mercoledì 29 aprile 2020

Recensione: Trilogia di New York, di Paul Auster

| Trilogia di New York, di Paul Auster. Einaudi, € , pp. 314 |

Prima o poi dovevo conoscerle di persona. Le storie del prolifico Paul Auster, l’ebbrezza del viaggio in solitaria. In periodo di fermo, per di più, come rinunciare all’opportunità di un volo diretto a New York? Per l’occasione mi avrebbe fatto da guida lo scrittore americano secondo soltanto a Woody Allen nel raccontare le leggende della Grande Mela. Ma a tradimento sono stato lasciato a me stesso in una città straniera, chiamato a districarmi tra indizi fumosi e parole sibilline: lo ammetto, mai avuto grande senso dell’orientamento. Soprattutto per venire a capo di romanzi come questi: ambiziosi e ostici, dalle curiose atmosfere lynchiane, dove tutti parlano per enigmi e sembrano avere fini imperscrutabili. Nonostante ne riconosca il genio, semplicemente, il postmodernismo non fa per me. 
Trilogia di New York mi è parso un gioco di specchi funambolico e sottile, ma piuttosto fine a sé stesso. E Paul Auster un narratore magistrale, dalle capacità retoriche incontrovertibili, seppure alle prese con del materiale oscuro e fumoso. Come reagite voi davanti a storie del genere? Rispondete al richiamo dell’irrisolto con la fascinazione o con l’irritazione? Alla fine di una lettura ben più faticosa di ciò che le sue sole trecento pagine suggerivano, me lo sono chiesto e richiesto contorcendomi senza pace tra le lenzuola. Se parlano di New York come della città che non dorme, in fondo, un motivo c’è. Vittime come me dell’insonnia – e dell’ossessione, dell’ambizione e della gelosia – anche i protagonisti di questi tre racconti non riescono a chiudere occhio. Inappaganti se letti separatamente, ma connessi in maniera meno coerente del previsto, in comune hanno il tema della ricerca e qualche dettaglio: oggetti e nomi, che di volta in volta assumono però nuovi ruoli e significati.

Scrivere è un mestiere per solitari. Ti prosciuga. In un certo senso, lo scrittore non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente.
Nel primo racconto, bellissimo, uno scrittore di gialli riceve una telefonata: scambiato per un investigatore privato, fa luce per sfida sulle vicende della famiglia Stillman. Lo aspetta il delirio – a cavallo tra linguistica, teologia e narratologia – di un professore in cerca dell’idioma di Dio. Si rievocano il mito della torre di Babele e la gestazione del Don Quisciotte, e Paul Auster compare genialmente anche come attante.
Nel secondo, noir ambientato negli anni Quaranta, un detective è incaricato di spiare un tale dalla finestra del terzo piano. L’uomo sotto sospetto, però, non fa altro che scrivere o leggere il classico di Thoureau. Il lavoro dell’osservatore è ossessivo e solitario; gli lascia troppo tempo per stare in compagnia del peggiore degli avversari: sé stesso. Se tutti i personaggi hanno nomi di colori – Blue, White, Black, Brown –, è alto il rischio che le identità si mescolino in una tavolozza tanto confusa quanto imprevedibile.
Nel terzo, infine, un critico dalle aspirazioni frustrate è chiamato a giudicare la produzione manoscritta del migliore amico scomparso. Nel garantirgli la fama postuma, il protagonista si addentrerà a tal punto nella vita dell’altro da rubargli la moglie, il figlio, la madre. Peccato che l’intreccio si concentri soprattutto sul lavoro filologico e redazionale del critico, finendo per ricordarmi le noie della mia tesi di laurea. 

New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore.
Trilogia di New York parla di taxi gialli lanciati all’inseguimento; travestimenti ed equivoci da vaudeville; saltimbanchi, accattoni e musicisti. Con il sole e con la neve, con la luce e col buio. All’ombra transitoria di un simbolo che ormai non c’è più: le Torri Gemelle. 
È un libro sui libri. È un libro sul desiderio comune di scomparire, scivolando dietro il drappo della finzione. È tante altre cose che non ho colto fino in fondo. So dirvi cosa non è però: non un cosiddetto page turner, né una lettura d’evasione. Mi ha trovato smarrito e impreparato, e forse lo sarei stato sempre: con le vicende sospese, infatti, ho un problema. Preferisco quelle organiche e coerenti, senza vuoti da riempire. Tutte le altre mi affascinano moltissimo all’inizio, e dopo un po’ mi stancano. Qui sono andato in visibilio per Città di vetro, ho faticato con Fantasmi, sono arrivato già insofferente alla Stanza chiusa.
Nonostante tutto, resta il desiderio di riprovarci con Auster: un talento simile va scandagliato meglio alla prossima occasione. E la folle tentazione di andare a New York, quando tutto sarà finito, per cercare di  risolvere in prima persona un giallo che qui non trova risoluzione.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Frank Sinatra – Strangers In the Night

venerdì 24 aprile 2020

Pillole di graphic novel: La giusta mezura | Una sorella

La quarantena è tempo di sperimentazioni. Approfittando delle promozioni Bao Publishing – fino al 3 maggio trovati alcuni ebook in catalogo a € 1,99 –, mi sono cimentato con due cose che a torto mi hanno sempre trovato un po’ restio. Le graphic novel e la lettura in digitale. Scoprite com’è andata, e approfittate anche voi dei pro della solidarietà digitale: magari per ricredervi.

| La giusta mezura, di Flavia Biondi. € 19, pp. 158, ★★★★|

È una storia che tocca le corde profonde di quelli che hanno fatto i miei stessi errori di valutazione e il mio stesso percorso accademico. Ci avevano avvisati all’immatricolazione: le discipline umanistiche non sfamano. Ma come frenare una passione? Mia e Manuel, un decennio fa, sono arrivati nella città universitaria per eccellenza con il sogno di vivere della loro vocazione. Lei ha studiato Belle arti, lui Lettere. Ormai ventinovenni, si ritrovano a vivere con altri quattro coinquilini in un appartamento in nero e ad arrangiarsi. Hanno rimandato a data da destinarsi la vita che spetta alle coppie adulte. Mentre Mia vive con frustrazione la routine lavorativa e sentimentale, Manuel è un gigante con la testa piena di sogni: vuole fare sul serio con lei, e sul web pubblica un romanzo cavalleresco che spera possa diventare un successo. Dolcemente vecchio stile, scrive degli struggimenti e delle tresche dei fittizi Decimo e Ludovica. Come vivrebbe la confessione di una sbandata, se Mia condividesse il bisogno di sentirsi ancora desiderata e viva? L’idealismo dell’uno può sposarsi con il pragmatismo dell’altra, senza che le loro personalità vengano annullate? Con tratti gentili e dialoghi che suonano verissimi, il talento di Flavia Biondi mi si è rivelato con una commedia dolce-amara che mi ha stretto in una domenica di pioggia. Mi hanno impressionato la verità dei gesti e delle parole – il nitore delle situazioni, infatti, è pari a quello di un film –; le descrizioni di una Bologna fatta di manifesti e porticati; l’affresco di una relazione resa nelle scaramucce e nell’intimità, combattuta tra egoismo e amor proprio. Il disagio generazionale ci ha trasformati in stelle singole: ognuno bada alla propria luce. La giusta mezura è il rischio da correre per brillare insieme. È la paura che si nasconde dietro il grande passo – quello più lungo della gamba – e il disarcionamento causato dai compromessi col partner.  È tutto ciò su cui le favole glissano: la parentesi tonda tra il principio e l’epilogo, che si colora qui della nostra incertezza.

