È
una delle serie più belle dell’anno. Ma, a malincuore, nessuno o quasi se n’è accorto.
Com’è possibile, se interpretata magistralmente e con almeno tre
episodi da incorniciare? Lo ammetto, sì: sono tornato anch’io
con qualche dubbio dalla famiglia Piccirillo. Un meraviglioso Jim
Carrey, allo stremo della pazienza, si era macchiato di un atto
terribile. Con una porzione di fegato in meno e un programma da
reinventare, nella seconda stagione vive: la crisi matrimoniale con
Judy Greer; lo sciopero dei suoi epigoni sparsi per il mondo; il
lancio di un nuovo, discusso giocattolo, per ampliare la
comunicazione con i fan; il crollo psicologico del padre Frank
Langella, in procinto di cedere le redini ad altri. Si può viaggiare
indietro nel tempo? Se lo domanda, intanto, il figlio adolescente:
messa da parte la fase della ribellione, qui si rifugia
nell’impossibile. E la serie torna indietro, sì: alle origini
della vocazione di Carrey e dell’avvio di un amore che gli costò
molto coraggio; in flashback romanticissimi dove il tempo si ferma
come in Big Fish. E il cuore batte più forte. Superiore alla
stagione introduttiva, consigliata anche agli scettici, Kidding
smorza il surrealismo di Gondry e perfeziona la dimensione
corale. Per risalire dal burrone bisogna arrampicarsi sulla mano di
un gigante buono: oltre la cascata, così, potremo trovare una
riflessione commovente e originale sul lutto, la malattia e
l’abbandono. In questi pupazzi di cartapesta, signore e signori,
quanta anima. (8)
Già
rinnovata per la terza stagione, accolta con immutato calore dai fan,
After Life è stata la delusione che non mi aspettavo. Attesa
con impazienza per il sano desiderio di sfogarsi in poltrona – di
ridere e di piangere impunemente, insomma, come soltanto il buon
Ricky Gervais sa fare –, avrebbe dovuto raccontare una nuova fase
del lutto del protagonista. Dopo la negazione, la rabbia e la
depressione, magari finalmente l’elaborazione. Le svolte della
stagione precedete lo lasciavano supporre. Tormentato dallo
sconforto, Tony trovava la salvezza grazie al suo pastore tedesco,
agli strampalati colleghi di lavoro e a un’infermiera con cui,
purtroppo, faticava a sbottonarsi. Ricominciare a vivere significa
dimenticare Lisa, scomparsa troppo presto? La seconda stagione di
After Life si guarda senza fatica, ma ha un difetto: non va né
avanti né indietro. Per Tony non ha mai inizio una nuova fase.
Sempre sarcastico e malinconico, trova conforto nelle chiacchiere con
un’altra vedova e nei vecchi filmini di Lisa: la sua routine,
ripetitiva, mi è venuta a noia. Ogni episodio si conclude con i suoi
occhi lacrimosi e con qualche frase fatta sul lutto, con un buonismo
arrendevole che proprio non si addice all’autore. Ricky, ma cosa
combini? Perché questo buonismo, ancora e ancora? Non c’è traccia
del suo genio neanche nei personaggi secondari: a loro sono affidati
gli inserti comici, e lì fioccano battute di inutile volgarità su
prostata, culi e masturbazione. Zuccherosa e sboccata, stomachevole per l’uno e l’altro
eccesso, la serie fa storcere il naso: soprattutto per le premesse
tradite. Il “dopo”, infatti, non viene mai affrontato. (5,5)
Era
stata una delle sorprese della sua annata. Misteriosa e sofisticata, Homecoming era perfetta così. Lo pensavo
ancora prima dell’arrivo della seconda stagione: senza Julia Roberts nel cast, senza Esmail alla regia, e dunque già inutile
di per sé. I pronostici erano comunque più felici del risultato
effettivo. Spiace dirlo, ma che fallimento è questo ritorno? Prendete l’eleganza e l’ambiguità delle puntate
precedenti, buttatele via. Televisivo e convenzionale, con inserti
involontariamente comici – Joan Cusack nei panni di un militare
senza scrupoli, infatti, è tutta da ridere –, aggiunge pochi
tasselli alla storia della Geist Group e dimentica le vicende della
terapeuta Heidi, nonostante il ritorno dei personaggi di Stephan
James e Hong Chau. Mentre il primo continua a porsi domande sul suo
passato, l’altra raggiunge i vertici in un’improbabile scalata al
potere: l’azienda che su carta produce deodoranti, in realtà, ha
campi sterminati di bacche rosse – antidodo allo stress, nelle dosi
sbagliate possono condannare le persone all’oblio. Vittima
dell’amnesia, questa volta, è Janel Monàe: la cantante, qui al
primo ruolo da protagonista, si sveglia su una barca alla deriva.
Insieme allo spettatore, è chiamata a mettere insieme i pezzi.
Inutile dirlo, questi ultimi s’incastreranno in maniera prevedibile
– tra storie d’amore arcobaleno e personaggi dagli incarichi
improbabili – e condurranno a un finale degno di un film d’azione
anni Novanta: di quelli in cui i cattivi minacciano di avvelenare una
città qualsiasi nebulizzando gas tossici sulla folla.
Sconsigliatissima, mal scritta e recitata in maniera zoppicante, ha
il pregio isolato della breve durata: sette episodi di trenta minuti,
per vederla e scordarla. Senza che la Geist – con i suoi veleni,
con i suoi tranelli – si prenda la briga di metterci lo zampino.
(4,5)
Che
bella coppia, lo scorso anno di questi tempi, quella composta da
Christina Applegate e Linda Cardellini. Nonostante la scarsa
originalità della serie che le vedeva protagoniste, ero rimasto
stregato dai loro tempi comici e dalle sfaccettature dei loro
personaggi. L’ennesima variante delle irripetibili Desperate
Housewives, a ben vedere, ma con qualcosa di diverso tra le
righe: nella loro leggerezza c’era una gravosità impensata; una
disperazione che si scorgeva nei gesti, nelle svolte, negli scoppi
d’ira o di pianto. Unite inizialmente da un scomodo segreto di
morte – la seconda aveva ucciso il marito della prima –, questa
volta invertono le carte in tavola: è stata la Applegate, vedova
dedita al vino rosso, a uccidere James Marsden, alias l’ex della
Cardellini. Chiamate a coprirsi le spalle a vicenda, entrambe
colpevoli, partono da queste premesse tragicomiche per mostrarci
nuovi aspetti della loro amicizia; di una solidarietà femminile
esageratissima che, senza troppe pretese, intenerisce e fa sorridere.
