giovedì 31 dicembre 2020

[2020] Top 10: Le mie letture

Quest'anno sono stato adolescente a Procida, quando minacciavano di portare il plexiglas al mare. 
Ho conosciuto il razzismo negli anni Ottanta che Netflix non mostra. 
In Ohio ho visto morire il sogno americano, assieme a una generazione di disillusi. 
A Crosby, nel Maine, sono passato a trovare un'insegnante in pensione: mi ha insegnato tantissimo. 
Ho desiderato tatuarmi un colibrì, sentendolo affine, e trasferirmi in Wisconsin in inverno. 
Ho soggiornato in un condominio israeliano, e a ogni piano ho trovato un po' di me stesso. 
Non contento dei dolori della mia famiglia, mi sono caricato di quelli degli Starling: la vista sul lago mozzava il fiato, ma i mulinelli erano in agguato. 
Ho avuto un'amica stretta, si chiamava Bea, faceva la fashion blogger. 
Sono stato un'eroina transgender, nei giorni in cui il TG raccontava la fine della storia d'amore tra Maria Paola e Ciro a Caivano. 
Sono stato adulto e bambino; maschio, femmina, a un bivio. Sono stato dappertutto e da nessuna parte. Seduto sul divano, ho letto ottanta libri – meno del solito, probabilmente: sono stati parecchi i giorni storti – e vissuto ottanta vite. Fuori c'era il Covid-19, non potevo andare da nessun'altra parte. Non avevo altra scelta, dirà qualcuno Però i miei libri li ho scelti, sì, e li sceglierò anche domani. 
Voi, invece, chi siete stati?

10. Un'amicizia, di Silvia Avallone: In un nostalgico amarcord, un'autrice al suo meglio ci conduce alla scoperta dei dissapori tra Elisa e Beatrice. Empatica, vuol bene alle sue ragazze. E noi non possiamo che fare altrettanto, in un romanzo generazionale che avrei voluto non finisse più.

9. La casa sul lago, di David James Poissant: Non esistono famiglie felici. Per fortuna. Quando ci perderemmo se non avessimo da leggere di recriminazioni e dissapori? Infelici a modo loro, gli Starling popolano un quadretto in cui mi sono immedesimato fino a perdermi.

8. Cinzia, di Leo Ortolani: Una ragazza transgender s'innamora di un etero. Si può cambiare per gli altri? Ci si può tradire? Sfacciatamente arcobaleno, questa graphic novel racconta in pillole la forma d'amore più rivoluzionaria e salvifica: quella verso sé stessi.

7. Tre piani, di Eshkol Nevo: Una storia così generosa da contenerne tre. Ognuna legata a un piano di un condominio medio-borghese; ognuna legata agli stadi dell'anima secondo Freud – Es, Io, Super io. Tu in quale alloggi? E, soprattutto, come ci vivi?

6. Uomini di poca fede, di Nickolas Butler: Pur ispirandosi a una brutta vicenda di cronaca, Butler confeziona il solito romanzo bellissimo. Sulle diverse accezioni della parola gregge, sugli struggenti gesti di opposizione della gente comunque, su momenti perfetti in cui sarebbe splendido stabilirsi vita natural durante.

5. Il colibrì, di Sandro Veronesi: Il senso della vita spiegato da un uccellino in equilibrio su un filo del telefono. Qui e lì potrebbe somiglia a una specie di via crucis, invece è un volo che mi ha rubato il fiato. Se dovessi fare un tatuaggio – il secondo –, sarebbe proprio un colibrì: il mio nuovo animale guida.

4. Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout: Le ho scritto una lettera, l'ho rivista nella miniserie HBO, poi l'ho ritrovata in un seguito attesissimo. Un'insegnante non smette di insegnare neanche in pensione. E io, grazie a una protagonista burbera ma tenerissima, non smetto di imparare. Conoscere Olive è stata la cosa migliore che mi sia capitata quest'anno.

3. Ohio, di Stephen Markley: Uno spettacolare rompicapo emotivo su ciò che ci unisce e su ciò che ci divide. Venirne a capo è stato impegnativo. Ma a fine lettura, grazie alla visione di insieme, mi sono accorto della bellezza della vista. Affacciava sul grigio di un sobborgo rurale-industriale. Squallido, ma da immortalare

2. L'estate che sciolse ogni cosa, di Tiffany McDaniel: Un'autrice che suona soave anche nella tragedia. Con lei i miti crollano con grazia, la fine del sogno americano è un incantevole tramonto, l'inferno è un lungo corridoio lungo di porte infuocate. Credendo di conoscere già il buio oltre la siepe, ero impreparato all'abisso oltre i campi di colza.