| Una sorella, di Bastien Vivès. € 19, pp. 218, ★★★|

Tutti hanno conosciuto una di quelle estati che cambiano il corpo e la mente, la percezione di sé e degli altri. Per l’introverso Antoine succede a tredici anni. Lontano da Parigi, Antoine ha viaggiato con la famiglia al completo fino alla casa delle vacanze. Ammazza il tempo come facevo anch’io: disegni, cacce di granchi sulla battigia, corse in bicicletta, puzzle, insalate di riso consumate all’ombra degli stabilimenti balneari. Non ha messo in conto l’arrivo di Helene, un’amica di famiglia dalla presenza perturbante. Tre anni più grande di lui, il triangolo minuscolo del reggiseno, le sigarette e il vino rosso, il legame viscerale con lo smartphone, gli sguardi dei maschi di ogni età. Antoine, che con lei divide il letto a castello, non può frenare i bollori. Soprattutto quando lei gli chiede del primo bacio, lo accudisce, gli dà corda con i giochi e gli hobby. In Una sorella rivivono le stesse estati belle e spensierate del cinema francese: mi è tornato in mente, in particolare, l’ultimo film di Kechice. L’iniziazione passa attraverso i balli sulla spiaggia, i video pornografici sbirciati sul cellulare, il brivido di leccare dal medesimo gelato. Graphic novel dalle ambientazioni molto familiari, per me che ho sempre vissuto sulla costa, è la cronaca candida e universale della scoperta del sesso. Chi non potrà rispecchiarsi in Antoine; nei turbamenti e nei pensieri proibiti che gli mozzano il fiato; nel risveglio brusco da un sogno erotico che lascia al contempo tristi e col batticuore? L’ingresso di qualche scena esplicita non turba la delicatezza e l’incanto di Vivès. I suoi protagonisti trascorrono pochi giorni insieme e temono il momento della partenza: quando arriverà stringerà inevitabilmente il cuore, benché storie simili siano state raccontate in cent’altri romanzi di formazione. Ma l’aggiunta del disegno dà corpo e carnalità a un’estate come tante e come nessuna. E questo tormentone radiofonico tutto sole, cuore, amore appare comunque piacevole da riascoltare e canticchiare. 

mercoledì 22 aprile 2020

Quarte stagioni e storie vere: La casa di carta, This is us | Unorthodox, A Very English Scandal

Attualmente ha il primato di essere la serie più vista al mondo. Come da tradizione, sono in molti quelli che amano odiarla: cosa che capita ai successi di pubblico che, al contrario, non riscuotono il consenso unanime della critica internazionale. Accolta con più ferocia del solito, la nuova stagione di La casa di carta è senz’altro la peggiore delle quattro andate in onda, ma il dettaglio non giustifica la pioggia di critiche. Partito negativamente prevenuto, infatti, non mi sono accorto né di cali né di involuzioni. Nel bene e nel male, l’heist movie spagnolo resta il solito: un intrattenimento al cardiopalma, disimpegnato e dai ritmi vertiginosi. Otto episodi che volano, con tanto di irresistibili punte trash – le canzoni di Tozzi e Battiato cantate da un coro di frati fiorentini –, dove vengono subito riprese le fila delle puntate precedenti. Ma dopo lo svelamento di un paio di twist che ci avevano lasciati con il fiato sospeso – come se la caveranno due personaggi dati per morti? –, la serie si concentra sul prosieguo della rapina non aggiungendo nulla alle storie dei singoli personaggi. Una guardia di sicurezza in ostaggio si libera delle manette e semina il terrore. L’azione abbonda, le sparatorie pure, ma tacciono gli attanti: soprattutto i minori. Mentre Rio e Stoccolma restano a corto di battute, con Berlino ormai mostrato in flashback superflui soltanto per amore di fandom, a farci una bella figura sono la spietata Sierra e Nairobi – quest’ultima vero cuore della stagione. Benché si parli di lingotti da fondere, non tutto è oro. Ma l’intrattenimento, se non si è pretenziosi, comunque luccica. (6,5)

Con i Pearson la magia è sempre stata di casa. Ma non si confidava mica in un miracolo. Dopo una terza stagione poco entusiasmante, iniziava a esserci aria di crisi. Deluso, non ho visto la quarta stagione puntata dopo puntata. Ho lasciato accumularle, e nel mentre mi sono giunte all’orecchio voci di corridoio: dicevano che i Pearson erano tornati in pieno stile. Mi sono fidato, ma è servito pazientare. A parte l’introduzione di un paio di nuovi personaggi – cos'avevano da spartire un musicista ipovedente e una soldatessa con tutti gli altri? –, fino all'ottava puntata rari picchi. Quelli, accanto alle lacrime, sono arrivati nella seconda metà della stagione: allora la serie si rende protagonista di una ripresa impossibile. I livelli di scrittura tornano quelli dell’esordio. Gli attori, soprattutto Mandy Moore, sono da premi. Il cuore batte fortissimo. Kate affronta i problemi da neomamma, mentre il marito pensa a rimettersi in forma fisica; Kevin insegue il vero amore e rifugge le dipendenze; Jack, indimenticato, compare a spargere saggezza nei classici flashback. Ma questa, per me, è la stagione ad honorem di Rebecca e Randall: quelli che fanno sacrifici di cui nessuno si accorge; quelli che in silenzio tutelano l’ordine, l’equilibrio e si preoccupano degli altri. Cosa succederebbe se mollassero la presa? Il rischio di scontentare qualcuno, in nome di un bene maggiore, è alto. E allora mi sono rivisto in loro, che ci regalano malinconiche visite al museo o provanti episodi what if, e ci somigliano specialmente nelle imperfezioni; nelle ombre degli stati d’animo. Più umani del capofamiglia Ventimiglia, ormai beatificato. Finalmente, più noi. (8)

È la miniserie di cui tutti parlano. La storia di Esther sta commuovendo grazie alle emozioni suscitate dall’attrice principale. A diciannove anni, già moglie, la protagonista fugge: direzione Berlino. Se la cronaca della sua rinascita sembra già vista – troppo fiabesca, con tutti belli e ben disposti: personalmente ho storto il naso, soprattutto davanti a una vocazione musicale sbucata fuori dal cilindro –, i momenti migliori si nascondono nei flashback che svelano le peggiori sofferenze. Siamo a Brooklyn, in comunità che impone ancora legami e rinunce. Esther si sposa, e il rito nuziale è una sequenza inquietante. Esther è costretta a rasarsi i capelli e a indossare una parrucca, con il taglio immortalato in presa diretta. Esther ha problemi con il sesso, e i suoceri giudicano una donna dai figli che mette al mondo. Girata in yiddish – un misto di americano, tedesco ed ebraico –, la parentesi newyorkese sorprende per l’attenzione documentaristica. E si scontra con un prosieguo sì più positivo, sì più arioso, in cui è forte la cesura tra la storia vera e l’invenzione degli sceneggiatori. Meno lodevole di quel che si legge, a causa di qualche ingenuità in esubero, la miniserie informa comunque e rivela il talento straordinario di Shira Haas. Semiesordiente, si prepara a vincere il vincibile con una performance struggente, retta interamente dal gioco dei suoi occhi meravigliosi; non da meno il marito Amit Rahav, dolcissimo giacché vittima inconsapevole. Logorati da un senso di colpa intrinseco alla loro stirpe, i personaggi vengono a patti con la libertà e il passato in Germania: una vecchia scena del delitto che, per fortuna, qui si trasforma nello sfondo di una rivoluzione. (7)