Tra cadaveri nei congelatori a pozzetto, vanghe e nuove storie
d’amore, nella seconda stagione – giunta inattesa: lo ammetto,
non confidavo nel rinnovo – Dead to me calca la mano
sull’elemento grottesco e corre a braccia aperte contro i cliché
delle commedie nere. Compresi gemelli tornati dal passato, identici
in tutto e per tutto all’uomo assassinato: ovviamente, ci si
innamorerà di loro. Si finisce per preferire la freschezza
insospettabile della prima stagione, ma la compagnia delle assassine
della porta accanto non dispiace neanche quest’anno. Bravissime, le
protagoniste potrebbero essere una delle coppie meglio assortite del
piccolo schermo se avessero dalla loro parte una sceneggiatura più
memorabile. Senza rimpianti, con le atmosfere assolate e gli
occultamenti di cadavere dello sfortunato Santa Clarita Diet, ci accontentiamo finché dura.(6,5)
In
un’altra vita voglio nascere privilegiato. Con sincera invidia,
l’ho pensato leggendo le (dis)avventure delle amiche di Sally
Rooney. Sfaccendate, altolocate e ciarliere, frequentano le case dei
personaggi dello star system e tracannano vino rosso da bicchieri di
cristallo. Tra feste per pochi eletti, presentazioni e vernissage,
fanno anche tappa in uno splendido casolare immerso nella campagna
francese.
Frances
e Bobbi hanno fatto coppia per un po’. Aspiranti poetesse, sono
rimaste in ottimi rapporti e si spalleggiano: nella buona società così come
sul palcoscenico. Se la prima è una ventunenne pallida e insicura,
che per paura di non farcela si accontenta di
vivere della luce riflessa dell’ex fidanzata, la seconda è al
contrario ricca di famiglia e sempre a proprio agio. È la
sfrontata Bobbi a possedere il lasciapassare per la casa di Melissa,
fotografa, e del marito Nick, attore da copertina: la fascinazione
verso i coniugi è fortissima. Siamo a Dublino, ma sembra di essere
nella New York di Noah Baumbach e della sua musa Greta Gerwig:
discorsi allegramente letterari, poligoni sentimentali degni di una
commedia francese, generazioni agli antipodi inquadrate tra
ammirazione e irritazione.
Si può amare più di una persona, ha detto lei. Perché
dovrebbe essere diverso dall’avere più di un amico? Tu sei mia
amica e hai anche altri amici, vuol forse dire che non mi consideri
davvero?
Diciamolo
subito: se i sentimenti Persone normalisono memorabili perché
ordinari, quelli di Frances sono fuori dalla nostra portata. E
proprio per questo incuriosiscono un po'. In lotta contro il capitalismo e
il patriarcato, stagista non pagata presso un’agenzia letteraria,
la protagonista non vuole essere più la banale ragazza di campagna
che passa inosservata alle feste popolose. Cerca la sfrontatezza, la
risposta ammiccante, la relazione clandestina. E in mezzo a una
compagnia frivola, aperta e bellissima incrocia così lo sguardo di
Nick: uomo nell’ombra di una donna talentuosa e volitiva, che
nonostante il fisico scolpito nasconde in realtà un carattere
fragile. Attratta dalle debolezze di quest’ultimo, Frances spera di
nascondere le proprie. E benché anticonformista, suo malgrado,
finisce per interpretare un cliché: quello dell’amante. Desidera
segretamente quel tenore di vita oppure lo disprezza? La seconda
parte, spezzato l’idillio snob, finisce per dilungarsi
sulle paturnie di una giovane immatura e contraddittoria, difficile
da amare, che si rivela essere la protagonista imperfetta di un
esordio imperfetto.
Sono
solo una persona normale, ha detto. Quando a te piace qualcuno, lo
fai sentire come se fosse diverso da chiunque altro.
Sbilanciato.
Interessante a momenti alterni. Ma personale, generoso, onesto:
pervaso da una specie di magnetismo irresistibile. Nel romanzo
successivo, per fortuna, ci saranno meno seghe mentali e più cuore.
Dopo trecento pagine, dopo mille intrighi, voltafaccia e cambi di
ruolo, questa volta si ha l’impressione di non venirne mai a capo. Frances, eternamente indecisa, potrebbe trasformare tutto in un nulla
di fatto da un momento all’altro. E andare avanti all’infinito,
con le sue chiacchiere, con i suoi dubbi esistenziali, tagliandoci
fuori dalla sua cerchia un attimo prima dei ringraziamenti. Non è
tutto oro ciò che luccica: anche i ricchi piangono. Privilegiati sì,
ma con zone d’ombra pronte a essere rivelate negli scavi
psicologici della seconda parte, i personaggi di Sally Rooney hanno i
loro momenti storti: ripensamenti sui pro e i contro delle coppie
aperte; rapporti burrascosi con il proprio corpo e con il prossimo;
momenti di debolezza non sempre curabili con il paracetamolo. Onestamente continuo a preferirli nella prima
parte: una dissertazione sull’insostenibile leggerezza dell’essere
giovane, bisessuale e radical chic, infarcita di chiacchiere
alcoliche sugli uomini e le donne, la sessualità e il futuro.
Sto
pensando di finirla qui. La protagonista, per tutto il tempo
priva del nome, lo pensa della sua attuale relazione e della
sua vita, considerata inappagante. Di lei sappiamo pochissimo.
Soltanto che viaggia in macchina – direzione, la fattoria dei
suoceri – e che accanto ha Jake, professore amorevole e
premuroso che frequenta da qualche settimana. Stanno imparando a
conoscersi, ma la protagonista fa fatica. Ad abituarsi al rumore
della deglutizione del partner, alle conversazioni che arrancano,
alla desolazione di quelle strade secondarie. Qual è la percezione
che l’uno ha dell’altra? Cosa pensano, mentre fuori dal
finestrino si susseguono immagini rapide di campi e nuvole? Una tempesta è in arrivo. A metà tra Tom at the farm e Il gioco di Gerald, questo romanzo è lo snervante flusso di coscienza di una
donna in balia delle proprie ansie sociali. Dei ricordi, della
solitudine, del mal di vivere, dei bilanci con cui mette
in discussione sé stessa e la propria relazione.
I racconti
basati su eventi realmente accaduti molto spesso hanno a che fare più
con la finzione che con la realtà. Vale sia per le cose inventate
sia per quelle vere. Si tratta di storie, in entrambi i casi, che
vengono ricordate e raccontate. Le storie sono il modo in cui
impariamo le cose. Sono il modo in cui ci conosciamo a vicenda. Ma la
realtà, quella succede una volta sola.
