giovedì 30 settembre 2021

Recensione: I sette mariti di Evelyn Hugo, di Taylor Jenkins Reid

| I sette mariti di Evelyn Hugo, di Taylor Jenkins Reid. Mondadori, € 20, pp. 413 |

«Io sono grande, è il cinema che è diventato piccolo». Con questa frase, una delle battute più famose della storia del cinema, il film Viale del tramonto dava voce allo struggimento di una diva del muto: tagliata fuori dopo l'avvento del sonoro, si rifugiava nella follia. Biografia immaginaria di un'attrice degli anni Cinquanta, I sette mariti di Evelyn Hugo mi ha ricordato a tratti il capolavoro di Wilder: disamina impietosa dello star system, descrive gli aspetti più oscuri di Hollywood e si articola come una lunga confessione. In un salotto dell'Upper East Side, Monique – giornalista inesperta e sfortunata in amore – annota le memorie di una star sulla soglia degli ottanta. Le unisce un segreto: Evelyn ha tanto da dire, e qualcosa di orribile da farsi perdonare. Sempre sulla cresta dell'onda, in grado di passare dal rigore dei film in costume ai nudi della Nouvelle Vague, è diventata iconica per il suo seno prosperoso e per la chiacchierata vita sentimentale.

Hollywood ha proprio questo, di speciale: è sia un luogo sia uno stato d'animo.

Originaria di Cuba ma cresciuta a Hell's Kitchen, si è resa protagonista di un'ascesa impareggiabile. I suoi partner non sono stati altro che i gradini della sua scalata. Ambiziosa, manipolatrice e potente, ha rifiutato le etichette di moglie e madre, anteponendo la carriera al privato. Ha fatto sesso in cambio di ingaggi, ha abortito per non avere intralci, si è prestata ai matrimoni di facciata e alle strategie. Continuamente prigioniera di un ruolo, ormai anziana, si domanda come sarebbe stata un'esistenza normale. Ha dimenticato lo spagnolo e sé stessa. E ha tentato di ritrovarsi, infine, mentre affioravano le prime rughe, i capelli bianchi, i ruoli mediocri, il desiderio di un ritocco estetico, i ricordi. Quali sono state le sue rinunce? Soprattutto, chi è stato il suo vero e unico amore? Incalzante e scorrevole come una sceneggiatura, il romanzo di Taylor Jenkins Reid è una lettura lontana dalle mie, ma che proprio per questo mi ha portato lontano: fino alla Los Angeles degli anni d'oro. Distante dall'agiografia, propone un ritratto che a torto immaginavo più adolescenziale, più blando. Evelyn, invece, è un'antieroina di rara complessità: uno squalo dal forte spirito imprenditoriale, capace di abbracciare ruoli controversi e posizioni scomode.

Se è vero che esistono tanti tipi di anime gemelle, allora tu sei una delle mie.

Ambigua, così com'è ambiguo il rapporto che si instaura con la sua biografa, vive la solitudine straziante di chi ha assistito alla dipartita di tutti i propri cari. È sopravvissuta agli amici e agli amori, e ogni uscita di scena – per quanto annunciata – è un puntuale colpo al cuore. Costellata di trionfi, tragedie e bugie, la sua storia parla con coraggio anche di identità sessuale: nella carrellata di personaggi proposta dall'autrice, infatti, spiccano Harry, un produttore da salvare dallo stigma dell'omosessualità, e Celia, compagna di set unita a Evelyn da molto più di una buona amicizia. Rock Hudson, intanto, muore di AIDS; Elton John fa coming out. Ci si può nascondere pur restando sotto gli occhi di tutti? È stata forte la tentazione di cercare notizie aggiuntive su Evelyn e gli altri. Appaiono così realistici, infatti, che rattrista il pensiero che le pellicole citate siano pura invenzione. Dopo aver riposto il romanzo con un groppo in gola, avrete voglia di rispolverare i film di Marilyn Monroe (suoi i capelli biondi), Liz Taylor (suoi i matrimoni turbolenti) e Jean Seberg (sua la parentesi francese con Godard), nonché di suggerire la conoscenza di questi sette mariti agli appassionati della settima arte.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Billie Holiday – Strange Fruits

