sabato 30 maggio 2020

L'elaborazione in seconde stagioni da elaborare: Kidding, After Life, Homecoming, Dead to Me

È una delle serie più belle dell’anno. Ma, a malincuore, nessuno o quasi se n’è accorto. Com’è possibile, se interpretata magistralmente e con almeno tre episodi da incorniciare? Lo ammetto, sì: sono tornato anch’io con qualche dubbio dalla famiglia Piccirillo. Un meraviglioso Jim Carrey, allo stremo della pazienza, si era macchiato di un atto terribile. Con una porzione di fegato in meno e un programma da reinventare, nella seconda stagione vive: la crisi matrimoniale con Judy Greer; lo sciopero dei suoi epigoni sparsi per il mondo; il lancio di un nuovo, discusso giocattolo, per ampliare la comunicazione con i fan; il crollo psicologico del padre Frank Langella, in procinto di cedere le redini ad altri. Si può viaggiare indietro nel tempo? Se lo domanda, intanto, il figlio adolescente: messa da parte la fase della ribellione, qui si rifugia nell’impossibile. E la serie torna indietro, sì: alle origini della vocazione di Carrey e dell’avvio di un amore che gli costò molto coraggio; in flashback romanticissimi dove il tempo si ferma come in Big Fish. E il cuore batte più forte. Superiore alla stagione introduttiva, consigliata anche agli scettici, Kidding smorza il surrealismo di Gondry e perfeziona la dimensione corale. Per risalire dal burrone bisogna arrampicarsi sulla mano di un gigante buono: oltre la cascata, così, potremo trovare una riflessione commovente e originale sul lutto, la malattia e l’abbandono. In questi pupazzi di cartapesta, signore e signori, quanta anima. (8)

Già rinnovata per la terza stagione, accolta con immutato calore dai fan, After Life è stata la delusione che non mi aspettavo. Attesa con impazienza per il sano desiderio di sfogarsi in poltrona – di ridere e di piangere impunemente, insomma, come soltanto il buon Ricky Gervais sa fare –, avrebbe dovuto raccontare una nuova fase del lutto del protagonista. Dopo la negazione, la rabbia e la depressione, magari finalmente l’elaborazione. Le svolte della stagione precedete lo lasciavano supporre. Tormentato dallo sconforto, Tony trovava la salvezza grazie al suo pastore tedesco, agli strampalati colleghi di lavoro e a un’infermiera con cui, purtroppo, faticava a sbottonarsi. Ricominciare a vivere significa dimenticare Lisa, scomparsa troppo presto? La seconda stagione di After Life si guarda senza fatica, ma ha un difetto: non va né avanti né indietro. Per Tony non ha mai inizio una nuova fase. Sempre sarcastico e malinconico, trova conforto nelle chiacchiere con un’altra vedova e nei vecchi filmini di Lisa: la sua routine, ripetitiva, mi è venuta a noia. Ogni episodio si conclude con i suoi occhi lacrimosi e con qualche frase fatta sul lutto, con un buonismo arrendevole che proprio non si addice all’autore. Ricky, ma cosa combini? Perché questo buonismo, ancora e ancora? Non c’è traccia del suo genio neanche nei personaggi secondari: a loro sono affidati gli inserti comici, e lì fioccano battute di inutile volgarità su prostata, culi e masturbazione. Zuccherosa e sboccata, stomachevole per l’uno e l’altro eccesso, la serie fa storcere il naso: soprattutto per le premesse tradite. Il “dopo”, infatti, non viene mai affrontato. (5,5)

Era stata una delle sorprese della sua annata. Misteriosa e sofisticata, Homecoming era perfetta così. Lo pensavo ancora prima dell’arrivo della seconda stagione: senza Julia Roberts nel cast, senza Esmail alla regia, e dunque già inutile di per sé. I pronostici erano comunque più felici del risultato effettivo. Spiace dirlo, ma che fallimento è questo ritorno? Prendete l’eleganza e l’ambiguità delle puntate precedenti, buttatele via. Televisivo e convenzionale, con inserti involontariamente comici – Joan Cusack nei panni di un militare senza scrupoli, infatti, è tutta da ridere –, aggiunge pochi tasselli alla storia della Geist Group e dimentica le vicende della terapeuta Heidi, nonostante il ritorno dei personaggi di Stephan James e Hong Chau. Mentre il primo continua a porsi domande sul suo passato, l’altra raggiunge i vertici in un’improbabile scalata al potere: l’azienda che su carta produce deodoranti, in realtà, ha campi sterminati di bacche rosse – antidodo allo stress, nelle dosi sbagliate possono condannare le persone all’oblio. Vittima dell’amnesia, questa volta, è Janel Monàe: la cantante, qui al primo ruolo da protagonista, si sveglia su una barca alla deriva. Insieme allo spettatore, è chiamata a mettere insieme i pezzi. Inutile dirlo, questi ultimi s’incastreranno in maniera prevedibile – tra storie d’amore arcobaleno e personaggi dagli incarichi improbabili – e condurranno a un finale degno di un film d’azione anni Novanta: di quelli in cui i cattivi minacciano di avvelenare una città qualsiasi nebulizzando gas tossici sulla folla. Sconsigliatissima, mal scritta e recitata in maniera zoppicante, ha il pregio isolato della breve durata: sette episodi di trenta minuti, per vederla e scordarla. Senza che la Geist – con i suoi veleni, con i suoi tranelli – si prenda la briga di metterci lo zampino. (4,5)

Che bella coppia, lo scorso anno di questi tempi, quella composta da Christina Applegate e Linda Cardellini. Nonostante la scarsa originalità della serie che le vedeva protagoniste, ero rimasto stregato dai loro tempi comici e dalle sfaccettature dei loro personaggi. L’ennesima variante delle irripetibili Desperate Housewives, a ben vedere, ma con qualcosa di diverso tra le righe: nella loro leggerezza c’era una gravosità impensata; una disperazione che si scorgeva nei gesti, nelle svolte, negli scoppi d’ira o di pianto. Unite inizialmente da un scomodo segreto di morte – la seconda aveva ucciso il marito della prima –, questa volta invertono le carte in tavola: è stata la Applegate, vedova dedita al vino rosso, a uccidere James Marsden, alias l’ex della Cardellini. Chiamate a coprirsi le spalle a vicenda, entrambe colpevoli, partono da queste premesse tragicomiche per mostrarci nuovi aspetti della loro amicizia; di una solidarietà femminile esageratissima che, senza troppe pretese, intenerisce e fa sorridere. Tra cadaveri nei congelatori a pozzetto, vanghe e nuove storie d’amore, nella seconda stagione – giunta inattesa: lo ammetto, non confidavo nel rinnovo – Dead to me calca la mano sull’elemento grottesco e corre a braccia aperte contro i cliché delle commedie nere. Compresi gemelli tornati dal passato, identici in tutto e per tutto all’uomo assassinato: ovviamente, ci si innamorerà di loro. Si finisce per preferire la freschezza insospettabile della prima stagione, ma la compagnia delle assassine della porta accanto non dispiace neanche quest’anno. Bravissime, le protagoniste potrebbero essere una delle coppie meglio assortite del piccolo schermo se avessero dalla loro parte una sceneggiatura più memorabile. Senza rimpianti, con le atmosfere assolate e gli occultamenti di cadavere dello sfortunato Santa Clarita Diet, ci accontentiamo finché dura. (6,5) 