Sto
pensando di finirla qui. È il pensiero del lettore più impaziente,
davanti a un thriller psicologico che si concede un preambolo lungo
cento pagine per entrare nel vivo della narrazione. Il romanzo di
Iain Reid, presto un film Netflix grazie al talento immaginifico dell'acclamato Charlie Kaufman, è costituito da riflessioni sulla vita di coppia e
da tappe stranissime. Episodi all’apparenza grotteschi, che
scandiscono un trip lisergico e contorto, affascinante nel suo
destabilizzarci continuamente. Il ritorno a casa dei personaggi,
infatti, sarà ritardato da contrattempi terrificanti. Si parte dalla
cena servita in un casolare in stato di semiabbandono – carne
sanguinolenta, verdura in gelatina, e per finire il gioco dei mimi –,
con un duo di genitori sopra le righe a guardia di una porta
ricoperta di graffi: conduce in cantina. Si prosegue con il desiderio impellente di granita al Dairy Queer, anche in pieno inverno. Si finisce con
un tour claustrofobico in una scuola vuota – o almeno si spera che
lo sia –, a metà tra un labirinto e una prigione.
La mia
storia non è come un film dell’orrore, gli dico. Non ti fa fermare
il cuore e non ti gela il sangue nelle vene. Non ci sono mostri o
violenze. Nessun salto dalla sedia. Per me, queste cose non sono
spaventose. Invece, quello che ti disorienta, che capovolge ciò che
da per scontato, che disturba e scompagina la realtà, quello sì che
fa paura.
Sto
pensando di finirla qui. Lo dici alle prese con la seconda metà,
quando fai le ore piccole pur di ultimare la lettura. Pur di venirne a capo. All’inizio scettico, ti scopri terrorizzato da
piccoli dettagli inquietanti e da elementi stridenti, che nel
silenzio della casa addormentata mettono letteralmente i brividi. Lo
stile di Reid, stringato, introduce sottopelle un serpeggiare di
sensazioni difficili da descrivere. Dice bene la copertina, sì:
avrai paura senza sapere perché. Non c’è niente che non
vada, ma allo stesso tempo nulla torna. Perché tutto può cambiare
all’improvviso. Pagina dopo pagina la storia ci svelerà il suo
significato più allegorico e profondo. Ma serve attendere,
assecondare la curiosità, perché i dialoghi suoneranno innaturali
qui e lì e le situazioni in cui i protagonisti si cacciano
appariranno a dir poco surreali. Non tutto viene giustificato alla
luce dell’epilogo. Non tutto lascia a bocca aperta, soprattutto se i film
di genere ormai non hanno grandi segreti per voi. Ma molto gli si
perdona, soprattutto grazie ai ritmi deliranti e ossessivi, da
istantaneo mal di testa, che ricordano uno squillo di telefono nel
cuore della notte. Non stupisce che l’autore di Essere John
Malkovich, Il ladro di orchidee e Anomalisaabbia
visto il potenziale dell’autore, magari da mettere meglio meglio a fuoco
in una trasposizione che già mi figuro diversissima: ancora più folle. Se dovessi immaginare di trarre una storia da un
dipinto di Escher, comunque, sarebbe proprio così.
Il mio
voto: ★★★½ Il mio
consiglio musicale: Joy Division – Love Will Tear Us Apart
Qual
era il segreto del bestseller sulla bocca di tutti, che nel giro di
un anno si è trasformato con geometrica precisione nella miniserie
di cui tutti parlano? La giovane Sally Rooney, autrice destinata a
dividere e a far chiacchierare, a ben vedere ha un titolo
bugiardo. Di normale, infatti, questi Connell e Marianne non hanno
niente. La trasposizione Hulu mette in scena l’eccezionalità. Dei
baci umidi e dei corpi aggrovigliati. Di interpreti esordienti così
naturali da confondersi con i personaggi di finzione. Degli amori
ottusi che non sanno dichiararsi per paura delle etichette.
Romanticissimo, struggente, per me destinato a diventare un cult
generazionale, Normal People trova sul piccolo schermo i toni
sommessi del cinema indie e una macchina da presa – per metà della
durata è quella di Lenny Abrahmson – che respira addosso ai
protagonisti, tanto sono indagatori i primi piani. Il romanzo mi è
piaciuto, ma la miniserie molto di più. Lei, pallida e minuta,
ostenta forza e sicurezza: ha paura di essere amata. Lui si sbottona
di rado, risponde laconicamente, e ogni gesto smentisce il suo corpo
muscolosissimo: non è forte come appare. L’uno alla mercé
dell’altra, si influenzano, si prendono, si lasciano. Si
rincorrono. Complicatissimi, sempre litigati e spesso nudi, Paul
Mescal e Daisy Edgar-Jones – lui spigolosissimo, lei un
incrocio tra Anne Hathaway e Alicia Vikander destinato a fare
innamorare – parlano con gli occhi e con i silenzi. Al liceo,
all’università, su Skype. Li guardi, e davanti alle frequenti
scene di passione ti sorprendi a non provare mera eccitazione
sessuale, ma un’invidia profonda per la bellezza che sprigionano.
Come faranno mai? Cronaca straordinaria di un amore ordinario, Normal
People rivive in tutta la sua piccola epicità in una produzione
così compiuta e perfetta da sembrare un’epopea dei giorni nostri.
Al tempo dell’Interrail, dell’Erasmus, della friendzone, dei
social network. Parlerà anche a chi è fuori target. Purché abbia
ancora un animo fragile e irrequieto. Purché, in nome dell’empatia,
sia disposto a farsi stracciare il cuore in minuscoli frammenti
soffiati poi nei cieli d’Irlanda. (8,5)
Villette
a schiera, conflitti generazionali, segreti. Ricordando sin da premesse le ambientazioni di Desperate
Housewives, il secondo romanzo di Celest Ng non poteva che
prestarsi meravigliosamente a una trasposizione televisiva.