sabato 25 settembre 2021

Recensione: Il nostro meglio, di Alessio Forgione

| Il nostro meglio, di Alessio Forgione. La nave di Teseo, € 17, pp. 288 |

Lo avevamo conosciuto con Napoli mon amour, un romanzo di formazione che omaggiava un capolavoro della Nouvelle Vague ma che brillava per lo sguardo neorealista. Reduce da una candidatura al premio Strega, Alessio Forgione torna in libreria e ritrova, a sorpresa, una vecchia conoscenza: Amoresano, protagonista del suo esordio e suo alter-ego. Dopo avercelo raccontato irrequieto e smarrito, in preda alla disperazioni delle ambizioni frustrate, questa volta fa un passo indietro. Riavvolge il nastro. Il nostro meglio si svolge qualche anno prima.

Riprendo a camminare. Percorro via Benedetto Croce e guardo i vestiti e le facce delle persone che mi vengono incontro e mi superano e continuano per la loro strada. Penso che la cosa che più mi piace di Napoli è che mi somiglia e che Napoli è come me: stanca, che ancora si muove e procede, verso dove non si sa, ma procede.

Ventenne, iscritto a scienze politiche, Amoresano è giovanissimo e ancora all'oscuro degli anni che lo aspettano. Nonostante tutto, però, non appare spensierato. Il romanzo, infatti, racconta a ritroso il suo primo dolore: la malattia della nonna. Si può elaborare un lutto quando non è ancora avvenuto? Malinconico per natura, il protagonista è un novello Holden che sfugge alle lacrime cercando dappertutto distrazioni. Frequenta amici e ragazze, va in gita sui monti abruzzesi e, soprattutto, passeggia per dimenticare: tutt'intorno c'è una città brulicante di turisti, drammi e stranezze, con gente che si schianta dai balconi e matti che fanno il bagno nelle fontane. Si può posticipare l'inevitabile? Strutturato come un implacabile conto alla rovescia, il romanzo mescola passato e presente per ingentilire la tragedia del cancro. Ma mentre il passato è dolcissimo, il presente è di una cupezza intollerabile: la pelle della nonna ingiallisce, aumentano i dosaggi di morfina e la malattia, come nell'ultimo romanzo di Anna Giurickovic Dato, diventa la protagonista assoluta. Mai come in questo caso, allora, mi è possibile dividere il romanzo in due parti: individuare ciò che mi ha appassionato e ciò, invece, che non mi è piaciuto.

Penso che forse, dopo che tutto è finito, delle persone ti mancano pure le case dove le hai vissute.

Il nostro meglio è bello, è vincente, è mio, quando porta in scena la coralità della famiglia: tipicamente napoletana, e perciò popolosa e caotica, accoglie bugie a fin di bene, tenerezze e moine. All'oscuro della sua sorte, la nonna è un vulcano di energia: si vanta della carriera universitaria del nipote, a onor del vero non troppo brillante, e raduna il parentado per quelle festività dall'allegria un po' forzata. Gli andirivieni di Amoresano, invece, mi sono parsi scollati dal resto: appesantito dai suoi pensieri esistenzialisti, il giovane si trascina poco convinto tra le prove della band (con l'amico Angelo che sogna, intanto, di partire per Londra) e due flirt che portano a un nulla di fatto (il primo con Maria Rosaria, tabaccaia con il pallino delle poesie tristi, e il secondo con Anna, barista pronta a svelargli le vedute della bella Procida). Ritratto di famiglia con tempesta, Il nostro meglio mi ha ricordato con emozione le estati dai miei nonni: quando alla controra toccava andare a letto, anche soltanto per riposarsi gli occhi. Ma questo Amoresano più giovane e più errabondo non mi ha ricordato, purtroppo, la bellezza struggente del nostro primo incontro. Sono tornato a salutarlo a Napoli: la città era lo splendore di sempre, ma non è stato amore.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Pino Daniele - Quando 