Come il titolo promette, si tratta di uno scandalo molto all’inglese. E nell’atto pratico – scrittura, regia, recitazione – si conferma essere poi una miniserie molto all’inglese. Raffinata, ironica, confezionata con una professionalità vagamente regale. Recuperata dopo il colpo di fulmine verso la sottovalutata Years and Years – sceneggia la stessa penna –, si era già fatta notare alle premiazioni per menzioni e trionfi inaspettati. Su carta ispirava poco, però, e nei fatti poco mi ha detto. Sfortunatamente non mi interessava affatto conoscere questa storia vera. Jeremy Thorpe, parlamentare, deve proteggersi dalle accuse dell’amante Norman Scott: cosa direbbe l’opinione pubblica della sua omosessualità, e soprattutto del tentato omicidio che ha escogitato? Forte della regia da maestro di Stephen Frears e divisa in tre atti, perfetta nello stile e nella forma, senza grinze, A Very English Scandal ricorda un po’ l’assurdità di I, Tonya. A quegli intrighi, a quegli strafalcioni, a quelle intimidazioni grottesche, quasi non si crede! Eppure è tutto realmente accaduto, parola di Wikipedia. La visione, tuttavia, non lascerà strascichi. La ricorderò per i duetti tra Hugh Grant e Ben Whishaw – il primo, superbo, invecchia lontano dai cliché delle commedie romantiche; il secondo, eppure molto premiato, eccede troppo in smorfie – e per una constatazione quanto mai attuale: la realtà, a volte, supera l’immaginazione. (6,5)

lunedì 20 aprile 2020

Recensione: Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout

| Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout. Fazi, € 18,50, pp. 383  |

Mia carissima Olive, 
ti scrivo per dirti che ti ho finalmente letto. Pensavo di conoscerti a sufficienza, infatti, ma mi sbagliavo. Anni fa, di questi tempi, ho conosciuto la tua storia grazie alla stupenda miniserie che portava il tuo nome. Ma quattro episodi erano troppo pochi per contenerti. Tu, che sei incontenibile. Tu, che sei presente anche nell’assenza. Tra le pagine del premio Pulitzer Elizabeth Strout, è stato come incontrarsi daccapo. Ho dovuto riabituarmi al tuo caratteraccio, ai tuoi sbalzi d’umore e alle figure che orbitano intorno a te – in tutta sincerità, sei il sole –, anche se ricordavo bene le scortesie di quella Frances McDormand che ti ha interpretato così amorevolmente. Da anziano voglio essere proprio come voi. Ti rifiuti di scendere a patti con la tecnologia, sputi spesso sentenze, centellini le moine e i gesti d’affetto. Sei silenziosa, nell’amore e nella rabbia: lo sei nel dolore. Ingrigirai cullata da una radiolina transistor, solitaria e piena di senso del decoro: una macchia di gelato sul vestito, a un certo punto, diventerà il simbolo del tuo invecchiamento – sto forse perdendo i colpi, ti chiederai?

Non abbiate paura della vostra fame. 
Se ne avrete paura sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi.

Anch’io, come te, ho studiato per diventare insegnante. Nonostante vada dicendo che questo mestiere non mi piaccia, mi ha fatto riflettere il modo in cui gli ex alunni parlano di te. Dev’essere bello plasmare giovani menti, dev’essere bello lasciare il segno, benché tu sia la prof di matematica che nella vita di tutti i giorni mi avrebbe fatto pagare il mio scarso applicarmi. Spesso sono proprio loro, gli studenti, a nominarti. O i tuoi vicini di casa, le cameriere o le musiciste del pianobar, che compongono il coro polifonico che canta te, i pettegolezzi grandi e piccoli e la cittadina di Crosby, Maine. 
Preso d’assalto dai pensionati, che si trasferiscono sulla costa per respirare aria buona, il Maine fa da sfondo a incidenti degni di Stephen King e un’umanità sonnacchiosa ma irresistibile. L’autrice fa sì che diventi la cornice narrativa di ben tredici racconti: comprendono tradimenti, matrimoni e funerali, fughe e nuovi arrivi. C’è una donna che accoglie il genero armata di fucile, e un’altra che tollera il mal di vivere a furia di antiacidi. C’è perfino un omicidio brutale, con la famiglia dell’assassino che chiude gli scuri per sopravvivere alla vergogna. Sono frequenti i suicidi, inoltre, perché la malinconia del paesaggio nuoce alla salute dei più fragili. Sono sincero: qualche racconto sembra meno indispensabile di altri. In alcuni sei infatti una presenza incidentale, e per tutto il tempo mi sono ritrovato a torcermi in attesa di vederti svettare nella folla: robusta e appesantita, strizzata magari in un vestito con le stampe di gerani.

C’erano giorni, se lo ricordava, in cui Henry le teneva la mano mentre tornavano a casa, due persone di mezza età, nella pienezza degli anni. Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva. Ma ora lei aveva quel ricordo, un ricordo sano e puro. Forse erano il suo ricordo più puro, quei momenti sul campo da calcio.
Se fossimo in un film, tu non saresti la protagonista col nome di richiamo sul poster, bensì una di quelle caratteriste onnipresenti ma di basso profilo, di cui si finisce sempre per scordare le pellicole che hanno girato, ma che in silenzio fanno la differenza sulla riuscita generale. Eccoti infine, con accanto tuo marito Henry, farmacista adorabile proprio come lo ricordavo. Come faresti senza di lui? Soprattutto ora che vostro figlio è scappato dall’altra parte del Paese e, in combutta con un terapista, ti rinfaccia i torti peggiori? La colpa, da Freud in poi, è sempre delle madri? Ne hai di colpe, sì. A volte sei crudele e non te ne rendi conto. Ma agitata e cristallina come l’oceano, conosci momenti di calma che nella loro semplicità emozionano fino alle lacrime.