giovedì 28 maggio 2020

Recensione: Parlarne tra amici, di Sally Rooney

| Parlarne tra amici, di Sally Rooney. Einaudi, € 12, pp. 286 |

In un’altra vita voglio nascere privilegiato. Con sincera invidia, l’ho pensato leggendo le (dis)avventure delle amiche di Sally Rooney. Sfaccendate, altolocate e ciarliere, frequentano le case dei personaggi dello star system e tracannano vino rosso da bicchieri di cristallo. Tra feste per pochi eletti, presentazioni e vernissage, fanno anche tappa in uno splendido casolare immerso nella campagna francese.
Frances e Bobbi hanno fatto coppia per un po’. Aspiranti poetesse, sono rimaste in ottimi rapporti e si spalleggiano: nella buona società così come sul palcoscenico. Se la prima è una ventunenne pallida e insicura, che per paura di non farcela si accontenta di vivere della luce riflessa dell’ex fidanzata, la seconda è al contrario ricca di famiglia e sempre a proprio agio. È la sfrontata Bobbi a possedere il lasciapassare per la casa di Melissa, fotografa, e del marito Nick, attore da copertina: la fascinazione verso i coniugi è fortissima. 
Siamo a Dublino, ma sembra di essere nella New York di Noah Baumbach e della sua musa Greta Gerwig: discorsi allegramente letterari, poligoni sentimentali degni di una commedia francese, generazioni agli antipodi inquadrate tra ammirazione e irritazione.

Si può amare più di una persona, ha detto lei. Perché dovrebbe essere diverso dall’avere più di un amico? Tu sei mia amica e hai anche altri amici, vuol forse dire che non mi consideri davvero?
Diciamolo subito: se i sentimenti Persone normali sono memorabili perché ordinari, quelli di Frances sono fuori dalla nostra portata.  E proprio per questo incuriosiscono un po'. In lotta contro il capitalismo e il patriarcato, stagista non pagata presso un’agenzia letteraria, la protagonista non vuole essere più la banale ragazza di campagna che passa inosservata alle feste popolose. Cerca la sfrontatezza, la risposta ammiccante, la relazione clandestina. E in mezzo a una compagnia frivola, aperta e bellissima incrocia così lo sguardo di Nick: uomo nell’ombra di una donna talentuosa e volitiva, che nonostante il fisico scolpito nasconde in realtà un carattere fragile. Attratta dalle debolezze di quest’ultimo, Frances spera di nascondere le proprie. E benché anticonformista, suo malgrado, finisce per interpretare un cliché: quello dell’amante. Desidera segretamente quel tenore di vita oppure lo disprezza? La seconda parte, spezzato l’idillio snob, finisce per dilungarsi sulle paturnie di una giovane immatura e contraddittoria, difficile da amare, che si rivela essere la protagonista imperfetta di un esordio imperfetto.

Sono solo una persona normale, ha detto. Quando a te piace qualcuno, lo fai sentire come se fosse diverso da chiunque altro.
Sbilanciato. Interessante a momenti alterni. Ma personale, generoso, onesto: pervaso da una specie di magnetismo irresistibile. Nel romanzo successivo, per fortuna, ci saranno meno seghe mentali e più cuore. Dopo trecento pagine, dopo mille intrighi, voltafaccia e cambi di ruolo, questa volta si ha l’impressione di non venirne mai a capo. 
Frances, eternamente indecisa, potrebbe trasformare tutto in un nulla di fatto da un momento all’altro. E andare avanti all’infinito, con le sue chiacchiere, con i suoi dubbi esistenziali, tagliandoci fuori dalla sua cerchia un attimo prima dei ringraziamenti. 
Non è tutto oro ciò che luccica: anche i ricchi piangono. Privilegiati sì, ma con zone d’ombra pronte a essere rivelate negli scavi psicologici della seconda parte, i personaggi di Sally Rooney hanno i loro momenti storti: ripensamenti sui pro e i contro delle coppie aperte; rapporti burrascosi con il proprio corpo e con il prossimo; momenti di debolezza non sempre curabili con il paracetamolo. Onestamente continuo a preferirli nella prima parte: una dissertazione sull’insostenibile leggerezza dell’essere giovane, bisessuale e radical chic, infarcita di chiacchiere alcoliche sugli uomini e le donne, la sessualità e il futuro.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Gaia – Coco Chanel

sabato 23 maggio 2020

Il romanzo che ha ispirato il prossimo film di Charlie Kaufman: recensione di Sto pensando di finirla qui, di Iain Reid

| Sto pensando di finirla qui, di Iain Reid. Rizzoli, € 18, pp. 253 |

Sto pensando di finirla qui. La protagonista, per tutto il tempo priva del nome, lo pensa della sua attuale relazione e della sua vita, considerata inappagante. Di lei sappiamo pochissimo. Soltanto che viaggia in macchina – direzione, la fattoria dei suoceri – e che accanto ha Jake, professore amorevole e premuroso che frequenta da qualche settimana. Stanno imparando a conoscersi, ma la protagonista fa fatica. Ad abituarsi al rumore della deglutizione del partner, alle conversazioni che arrancano, alla desolazione di quelle strade secondarie. Qual è la percezione che l’uno ha dell’altra? Cosa pensano, mentre fuori dal finestrino si susseguono immagini rapide di campi e nuvole? Una tempesta è in arrivo. A metà tra Tom at the farm e Il gioco di Gerald, questo romanzo è lo snervante flusso di coscienza di una donna in balia delle proprie ansie sociali. Dei ricordi, della solitudine, del mal di vivere, dei bilanci con cui mette in discussione sé stessa e la propria relazione.

