevitabile succede le lacrime scorrono in ogni caso. Tolstoj aveva ragione? Tutte le famiglie felici si somigliano? Felicissimi a modo loro, i Pearson hanno addolcito nei giorni peggiori la malinconia per come eravamo e aiutato a scendere a patti con le contraddizioni che, per autoindulgenza, mi gonfiavano il petto: mi sognavo felicissimo anch'io. (8)

Per alcuni è la migliore delle quattro stagioni. Per me è troppo frammentaria e sconnessa per rivaleggiare con la commovente coralità della prima, troppo seriosa per concorrere con lo spassoso bagno di sangue che fu la terza. I protagonisti, al centro di storyline separate, non si incrociano quasi mai. Qualche trama (vedasi quella di Joyce in Russia sulle tracce di Hopper) appare improbabile perfino per una serie horror-fantasy. Le soddisfazioni arrivano dal trio composto da Steve, Nancy e Robin, riuniti nuovamente dall'irresistibile Dustin; dall'approfondimento psicologico dedicato alla fragile Max, al centro di una scena subito cult sulle note di Kate Bush; da Eleven, mai troppo apprezzata, protagonista di flashback sorprendenti in un covo sotterraneo degno degli X-Men. Servivano episodi di un'ora e trenta? Serviva introdurre personaggi su personaggi – fatta eccezione per l'iconico Eddie, ingiustamente accusato di omicidio –, con il rischio di perdere di vista i vecchi? Nonostante si applauda la new entry Jamie Campbell Bower, serafico e misteriosissimo nella sua divisa bianca, si ha a lungo l'impressione che la storia avanzi di poco. Piacevolissima e derivativa, forse più che mai, stavolta vanta i toni più sanguinosi del cinema di James Wan (non scomoderei la saga di Nightmare, a dispetto del cameo di Robert Englund). Questo discorso, almeno, valeva per i sette episodi, rilasciati dalla piattaforma streaming a fine maggio. Gli ultimi due, disponibili dal primo luglio e prolissi quanto blockbuster, sono invece talmente elettrizzanti, ambiziosi e caotici da spazzare via ogni scetticismo: le linee narrative finalmente si intrecciano e i personaggi, anche se ancora distanti, organizzano uno strepitoso attacco combinato contro un nemico che si nutre d'inquietudini adolescenziali. Ci si commuove? Sì, anche se non per la fantomatica conta dei morti. Ma si scoppia più spesso a ridere, entusiasti, per i montaggio forsennato; per uno sfortunato outsider che improvvisa un concerto metal assediato dai pipistrelli; per quel camioncino della pizza che, tra le dune del deserto, a sorpresa conduce Stranger Things alle origini della sua magia. (7,5)

venerdì 22 luglio 2022

Recensione: Animale, di Lisa Taddeo

| Animale, di Lisa Taddeo. Mondadori, € 22, pp. 343 |

In tutti gli uomini, sottopelle, si nasconde un potenziale stupratore. Questa idea provocatoria era alla base del film Promising Young Woman: nella commedia nera di Emerald Fennell, la protagonista – fintamente vulnerabile – tendeva agguati a predatori sessuali in giacca e cravatta. Spregiudicato, aggressivo e senza peli sulla lingua, il romanzo di Lisa Taddeo persegue la medesima crociata femminista, ma senza l'arma dell'ironia. Animale è una lettura brutta, sporca e cattiva. Forse troppo? Ambientato in una Los Angeles lontanissima dallo sfavillio dello show business, segue la fuga rocambolesca di Joan. Prigioniera di un passato traumatico, tenta a ogni costo di avvicinare Alice – bella insegnante di yoga di cui brama l'amicizia – ma scappa dalla vendetta di Eleanor, figlia borderline del suo ex amante. Le sue ultime relazioni non sono finite bene. Mentre era a cena con la sua nuova fiamma, soprannominata Big Sky, ha assistito al suicidio di Vic: padre di famiglia sedotto e abbandonato, si è fatto esplodere la testa in un ristorante newyorchese. Qualcuno come Joan conosce il senso di colpa? Calamita per i maschi, repellente per le femmine, conduce uno stile di vita al di sopra delle sue possibilità economiche e fiuta occasioni in ogni dove. Perfino nella sua ultima sistemazione, sul fondo di un canyon polveroso a pochi passi da una vecchia comune per scambisti, troverà amanti e oggetti luccicanti capaci di farle gola.