Quando tornò a casa gli telefonò. «Le piacerebbe pranzare insieme uno di questi giorni?». «Vorrei cenare insieme», rispose lui. «Mi darebbe qualcosa da aspettare. Se esco a pranzo, poi avrò ancora davanti il resto della giornata».
Sei una persona metodica: ti svegli alle sei, ceni alle diciassette, percorri a passeggio dieci chilometri sul lungofiume. Hai «le passioni e i pregiudizi di una campagnola», e nei vai fiera. E non pensi, invece, alle piccole esplosioni che condividi con lettori sconosciuti? A Henry, che ti abbraccia a sorpresa e ti aiuta a piantare i tulipani; ai bambini cresciuti che in strada ti ringraziano e ti riconoscono; allo spirito di osservazione che – a dispetto del pensiero di farla finita – ti fa realizzare che è impossibile diventare immuni alla bellezza del mondo? Così continui a coltivare la tua curiosità intellettuale, a compiacerti delle sciagure degli altri per ridimensionare le tue, a innamorarti delle cose e delle persone. In strappi alla regola liberatori e struggenti, che in questi giorni hanno reso il tuo romanzo una fuga dalla realtà, per quanto, a ben vedere, di realtà parli. E sapere che c’è un seguito ad attendermi – che leggerò più in là, con parsimonia – mi rende grato del tempo che avremo. Non smetti di insegnare nemmeno in pensione e io, sulle tue orme, non smetto di imparare. 
Mia carissima Olive, ti scrivo per dirti che in questo brutto periodo mi è successa una cosa bellissima: tu.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Elivis Presley - Love Me Tender

sabato 18 aprile 2020

Le serie TV che leggeremo: primavera 2020

Diavoli
17 aprile 2020
Lusso, omicidio, alta finanza. Se l’ambientazione scoraggiava su carta – l’omonimo romanzo è stato scritto dall’economista Guido Maria Brera –, la miniserie intriga con il suo cast internazionale e l'aria alla Wall Street. Al posto di Michael Douglas e Charlie Sheen, però, ci sono due bellissimi che faranno la gioia di ogni spettatrice. Nella gara di astuzia e fascino tra Patrick Dempsey e il nostro Alessandro Borghi – quest’ultimo alle prese con la lingua inglese, dopo le difficoltà del protolatino –,  chi avrà la meglio e chi andrà all’inferno?


Little Fires Everywhere
18 marzo 2020
La famiglia perfetta nel quartiere perfetto viene messa a soqquadro dall’arrivo di un’affittuaria che porta guai. Questa trama, forse, vi dirà qualcosa. Se n’era parlato di recente, con il romanzo di Celest Ng rispolverato per l’occasione. A quasi un mese dalla lettura e del debutto della miniserie, sarà forse giunto il momento di recuperare? I pareri positivi e le protagoniste d’eccezione, Reese Whiterspoon e Kerry Washington – due nomi su cui puntare alla stagione dei premi –, promettono fuoco e fiamme.


The Undoing
Autunno 2020
Nicole Kidman non si è stancata delle serie TV. E noi non ci siamo stancati di lei. Dopo i fasti di Big Little Lies, tornerà rossa e sul piccolo schermo in un altro thriller prodotto da HBO. Previste per il mese di maggio, le sei puntate dirette da Susan Bier sono slittate al prossimo autunno. Nel cast di grido, anche Hugh Grant e Matilda De Angelis. La storia segue le vicissitudini di una terapista di successo la cui vita va improvvisamente a rotoli. Se siete curiosi, potreste recuperare il romanzo: Una famiglia felice.


The Plot Against America
16 marzo 2020
Un dramma fantapolitico dai creatori di The Wire. Un cast che conta Winona Ryder, Zoe Kazan e John Turturro. Uno spunto inquietante, su un futuro alternativo in cui il nazismo non è mai stato debellato. Per quanto ci siano echi di V per Vendetta, in realtà, la serie deve tutto al genio del compianto Philip Roth. Cedere alla comodità della trasposizione o recuperare il romanzo alla base? Dopo i colpi di fulmine con Indignazione e Nemesi, avrei paura di lasciarmi sfuggire un’altra storia monumentale. Insomma, si aspetta di tornare in libreria.


Normal People
26 aprile 2020
Connell e Marianne – amici di letto e qualcosa di più – si amavano intensamente tra le pagine di Sally Rooney. Inquadrati negli anni del liceo e dell’università, descrivevano una generazione vicina alla mia e facevano tornare in mente le coppie storiche delle serie TV. Quelle che si prendono e si lasciano in continuazione: a differenza degli spettatori, cieche davanti all’evidenza. L’amore è nell’aria. È proprio una serie Hulu, quest’anno, che ce li racconterà. Nonostante il cast di perfetti sconosciuti, ci si affezionerà ugualmente a queste persone normali?


Defending Jacob
24 aprile 2020
Un ragazzino accusato dell’omicidio di un compagno di classe. Un padre avvocato che, nonostante l’ombra del sospetto, continuerà a difenderlo. Se il piccolo protagonista è Jaeden Martel, già visto in It, a interpretare il genitore in toga è un Chris Evans nel ruolo della maturità. Diretto da Morten Tyldum, il legal thriller tratto dal romanzo di William Landy promette brividi – non soltanto di paura – e misteri, sulla scia di We Need to Talk about Kevin.


Patria
17 maggio 2020
L’ho acquistato e non ho mai trovato il coraggio di leggerlo, il best-seller di Fernando Aramburu. Lunghissimo, apprezzatissimo, temibilissimo. Si parla, infatti, di tematiche che scoraggiano: politica e terrorismo, per di più in quei Paesi Baschi di cui so poco e niente. Ma il fatto che ogni evento sia filtrato dallo sguardo di due famiglie agli antipodi, mi garantiscono molti lettori, rende tutto fruibile e struggente. Più che degli amici che lo hanno già letto, senza offesa, ci si fida del trailer della miniserie. Commovente, abbastanza da favorire il recupero.


High Fidelity
14 febbraio 2020
Ci sono quelle serie che passano in sordina. Nonostante il cast, in cui giganteggia l’ottima Zoe Kravitz. Nonostante un titolo di richiamo: impossibile, infatti, non pensare al romanzo di Nick Horny e all’omonimo film cult. Reboot al femminile di una commedia romantica piena di musica, la serie è stata ben accolta dai pochi che hanno avuto la fortuna di vederla. Nemmeno i subber, al momento, ci hanno regalato soddisfazioni. Sarebbe troppo confidare finalmente nell’arrivo di Hulu in Italia, soprattutto per vedere Zoe raccoglie l’eredità di John Cusack e di mamma Lisa Bonet?


I Know This Much is True
10 maggio 2020
La notte e il giorno. Si chiama così, in Italia, il romanzo di Wally Lamb. Nessun titolo potrebbe suggerire meglio la differenza tra una coppia di fratelli di mezza età, divisi dalla malattia mentale di uno dei due. Come si può crescere così diversi all’interno della stessa casa? Nel passaggio sul piccolo schermo, le domande diventano di Mark Ruffalo, che in una performance straordinaria interpreta entrambi i gemelli. Gli Emmy, a scatola chiusa, hanno già il loro vincitore.

giovedì 16 aprile 2020

Recensione: Gli anni incompiuti, di Francesco Falconi

| Gli anni incompiuti, di Francesco Falconi. La Corte Editore, € 17,90, pp. 269 |

Si può amare qualcuno a prescindere dall’orientamento sessuale? È la domanda che si pone Marco.  Figlio di un uomo severissimo, nato a Venezia ma trapiantato a Grosseto, ha sempre avuto un’unica costante: Aurora. Cresciuti insieme, all’inizio condividono gli andirivieni delle reciproche famiglie e, all'indomani del liceo, un appartamento a Siena. Lui studia Ingegneria, lei sogna il mondo editoriale. La sorte e il lavoro li porteranno a Roma nel boom della new economy. Cambia la storia d’Italia, cambiano loro. 
I capelli si ingrigiscono. Le persone deludono e si trasformano. L’egoismo e il non detto minacciano l’armonia. Ma quello dei due è un viaggio lungo quarant’anni, fatto di svolte epocali – si parte dalle stragi a mano armata e si finisce con l’annuncio della Brexit – e sentimenti impossibili – lui, omosessuale, sa infatti di non poter ricambiare lei fino in fondo. Cosa può far scoppiare una coppia, però, se si è anime gemelle? Comunque andrà, li legherà per sempre qualcosa di magico – il ventinove febbraio, l’eccezionale giorno in cui sono venuti al mondo – e resteranno Bastiano e l’Infanta Imperatrice della loro personale storia infinita.