I racconti basati su eventi realmente accaduti molto spesso hanno a che fare più con la finzione che con la realtà. Vale sia per le cose inventate sia per quelle vere. Si tratta di storie, in entrambi i casi, che vengono ricordate e raccontate. Le storie sono il modo in cui impariamo le cose. Sono il modo in cui ci conosciamo a vicenda. Ma la realtà, quella succede una volta sola.
Sto pensando di finirla qui. È il pensiero del lettore più impaziente, davanti a un thriller psicologico che si concede un preambolo lungo cento pagine per entrare nel vivo della narrazione. Il romanzo di Iain Reid, presto un film Netflix grazie al talento immaginifico dell'acclamato Charlie Kaufman, è costituito da riflessioni sulla vita di coppia e da tappe stranissime. Episodi all’apparenza grotteschi, che scandiscono un trip lisergico e contorto, affascinante nel suo destabilizzarci continuamente. Il ritorno a casa dei personaggi, infatti, sarà ritardato da contrattempi terrificanti. Si parte dalla cena servita in un casolare in stato di semiabbandono – carne sanguinolenta, verdura in gelatina, e per finire il gioco dei mimi –, con un duo di genitori sopra le righe a guardia di una porta ricoperta di graffi: conduce in cantina. Si prosegue con il desiderio impellente di granita al Dairy Queer, anche in pieno inverno. Si finisce con un tour claustrofobico in una scuola vuota – o almeno si spera che lo sia –, a metà tra un labirinto e una prigione.

La mia storia non è come un film dell’orrore, gli dico. Non ti fa fermare il cuore e non ti gela il sangue nelle vene. Non ci sono mostri o violenze. Nessun salto dalla sedia. Per me, queste cose non sono spaventose. Invece, quello che ti disorienta, che capovolge ciò che da per scontato, che disturba e scompagina la realtà, quello sì che fa paura.
Sto pensando di finirla qui. Lo dici alle prese con la seconda metà, quando fai le ore piccole pur di ultimare la lettura. Pur di venirne a capo. All’inizio scettico, ti scopri terrorizzato da piccoli dettagli inquietanti e da elementi stridenti, che nel silenzio della casa addormentata mettono letteralmente i brividi. Lo stile di Reid, stringato, introduce sottopelle un serpeggiare di sensazioni difficili da descrivere. Dice bene la copertina, sì: avrai paura senza sapere perché. Non c’è niente che non vada, ma allo stesso tempo nulla torna. Perché tutto può cambiare all’improvviso. Pagina dopo pagina la storia ci svelerà il suo significato più allegorico e profondo. Ma serve attendere, assecondare la curiosità, perché i dialoghi suoneranno innaturali qui e lì e le situazioni in cui i protagonisti si cacciano appariranno a dir poco surreali. Non tutto viene giustificato alla luce dell’epilogo. Non tutto lascia a bocca aperta, soprattutto se i film di genere ormai non hanno grandi segreti per voi. Ma molto gli si perdona, soprattutto grazie ai ritmi deliranti e ossessivi, da istantaneo mal di testa, che ricordano uno squillo di telefono nel cuore della notte. Non stupisce che l’autore di Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee e Anomalisa abbia visto il potenziale dell’autore, magari da mettere meglio meglio a fuoco in una trasposizione che già mi figuro diversissima: ancora più folle. Se dovessi immaginare di trarre una storia da un dipinto di Escher, comunque, sarebbe proprio così.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Joy Division – Love Will Tear Us Apart

mercoledì 20 maggio 2020

Se ne parlano tutti ci sarà un perché: Normal People | Little Fires Everywhere | Hollywood

Qual era il segreto del bestseller sulla bocca di tutti, che nel giro di un anno si è trasformato con geometrica precisione nella miniserie di cui tutti parlano? La giovane Sally Rooney, autrice destinata a dividere e a far chiacchierare, a ben vedere ha un titolo bugiardo. Di normale, infatti, questi Connell e Marianne non hanno niente. La trasposizione Hulu mette in scena l’eccezionalità. Dei baci umidi e dei corpi aggrovigliati. Di interpreti esordienti così naturali da confondersi con i personaggi di finzione. Degli amori ottusi che non sanno dichiararsi per paura delle etichette. Romanticissimo, struggente, per me destinato a diventare un cult generazionale, Normal People trova sul piccolo schermo i toni sommessi del cinema indie e una macchina da presa – per metà della durata è quella di Lenny Abrahmson – che respira addosso ai protagonisti, tanto sono indagatori i primi piani. Il romanzo mi è piaciuto, ma la miniserie molto di più. Lei, pallida e minuta, ostenta forza e sicurezza: ha paura di essere amata. Lui si sbottona di rado, risponde laconicamente, e ogni gesto smentisce il suo corpo muscolosissimo: non è forte come appare. L’uno alla mercé dell’altra, si influenzano, si prendono, si lasciano. Si rincorrono. Complicatissimi, sempre litigati e spesso nudi, Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones – lui spigolosissimo,  lei un incrocio tra Anne Hathaway e Alicia Vikander destinato a fare innamorare – parlano con gli occhi e con i silenzi. Al liceo, all’università, su Skype. Li guardi, e davanti alle frequenti scene di passione ti sorprendi a non provare mera eccitazione sessuale, ma un’invidia profonda per la bellezza che sprigionano. Come faranno mai? Cronaca straordinaria di un amore ordinario, Normal People rivive in tutta la sua piccola epicità in una produzione così compiuta e perfetta da sembrare un’epopea dei giorni nostri. Al tempo dell’Interrail, dell’Erasmus, della friendzone, dei social network. Parlerà anche a chi è fuori target. Purché abbia ancora un animo fragile e irrequieto. Purché, in nome dell’empatia, sia disposto a farsi stracciare il cuore in minuscoli frammenti soffiati poi nei cieli d’Irlanda. (8,5)