Se qualcuno mi chiedesse di descrivermi in una sola parola, sceglierei depravata. La depravazione mi è stata utile. A fare cosa, non saprei. Ma sono sopravvissuta al peggio. Sopravvissuta è la seconda parola che sceglierei.

Quando sei diventata così puttana?”, le domanda qualcuno a metà romanzo. “È una lunga storia”, risponde lei. Ed è una lunga storia anche quella che, per scagionarla o forse per renderle finalmente giustizia, firma la brava e divertita Taddeo. Il suo ultimo romanzo, fascinoso e respingente insieme, a tratti pervaso di una bizzarra tenerezza, è una vicenda per stomaci forti in cui le donne sono tutte mantidi religiose e gli uomini tutti approfittatori. Prende avvio come un film erotico degli anni Settanta, ma presto si anima di armonie stridenti e accoglie tematiche provanti: stupro, aborto, omicidio. Ma la violenza del contenuto, oltre che per l'innegabile gusto di provocare, serve soprattutto per giungere gradualmente alla comprensione della doppia natura della protagonista: sempre in compagnia ma sempre sola, inquieta e contraddittoria, usa e viene usata a momenti alterni; è vittima della dipendenza affettiva di un amore non corrisposto ma, allo stesso tempo, tiranneggia su un amante sottostimato.

Solo le persone che vivono la loro vita in modo molto abitudinario, che non hanno mai conosciuto un dolore umiliante, possono amare il sabato e la domenica. A me davano un senso di precaria solitudine. Sembrava sempre che tutti fossero scappati in un posto dove io non ero stata invitata. Piscine azzurre e cocktail su vassoi rotondi. Oppure laghi neri e altalene di pneumatici.

Da bambina leggeva Stephen King in piscina ammiccando come Lolita, amava alla follia la sua passionale famiglia italiana, immaginava con smania i segreti degli adulti. Ha sofferto le pene dell'inferno, è cresciuta nella fretta e nella deviazione. Crede che il delitto sia l'unica soluzione, a volte, e che la follia sia la libera espressione di un dolore più profondo. Animale si legge come un thriller efferato, ma nell'epilogo risuona come un monito per le generazioni future. Laggiù il sudore imperla le fronti, il sole picchia forte, gli indumenti si appiccicano alla pelle. I vesti bianchi, ormai sporchi, sono da tingere di rosso per camuffare il sangue versato. Fuori i coyote asserragliano le abitazioni e ululano quando percepiscono l'arrivo del ciclo mestruale. Braccata, animale tra gli animali, Joan non ha mai paura e gironzola dentro casa con le scarpe alte. Il tonfo dei suoi tacchi – stilettate sul parquet – rivaleggia con gli ululati: simbolo di erotismo senza tempo, eco di solitudine senza requie.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Maneskin – I Wanna Be Your Slave