Leggendolo ne avevo intuito pregi e limiti
nonostante l’uso magistrale dei diversi punti di vista. Ma il
finale annunciato sin dal prologo, il troppo spazio dato agli
adolescenti rispetto alle figure genitoriali e qualche cliché di
troppo nel descrivere la perfezione della famiglia Richardson mi
avevano fatto storcere il naso. La serie, in arrivo su Amazon Prime
Video nei prossimi giorni, è la gradita riconferma della qualità delle proposte Hulu. Ancora una volta, un’eccezione alla
regola che prende il materiale di partenza e lo migliora, quasi sulla
base dei dubbi sollevati nella mia recensione. La trama, in
realtà, è fedelissima. In un quartiere residenziale arrivano una
fotografa girovaga e la figlia adolescente a seminare zizzania. Come reagiranno gli abitanti, se l’ultima arrivata
esercita un magnetismo inspiegabile? Restano i
bracci di ferro, i ritratti incandescenti di due – anzi tre –
maternità agli antipodi, i tratti peculiari che rendevano i
personaggi già vividissimi su carta. Ma la serie approfondisce con i
salti temporali e con le aggiunte a margine, indicando un nuovo
responsabile per gli incendi del titolo e regalando alla prezzemolina
Reese Whiterspoon l’ennesimo ruolo da premiare: molto più della
classica mamma chioccia a cui ci ha abituati, garantisce al suo
personaggio momenti di vulnerabilità nei lunghi flashback e nel
vagheggiamento di una relazione adulterina. La sua vita idilliaca è
stata costruita su una (non) scelta. Agli antipodi del ring abbiamo
Kerry Washington: elemento perturbante che, sarà per l’antipatia
del ruolo, sarà per un eccesso di smorfie e grugni incolleriti, si
lascia però rubare la scena dal personaggio all’apparenza più
convenzionale. Non è tutto oro quel che luccica. La confezione, a
ben vedere, a volte è sin troppo televisiva e laccata. Il già
visto, me ne accorgo anche scrivendone, è di casa. Ma se la carne è
tanta, se lo scontro tra prime donne solleva tutt’intorno fumo e
scintille, come non lasciarsi incuriosire dallo spettacolo
distruttivo ma rigenerante del fuoco vivo? (7+)
Nel
1932 una giovane, tagliata fuori da un film, si suicida gettandosi
dall’insegna iconica che sormonta le colline di Hollywood. Si chiamava Peg.
La sua storia, verissima, è purtroppo comune a tanti giovani che non
ce l’hanno fatta. Nell’immediato dopoguerra un regista decide di
ricordarla con un esordio alla regia che punta a rivoluzionare il
mondo dell’intrattenimento: della troupe faranno parte uno
sceneggiatore afroamericano e omosessuale, una protagonista di
colore, un protagonista che sbarcava il lunario come gigolò, una
produttrice all’improvviso ai vertici del potere. Non aspettatevi
una serie verità. Pur mostrando i retroscena più sordidi, pur
mescolando personaggi fittizi a personaggi reali, l’ultima fatica
dell’inarrestabile Ryan Murphy è ciò che il sopravvalutato C’era
una volta a Hollywood è stato per Quentin Tarantino: un’utopia
in cui celebrare le diversità, i finali lieti, le svolte
alternative. Quanta ricchezza hanno apportato al cinema le minoranze
etniche, la comunità LGBTQ, l’intuito femminile? Il solito Murphy,
con un’anima queer, colorata e sognante, si circonda di un cast di
bellissimi – il lato estetico, inutile negarlo, ha la meglio sul
talento effettivo: David Corenswet e Laura Harrier sono tanto
attraenti quanto pessimi, mentre Darren Criss e Samara Weaving
appaiono poco sfruttati –, e lascia ai comprimari della vecchia
guardia – gli straordinari LuPone e Mantello, uno sorprendente
McDermott e infine Parsons, che s’impegna invano per liberarsi
dalla macchietta Sheldon Cooper – il compito di distrarci dagli
inciampi dei giovanissimi con il loro sfavillio. In questa Los
Angeles femminista, multietnica e gay friendly il buonismo è sempre
dietro l’angolo, ma lo si tiene a bada fino a un finale
smaccatamente lieto: a malincuore, la parte peggiore. Nel sogno di
Murphy, eppure, c’è una poesia particolarmente commovente; un
antidoto contro il cinismo dei tempi correnti che non riesce a
fronteggiare purtroppo gli eccessi delle pubblicità progresso. Nel
tentativo di preservare la purezza di Rock Hudson – un simbolo,
così come Sharton Tate lo fu per Tarantino –, Hollywood
spicca il volo per l’iperuranio e perde qualsiasi attinenza con il
reale. La favola, invece, piace quando ci appare plausibile: una
speranza a portata di mano. Di ritorno da questo mondo che non
c’è, e che forse non c’è mai stato, sentirete comunque
nostalgia. (7)
Quali
sono i retroscena di un’emittente televisiva? A svelarci i coni
d’ombra, oscuri benché sotto gli occhi di tutti, è un grande
cast. La tematica, purtroppo, è la stessa della serie The Morning
Show: le molestie sul luogo di lavoro. Questa volta ci si ispira
alla storia vera. Si fanno i nomi e i cognomi. Ci si mette la
faccia. Partito con toni sfrontati e ultramoderni, con tanto di
rottura della quarta parete, Bombshell si adagia poi in un
andamento più convenzionale, con una sceneggiatura indecisa tra
commedia, dramma d’inchiesta e thriller. Quando la struttura si
frantuma, diventando corale, alla battaglia di un’irriconoscibile
Theron si affiancano le vicende di altre due dipendenti: la Kidman,
declassata a un programma pomeridiano; la Robbie, stagista che scende a patti pentendosene. La causa di una può diventare la causa di
tutte? Sulla scia dello scottante caso di cronaca, i travasi di bile
sono assicuranti insieme a qualche risata a denti stretti. A dispetto
del titolo, però, il film non si rivela essere una bomba. Ma purché
trionfi la verità – e il talento di Margot, a sorpresa la migliore
delle tre punte di diamante –, gli si perdona la mancanza. (6,5)
Raccontare
la crisi attraverso una nuova classe di emarginate: le
spogliarelliste. Le ragazze dirette dalla Scafaria si trasformano da
vittime in aguzzine per non soccombere. La troppa ambizione rischierà
di mandare il piano a gambe all’aria. Dopo La grande scommessa
e The Wolf of Wall Street, ecco la variazione sul tema che non
potendosi avvalere né di una sceneggiatura da Oscar né di un
regista di culto punta allora sulle grazie del cast più sexy
dell’anno scorso. Hustlers è un gineceo divertente e
affiatato in cui la dolce Constance Wu viene guidata passo passo da
una Jennifer Lopez un po’ chioccia, un po’ sciacallo: la sua
ottima performance non avrebbe dovuto lasciare indifferente
l’Academy. Se il film funziona con poco, infatti, è proprio grazie
alle interpretazioni delle protagoniste e al clima sempre disteso
nonostante la tematica torbida. Pulito e onesto, punta su qualche
raro spogliarello e su un lato umano dolentissimo, che tocca senza
ironia. È possibile grazie a una JLo già iconica che, smesso il
ruolo di popstar, ci mette – letteralmente – l’anima e il
corpo. Nel capolavoro di Fosse, il mondo del dopoguerra era un
cabaret. Per la Scafaria, quello sbranato dai lupi di Wall Street è
un night. (7)
Siamo
nella classica campagna inglese di Jane Austen, dove la massima
ambizione delle protagoniste è una: accasarsi con un buon partito.