Villette a schiera, conflitti generazionali, segreti. Ricordando sin da premesse le ambientazioni di Desperate Housewives, il secondo romanzo di Celest Ng non poteva che prestarsi meravigliosamente a una trasposizione televisiva. Leggendolo ne avevo intuito pregi e limiti nonostante l’uso magistrale dei diversi punti di vista. Ma il finale annunciato sin dal prologo, il troppo spazio dato agli adolescenti rispetto alle figure genitoriali e qualche cliché di troppo nel descrivere la perfezione della famiglia Richardson mi avevano fatto storcere il naso. La serie, in arrivo su Amazon Prime Video nei prossimi giorni, è la gradita riconferma della qualità delle proposte Hulu. Ancora una volta, un’eccezione alla regola che prende il materiale di partenza e lo migliora, quasi sulla base dei dubbi sollevati nella mia recensione. La trama, in realtà, è fedelissima. In un quartiere residenziale arrivano una fotografa girovaga e la figlia adolescente a seminare zizzania. Come reagiranno gli abitanti, se l’ultima arrivata esercita un magnetismo inspiegabile? Restano i bracci di ferro, i ritratti incandescenti di due – anzi tre – maternità agli antipodi, i tratti peculiari che rendevano i personaggi già vividissimi su carta. Ma la serie approfondisce con i salti temporali e con le aggiunte a margine, indicando un nuovo responsabile per gli incendi del titolo e regalando alla prezzemolina Reese Whiterspoon l’ennesimo ruolo da premiare: molto più della classica mamma chioccia a cui ci ha abituati, garantisce al suo personaggio momenti di vulnerabilità nei lunghi flashback e nel vagheggiamento di una relazione adulterina. La sua vita idilliaca è stata costruita su una (non) scelta. Agli antipodi del ring abbiamo Kerry Washington: elemento perturbante che, sarà per l’antipatia del ruolo, sarà per un eccesso di smorfie e grugni incolleriti, si lascia però rubare la scena dal personaggio all’apparenza più convenzionale. Non è tutto oro quel che luccica. La confezione, a ben vedere, a volte è sin troppo televisiva e laccata. Il già visto, me ne accorgo anche scrivendone, è di casa. Ma se la carne è tanta, se lo scontro tra prime donne solleva tutt’intorno fumo e scintille, come non lasciarsi incuriosire dallo spettacolo distruttivo ma rigenerante del fuoco vivo? (7+)

Nel 1932 una giovane, tagliata fuori da un film, si suicida gettandosi dall’insegna iconica che sormonta le colline di Hollywood. Si chiamava Peg. La sua storia, verissima, è purtroppo comune a tanti giovani che non ce l’hanno fatta. Nell’immediato dopoguerra un regista decide di ricordarla con un esordio alla regia che punta a rivoluzionare il mondo dell’intrattenimento: della troupe faranno parte uno sceneggiatore afroamericano e omosessuale, una protagonista di colore, un protagonista che sbarcava il lunario come gigolò, una produttrice all’improvviso ai vertici del potere. Non aspettatevi una serie verità. Pur mostrando i retroscena più sordidi, pur mescolando personaggi fittizi a personaggi reali, l’ultima fatica dell’inarrestabile Ryan Murphy è ciò che il sopravvalutato C’era una volta a Hollywood è stato per Quentin Tarantino: un’utopia in cui celebrare le diversità, i finali lieti, le svolte alternative. Quanta ricchezza hanno apportato al cinema le minoranze etniche, la comunità LGBTQ, l’intuito femminile? Il solito Murphy, con un’anima queer, colorata e sognante, si circonda di un cast di bellissimi – il lato estetico, inutile negarlo, ha la meglio sul talento effettivo: David Corenswet e Laura Harrier sono tanto attraenti quanto pessimi, mentre Darren Criss e Samara Weaving appaiono poco sfruttati –, e lascia ai comprimari della vecchia guardia – gli straordinari LuPone e Mantello, uno sorprendente McDermott e infine Parsons, che s’impegna invano per liberarsi dalla macchietta Sheldon Cooper – il compito di distrarci dagli inciampi dei giovanissimi con il loro sfavillio. In questa Los Angeles femminista, multietnica e gay friendly il buonismo è sempre dietro l’angolo, ma lo si tiene a bada fino a un finale smaccatamente lieto: a malincuore, la parte peggiore. Nel sogno di Murphy, eppure, c’è una poesia particolarmente commovente; un antidoto contro il cinismo dei tempi correnti che non riesce a fronteggiare purtroppo gli eccessi delle pubblicità progresso. Nel tentativo di preservare la purezza di Rock Hudson – un simbolo, così come Sharton Tate lo fu per Tarantino –, Hollywood spicca il volo per l’iperuranio e perde qualsiasi attinenza con il reale. La favola, invece, piace quando ci appare plausibile: una speranza a portata di mano. Di ritorno da questo mondo che non c’è, e che forse non c’è mai stato, sentirete comunque nostalgia. (7)

sabato 16 maggio 2020

Mr. Ciak: Bombshell, Le ragazze di Wall Street, Emma e altri film sul girl power

Quali sono i retroscena di un’emittente televisiva? A svelarci i coni d’ombra, oscuri benché sotto gli occhi di tutti, è un grande cast. La tematica, purtroppo, è la stessa della serie The Morning Show: le molestie sul luogo di lavoro. Questa volta ci si ispira alla storia vera. Si fanno i nomi e i cognomi.  Ci si mette la faccia. Partito con toni sfrontati e ultramoderni, con tanto di rottura della quarta parete, Bombshell si adagia poi in un andamento più convenzionale, con una sceneggiatura indecisa tra commedia, dramma d’inchiesta e thriller. Quando la struttura si frantuma, diventando corale, alla battaglia di un’irriconoscibile Theron si affiancano le vicende di altre due dipendenti: la Kidman, declassata a un programma pomeridiano; la Robbie, stagista che scende a patti pentendosene. La causa di una può diventare la causa di tutte? Sulla scia dello scottante caso di cronaca, i travasi di bile sono assicuranti insieme a qualche risata a denti stretti. A dispetto del titolo, però, il film non si rivela essere una bomba. Ma purché trionfi la verità – e il talento di Margot, a sorpresa la migliore delle tre punte di diamante –, gli si perdona la mancanza. (6,5)

Raccontare la crisi attraverso una nuova classe di emarginate: le spogliarelliste. Le ragazze dirette dalla Scafaria si trasformano da vittime in aguzzine per non soccombere. La troppa ambizione rischierà di mandare il piano a gambe all’aria. Dopo La grande scommessa e The Wolf of Wall Street, ecco la variazione sul tema che non potendosi avvalere né di una sceneggiatura da Oscar né di un regista di culto punta allora sulle grazie del cast più sexy dell’anno scorso. Hustlers è un gineceo divertente e affiatato in cui la dolce Constance Wu viene guidata passo passo da una Jennifer Lopez un po’ chioccia, un po’ sciacallo: la sua ottima performance non avrebbe dovuto lasciare indifferente l’Academy. Se il film funziona con poco, infatti, è proprio grazie alle interpretazioni delle protagoniste e al clima sempre disteso nonostante la tematica torbida. Pulito e onesto, punta su qualche raro spogliarello e su un lato umano dolentissimo, che tocca senza ironia. È possibile grazie a una JLo già iconica che, smesso il ruolo di popstar, ci mette – letteralmente – l’anima e il corpo. Nel capolavoro di Fosse, il mondo del dopoguerra era un cabaret. Per la Scafaria, quello sbranato dai lupi di Wall Street è un night. (7)