lunedì 18 luglio 2022

Recensione: La città dei vivi, di Nicola Lagioia

| La città dei vivi, di Nicola Lagioia. Einaudi, € 22, pp. 460 |

Ci sono libri che divori nell'arco di qualche giorno. E ci sono libri che divorano te. Il processo di masticazione è ben più lungo – una lacerazione sanguinosissima, un supplizio. Scrivo ancora intrappolato tra le fauci dell'ultimo Nicola Lagioia, in attesa di metabolizzare, o di essere metabolizzato. Nella Città dei vivi non c'è scampo: lasciate, dunque, ogni speranza. Al decimo piano di un condominio romano, al termine di tre notti di deliri d'onnipotenza e cocaina, si consuma una mattanza gratuita: in un appartamento a soqquadro dove persistono i resti di una sfrenata festa di morte tra cui metteranno ordine, si spera, mamma e papà, la polizia rinviene il corpo di un ventitreenne. Luca, avvolto in un piumone, aveva i calzini ai piedi e un coltello piantato in petto. I suoi assassini, pressoché sconosciuti, lo avevano adescato in seguito a una roulette russa su WhatsApp: al posto del giovane – figlio adottivo di una famiglia di ambulanti, con una fidanzata innamoratissima benché ignara della sua doppia vita: meccanico di giorno, gigolò di notte –, avremmo potuto esserci noi. Per qualcuno si è trattato di un delitto sociale, per altri di un festino a luci rosse finito male.

Mentre parlava mi sentii improvvisamente in colpa. In colpa perché io avevo quarantacinque anni e lui nemmeno trenta. Una colpa anagrafica, oggettiva. Gli adulti sono sempre colpevoli quando i giovani vivono in un mondo che fa schifo. Di chi altri dovrebbe essere la responsabilità? […] Pensai che non apparteneva a una generazione perduta. Come potevano pensare una cosa simile? Saremmo stati perduti noi, se li avessimo lasciati soli.

Per fortuna sono sano e salvo, per fortuna non sono io la vittima: quante volte lo abbiamo pensato ascoltando la cronaca nera al telegiornale? L'autore barese, in prima linea con un'inchiesta diventata infine un'ossessione privata, spiazza con la riflessione che nessuno ha il coraggio di formulare: per fortuna non sono io l'assassino. Ci crediamo forse impermeabili al male? Pensiamo che Manuel Foffo e Marco Prato, i ricchi aguzzini, siano nati con un gene diabolico che li rende estranei a noialtri? Il primo, figlio di un imprenditore che forse non lo ha amato a sufficienza, è un fuoricorso che non riesce a sfondare nelle start-up; l'altro, animale sociale dai modi persuasivi e seducenti, si strugge ascoltando Dalida e richiama le folle dei locali gay più popolari. Foffo è il succubo, Prato l'incubo. Empatico senza essere indulgente, attento ai fatti senza essere asettico, l'autore – al pari di un novello detective – interroga, incalza, scava. Perfino lui, sopravvissuto a una giovinezza dissoluta e maleducata in cui farneticava di vendicarsi di Eco, ha indugiato per un po' sulla linea grigia che separa i buoni dai cattivi. Siamo sicuri di essere saldamente piantati nella parte giusta?

Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell'incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di potere essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?

Torbido, disturbante e invasivo, La città dei vivi è un thriller pervaso d'umorismo beffardo, in cui la verità supera spesso la finzione; un atto d'accusa contro le lungaggini della giustizia italiana, artefice di una doppia tragedia; un'analisi antropologica su una generazione perduta e solitaria, in perenne lotta per l'autoconservazione. In una Roma infernale – già simbolo di corruzione morale nella storiografia classica –, gli abitanti devono sgomitare con topi e gabbiani sotto un mantello di pioggia battente. Le precipitazioni minacciano di portare alla luce anticaglie sommerse. O, in un moderno giudizio universale, di purgarci per sempre dei nostri peccati. Sotto lo schiaffo dell'acqua, meriteremmo il perdono o l'estinzione? Giunti all'ultima pagina – sopraffatti, sommersi –, tendiamo le mani in alto. Ci sono libri, bellissimi e terribili, a cui domandiamo la catarsi. Dalle fauci di Lagioia, dalla pancia della balena, veniamo così sputati fuori – affrancati, miracolati. Finalmente, e più che mai, vivi.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Dalida – Ciao, amore, ciao