1. L'isola di Arturo, di Elsa Morante: Un intramontabile romanzo di formazione sulla fine dell'estate della vita – ossia l'infanzia – e dei falsi miti. Il risveglio da un'illusione lunga una fiaba, che ci mette faccia a faccia con le promesse infrante, il piacere fugace del sesso, la fallibilità dei genitori. A giusta ragione, è il preferito di molti lettori: sarà così anche per me.

martedì 29 dicembre 2020

[2020] Top 10: Il mio cinema, nell'anno che il cinema ce l'ha tolto

10. His House: Presentato in anteprima al Sundance, un horror indipendente che racconta con i toni della ghost story la tragedia dell'immigrazione clandestina. Per riflettere, nello stile del cinema di Ken Loach, ma con qualche brivido in più.

9. Shirley: Un po' biopic, un po' thriller, purtroppo inedito in Italia, è un faro acceso sulla vita oscura di un'autrice famosissima – anzi famigerata – interpretata qui dalla camaleontica Elisabeth Moss. Per chi è affascinato dai meccanismi del parto creativo, soprattutto quando genera mostri.

8. Ema: L'ultima fatica del cileno Pablo Larraìn, all'indomani di innumerevoli film politici, si dedica anima e corpo a una storia controversa e passionale su una ballerina pansessuale e sul suo desiderio di maternità nonostante tutto. Contro natura, oltre natura. 

7. Il buco: Poetico, politico, claustrofobico, è uscito nel clou del primo lockdown. Qualcuno lo ha amato, qualcuno lo ha odiato, qualcun altro ha amato odiarlo. Ma questa distopia spagnola a tinte forti – ambientata in un carcere verticale dove vige la legge del più forte – è forse il film più rappresentativo dell'anno.

6. Favolacce: Sono giovani, sono belli, sono volenterosi. Soprattutto, sono il futuro che il cinema italiano non sapeva di meritare. Fabio e Damiano D'Innocenzo, premiati in pompa magna per la miglior sceneggiatura allo scorso Festival di Berlino, sono infine giunti a seminare turbamento anche su Amazon Prime Video.


5. Swallow: Si chiama picacisco, ed è una compulsione che spinge a inghiottire oggetti di varia forma e natura per dar voce a un disagio interiore. È questo il tema di un esordio shock – un horror originale, elegante, femminista –, con una Bennett in fuga dalla sua gabbia dorata.

4. Soul: Lo abbiamo visto un po' tutti sotto Natale ed è stato il regalo più bello che il 2020 potesse farci. È l'ultimo capolavoro Disney-Pixar. Per me il film più maturo, adulto e profondo del filone.

3. Jojo Rabbit: Ai tempi non mi era piaciuto in realtà. Lo avevo definito innocuo, una favoletta più graziosa che bella. Però ci ripenso spesso e con emozione, e vorrei che il 2020 finisse proprio come finisce il film del premiato Waititi: ballando, con David Bowie in sottofondo.

2. Sto pensando di finirla qui: In pole position non poteva mancare lui, Charlie Kaufman, con un viaggio al termine della notte e della ragione folle, destabilizzante, logorante. Riempie prima di orrore, poi di nostalgia.

1. Sound of Metal: Negli anni Venti c'era il cinema muto. È possibile, oggi, un cinema sordo? Da quest'idea difficoltosa ma coraggiosissima parte un piccolo dramma disposto a farsi valere alla prossima stagione dei premi. Un'odissea lunga due ore interpretata da un incredibile Riz Ahmed, nel ruolo di un batterista che perde l'udito e sperimenta, così, un nuovo mondo. Quel mondo diventa anche il nostro. In un cinema che è esperienza umana, e condivisione.

lunedì 28 dicembre 2020

[2020] Top 10: Le mie serie TV

10. Little Fires Everywhere: Washington e Whiterspoon sul ring di un dramma familiare con molta carne al fuoco. Nonostante non sia tutto oro ciò che luccica, lo scontro tra primedonne solleva fumo e scintille. Conturbante, come lo spettacolo del fuoco vivo. 