Siamo nella classica campagna inglese di Jane Austen, dove la massima ambizione delle protagoniste è una: accasarsi con un buon partito. Non mancano le feste, le lezioni di etichetta e seduzione, i matrimoni. L’interrogativo maggiore: chi si fidanzerà con chi? Come spesso accade negli intrecci dell’autrice inglese, abbonderanno i personaggi antipatici e le chiacchiere più salottiere. Leggera e spumeggiante, la nuova trasposizione di Emma è una commedia non esente da lungaggini, con una scrittura più canonica del previsto. Non aspettatevi né la riscrittura moderna di Dickinson, né il montaggio di Piccole donne. Prodotto diretto agli esteti e agli amanti del film in costume – il lato tecnico è incantevole –, conferma il talento di una Taylor-Joy a volte esilarante, altre malinconica. Accanto a lei, nonostante i caratteristi noti, brilla la stella di Mia Goth: presenza fissa degli horror, è adorabile alle prese con un ruolo comico. Tra chiacchiere di paese, nomi su nomi, corteggiatori e corteggiati, Emma è la storia di una povera ragazza ricca che giocava a fare Cupido. Al cinema dispiace meno di quanto farebbe su carta, ma per tutto il tempo sembra comunque di assistere a strategie da agenzia matrimoniale (6,5)

Benché rivelata al mondo dalla lungimiranza del cinema europeo, Jean Seberg era considerata la fidanzatina d’America. Affascinante e politicamente schierata, si trasformò in un personaggio scomodissimo e morì in circostanze misteriose. Un po’ biopic, un po’ thriller di spionaggio, il film segue la diva della Nouvelle Vague negli anni dell’impegno civile. Più a fuoco nella seconda parte, la pellicola con un’ottima Kristen Stewart – qui convincente come non mai – funziona soprattutto nel momento della caccia alle streghe. Accurato nella ricostruzione degli anni Settanta, grazie al luccichio di costumi e scenografie, il film vorrebbe parlare di troppo – star system, razzismo, politica – ma finisce per parlare di troppo poco. Per quanto la storia realmente accaduta sia intrigante, Seberg è un mix che vive soltanto della performance della protagonista e di timide capacità retoriche. Il caso di Jean, e il suo enigma, resta aperto. (6)

Più che la serie TV, i nati nella mia generazione ricorderanno la duologia con Cameron Diaz, Lucy Lu e Drew Barrimore. Alla luce di un girl power più autoreferenziale che mai, gli angeli dello spionaggio soft son tornati. Nonostante il tocco femminile, è stato un flop annunciato. Colpa di una regia patinata, che lascia un po’ a desiderare nelle scene d’azione? Non mancano i cambi d’abito, le parrucche, le macchinazioni più o meno telefonate, né un trio meglio assortito del previsto: la Stewart si presta a essere la macchietta del gruppo; la Harris è forse la migliore del cast, nei panni della scienziata goffa; la Balinska ipnotizza come amazzone dal fisico statuario. Su di loro veglia la Banks, che scherza sulla mezza età e domina un cenacolo di giovani desiderose non di essere principesse, bensì spie. Non necessario, come ogni reboot, l’ultimo Charlie’s Angels è stato un insuccesso parzialmente meritato, ma piacevole e  scacciapensieri poggia su una formula che intrattiene comunque. Vestiti succinti, giarrettiere e flirt, ma anche una consapevolezza tutta nuova sui ruoli di genere che divertirà gli uomini e lusingherà le donne. Basta però a giustificare la missione? (5,5)

Era l’unico pregio di Suicide Squad. Il ferro, immancabilmente, andava battuto finché caldo. L’impegnatissima Margot Robbie si è prestata con autoironia a tornare a impersonare l’eterna fidanzata del Joker: brutalmente piantata in asso – non aspettatevi il cameo di Jared Leto –, all’indomani dei fatti del cinecomic di Ayer è libera come l’aria. E per questo sola. Inganna le pene d’amore con i cibi ipercalorici, glitter e caramelle gommose a pioggia, parecchi nemici e poche buone amiche. Il capriccio di mettersi in proprio, però, le appiccicherà un enorme bersaglio sulla schiena. Al pari del pilot di una serie TV, Birds of Prey è una lunga presentazione di personaggi sorretta da un’estetica pop e da una colonna sonora furbetta. Oltre che confermare il brio indiscusso di Harley, ci si limita a illustrare il temperamento delle altre protagoniste e i segreti di una Gotham vincente nella comicità. Se esplosioni, sketch e colori sembrano sbucati da un cartone, qualcuno potrebbe sorprendersi per il tasso di sangue e parolacce; meno per una struttura inutilmente frastagliata. L’obiettivo di Birds of Prey: ripulire da cima a fondo la città. Il destino di Gotham è nelle mani delle ragazze. E quello dell’universo DC? (5,5)

Una giovane inesperta fa i conti con una datrice di lavoro spietatissima, che costringe i dipendenti a orari massacranti e trascura in nome della carriera famiglia, amore, affetti. Indizio: non sto riassumendo la trama del Diavolo veste Prada. Scambiate le redazioni giornalistiche con gli studi televisivi; sostituite le passerelle di moda con la stand-up comedy. Con il minimo sforzo, otterrete un aggiornamento della commedia già cult al tempo dei talk show. La Miranda Priestly del piccolo schermo è una signora dal temperamento british, algida e distaccata, con un marito malato di Parkinson in casa e avvoltoi tutt’intorno. Nel ritratto di luci e ombre su una professionista ormai sul viale del tramonto, non mancherà la redenzione finale. Potrebbe essere sempre la solita minestra, e invece no. Perfettamente al passo con i tempi, E poi c’è Katherine tratta il femminismo, gli scandali sessuale, l’integrazione, i pregiudizi sulle donne in ruoli di potere. La scrittura, già scoppiettante di per sé, è illuminata inoltre dalla performance di una Emma Thompson in forma particolarmente smagliante; con lei c’è Mindy Kaling, che qui convince più come sceneggiatrice che come interprete. (7)