Hai un cielo da donare e un universo da ricevere. Vuoi davvero rinunciare a tutto questo? Abbandonati. Tutto si può combattere nella vita, tranne questo. Perché, dentro te, c’è una rivoluzione d’amore.
Lungi dall’essere un classico romanzo sentimentale, Gli anni incompiuti è un patchwork di immagini, ricordi e momenti. La prova della maturità per il prolifico Francesco Falconi, noto finora come autore fantasy, che con professionalità e leggerezza si è messo spesso in gioco con tematiche ed editori differenti. Ingegnere prestato alla narrativa, un po’ come il protagonista, riserva alla scrittura una passione già riscontrata ai tempi di Muses e Gray. Sente le sue storie nel profondo, e si sente. Quest’ultima in particolare appare meditata a lungo, travagliata; un lavoro di introspezione che è impossibile non riconoscergli. Con una vena creativa un po’ sacrificata in nome della verosimiglianza, Gli anni incompiuti mi è parso approfondito nel contesto storico e nello scavo psicologico dei due protagonisti, entrambi al centro di un’evoluzione importante insieme alla società che li circonda. Ben contestualizzato, scorrevole e appassionante, convince più nei dialoghi che nelle parti narrative – la ricerca del lirismo e della letterarietà, a tratti, non mi ha convinto: non serviva, per me, citare William Blake e Luigi Pirandello per nobilitare ulteriormente i sentimenti della coppia – e racconta con nostalgia una generazione che non mi appartiene. Con più sicurezze economiche rispetto a oggi, ma con una minore libertà d’espressione.

Gli errori sono castelli di se e di ma. Castelli che tutti desideriamo nella nostra vita e che crediamo siano la nostra casa per sempre. Poi, un giorno, capiamo di aver costruito dei muri di vetro e delle fondamenta di carta.
Tra hit anni Ottanta, musicassette e citazioni pop, Francesco descrive gli anni di una rivoluzione sociale, politica e tecnologica. E ne fa vivere, così, una anche ai propri personaggi. A colloquio con un interlocutore misterioso, il narratore si dà a un viaggio della memoria in cui ogni luogo è un ricordo; ogni capitolo è una finestra aperta  a quattro anni di distanza dalla precedente. Marco e Aurora si scontrano con la paura di essere soli e abbandonati. Si imbarcano in relazioni fallimentari, si buttano in carriere redditizie ma stranianti. Si biasimano aspramente, si lasciano e si riprendono. E non ho potuto non pensare – tanto per la struttura narrativa a balzoni quanto per i conflitti interiori – agli indimenticabili protagonisti di Un giorno, di cui nella seconda parte Gli anni incompiuti sembra essere quasi la risposta italiana. I paragoni con uno dei miei romanzi del cuore sono difficili da reggere e non giovano. Ma non influenzeranno i lettori che ancora non hanno conosciuto in precedenza la fantasia di Francesco Falconi, né i rendez-vous di Emma e Dexter nel giorno di San Swithin. Marco e Aurora, da qualche parte, resteranno sani e salvi: preservati come i petali di una viola del pensiero tra le pagine di un vecchio libro.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Nicola Piovani - Quanto t'ho amato 

giovedì 9 aprile 2020

Recensione: Il porto proibito, di Teresa Radice e Stefano Turconi

| Il porto proibito, di Teresa Radice e Stefano Turconi. Bao, € 21, pp. 312 |

In alcune storie ci inciampi e basta. Sono messaggi in bottiglia. È l’alta marea che ha voluto fartele leggere, portandoti nel posto giusto al momento giusto. Si nascondevano dietro uno scoglio, magari sotto un tronco, e un’altra onda minacciava di portarle via da un momento all’altro. Sono stato fortunato. A passeggio in un mercatino che somigliava un po’ a una spiaggia dopo un naufragio – dappertutto anfore, coralli e conchiglie –, in uno dei miei ultimi giorni di libertà mi sono imbattuto in un questa graphic novel. La sua fama aveva raggiunto anche me, ignorante in materia, e per pochi euro ho portato a casa un piccolo tesoro nell’indifferenza del venditore: lo vendeva allo stesso prezzo dei tascabili della bancarella. Dopo un mese, impigrito dal blocco del lettore, ho deciso che il suo momento era arrivato. Per il desiderio di leggere qualcosa di lieve sì, ma bello. Per la solita nostalgia del mare.
Una graphic novel che ha già meriti oggettivi, così, se n’è fregiata di un altro: ha simboleggiato, per me, la lettura d’evasione per eccellenza. Di quelle che ti portano lontano, letteralmente, facendoti sperimentare quel senso di stupore che credevi precluso agli adulti. Magico, misterioso, romantico, Il porto proibito è un’ombra che si profila all’orizzonte. Un miraggio che non tutti riescono a percepire con gli stessi occhi. Può dirsi lusingato o sciagurato colui che ne vede la silhouette nella nebbia del primo mattino? È un inizio o una fine; un punto di partenza o uno d’approdo? Sono alcuni degli interrogativi sollevati dalle figure che popolano l’avventura di Teresa Radice e Stefano Turconi: coniugi e fumettisti, qui al servizio di un intrigo che deve un po’ alle favole Disney e un po’ ai classici dell’Ottocento inglese.

Lo chiamano il porto proibito: appare e scompare nella nebbia, ma sembra che non tutti possano vederlo. Chi l’ha raggiunto di certo non è tornato indietro per raccontarlo! Perché non sei tu che scegli di entrare al porto, è il porto che sceglie te.
Si parte dal ritrovamento di un naufrago sulle coste del Siam. Vittima di un’amnesia che lo ha privato di tutto fuorché il nome, Abel diventa il mozzo del primo ufficiale Roberts a bordo di un vascello della marina. Intraprendente e servizievole, dotato di mille risorse, il ragazzo ha l’animo antico dei veri lupi di mare: conosce a memoria canzoni, aneddoti, trucchi, e le sue abilità sorprendenti – talora a confine con la magia – fanno mormorare la ciurma sospettosa, per poi tornare utili durante le bonacce più ostinate. Il tenore del prologo è destinato a cambiare una volta giunti a Plymouth. Ospite di una locanda caduta in disgrazia per colpa di uno scandalo – il proprietario, Stevenson, sarebbe fuggito con la refurtiva confiscata agli spagnoli lasciando le tre figlie nei guai –, Abel si affeziona alla timida Helen, alla maliziosa Heather e alla piccola Harriet, fino a sentirsi parte della famiglia allargata. Ma gli insegnamenti più importanti arriveranno da Rebecca, erotica e materna insieme, che lo guiderà nei segreti del sesso, della letteratura e soprattutto dell’impossibile. Dove tutti vedono malizia, si nascondono in realtà le migliori pagine del volume e personaggi indimenticabili: dalla relazione tra la malinconica tenutaria del bordello e Nathan, il cliente prediletto che promette di affrancarla per amore, aspettatevi tavole appassionate e più di qualche lacrima.