lunedì 20 settembre 2021

Recensione: Randagi, di Marco Amerighi

| Randagi, di Marco Amerighi. Bollati Boringhieri, € 18, pp. 400|

Ci sono uno studente italiano, un gigolò francese e una cinefila madrilena. Sembrerebbe l'inizio di una barzelletta, come afferma a un certo punto uno dei protagonisti, se non fosse che c'è poco di che ridere della storia di questi vuoti a perdere dalle esistenze parallele. Affetti dallo stesso disorientamento, forse in attesa di un miracolo, si muovono tra Pisa e Madrid nei primi anni Duemila. Un po' sopra le righe, all'occorrenza sanno reinventarsi. Prendete Pietro, ad esempio: fresco di conservatorio, riccioluto e in sovrappeso, ammazza il tempo con i videogiochi e vive all'ombra del resto della famiglia – una mamma ipocondriaca, un padre pieno di debiti e un fratello, l'indimenticabile Tommaso, che al contrario suo eccelle nello sport e negli studi. Da un lato fragilissimo, dall'altro sin troppo consapevole delle proprie potenzialità, il ventenne fugge da una presunta maledizione familiare, dal dolore, dal futuro e, soprattutto, da sé stesso. È vero, infatti, che tutti gli uomini della famiglia Benati sono destinati a scomparire in circostanze misteriose?

Ti è mai capitato di aver desiderato così tanto una cosa, Pietro, che quando l'hai ottenuta non avevi più le energie per esserne felice?

In erasmus in Spagna – per perfezionare gli studi, non per fare sesso –, divide la casa con il primo di una strampalata galleria di personaggi: Laurent. Bisessuale, fumantino e sempre mezzo nudo, l'expat francese con un passato da surfista sbarca il lunario rendendo felici attempate signore. E poi c'è Dora, conosciuta a una festa nell'appartamento di amici di amici: italiana per metà, porta il nome di un prode condottiero, restaura pellicole cinematografiche, legge Sylvia Plath, dice un sacco di parolacce e nasconde una specie di guasto dentro. Innamorato, Pietro la segue – non visto – lungo le strade affollate, a lavoro, nei musei in cui la ragazza si ferma a contemplare i capolavori di Hopper. Tutt'intorno ci sono la musica punk, salotti popolati da accademici radical chic, gli attentati terroristici dell'Eta. Randagi somiglia a un hangover a casa di sconosciuti. Quando dopo una festa ci si sveglia a casa d'altri e, imbarazzati ma ciarlieri, seminudi, si fa colazione insieme condividendo vita, morte e miracoli davanti a un piatto di uova all'occhio di bue. Cosa importa: non ci si rivedrà mai più. O forse sì?

Non hai mai l'impressione che sia tutto scritto e che l'unica cosa che ci resta da fare sia avanzare sui binari che qualcun altro ha costruito per noi? A me capita così spesso che certe volte non capisco se sono io a vivere la mia vita o qualcun altro.

Arrivato in libreria alla fine dell'estate, tra le lodi dei padrini Veronesi e Missiroli, potrebbe diventare uno dei romanzi più chiacchierati da qui alla prossima stagione dei premi. Tragicommedia rocambolesca vicina al già vittorioso Colibrì, a tratti mi è parsa profondamente mia; a tratti, invece, piuttosto forzata per via delle troppe digressioni, delle parentesi surreali e di una dimensione corale non sempre funzionale. Al suo secondo romanzo, Marco Amerighi dimostra di avere carattere da vendere: la sua prosa brilla per ironia, freschezza ed efficacia, e accoglie tra le pagine email inviate dalle Ande, biglietti e cartoline. In un'era pre-Covid, racconta la bellezza delle amicizie lampo, i grandi amori e quei dolori, purtroppo, più grandi ancora. Prende avvio con un nonno scomparso durante la guerra di Eritrea e giunge, infine, a una convention di sosia in quel di Viareggio, dove Pietro rischia di essere sodomizzato da un Lenny Kravitz caucasico. Come si passa da un estremo all'altro? Dove vuole andare a parare l'autore? Non credo di averlo capito, sballottato di qua e di là da questa lettura tanto coinvolgente quanto ondivaga. Per fortuna, la casa di Pietro affaccia su Piazza dei Miracoli. E c'è la torre di Pisa, alta e tutta storta, a restituirci una parziale visione d'insieme – alta e tutta storta –, il senso dell'orientamento e una domanda: in quale direzione è il mare?