giovedì 14 maggio 2020

Recensione: Un matrimonio americano, di Tayari Jones

| Un matrimonio americano, di Tayari Jones. Neri Pozza, € 18, pp. 364 |

Qual è il segreto per un matrimonio duraturo? Tra mille titubanze, se lo domanda ogni coppia impreparata al grande passo. Banalmente, assicurano i parenti, il segreto è l’amore: il resto, poi, è tutto in discesa. E l’amore non manca a due come Roy e Celestial. Trent’anni, belli come il sole, complici e appassionati, sanno trasformare perfino le scaramucce in preamboli romantici. Ogni litigio, infatti, dev’essere sospeso per quindici minuti se si pronuncia una parola d’ordine: 17 novembre, la data del loro anniversario. Un piccolo armistizio per frenare sul nascere i sospetti di lei – a Roy piace fare il cascamorto con le altre donne – e le pretese di lui – vorrebbe diventare presto genitore. Ma l’amore in sé può bastare? Quando Roy viene arrestato con l’accusa infondata di stupro, qualcosa si spezza. La lontananza mette alla prova la loro pazienza, cambia ogni cosa. Nonostante una lunga corrispondenza epistolare, inevitabilmente si sfilacciano promesse e buone intenzioni. E i sentimenti, all’apparenza inscalfibili? Si può biasimare il marito, se entra in cella innocente – era un comune rappresentante di testi scolastici – e ne esce per forza di cose smaliziato? Si può biasimare la moglie, ancora, se nel frattempo ha inaugurato un negozio di bambole artigianali – tutte, però, hanno il volto del piccolo Roy – e si è rifugiata nel conforto di un altro uomo, il migliore amico Andre?

Immaginavo forse che avremmo seguito quello schema in eterno? Che saremmo invecchiati insieme, continuando ad accusarci e perdonarci. All’epoca non sapevo che cosa volesse dire “per sempre”. Forse non lo so nemmeno ora. Ma quella sera al Piney Woods ero convinta che il nostro matrimonio fosse un arazzo finissimo, fragile ma che si poteva riparare. Spesso lo strappavamo e lo rammendavamo, sempre con un filo di seta, bellissimo ma molto cedevole.
Proprio come La storia di un matrimonio, letto e amato qualche mese fa, il romanzo di Tayari Jones racconta non l’armonia di un duo bensì i dolori di un triangolo amoroso tanto ingiusto quanto inevitabile. Da sinossi, invece, ci si aspettava probabilmente una storia diversa, di fedeltà e razzismo. Il fatto che i protagonisti siano entrambi di colore e che l’accusa di stupro dipenda dall’etnia di Roy diventa assolutamente incidentale e permette all’autrice, in maniera coraggiosa, di allontanarsi dai territori di Se la strada potesse parlare per tratteggiare finalmente una comunità afroamericana lontana dai cliché dei drammi sul tema. Qui si parla infatti di famiglie alto-borghesi, che possono contare su impieghi ben remunerati e case ospitali. L’attenzione del lettore finisce allora per concentrarsi sull’universalità del dilemma sentimentale e sulle difficoltà del ritorno alla normalità di Roy. Uscito dal carcere, si trova a dover piangere la sepoltura della mamma e a fare i conti con l’amara verità: il cuore impegnato di Celestial. Il romanzo, intensissimo, indaga con ferocia le loro passioni e ci mostra personaggi difficili da amare: nelle verosimiglianza dei litigi vi sembreranno proprio usciti da un film grande e struggente.  

È impossibile smettere di amare qualcuno. Forse l’amore cambia forma, ma resta.

Per gran parte della lettura aspettiamo con tensione crescente il loro incontro. Lei vede la sua presenza dappertutto, come se fosse uno spettro infestante; lui ha in tasca le vecchie chiavi di casa e spera che tornando ad Atlanta trovi sempre la solita serratura e l’albero di noci in giardino. Con il cuore a mille, sotto Natale, il loro faccia a faccia strazierà mostrandoli l’uno alla mercé dell’altra. È possibile perdonarsi? È un crimine lasciar prevalere i compromessi? Il segreto, si diceva, è l’amore. Ma l’innesto di anime tra Roy e Celestial, in una stagione crudele, non ha avuto il tempo di attecchire. È stato ostacolato dalle piogge torrenziali dell’ingiustizia e della distanza geografica. Tayari Jones, con la pazienza di un giardiniere, esamina i loro corpi e i loro fusti, le loro intenzioni e le loro radici. E in un epilogo commovente svela infine un doppio verdetto: state pur certi che nessuno è innocente, che qualcuno soffrirà. Ma l’amore, signor giudice: l’amore come sta?
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale:  Fugees – Killing Me Softly with His Song

venerdì 8 maggio 2020

Recensione: Molto mossi gli altri mari, di Francesco Longo

| Molto mossi gli altri mari, di Francesco Longo. Bollati Boringhieri, € 16, pp. 176 |

Avevo questo romanzo in libreria dal periodo dell’uscita. Ma, a testimonianza di come le letture non abbiano una data di scadenza, ho scelto di conoscere l’esordio di Francesco Longo ora. Il mood, infatti, era di quelli perfetti. Mentre in streaming sono immerso negli amori inconfessati della serie Normal People, il quattro maggio – per inaugurare la fase due – sono finalmente tornato a passeggiare al mare: uno dei miei veri affetti stabili. Tutto preso dagli struggimenti post-adolescenziali e dagli andirivieni in spiaggia, insomma, non potevo non tuffarmi a bomba nelle estati di Santa Virginia. Una località fittizia, a un’ora di treno da Roma, che fa da sfondo alle amicizie rievocate dal narratore. Sarà che il protagonista ha il mio stesso nome, sarà che ho sempre vissuto sulla costa, ma l’immedesimazione è stata istantanea.
Smilzo, occhialuto e cagionevole, Michele è un tipo malinconico e sedentario. Di quelli che si commuovono per la bellezza dei tramonti, scrutano le stelle in cerca di UFO, fantasticano di mostri alati in fondo al lago. Di quelli che hanno fatto dell’attesa il senso stesso della loro esistenza, e non a caso hanno l’abitudine di tuffarsi sempre per ultimi. Nato e cresciuto in una località presa d’assalto dai turisti, non l’abbandona a vacanze finite. Abita in un paese popolato soltanto per tre mesi all’anno e nei restanti nove viene lasciato in balia del mare d’inverno.