Non mancano le feste, le lezioni di etichetta e seduzione, i
matrimoni. L’interrogativo maggiore: chi si fidanzerà con chi?
Come spesso accade negli intrecci dell’autrice inglese,
abbonderanno i personaggi antipatici e le chiacchiere più
salottiere. Leggera e spumeggiante, la nuova trasposizione di Emma
è una commedia non esente da lungaggini, con una scrittura più
canonica del previsto. Non aspettatevi né la riscrittura moderna di
Dickinson, né il montaggio di Piccole donne. Prodotto
diretto agli esteti e agli amanti del film in costume – il lato
tecnico è incantevole –, conferma il talento di una Taylor-Joy a
volte esilarante, altre malinconica. Accanto a lei, nonostante i
caratteristi noti, brilla la stella di Mia Goth: presenza fissa degli
horror, è adorabile alle prese con un ruolo comico. Tra chiacchiere
di paese, nomi su nomi, corteggiatori e corteggiati, Emma è
la storia di una povera ragazza ricca che giocava a fare Cupido. Al
cinema dispiace meno di quanto farebbe su carta, ma per tutto il
tempo sembra comunque di assistere a strategie da agenzia matrimoniale (6,5)
Benché
rivelata al mondo dalla lungimiranza del cinema europeo, Jean Seberg
era considerata la fidanzatina d’America. Affascinante e
politicamente schierata, si trasformò in un personaggio scomodissimo
e morì in circostanze misteriose. Un po’ biopic, un po’ thriller
di spionaggio, il film segue la diva della Nouvelle Vague negli anni
dell’impegno civile. Più a fuoco nella seconda parte, la pellicola
con un’ottima Kristen Stewart – qui convincente come non mai –
funziona soprattutto nel momento della caccia alle streghe. Accurato
nella ricostruzione degli anni Settanta, grazie al luccichio di
costumi e scenografie, il film vorrebbe parlare di troppo – star
system, razzismo, politica – ma finisce per parlare di troppo poco.
Per quanto la storia realmente accaduta sia intrigante, Seberg è
un mix che vive soltanto della performance della protagonista e di
timide capacità retoriche. Il caso di Jean, e il suo enigma, resta aperto. (6)
Più
che la serie TV, i nati nella mia generazione ricorderanno la duologia con Cameron Diaz, Lucy Lu e Drew Barrimore. Alla
luce di un girl power più autoreferenziale che mai, gli angeli dello
spionaggio soft son tornati. Nonostante il tocco femminile, è stato un flop annunciato. Colpa di una regia
patinata, che lascia un po’ a desiderare nelle scene d’azione?
Non mancano i cambi d’abito, le parrucche, le macchinazioni più o
meno telefonate, né un trio meglio assortito del previsto: la
Stewart si presta a essere la macchietta del gruppo; la Harris è
forse la migliore del cast, nei panni della scienziata goffa; la Balinska ipnotizza come amazzone dal fisico statuario.
Su di loro veglia la Banks, che scherza sulla mezza età e domina un
cenacolo di giovani desiderose non di essere principesse, bensì
spie. Non necessario, come ogni reboot, l’ultimo Charlie’s
Angels è stato un insuccesso parzialmente meritato, ma piacevole
e scacciapensieri poggia su una formula che intrattiene
comunque. Vestiti succinti, giarrettiere e flirt, ma anche una
consapevolezza tutta nuova sui ruoli di genere che divertirà gli
uomini e lusingherà le donne. Basta però a giustificare la missione? (5,5)
Era
l’unico pregio di Suicide Squad. Il ferro, immancabilmente,
andava battuto finché caldo. L’impegnatissima Margot Robbie si è
prestata con autoironia a tornare a impersonare l’eterna fidanzata
del Joker: brutalmente piantata in asso – non aspettatevi il cameo
di Jared Leto –, all’indomani dei fatti del cinecomic di Ayer è
libera come l’aria. E per questo sola. Inganna le pene d’amore
con i cibi ipercalorici, glitter e caramelle gommose a pioggia,
parecchi nemici e poche buone amiche. Il capriccio di mettersi in
proprio, però, le appiccicherà un enorme bersaglio sulla schiena.
Al pari del pilot di una serie TV, Birds of Prey è una lunga
presentazione di personaggi sorretta da un’estetica pop e da una
colonna sonora furbetta. Oltre che confermare il brio indiscusso di
Harley, ci si limita a illustrare il temperamento
delle altre protagoniste e i segreti di una Gotham vincente nella
comicità. Se esplosioni, sketch e colori sembrano sbucati da un
cartone, qualcuno potrebbe sorprendersi per il
tasso di sangue e parolacce; meno per una struttura inutilmente
frastagliata. L’obiettivo di Birds of Prey: ripulire da cima
a fondo la città. Il destino di Gotham è nelle mani delle ragazze.
E quello dell’universo DC? (5,5)
Una
giovane inesperta fa i conti con una datrice di lavoro spietatissima,
che costringe i dipendenti a orari massacranti e trascura in nome
della carriera famiglia, amore, affetti. Indizio: non sto riassumendo
la trama del Diavolo veste Prada. Scambiate le redazioni
giornalistiche con gli studi televisivi; sostituite le passerelle di
moda con la stand-up comedy. Con il minimo sforzo, otterrete un
aggiornamento della commedia già cult al tempo dei talk show. La
Miranda Priestly del piccolo schermo è una signora dal temperamento
british, algida e distaccata, con un marito malato di Parkinson in
casa e avvoltoi tutt’intorno. Nel ritratto di luci e ombre su una
professionista ormai sul viale del tramonto, non mancherà la
redenzione finale. Potrebbe essere sempre la solita minestra, e
invece no. Perfettamente al passo con i tempi, E poi c’è
Katherine tratta il femminismo, gli scandali sessuale,
l’integrazione, i pregiudizi sulle donne in ruoli di
potere. La scrittura, già scoppiettante di per sé, è illuminata
inoltre dalla performance di una Emma Thompson in forma
particolarmente smagliante; con lei c’è Mindy Kaling, che qui
convince più come sceneggiatrice che come interprete. (7)
Qual
è il segreto per un matrimonio duraturo? Tra mille titubanze, se lo
domanda ogni coppia impreparata al grande passo. Banalmente,
assicurano i parenti, il segreto è l’amore: il resto, poi, è
tutto in discesa. E l’amore non manca a due come Roy e Celestial.