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Nomadi – Io vagabondo

lunedì 13 settembre 2021

Recensione: Lei che non tocca mai terra, di Andrea Donaera

| Lei che non tocca mai terra, di Andrea Donaera. NN, € 17, pp. 240 |

C'era una bestia nel folgorante esordio di Andrea Donaera. E c'è anche qui, pericolosa ma dormiente, nascosta sotto le palpebre chiuse di Miriam. Gli occhi bellissimi e devastati della diciottenne in coma, infatti, celerebbero una scintilla maligna. O così mormora qualcuno, in una Gallipoli che lontana dai bagordi estivi si trasforma in una specie di Twin Peaks. In una camera da letto vista mare, in cui si respira un miscuglio insopportabile di detergente e polpette fritte, i superstiti si affidano, scettici, alla cosiddetta talking cure: parlano alla ragazza addormentata. E hanno punti di vista così diversi e distinguibili che ti verrebbe da leggerli a voce alta, per dar loro vita come in un podcast.

Ma l'amore è più forte del male. No?

Ci sono Lucio, il sindaco del paese, che nel suo italiano stentato non riesce a trattenere la preoccupazione verso le sorti dell'unica figlia; Mara, l'algida moglie del Nord, che scocca bestemmie contro la famiglia del marito; Gabry, l'amica bolognese, che registrandosi con la webcam ricorda i giuramenti di sangue e le piccole iniziazioni sessuali. Infine Andrea, che porta il nome dell'autore e, romantico per natura, canta Miriam come fosse una novella Beatrice: i due si sono incontrati in un bar, hanno consumato un brusco amplesso in macchina e, al principio del loro amore, sono stati interrotti sul più bello. L'innocenza del loro sentimento mette in moto un'antica faida familiare le cui radici sono intrecciate all'inquietante folklore locale. Figlio di un padre suicida e di una madre gravemente depressa, Andrea è diventato l'apprendista di Papa Nanni, esorcista dalla lingua melliflua convinto che la ragazza sia il demonio. Diviso tra spiritualità e pulsioni terrene, il giovane tesse un dialogo impossibile con la vagheggiata Miriam: nient'affatto angelica, ma al contrario curiosa e ribelle, questa bella addormentata è tentata dall'idea del sonno eterno. Perché aprire gli occhi? Perché mettere nuovamente i piedi a terra? Cosa troverebbe al risveglio, se non il solito paesedimerda?

Penso che è così che nascono le ossessioni: quando cerchiamo qualcuno che ci possa salvare, e ci convinciamo di averla trovata, poi, quella persona. Per me tu sei quella che può salvarmi. Anche se non è vero, anche se magari sono io, in realtà, a dover salvare te: a me basta credere che tu sei la salvezza mia – l'ossessione mia.

Lei che non tocca mai terra è l'incisione di un verso goth metal su una lapide bianca. In un Salento eccezionalmente oscuro, dove l'inverno porta il fango, la neve e le labbra spaccate a sangue, gli schizzi d'acqua salata diventano tutt'uno con le lacrime d'angoscia versate dai protagonisti. Ai piedi del letto di Miriam, travolta da un pirata della strada, elaborano in modi diversi il medesimo dolore. E tentano di venire a capo di un mistero più grande di loro, che forse risale alla guerra in Albania: quando una strega incise sulla sabbia le orme di un uomo e lo maledisse per sempre. Il sangue infetto può essere ereditato? Passare di vena in vena, di generazione in generazione, fino a far marcire il corpo e lo spirito? Spaventoso e dolcissimo, l'autore pugliese il cui cognome è un anagramma si supera. Questa volta è il direttore d'orchestra di una polifonia dalla potenza sconcertante: una fiaba horror di tentazioni irrinunciabili, eterni ritorni e fragorosi big bang, che nel mentre fa strage di madonne e congiuntivi. Questa volta è Poseidone in persona: in balia delle sue onde grigio piombo, tra picchi di tenerezza e abissi di dolore, ti annoda strette strette le budella in preda a un irrinunciabile mal di (a)mare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gaudiano – Polvere da sparo