Sono stati tutti convocati dal mare, dalla promessa di una mareggiata epica che ha richiamato anche chi non si vedeva più da anni. La spiaggia è a sud del promontorio, è la Baia di Santa Virginia. Lì abbiamo trascorso tutte le nostre estati. Lì l’infanzia era una cosa sola con la sabbia.
L’autore descrive con esattezza la solitudine di cui il suo protagonista soffre, ma è con l’arrivo di giugno che lo fa rianimare: quando, come da tradizione, si ricompone il cosiddetto gruppo della Baia. Anno dopo anno, infatti, Michele ha stretto con un manipolo di coetanei che si riunisce soltanto d’estate. Ci sono Guido, spavaldo ma fedele, che ha portato la moda del surf da un viaggio in California; la bella Silvia, che raccoglie le confessioni di tutti ma raramente si sbottona; il Cicogna, accanito lettore destinato a fare il naturale salto alla scrittura; Gabriele con la sua inseparabile chitarra; e c’è soprattutto Micol, con un cespuglio di capelli ricci e gli occhi più brillanti della luna. Senza dirglielo, il protagonista la amerà fino all’età adulta. Loro come vivono invece l’attesa del mare? Con la stessa pena, con le stesse speranze, con lo stesso languore? Strutturato tra passato e presente, Molto mossi gli altri mari li racconta com’erano e come sono: radunati eccezionalmente per una bufera tropicale che allarma i meteorologi ma promette, d’altra parte, onde altissime. Michele saprà affrontarle di petto, soprattutto davanti alla notizia delle nozze di Micol?

Di una cosa solo tu puoi essere geloso: del mare.

Questo è un piccolo romanzo generazione che vive non tanto di personaggi quanto di atmosfere. Se gli amici di Michele sembrano spesso schiacciati dall’apatia, poco messi a fuoco nella foga della nuotata e condannati a un finale per me sin troppo precipitoso, a fare la differenza è una natura kantiana in cui scorgere l’ennesima sfida. Piace allora per i cieli coperti, per i braccialetti dell’amicizia al polso, per le pedalate a perdifiato e per le grigliate, per la metafora alla base: l’età adulta come una mareggiata da fronteggiare. Non importa il cosa né il perché. Questa volta importa il come: ossia attraverso una prosa splendida sin dalle allitterazioni del titolo. Questa volta importa il quando: nella stagione che inevitabilmente precede l’autunno degli ideali. Le sensazioni conclusive sono familiari ma altalenanti. Se da una parte la componente sentimentale mi ha ricordato una frustrante partita di ping pong, dall’altra la lettura ha il profumo di brace e risate dei falò di fine estate. Al centro di una storia di attese e devozione, Michele e Micol evitano il presente per paura. Baciano altre persone, si distraggono con altre relazioni. Si crogiolano in un’eterna sospensione. Come se l’estate – della vita, della gioventù – potesse durare per sempre. In attesa che l’onda del secolo o li schiacci, o li faccia volare.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Hola (I Say) – Marco Mengoni feat. Tom Walker


martedì 5 maggio 2020

I congiunti e gli affetti stabili nelle graphic novel: Residenza Arcadia | Basilicò | Freezer

|Residenza Arcadia, di Daniel Cuello. € 20, pp. 167, ★★★★|

Chiusi in casa, spiano le mosse del vicinato. Aguzzano l’udito per origliare. Denunciano. La routine degli abitanti di Residenza Arcadia, satira quanto mai attuale, potrebbe ricordarvi qualcosa. I giorni della nostra quarantena. Terrorizzati dal cambiamento – un po’ come noi davanti alla fase due –, gli anziani protagonisti tutelano le loro proprietà con il pugno di ferro. Benché vengano nominati Don Matteo e Turisti per caso, siamo in una società distopica imprecisata: pare che ci sarà una guerra imminente, che il Partito e la Gendarmeria vadano temuti, e che presto ci sarà una parata per celebrare la Nazione. Gli stessi conflitti si respirano anche nel condominio: colpa dei nuovi inquilini – terroristi – da far sloggiare. Raffigurata come un idillio sin dal nome, la Residenza è un covo di scaramucce, pettegolezzi e voltafaccia mortali. Badate ai disegni, inquietanti come nel miglior Burton, e diffidate da quei protagonisti che sembrano adorabili: la solitaria Mirta con il suo canarino; Emilio e Dirce, con ospite il nipote metallaro; i temutissimi Ester e Dimitri, dai modi affabili ma con un passato insospettabile – quello di lui vi commuoverà. Daniel Cuello, originario di un Paese che ha avuto una lunga e infelice relazione con le dittature, scuote per crudeltà e dolcezza. E condanna il conservatorismo di una certa generazione, sempre in prima linea per apostrofare il lassismo dei tempi correnti. Oasi da proteggere, il condominio diventa un microcosmo in cui legge e morale viaggiano su binari diversi. Perché difendere con le unghie e con i denti una casa destinata comunque alla polvere del tempo? Perché mantenere lo status quo, se è un incubo che ricorda i fascismi?

| Basilicò, di Giulio Macaione. € 16, pp. 153, ★★★½|

Alcune famiglie sono un’associazione a delinquere. A mettere sotto processo la propria è Maria, matriarca sputasentenze con cinque figli  grandi e un marito scappato con la domestica Nancy. Come in American Beauty, la narrazione prende avvio da un luogo particolare: l’oltretomba. La protagonista, nel giorno del suo stesso funerale, racconta il suo albero genealogico e gli eventi che hanno portato alla sua morte. Risposta politicamente scorretta alle saghe familiari tanto in voga, Basilicò sarà apprezzato dai fan di Carnage o I segreti di Osage County. Complessati, sguaiati e inviperiti, i membri della famiglia Morreale credono nei valori tradizionali, nel senso del decoro, nell’omertà. I capitoli, illustrati da una penna che incanta, sono ora in bianco e nero, ora in un nostalgico color seppia. Introdotti dalle ricette della migliori ricette della tradizione – dalla parmigiana al pesto, dal cous cous al ragù – inoltre assumono di volta in volta il punto di vista dei figli: Giovanni, un prof bistrattato; Agata, artista povera in canna; Diego Maria, omosessuale sfortunato in amore; Rosalia, moglie e amante; infine Santo, ultimogenito dall’esistenza girovaga. Riuniti per il compleanno di Maria, si troveranno a celebrarne le esequie. La mamma si è portata nella tomba trucchi e consigli? Se il segreto della sua cucina era il basilico, il segreto del basilico invece qual era? I colpi di scena del finale assicureranno anche qualche tavola horror. La graphic novel di Giulio Macaione è un omaggio a Palermo, alle gioie della tavola, ai dolori delle famiglie infelici a modo loro.