Trent’anni, belli come il sole, complici e appassionati, sanno
trasformare perfino le scaramucce in preamboli romantici. Ogni
litigio, infatti, dev’essere sospeso per quindici minuti se si
pronuncia una parola d’ordine: 17 novembre, la data del loro
anniversario. Un piccolo armistizio per frenare sul nascere i
sospetti di lei – a Roy piace fare il cascamorto con le altre donne
– e le pretese di lui – vorrebbe diventare presto genitore. Ma
l’amore in sé può bastare? Quando Roy viene arrestato con
l’accusa infondata di stupro, qualcosa si spezza. La lontananza
mette alla prova la loro pazienza, cambia ogni cosa. Nonostante una
lunga corrispondenza epistolare, inevitabilmente si sfilacciano
promesse e buone intenzioni. E i sentimenti, all’apparenza
inscalfibili? Si può biasimare il marito, se entra in cella
innocente – era un comune rappresentante di testi scolastici – e
ne esce per forza di cose smaliziato? Si può biasimare la moglie,
ancora, se nel frattempo ha inaugurato un negozio di bambole
artigianali – tutte, però, hanno il volto del piccolo Roy – e si
è rifugiata nel conforto di un altro uomo, il migliore amico Andre?
Immaginavo
forse che avremmo seguito quello schema in eterno? Che saremmo
invecchiati insieme, continuando ad accusarci e perdonarci. All’epoca
non sapevo che cosa volesse dire “per sempre”. Forse non lo so
nemmeno ora. Ma quella sera al Piney Woods ero convinta che il nostro
matrimonio fosse un arazzo finissimo, fragile ma che si poteva
riparare. Spesso lo strappavamo e lo rammendavamo, sempre con un filo
di seta, bellissimo ma molto cedevole.
Proprio
come La storia di un matrimonio, letto e amato qualche mese
fa, il romanzo di Tayari Jones racconta non l’armonia di un duo
bensì i dolori di un triangolo amoroso tanto ingiusto quanto
inevitabile. Da sinossi, invece, ci si aspettava probabilmente una
storia diversa, di fedeltà e razzismo. Il fatto che i protagonisti
siano entrambi di colore e che l’accusa di stupro dipenda
dall’etnia di Roy diventa assolutamente incidentale e permette
all’autrice, in maniera coraggiosa, di allontanarsi dai territori
di Se la strada potesse parlare per tratteggiare finalmente
una comunità afroamericana lontana dai cliché dei drammi sul tema.
Qui si parla infatti di famiglie alto-borghesi, che possono contare
su impieghi ben remunerati e case ospitali. L’attenzione del
lettore finisce allora per concentrarsi sull’universalità del
dilemma sentimentale e sulle difficoltà del ritorno alla normalità
di Roy. Uscito dal carcere, si trova a dover piangere la sepoltura
della mamma e a fare i conti con l’amara verità: il cuore
impegnato di Celestial. Il romanzo, intensissimo, indaga con ferocia le loro passioni e ci mostra personaggi difficili da
amare: nelle verosimiglianza dei litigi vi sembreranno proprio usciti da un film grande e struggente.
È
impossibile smettere di amare qualcuno. Forse l’amore cambia forma,
ma resta.
Per
gran parte della lettura aspettiamo con tensione crescente il loro
incontro. Lei vede la sua presenza dappertutto, come se fosse uno
spettro infestante; lui ha in tasca le vecchie chiavi di casa e spera
che tornando ad Atlanta trovi sempre la solita serratura e l’albero
di noci in giardino. Con il cuore a mille, sotto Natale, il loro
faccia a faccia strazierà mostrandoli l’uno alla mercé
dell’altra. È possibile perdonarsi? È un crimine lasciar
prevalere i compromessi? Il segreto, si diceva, è l’amore. Ma
l’innesto di anime tra Roy e Celestial, in una stagione crudele,
non ha avuto il tempo di attecchire. È stato ostacolato dalle piogge
torrenziali dell’ingiustizia e della distanza geografica. Tayari
Jones, con la pazienza di un giardiniere, esamina i loro corpi e i
loro fusti, le loro intenzioni e le loro radici. E in un epilogo
commovente svela infine un doppio verdetto: state pur certi che
nessuno è innocente, che qualcuno soffrirà. Ma l’amore, signor
giudice: l’amore come sta?
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: Fugees – Killing Me Softly with His
Song
Avevo
questo romanzo in libreria dal periodo dell’uscita. Ma, a
testimonianza di come le letture non abbiano una data di scadenza, ho
scelto di conoscere l’esordio di Francesco Longo ora. Il mood,
infatti, era di quelli perfetti. Mentre in streaming sono immerso
negli amori inconfessati della serie Normal People, il quattro
maggio – per inaugurare la fase due – sono finalmente tornato a
passeggiare al mare: uno dei miei veri affetti stabili. Tutto preso
dagli struggimenti post-adolescenziali e dagli andirivieni in
spiaggia, insomma, non potevo non tuffarmi a bomba nelle estati di
Santa Virginia. Una località fittizia, a un’ora di treno da Roma,
che fa da sfondo alle amicizie rievocate dal narratore. Sarà che il
protagonista ha il mio stesso nome, sarà che ho sempre vissuto sulla
costa, ma l’immedesimazione è stata istantanea.
Smilzo,
occhialuto e cagionevole, Michele è un tipo malinconico e
sedentario. Di quelli che si commuovono per la bellezza dei tramonti,
scrutano le stelle in cerca di UFO, fantasticano di mostri alati in
fondo al lago. Di quelli che hanno fatto dell’attesa il senso
stesso della loro esistenza, e non a caso hanno l’abitudine di
tuffarsi sempre per ultimi. Nato e cresciuto in una località presa
d’assalto dai turisti, non l’abbandona a vacanze finite. Abita in
un paese popolato soltanto per tre mesi all’anno e nei restanti
nove viene lasciato in balia del mare d’inverno.