martedì 7 settembre 2021

Recensione: Macello, di Maurizio Fiorino

| Macello, di Maurizio Fiorino. Edizioni E/O, € 15, pp. 148 |

Ha un titolo forte e una copertina spudorata, di corpi avvinghiati in preda alla passione di una sveltina. Il nuovo romanzo di Maurizio Fiorino, fotografo e scrittore calabrese, urla carnalità sin dal primo sguardo. Prende le mosse in una macelleria della profonda provincia meridionale. E racconta la carne delle bestie appese ai ganci a sgocciolare. Quella, butterata, di due protagonisti brutti e spigolosi. Quella, spasimata e infine negata, che fa gola e vergogna al tempo stesso. Carne fredda, preservata tra i rumori insostenibili di una cella frigorifera. Carne al sangue. Stopposo e sgradevole, soprattutto se confrontato con l'adorabile protagonista del precedente Ora che sono Nato, Biagio è il figlio del macellaio del paese. Orfano di madre, cresciuto da un papà taciturno e umorale, il protagonista – all'inizio del romanzo bambino, al suo termine uomo – boccheggia in un microcosmo stagnante in cui è sempre estate. I pilastri su cui è fondato: la virilità, il silenzio, l'onore.

Avevo quasi sedici anni e nessuno che mi baciasse gli occhi mentre dormivo.

Confinato nel retrobottega, un po' come il Marcus di Indignazione, Biagio si nutre di sguardi spenti e odori pungenti, di repulsione e attrazione. Indossa vestiti usati, scarpe rotte, e ha una cartomante per balia – Lia, che ritiene che sulla famiglia del protagonista gravi il malocchio – e un travestito, Vittorio, per adulatore. Laggiù ognuno ha un vizio, ognuno ha un dolore inconfessato. Il più delle volte i personaggi contribuiscono a ferirsi vicendevolmente, secondo le regole della sopraffazione. Anche Biagio, dunque, ha un vittima su cui scaricare le proprie frustrazioni: Sara, compagna di scuola e moglie mai realmente amata, che lo distoglie dalla fascinazione verso l'enigmatico Alceo, un giovane pittore che coglie a colpo d'occhio l'essenza del protagonista. Lo dipinge, infatti, come un funambolo sospeso nel vuoto. Rinunciando questa volta ai toni calorosi della commedia all'italiana, Fiorino torna con un romanzo in cui non ci sono né speranza né redenzione. Nerissimo, senza fondo, non somiglia granché agli slanci della sua copertina: al contrario, infatti, è una vicenda trattenuta, inesplosa, che ammonisce sulle conseguenze tragiche della repressione e dell'incomunicabilità.

Sei tu che devi restare. Io esisto qui, non esisto da nessun'altra parte.

Breve, con capitoli di poche pagine, Macello avrebbe potuto sviluppare meglio alcune situazioni, alcuni personaggi. O forse una storia di maggiore respiro avrebbe fornito all'autore soltanto gli strumenti per inserirvi altri dolori. Gelido, il figlio del macellaio è un bestione che avverte senza sentire: da un lato animalesco, dall'altro trattenuto, cova in sé un ribollire di sentimenti confuso e oscuro. Ciò che abita nel suo petto irsuto non troverà voce. Biagio prende a pugni le carcasse di maiale, si esercita alla buona per gli incontri di pugilato, ma nel frattempo sogna le carezze di un padre brigante. Ha appena la terza media, il cuore grande, la vescica piccola e un cuore a soqquadro. In fuga da un vecchio paese sepolto dalle piogge, si trascina stanco da un'esistenza all'altra e si aggiunge, inevitabilmente, alle schiere di fantasmi dell'alluvione. Il mare è lontano, il progresso degli anni Ottanta alle porte. La diffusa rassegnazione lo imprigiona, ma al contempo legittima quasi il suo stare al mondo. La speranza, allora, è una e una soltanto: sempre la stessa. Andarsene. Ma in certi paesi è più semplice scomparire.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Mannarino – Un'estate