La verità più profonda si può trovare grazie a una semplice storia. 

Colto, citazionista, romanticissimo, Il porto proibito è una ballata marinaresca di donne e pirati su un tesoro da trovare, un’identità da riscrivere, una fama da riscattare. Contiene frammenti preziosi dei versi di Blake, Coleridge e Wordsworth. Brilla di scrittura ricca ed evocativa, a proprio agio tanto con il lirismo quanto con il linguaggio tecnico della navigazione. Ha un gusto per la narrazione nobile, antico, a cui si perdona a cuor leggero perfino un epilogo un po’ melenso in nome dei racconti della buonanotte che rievoca; dei ricordi legati alle leggende sussurrate davanti ai falò. Il tutto, per di più, impreziosito da un tratto a matita essenziale e mai soverchiante, che fa da perfetto contrappunto alle parole e le accompagna dolcemente.
C’è chi vuol partire e chi vuol tornare. Chi spera di oltrepassare le colonne d’Ercole e chi, invece, sogna di riporre i remi in barca. Schiavi di un diffuso senso d’attesa, sospesi all’orizzonte, i protagonisti di Teresa e Stefano sono divisi tra il mare e la terra: per questo, eternamente incompleti. Ma perfino un recipiente vuoto, riflette Nathan, può scoprire un’utilità intrinseca: diventare un contenitore per raccogliere acqua piovana; trasformarsi in un vaso per accogliere il fiorire di nuove esistenze. Ecco allora il palesarsi di un senso, di una seconda chance, di altra vita ancora. A lezione d’amore e navigazione, prima di salpare per sempre. Meta: il nostro assoluto incanto.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mumford & Sons – Guiding Light  

lunedì 6 aprile 2020

Recensione: Addio fantasmi, di Nadia Terranova

| Addio fantasmi, di Nadia Terranova. Einaudi, € 17, pp. 202 |

Ci sono romanzi che parlano di te. Degli scatoloni che non hai  disfatto, dei tuoi dolori. Quei romanzi di cui è impossibile parlare senza mettersi personalmente in ballo. Per raccontarli, infatti, ci vorrebbe una seduta psicoanalitica e non una recensione – ci vorrebbe, per raccontarsi. Durante la lettura di uno dei titoli finalisti allo scorso Premio Strega mi è successo di commuovermi a scoppio ritardato. Di fare una cosa – ad esempio lavarmi i denti –, e di ritrovarmi a pensare a tutt’altro. Quando apri le porte alla malinconia, poi come la argini? Quando inviti i fantasmi a entrare, poi come li scacci?  Un pensiero tira l’altro, e improvvisamente ti ritrovi con le lacrime agli occhi.  Nadia Terranova parla di tre cose che mi toccano: l’infanzia in Sicilia, i traslochi, l’assenza. Con il rischio di far sanguinare croste che credevo rimarginate da un po’. Ma ero preparato all’evenienza, sono stato masochista: sentivo il bisogno di pensare alla mia famiglia a soqquadro, in questi giorni di quarantena, per sentirla di nuovo con me. È stato un dolore necessario.

«Io penso sempre alle cose che mi ricordo e pure a quelle di cui non ho memoria: ho spazio anche per loro». «E te ne vanti? Ti intossichi, non ti fa bene». «Non me ne sto vantando, dico come sono fatta».
Ida, autrice radiofonica, ha il suo di dolore. Se lo tiene stretto, ci è affezionata. L’ha resa quella che è oggi. Affascinante, solipsistica, distante dagli altri. Sposata con Pietro, si sente prigioniera degli sbadigli e dei non detti della routine coniugale. Marito e moglie dormono di schiena, non hanno più voglia di sfiorarsi, ma soltanto lui conosce i suoi incubi e le sue sofferenze; i tentativi disperati di venire a capo dei segreti di famiglia. Senza figli, senza amici, Ida torna in Sicilia dopo un’esistenza a Roma che le ha cambiato naso, pelle, polmoni. La reclama lì sua madre: tocca mettere in vendita casa Laquidara, aggiustare il tetto pericolante per i futuri inquilini. Cosa vuole tenere Ida, di cosa vuole liberarsi? Quel posto non è cambiato di una virgola. Le cianfrusaglie non si buttano via, e ognuna di esse è legata a una speranza frustrata. Sembra lo scenario di un film horror.  Gli oggetti, come posseduti da un’entità soprannaturale, non vogliono essere spostati in quell’appartamento dalle pareti di burro. Su di loro veglia l’anima del capofamiglia, scomparso ormai da decenni. Un padre professore, fragile ma a suo modo dittatoriale, che ha reso le sue donne schiave del suo abbandono; in competizione davanti ai ricordi che sfuggono e ai sensi di colpa, al contrario, che incalzano da sempre. Al ritorno nel Continente, niente sarà più lo stesso.

Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e da ciò che non chiediamo di avere. 
La Sicilia, lo so bene, è una terra di terremoti e miti greci. D’estate si soffre la mancanza d’acqua. La siccità ha colpito anche il cuore della protagonista, che compensa facendo sogni liquidi e pieni di onde; che nega il dolore per vent’anni, limitandosi a guardare le cose dall’esterno – in questo, mi ha ricordato la Lenù di Elena Ferrante – o inventando storie di finzione. Tra passeggiate nei luoghi dell’adolescenza e timide aperture al dolore degli altri – l’amica Sara, il muratore Nikos, la famiglia evangelista dell’appartamento di fronte –, Ida prende accordi per rimediare al dislivello (letterale e metaforico) con il tetto dei vicini e rimanda la riesumazione di una misteriosa scatola rossa, il cui contenuto potrebbe farla scoppiare a piangere o a ridere. Ho pensato a un’altra scatola, quella del paradosso del gatto di Schrodinger. All’interno, l’animale è vivo o morto? Ci sono due possibilità, tutte giuste, tutte sbagliate, e valgono anche per il destino di un genitore sparito nel nulla. Il padre si è rifatto una vita altrove, o se l’è tolta? Di tanto in tanto, eccolo comparire fra le pagine sottoforma di un Ulisse dalle vesti stracciate e incrostate di salsedine: un naufrago vittima di un’antica nostalgia.