Sono
stati tutti convocati dal mare, dalla promessa di una mareggiata
epica che ha richiamato anche chi non si vedeva più da anni. La
spiaggia è a sud del promontorio, è la Baia di Santa Virginia. Lì
abbiamo trascorso tutte le nostre estati. Lì l’infanzia era una
cosa sola con la sabbia.
L’autore
descrive con esattezza la solitudine di cui il suo protagonista
soffre, ma è con l’arrivo di giugno che lo fa rianimare: quando,
come da tradizione, si ricompone il cosiddetto gruppo della Baia.
Anno dopo anno, infatti, Michele ha stretto con un manipolo di
coetanei che si riunisce soltanto d’estate. Ci sono Guido, spavaldo
ma fedele, che ha portato la moda del surf da un viaggio in
California; la bella Silvia, che raccoglie le confessioni di tutti ma
raramente si sbottona; il Cicogna, accanito lettore destinato a fare
il naturale salto alla scrittura; Gabriele con la sua inseparabile
chitarra; e c’è soprattutto Micol, con un cespuglio di capelli
ricci e gli occhi più brillanti della luna. Senza dirglielo, il
protagonista la amerà fino all’età adulta. Loro come vivono
invece l’attesa del mare? Con la stessa pena, con le stesse
speranze, con lo stesso languore? Strutturato tra passato e presente,
Molto mossi gli altri mari li racconta com’erano e come
sono: radunati eccezionalmente per una bufera tropicale che allarma i
meteorologi ma promette, d’altra parte, onde altissime. Michele
saprà affrontarle di petto, soprattutto davanti alla notizia delle
nozze di Micol?
Di
una cosa solo tu puoi essere geloso: del mare.
Questo
è un piccolo romanzo generazione che vive non tanto di personaggi
quanto di atmosfere. Se gli amici di Michele sembrano spesso
schiacciati dall’apatia, poco messi a fuoco nella foga della
nuotata e condannati a un finale per me sin troppo precipitoso, a
fare la differenza è una natura kantiana in cui scorgere l’ennesima
sfida. Piace allora per i cieli coperti, per i braccialetti
dell’amicizia al polso, per le pedalate a perdifiato e per le
grigliate, per la metafora alla base: l’età adulta come una
mareggiata da fronteggiare. Non importa il cosa né il perché.
Questa volta importa il come: ossia attraverso una prosa splendida
sin dalle allitterazioni del titolo. Questa volta importa il quando:
nella stagione che inevitabilmente precede l’autunno degli ideali.
Le sensazioni conclusive sono familiari ma altalenanti. Se da una
parte la componente sentimentale mi ha ricordato una frustrante
partita di ping pong, dall’altra la lettura ha il profumo di brace
e risate dei falò di fine estate. Al centro di una storia di attese
e devozione, Michele e Micol evitano il presente per paura. Baciano
altre persone, si distraggono con altre relazioni. Si crogiolano in
un’eterna sospensione. Come se l’estate – della vita, della
gioventù – potesse durare per sempre. In attesa che l’onda del
secolo o li schiacci, o li faccia volare.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Hola (I Say) – Marco Mengoni feat. Tom Walker
Chiusi
in casa, spiano le mosse del vicinato. Aguzzano l’udito per
origliare. Denunciano. La routine degli
abitanti di Residenza Arcadia, satira quanto mai attuale,
potrebbe ricordarvi qualcosa. I giorni della nostra quarantena.
Terrorizzati dal cambiamento – un po’ come noi davanti alla fase
due –, gli anziani protagonisti tutelano le loro
proprietà con il pugno di ferro. Benché vengano nominati Don
Matteo e Turisti per caso, siamo in una società distopica
imprecisata: pare che ci sarà una guerra imminente, che il Partito e
la Gendarmeria vadano temuti, e che presto ci sarà una parata
per celebrare la Nazione. Gli stessi conflitti si respirano anche nel
condominio: colpa dei nuovi inquilini – terroristi – da far
sloggiare. Raffigurata come un idillio sin dal nome, la Residenza è
un covo di scaramucce, pettegolezzi e voltafaccia mortali. Badate ai
disegni, inquietanti come nel miglior Burton, e diffidate da quei protagonisti che sembrano adorabili: la solitaria
Mirta con il suo canarino; Emilio e Dirce, con ospite il nipote
metallaro; i temutissimi Ester e Dimitri, dai modi affabili ma con un
passato insospettabile – quello di lui vi commuoverà. Daniel
Cuello, originario di un Paese che ha avuto una lunga e infelice
relazione con le dittature, scuote per crudeltà e dolcezza. E
condanna il conservatorismo di una certa generazione, sempre in prima
linea per apostrofare il lassismo dei tempi correnti. Oasi da
proteggere, il condominio diventa un microcosmo in cui legge e morale
viaggiano su binari diversi. Perché difendere con le unghie e con i
denti una casa destinata comunque alla polvere del tempo? Perché
mantenere lo status quo, se è un incubo che ricorda i fascismi?
|Basilicò, di Giulio Macaione. € 16, pp. 153,
★★★½|
Alcune
famiglie sono un’associazione a delinquere. A mettere sotto
processo la propria è Maria, matriarca sputasentenze con cinque
figli grandi e un marito scappato con la domestica Nancy. Come
in American Beauty, la narrazione prende avvio da un luogo
particolare: l’oltretomba. La protagonista, nel giorno del suo
stesso funerale, racconta il suo albero genealogico e gli eventi che
hanno portato alla sua morte. Risposta politicamente scorretta alle
saghe familiari tanto in voga, Basilicò sarà apprezzato dai
fan di Carnage o I segreti di Osage County.
Complessati, sguaiati e inviperiti, i membri della famiglia Morreale
credono nei valori tradizionali, nel senso del decoro, nell’omertà.
I capitoli, illustrati da una penna che incanta, sono ora in bianco e
nero, ora in un nostalgico color seppia. Introdotti dalle ricette
della migliori ricette della tradizione – dalla parmigiana al
pesto, dal cous cous al ragù – inoltre assumono di volta in volta
il punto di vista dei figli: Giovanni, un prof bistrattato; Agata,
artista povera in canna; Diego Maria, omosessuale sfortunato in
amore; Rosalia, moglie e amante; infine Santo, ultimogenito
dall’esistenza girovaga. Riuniti per il compleanno di Maria, si
troveranno a celebrarne le esequie. La mamma si è portata nella
tomba trucchi e consigli? Se il segreto della sua cucina era il
basilico, il segreto del basilico invece qual era? I colpi di scena
del finale assicureranno anche qualche tavola horror. La graphic
novel di Giulio Macaione è un omaggio a Palermo, alle gioie della
tavola, ai dolori delle famiglie infelici a modo loro.
|Freezer, di Veronica “Veci” Carratello. € 18, pp. 137,
★★|
Un’altra
famiglia disfunzionali da cui fuggire, un’altra lettura grottesca. Questa volta si
parla dei Robinson: sì, proprio come quelli della serie TV. Mina, in
attesa dello sviluppo ormonale, sognerebbe per sé il potere
dell’invisibilità. Difficile se primogenita in una casa dov’è
impossibile non essere immischiati nelle tragicomiche dei parenti .