giovedì 2 settembre 2021

Recensione in anteprima: La violenza del mio amore, di Dario Levantino

La violenza del mio amore, di Dario Levantino. € 16, pp. 300 |

Per molti sarà come ritrovare un vecchio amico. Per me, invece, è stata una prima volta. Ho conosciuto Rosario Altieri soltanto ora, con il terzo romanzo che lo vede protagonista nel vertiginoso passaggio all'età adulta. All'inizio ero preoccupato. Mi sarei rovinato la lettura senza aver letto i lavori precedenti di Dario Levantino? Sarei rimasto estraneo ai drammi dei protagonisti, ai loro destini? Per fortuna mi sono accorto prestissimo che La violenza del mio amore, così come i precedenti, oltre a essere stato pensato come autoconclusivo, è uno di quei romanzi fatti non tanto di intrecci quanto di personaggi. Altrettanto in fretta ho colto la sensibilità di Levantino, la sua saggezza, e ho compreso come mai non riesca a staccarsi da questo protagonista al punto da descriverne la crescita romanzo dopo romanzo: a Rosario, infatti, si vuole un bene istantaneo. Nato e cresciuto a Brancaccio, il diciassettenne orfano nutre un sogno purissimo: creare una famiglia con Anna, coetanea che gli annuncia l'arrivo di una figlia. Saranno in grado di fronteggiare le responsabilità genitoriali, se vivacchiano a tempo indeterminato nello sgabuzzino della parrocchia e mettono al mondo una bambina, Maria, gravemente malata?

Non mi lamento, per me la vita è la mortale che ti insegna la favola del dolore. E a me il dolore ha insegnato che la guerra si vince sognando. Mi chiamo Rosario. Quando avevo diciassette anni e undici mesi, Anna è venuta da me con la pancia gonfia di amore e i vestiti stretti. Potevamo perdere la guerra. E invece abbiamo sognato.

Il Rosario che ho conosciuto qui, ora, è un giovane uomo dalla doppia vita. Mentre da un lato lotta contro le ingiustizie del sistema scolastico, cercando invano di farsi valere in un liceo di prof sciacalli e compagni indifferenti, dall'altro sperimenta precocemente la disperazione dei novelli miserabili. È mai possibile che per ottenere una casa popolare tocchi firmare un patto di sangue con i Mandalà, i boss del rione? Quanto frustrano e addolorano il declassamento di Anna, disconosciuta nel frattempo dalla famiglia, e la consapevolezza di non essere un compagno esemplare? Perché non trasferirsi vita natural durante in quella romantica barca rovesciata, su una spiaggia segreta in cui c'è spazio anche per il loro cane, Jonathan? Studente e faccendiere, Rosario si muove lungo il pericoloso discrimine che separa moralità e giustizia. All'apparenza classica vicenda di piccola criminalità e inquietudine adolescenziale, in realtà il romanzo di Levantino è molto di più. Grazie a un grande talento narrativo, unito alle capacità didattiche dell'autore – insegnante di liceo a Monza –, La violenza del mio amore riesce a parlare di riscatto anche nell'immobilismo della profonda Sicilia.

Io, Anna e Jonathan siamo un nido. Anna è la madre di tutti. Dall'interno ci nutre, toglie a lei per dare a noi. È questa la violenza dell'amore: esaurisce chi lo dona, saziandolo; sfama chi ne necessita, affamandolo.

Amaro senza essere pessimista, cupo senza perdere l'incanto infantile, il romanzo fa tesoro delle contraddizioni di Rosario e della sua Palermo grazie a uno spirito fanciullesco, vitale, candido. Il quartiere di Brancaccio è dipinto con nitidezza cinematografica, anche se sono le descrizioni degli odori del mercato di Ballarò a stregare. Rosario, sorpreso in una lunga odissea per la sopravvivenza quotidiana, parla con un'irresistibile inflessione dialettale, ma centellina le parolacce e si eleva con la lettura di Steinbeck, Bukowski e Foscolo. Pulito dentro e fuori, bello in un quartiere brutto, lotta contro le ingiustizie sociali e ripone fiducia in battaglia, un insegnante alla Attimo fuggente, e in un prete che ho immaginato ispirato a Padre Puglisi. Il ritratto di un piccolo eroe controcorrente diventa un quadretto di famiglia che fidelizza, fa stringere i denti e incrociare le dita. Una volta salutatolo, ho provato nostalgia per Rosario. Ma i romanzi precedenti da recuperare e chissà quando, un altro capitolo da aspettare. Quando ritornerà a raccontare la bellezza, lo squallore e le contraddizioni che vi sono nel mezzo, mi farò trovare pronto.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Zucchero – Come il sole all'improvviso