Amiamo le nostre ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici, al contrario. Ci attacchiamo gli uni agli altri, e nessuno è fatto di sostanze nobili.
Addio fantasmi è un romanzo pieno di contegno e discrezione, freddo all’apparenza. Mi ha preso per la gola ma non mi ha rubato il cuore, anzi. Ha lasciato in me sensazioni contrastanti, simili a quelle della Straniera di Claudia Durastanti. Ci sono pagine splendidamente scritte, molte affinità con il mio privato – troppe –, ma il risultato sarebbe stato migliore con qualche lungaggine in meno; magari nel formato del racconto. Nadia Terranova allinea cimeli da custodire e cose di cui liberarsi; aneddoti struggenti e altri superflui. Infine, un po’ forzatamente, ricerca la morale della storia. Un senso. Un messaggio di rinascita, veicolato in questo caso da comprimari dal valore puramente strumentale. Il suo romanzo mi è piaciuto a metà, eppure ha rimesso in moto meccanismi inconsci. Nelle sue imperfezioni, sa essere coerente fino all’ultimo: incompiuto, parla di un dolore incompiuto. E delle infiltrazioni di quest’ultimo, in una famiglia dal tetto scoperchiato. Ma è anche personale, liberatorio, catartico. Un romanzo di atmosfere sospese, libri polverosi e orologi fermi. Ho regolato anche il mio, rimasto all’ora solare, e attraverso Nadia ho lavorato a un necrologio singolare. Quello di chi non ha mai detto addio, per paura di scoprirsi solo senza il tormento dei propri fantasmi.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Elisa – Se piovesse il tuo nome

venerdì 3 aprile 2020

La paura resta a casa: The Invisible Man, The Lighthouse, Il buco, Swallow, The Hunt

Ispirata al classico di H.G. Wells, la vicenda dell’Uomo invisibile è stata portata più volte sul grande schermo, ma sempre dalla prospettiva dello scienziato. Eccezionalmente, questa volta, il reboot omonimo sceglie di concentrarsi su un comprimario. La vittima per eccellenza dell’uomo: colei che ne divide il talamo nuziale. La protagonista braccata, infatti, è la moglie di un ottico maniaco del controllo che in gran segreto ha brevettato la tuta dell’invisibilità. La vena orrorifica, soprattutto nell’ottima parte introduttiva, è tenuta a bada per lasciare spazio alle paranoie e ai silenzi di un thriller psicologico teso e raffinatissimo. Il film non ha né eccessi gore né effetti speciali in quantità. La protagonista punta il dito, farnetica, si rannicchia su di sé, accende tutte le luci di casa e fissa intensamente il vuoto. Se la trama è presto detta – una versione paranormale di A letto con il nemico –, a far la differenza sono quei dettagli inattesi nell'intrattenimento mainstream. Una regia sapiente, che fa crescere la suspance nella desolazione dei campi lunghi o nei piani sequenza più frenetici. La performance di Elisabeth Moss – spaventata, delirante, spavalda – che regge queste due ore di visione con una gamma espressiva da prima della classe. Gli si rimprovera, allora, soltanto qualche buco di sceneggiatura nella conclusione; un epilogo liberatorio ma un po’ telefonato. The Invisible Man è un aggiornamento sentito, femminista, intelligente, di cui si coglie finalmente il senso. Ai mostri dello studio Universal, così, se ne affianca un altro ben più diabolico: lo stalking. (7,5)

Un’isola. Un faro. Un apprendistato lungo un mese. Ma, alla scadenza dei giorni, non arriva nessuna scialuppa. Non si vedono mai la terraferma, né altre facce. La convivenza tra un umile subordinato e il suo capo, già faticosa, diventa infernale. Si fruga nei reciproci vissuti. Ci si scaglia contro il russare dell’altro, i suoi ordini, i suoi umori, il suo tanfo. Soltanto l’alcol, che scorre a fiumi, appiana le divergente. In tutti gli altri momenti, invece, pesano i silenzi, l’astinenza, le limitatezze del luogo. Come evitare di trasformarsi in bestie a causa della solitudine? Ecco avvicendarsi presagi, visioni, sospetti, cadaveri che riaffiorano, creature alla Lovecraft. Paranormale o suggestione? La catabasi dei protagonisti, tuttavia, è un’escalation  di follia che punta in alto: alla lanterna del faro, al centro della contesa maggiore. Mènage a due, The Lighthouse – odiato a Cannes, poi rivalutato dal pubblico – è giocato sui contrasti tra Dafoe e Pattinson. Se il primo è un lupo di mare dispotico e umorale, il secondo è un giovane senza passato che minaccia di peccare di hybris sovvertendo l’ordine. Il taglio e la fotografia evocano il cinema muto. La scrittura, teatrale, vive di faccia a faccia e monologhi dolenti. I personaggi incarnano tipi umani brutti, sporchi e cattivi. In realtà, a ben vedere, è tutto bellissimo. In realtà, senza sorprese, i due sono magistrali. Ma il film, lento e inesorabile, si lascia seguire piuttosto passivamente: sin dalle premesse, infatti, immaginiamo che i misteri del faro rimarranno inspiegati. Dopo The Witch, il regista predilige l’ermetismo di alcuni film festivalieri e, a mio dire, pecca di una spocchia che risulta inutilmente pretenziosa trattandosi di un'opera seconda. Eggers non delude, ma nel tentativo di fare il passo più lungo della gamba in uno sforzo prometeico non va né avanti né indietro. Resta dove lo avevamo lasciato ai tempi dell’esordio, giù talentuoso, ma in attesa di essere messo meglio a fuoco. Perché nessun autore, nessun film, dovrebbero rimanere isole. (7)

Il buco è una prigione verticale dalla struttura dantesca. Si sviluppa in altezza per oltre duecento piani, collegati tra loro da un montavivande: all’ora del pasto, ogni giorno, i misteriosi carcerieri fanno scivolare da un piano dopo l’altro un carrello carico di leccornie da chef stellati. Gli occupanti più vicini al piano zero hanno pance piene e vita facile, tutti gli altri si cibano di scarti. Spingendosi al suicidio, all’assassinio, al cannibalismo. Il protagonista è un sognatore con la mente zeppa di pensieri idealisti. Arrivato con una copia del Don Quisciotte, spera di lottare contro i mulini a vento del sistema; di educare i compagni all’equanimità, alla parsimonia, al rispetto. C’è forse un inghippo nel sistema? C’è, soprattutto, una via di fuga? Preceduto dalle lodi diffuse della rete, questo esordio spagnolo è all’altezza delle aspettative: perfino il finale, contestato sui social, mi ha emozionato all’inverosimile. Particolarmente attuale nel clou della pandemia, tra convivenze forzate e resse nei supermercati, Il buco caldeggerà il pessimismo o strizzerà l’occhio alla speranza? Torbido e cruento, è una allegoria sanguinosa e ispirata che ricorda le atmosfere di The Cube e Snowpiercer. Ma ha argomentazioni attuali, tutte sue, e una visione personale che si esprime dal gusto estetico alla scrittura. Prodotto a basso budget, con il minimalismo della migliore fantascienza indipendente, il film premiato a Torino brilla per una sceneggiatura da applausi sorretta da un manipolo di attori votati alla causa – il vecchio compagno di branda, in particolare, regalerà non pochi incubi. Feroce, poetico, politico, si conferma uno dei migliori film di genere presenti sul catalogo Netflix. (8)

Biglie, viti, aghi, batterie. Sono soltanto alcuni degli acuminati passatempi segreti di Hunter, una giovane e bella moglie trofeo che ha sviluppato un singolare disturbo ossessivo per cercare attenzione: ingoiare oggetti. Dagli angoli più disparati della sua lussuosa villa con piscina, la chiamano ninnoli e utensili. La tentano. Da dove arriva quella fame d’amore che la spinge a rimpinzarsi di corpi contundenti? Avvolta da uno stile anni Sessanta, sia nell’eleganza del design che nei colori pastello, una Haley Bennett degna di nomination è la sorprendente padrona di casa di un’ordalia psicologica senza fine. Se tutt’intorno abbondano le simmetrie maniacali, all’intero della protagonista si agita un magma spaventoso. Sottostimata, sola, mite, osa far rumore nell’atto dell’ingoio. Assordante, il suo disagio ha radici tutte da scoprire. Nell’abbraccio di un collega ubriaco. Sotto un letto dove appisolarsi con un tuttofare dagli occhi umidi. A colloquio con un grande Dennis O’Hare, in un faccia a faccia sul perdono e sulle eredità letteralmente commovente. Esiste guarigione? Forse, ma non passerà attraverso un finale consolatorio: ne avrei immaginato uno diverso, per la povera Hunter, ma avrebbe fatto meno male nell’assestarsi l’ultimo schiaffo. E guarigione e digestione, pare, passano da altro dolore. Grido d’aiuto femminista, profondo e perturbante, Swallow è il primo film davvero memorabile visto quest’anno. Difficile da mandare giù, altrettanto da scordare. (8)