Tocca citarne qualcuno: il padre, attore della pubblicità della
carta igienica; lo zio Ernesto, che in una chat trova l’anima
gemella; il gatto Kafka, aspirante suicida; una nonnina chiusa nel
silenzio impenetrabile della vedovanza. A metà tra Little Miss
Sunshine e Metti la nonna in freezer, la graphic novel ha
protagonisti già visti altrove e un umorismo che purtroppo non mi ha
divertito. Il pregio più grande è l’irresistibile estetica
vintage, con un tripudio di colori terrosi, citazioni musicali anni
Settanta e un tratto degno della sfrontatezza dei prodotti di Cartoon
Network. Peccato che Freezer somigli più a un insieme di
strisce comiche che a un racconto, più a un puzzle di sketch che a
una storia fatta e finita. I (nuovi) Robinson potrebbero essere i
personaggi di una sitcom strampalata e scorretta che ci dispiacerebbe
vedere in poltrona. Questo volume, un breve assaggio delle stranezze
di cui sono capaci, è però un episodio pilota nemmeno troppo
soddisfacente.
Cosa
accadrebbe se l’America rurale dei romanzi di Kent Haruf
incontrasse i temi della fantascienza? Tales from the Loop,
serie antologica distribuita su Amazon Prime Video, sembra nascere da
una contaminazione simile. Il risultato è un esperimento poetico e
incantevole, che non regala né incastri né spiegazioni istantanee,
ma immagini di una bellezza tanto straordinaria da commuovere. Gli
otto episodi sono dei mediometraggi pressoché autoconclusivi che
ruotano attorno alle vicende della famiglia di Jonathan Pryce e
Rebecca Hall: suocero e nuora sono ai vertici di una
misteriosa azienda che gioca con scienza e magia nel sottosuolo di
un’imprecisata cittadina. A occhio e croce siamo negli anni
Ottanta, ma non aspettatevi colori e canzoni a tema: la fotografia
avvolge con le sue sfumature tenui, infatti, e la colonna sonora è
un brivido continuo garantito dal talento di Glass. Sui poster, inoltre, s’intravedono dei bambini che corrono e
a torto si potrebbe pensare a una riproposizione di Stranger
Things: niente di più sbagliato. I racconti che compongono la
serie vivono di suggestioni e piccole idee, di pelle d’oca. Molto
tristi, a ben vedere, mettono però l’anima in pace come soltanto
alcuni autori sanno fare. Sullo sfondo di un Paese bellissimo e
malinconico, in cui perfino la fantascienza non fa inutili
schiamazzi, giacciono abbandonati vecchi robot e carcasse di
marchingegni. Con ritmi lenti e immersivi veniamo a
conoscenza di una bambina la cui casa è stata risucchiata dal cielo;
dell’amicizia tra due ragazzi al centro di un classico scambio di
corpi; di un primo amore così spasimato da fermare il tempo; di un
nonno alle prese con la malattia, di un padre con le sue ossessioni,
di un custode con un triangolo omosessuale; infine di un’isola
deserta che ospita un mostro e di una riconciliazione che supera i
fiumi del tempo. Mancano le corrispondenze e gli incastri, le vicende
restano piuttosto slegate, ma il dettaglio non impedisce di
apprezzarne la bellezza complessiva. Lo spettatore è chiamato ad
astrarre, a contemplare. A immergersi e basta, senza chiedersi mai se
toccherà il fondo; se arriverà a riva. Tales from the Loop,
amata più del previsto, è il non-luogo dove arrivano la
fantascienza e i mezzi televisivi. Dove arriva la nostra emozione, e
per restarci. (7,5)
Stephen
King non è nuovo alle pessime trasposizioni. Le eccezioni, anzi, si
contano sulle dita di una mano. Come da tradizione, The Outsider
era già stato opzionato per una miniserie a scatola chiusa: per
fortuna, arrivato in libreria, il contenuto era di quelli belli. Al
tempo della lettura, infatti, questo mi era parso un grande ritorno.
Un mix tra noir e horror, sorretto da un cast di personaggi
memorabili. Come poteva la HBO, sinonimo di qualità, fare male? I
pareri degli altri spettatori vi racconteranno un’altra versione
della storia: le otto puntate, con lo zampino di Jason Bateman, sono
state accolte con il favore di pubblico e critica. Persone, nella
maggioranza dei casi, che conoscono poco lo stile del Re e che sono
passate alla trasposizione senza prima approfondire la lettura. Io,
da fan della prima ora, ne sono uscito deluso e tremendamente
annoiato. Ho spalmato la serie in oltre un mese di visione. Sebbene
fedele nei fatti – la trama e lo svolgimento sono identici: dopo il
sanguinoso omicidio di un bambino, la polizia fa i conti con l’enigma
di un colpevole sin troppo facile da incastrare –, The Ousider
è la versione ingrigita, rallentata e appiattita della storia
originale. Mancano le citazioni interne, il famoso gusto pulp
dell’autore, l’ironia bramata perfino nelle situazioni più
cruente. I personaggi, serissimi, sono condannati a un anonimato che
li rende irriconoscibili. Non ho voglia di riportarvi nemmeno i nomi
dei membri del cast, a tal punto mi hanno lasciato indifferente, ma è
emblematico il caso di Holly: già presente nella trilogia di Mr.
Mercedes, su carta era la risposta femminile a Sheldon Cooper.
Distaccata, goffa e geniale, nella serie è tutt’altro: una
consulente pensierosa e immusonita, interpretata dalla comunque brava
Cynthia Erivo, diversissima dalla controparte cartacea non soltanto
per il dettaglio trascurabile del colore della pelle. Lentissima, la
serie fa svogliatamente il verso ai toni di True Detective. E
la deriva paranormale, quando infine si palesa, finisce per apparire
soltanto più stonata. Stravolto spesso in fase di sceneggiatura,
Stephen King sembrerebbe essere stato più fortunato in quest’occasione.
Meno maltrattato che in altre produzioni, tuttavia, raramente è
stato così frainteso. (4,5)