|Freezer, di Veronica “Veci” Carratello. € 18, pp. 137, ★★|

Un’altra famiglia disfunzionali da cui fuggire, un’altra lettura grottesca. Questa volta si parla dei Robinson: sì, proprio come quelli della serie TV. Mina, in attesa dello sviluppo ormonale, sognerebbe per sé il potere dell’invisibilità. Difficile se primogenita in una casa dov’è impossibile non essere immischiati nelle tragicomiche dei parenti . Tocca citarne qualcuno: il padre, attore della pubblicità della carta igienica; lo zio Ernesto, che in una chat trova l’anima gemella; il gatto Kafka, aspirante suicida; una nonnina chiusa nel silenzio impenetrabile della vedovanza. A metà tra Little Miss Sunshine e Metti la nonna in freezer, la graphic novel ha protagonisti già visti altrove e un umorismo che purtroppo non mi ha divertito. Il pregio più grande è l’irresistibile estetica vintage, con un tripudio di colori terrosi, citazioni musicali anni Settanta e un tratto degno della sfrontatezza dei prodotti di Cartoon Network. Peccato che Freezer somigli più a un insieme di strisce comiche che a un racconto, più a un puzzle di sketch che a una storia fatta e finita. I (nuovi) Robinson potrebbero essere i personaggi di una sitcom strampalata e scorretta che ci dispiacerebbe vedere in poltrona. Questo volume, un breve assaggio delle stranezze di cui sono capaci, è  però un episodio pilota nemmeno troppo soddisfacente.

sabato 2 maggio 2020

Miniserie "fantastiche" e dove trovarle: Tales from the Loop | The Outsider

Cosa accadrebbe se l’America rurale dei romanzi di Kent Haruf incontrasse i temi della fantascienza? Tales from the Loop, serie antologica distribuita su Amazon Prime Video, sembra nascere da una contaminazione simile. Il risultato è un esperimento poetico e incantevole, che non regala né incastri né spiegazioni istantanee, ma immagini di una bellezza tanto straordinaria da commuovere. Gli otto episodi sono dei mediometraggi pressoché autoconclusivi che ruotano attorno alle vicende della famiglia di Jonathan Pryce e Rebecca Hall:  suocero e nuora sono ai vertici di una misteriosa azienda che gioca con scienza e magia nel sottosuolo di un’imprecisata cittadina. A occhio e croce siamo negli anni Ottanta, ma non aspettatevi colori e canzoni a tema: la fotografia avvolge con le sue sfumature tenui, infatti, e la colonna sonora è un brivido continuo garantito dal talento di Glass. Sui poster, inoltre, s’intravedono dei bambini che corrono e a torto si potrebbe pensare a una riproposizione di Stranger Things: niente di più sbagliato. I racconti che compongono la serie vivono di suggestioni e piccole idee, di pelle d’oca. Molto tristi, a ben vedere, mettono però l’anima in pace come soltanto alcuni autori sanno fare. Sullo sfondo di un Paese bellissimo e malinconico, in cui perfino la fantascienza non fa inutili schiamazzi, giacciono abbandonati vecchi robot e carcasse di marchingegni. Con ritmi lenti e immersivi veniamo a conoscenza di una bambina la cui casa è stata risucchiata dal cielo; dell’amicizia tra due ragazzi al centro di un classico scambio di corpi; di un primo amore così spasimato da fermare il tempo; di un nonno alle prese con la malattia, di un padre con le sue ossessioni, di un custode con un triangolo omosessuale; infine di un’isola deserta che ospita un mostro e di una riconciliazione che supera i fiumi del tempo. Mancano le corrispondenze e gli incastri, le vicende restano piuttosto slegate, ma il dettaglio non impedisce di apprezzarne la bellezza complessiva. Lo spettatore è chiamato ad astrarre, a contemplare. A immergersi e basta, senza chiedersi mai se toccherà il fondo; se arriverà a riva. Tales from the Loop, amata più del previsto, è il non-luogo dove arrivano la fantascienza e i mezzi televisivi. Dove arriva la nostra emozione, e per restarci. (7,5)

Stephen King non è nuovo alle pessime trasposizioni. Le eccezioni, anzi, si contano sulle dita di una mano. Come da tradizione, The Outsider era già stato opzionato per una miniserie a scatola chiusa: per fortuna, arrivato in libreria, il contenuto era di quelli belli. Al tempo della lettura, infatti, questo mi era parso un grande ritorno. Un mix tra noir e horror, sorretto da un cast di personaggi memorabili. Come poteva la HBO, sinonimo di qualità, fare male? I pareri degli altri spettatori vi racconteranno un’altra versione della storia: le otto puntate, con lo zampino di Jason Bateman, sono state accolte con il favore di pubblico e critica. Persone, nella maggioranza dei casi, che conoscono poco lo stile del Re e che sono passate alla trasposizione senza prima approfondire la lettura. Io, da fan della prima ora, ne sono uscito deluso e tremendamente annoiato. Ho spalmato la serie in oltre un mese di visione. Sebbene fedele nei fatti – la trama e lo svolgimento sono identici: dopo il sanguinoso omicidio di un bambino, la polizia fa i conti con l’enigma di un colpevole sin troppo facile da incastrare –, The Ousider è la versione ingrigita, rallentata e appiattita della storia originale. Mancano le citazioni interne, il famoso gusto pulp dell’autore, l’ironia bramata perfino nelle situazioni più cruente. I personaggi, serissimi, sono condannati a un anonimato che li rende irriconoscibili. Non ho voglia di riportarvi nemmeno i nomi dei membri del cast, a tal punto mi hanno lasciato indifferente, ma è emblematico il caso di Holly: già presente nella trilogia di Mr. Mercedes, su carta era la risposta femminile a Sheldon Cooper. Distaccata, goffa e geniale, nella serie è tutt’altro: una consulente pensierosa e immusonita, interpretata dalla comunque brava Cynthia Erivo, diversissima dalla controparte cartacea non soltanto per il dettaglio trascurabile del colore della pelle. Lentissima, la serie fa svogliatamente il verso ai toni di True Detective. E la deriva paranormale, quando infine si palesa, finisce per apparire soltanto più stonata. Stravolto spesso in fase di sceneggiatura, Stephen King sembrerebbe essere stato più fortunato in quest’occasione. Meno maltrattato che in altre produzioni, tuttavia, raramente è stato così frainteso. (4,5)