Potremmo riassumerlo in poche parole. The Hunt è un Hunger Games ad alto tasso splatter, vietato ai minori non accompagnati.  È la versione disimpegnata di Get Out e quella più politicamente schierata di Finché morte non ci separi. Una classica partita a nascondino in cui a cambiare, questa volta, sono puramente le relazioni tra cacciatori e cacciati. I primi liberali, di sinistra. Gli altri repubblicani fedeli a Trump e alle armi, gretti e razzisti per natura. Lì dove gli elettori statunitensi hanno visto un attacco al loro Presidente, al punto da arrivare a sabotare l’uscita del film in sala, in realtà si nasconde una satira scalmanata che bacchetta parimenti entrambi i lati della barricata. Non c’è chi ha torto e chi ha ragione. Se abbondano i volti presi in prestito dal piccolo schermo – Emma Robert, Justin Hartlley: un consiglio, non affezionatevi troppo alle loro sorti –, la vera lotta è tra Betty Gilpin, una Rambo al femminile già apprezzata in Glow, e l’autoironica Hilary Swank. Diverte vedere le due attrici darsele di santa ragione in cucina, in un corpo a corpo che ricorderà quello tra Uma Thurman e Vivica A. Fox in Kill Bill. Nonostante le citazioni orwelliane, però, non aspettatevi grandi riflessioni: The Hunt brilla per acume e umorismo soltanto a sprazzi incostanti. Il resto è un divertissement nella norma: breve, spassoso, ultraviolento, dove la satira iniziale cede ben presto il passo al rosso arterioso tanto apprezzato dagli amanti dell’horror. Dardi, bombe, pallottole. Una carneficina impegnata in teoria, ma senza grandi pretese nell’atto pratico. Tanto rumore per nulla?  Anche se soltanto per lo sgranocchiare dei popcorn in sottofondo e per qualche risata fra amici lontani, potrebbe valerne la pena. (6,5)

mercoledì 1 aprile 2020

L'insostenibile leggerezza delle dramedy UK: Years and Years | Feel Good

Aprile, presto per darsi ai bilanci. Eppure posso affermare in tutta sicurezza che questa resterà la serie più rappresentativa di quest’anno.  La migliore? Lo dirà il tempo. Chi si sarebbe aspettato un paio di mesi fa che avremmo vissuto questo? L’allarmismo, la quarantena, la pandemia. Il 2020 è un anno surreale, di cambiamenti spaventosi e lunghi strascichi. Mentre siamo chiusi in casa, costretti all’immobilismo per la nostra stessa sicurezza, non ci rendiamo conto che il Corona Virus avrà conseguenze per cui non esiste vaccino. L’economia e la politica si risolleveranno? Qualcuno avrà tempo per dare una chance al mio futuro, in forse già da prima? Impossibile non sentire riecheggiare le domande che incalzano in questa coproduzione HBO: giunta in Italia in sordina, è illuminante  e premonitoria. Perché le insicurezze della famiglia Lyons, inquadrata tra la Brexit e il 2030, sono anche le nostre. Come ci tocca il divenire del mondo, come ci stravolge? Il notiziario annuncia l’elezione di Emma Thompson, politica di estrema destra che sembra una Trump in tailleur. Durante le rimpatriate, tra compleanni, matrimoni e funerali, i Lyons saranno partecipi di bollettini di guerra, evoluzioni scientifiche, involuzioni umane. C’è Stephen, bancario che perde tutto per un investimento sbagliato; Rosy, che non si lascia scoraggiare dal proprio handicap; Daniel, che s’innamora di un clandestino e s’imbarca nell'odissea vissuta dai migranti. Infine Edith, reporter, che pur di denunciare si avvicina a una verità dagli effetti radioattivi. Radunati alla tavola della matriarca, i Lyons sono ciò di cui abbiamo bisogno in tempi disperati. A volte si fanno volere bene come i personaggi di This is us. Altre ci preoccupano, con intuizioni plausibili e invenzioni degne di Black Mirror. Non tutta le tecnologia viene per nuocere. Gli smartphone, un giorno, combatteranno le rivoluzioni al posto delle armi. La memoria digitale è miracolosa, ma quella del cuore di più. Dove saremo tra cent'anni? Morti e sepolti. Dove saremo domani, finita la pandemia. A casa delle nostre nonne. Ad abbracciarci, a brindare, a spettegolare. Years and Years insegna tanto. Ma specialmente che tutto passa, compreso l’irreparabile, ma che noi no, noi non passiamo. (9)

Mae, canadese in trasferta nel Regno Unito, vuole sfondare nella stand-up comedy. Della classe della collega Mrs. Maisel,  però, ha poco. Elfo dalla bellezza androgina e dall’impettinabile ciuffo biondo, la comica aspirante ha un aspetto un po’ buffo e una sensibilità da maneggiare con cura. Vitale, insicura, fragilissima, sa farsi volere bene e biasimare. Si rifugia infatti per comodità in relazioni di conforto e, dopo una scarsa conoscenza, pretende già il per sempre. Ma come può amare il prossimo se non ama abbastanza sé stessa? L’ultima fiamma è George, una maestra alle prese con la prima relazione omosessuale. Benché vivano insieme, la ragazza oppone un’iniziale resistenza a uscire dall’armadio. A fare outing con amici e parenti. La comprensibile vaghezza di George gonfierà a dismisura le paturnie di Mae. Che gioca con i tiri e molla. Che si disintossica dalla droga e infine ci ricasca: o così crede, davanti alla tentazione dello stordimento. Feel Good parla di sessualità, identità di genere, amore, dipendenza da cose e/o persone. Il tutto, con l’insostenibile leggerezza promessa dal titolo. Dramedy a tinte arcobaleno dal basso profilo, vive dei locali fumosi frequentati da cabarettisti e altri brutti ceffi; personaggi divertenti incontrati al gruppo dei narcotici anonimi; genitori lontani che si connettono dal Canada su Skype soltanto per la mitragliata di battute sardoniche pronunciate a raffica dall’adorata mamma Lisa Kudrow. Grazie alla formula consolidata delle produzioni britanniche – bello tornare a rifugiarvisi dopo le gioie fugaci di Crashing e Derry Girls –, Feel Good non fa la voce grossa per spiccare e rischia un po’ di perdersi sul menù affollato di Netflix. Peccato. Perché ha uno stile già riconoscile, riflessioni dalla portata universale e numerose affinità con un’altra mina vagante, Fleabag: auguro a Mae Martin – sceneggiatrice e interprete, proprio come Phoebe – lo stesso successo. (7)