9. This is us – Stagione 4: Dopo una terza stagione tutt'altro che entusiasmante, era lecito aspettarsi un'ulteriore battuta d'arresto. Con la famiglia Pearson, invece, la magia è sempre di casa. Il loro ritorno in gran spolvero è il miracolo che nessuno si aspettava.

8. La regina degli scacchi: Una ricostruzione storica meticolosa e frizzante per raccontare le gioie e i dolori di una campionessa sulla bocca di tutti. Che Beth Harmon sia un personaggio d'invenzione, francamente, si fatica a crederlo. Il merito spetta alla performance iconica di Anya Taylor-Joy.

7. Sex Education – Stagione 2: Il secondo tassello di un'educazione sessuale e sentimentale per affrontare i tabù senza volgarità. La scena cult: le protagoniste sedute insieme all'ultima fila dell'autobus in nome del girl power, contro le molestie subite.

6. Kidding – Stagione 2: Giunto alla seconda stagione nell'anonimato, cancellato dai palinsesti senza grandi rumori, questo è il gioiello invisibile a cui tutti dovreste dare un'altra possibilità. Dopo un esordio già soddisfacente, il sodalizio televisivo tra Carrey e Gondry torna a regalare lacrime e risate, con un arco di episodi di genialità superiore.


5. Tales from the Loop: Se la pacatezza dei racconti di Kent Haruf conoscesse la fantascienza anni Cinquanta. Una serie poetica e incantevole, senza né incastri né spiegazioni, ma con immagini di un lirismo che commuove nel profondo.

4. We are who we are: Un teen drama d'autore ambientato in tempo di guerra, ma interessato a raccontare l'amore: soprattutto quello verso sé stessi. Il ritratto di una generazione diversissima dalla mia. Non la riconosco, ma mi affascina, al pari degli alieni o degli angeli.

3. Years and Years: Un'affiatata famiglia inglese sullo sfondo di un futuro distopico che somiglia tantissimo al nostro presente. La serie più rappresentativa del 2020, con una morale in cui confidare incrociando le dita: tutto passa – compreso l'irreparabile –, ma noi no.

2. L'amica geniale – Storia del nuovo cognome: Il romanzo è sempre meglio della trasposizione? Costanzo e le sue protagoniste sono pronti a farvi ricredere nella serie che il mondo ci invidia. Ansie e speranze per la terza stagione: il cambio di cast e regista si fa temere.

1. Normal People: Connell e Marianne, Marianne e Connell... Cronaca straordinaria di un amore ordinario, il best-seller della giovane Sally Rooney rivive in tutta la sua piccola epicità in una miniserie così compiuta sembrare un'epopea dei giorni nostri. Romantica, struggente, indie: sui social è già cult.

sabato 26 dicembre 2020

Recensione: Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki

| Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki. € 10, pp. 176 |

Cosa faresti se avessi pochi giorni di vita? Un mite postino giapponese dalla routine incolore, in seguito alla scoperta di un tumore, inizia a scrivere una lista delle dieci cose che vorrebbe fare. Ma è un uomo semplice, senza fantasia, e quel cliché da film lo porta a buttare giù luoghi comuni su luoghi comuni. A dargli uno scossone è la comparsa di Aloha, un diavolo dalle sgargianti camicie hawaiane che, nel bel mezzo di una disputa millenaria col Padreterno, lo tenta con una mela avvelenata: qualche giorno in più sulla Terra. Il patto faustiano, chiaramente, presenta un inghippo. Per ogni giorno guadagnato il protagonista dovrà rinunciare a qualcosa. E con lui il resto dell'umanità. E se i cellulari scomparissero dal mondo? E se scomparissero i film, gli orologi o, ancora, i gatti? Chiamato a scegliere, il postino scoperchia un vaso di Pandora di rimpianti, nostalgie, bivi mancati. La sua presa di coscienza è una fiaba decisamente natalizia che somiglia a un testamento morale. Scritto sotto forma di lettera – a chi è indirizzata e il protagonista, soprattutto, avrà il coraggio di consegnarla di persona al destinatario? –, l'apprezzato romanzo di Kawamura Genki parte da uno spunto surreale ma poi lascia spazio alle riflessioni esistenzialiste del personaggio principale. La proposta indecente di Aloha, infatti, è una scintilla che alimenta continui flashback.

La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo.

I telefoni gli fanno tornare in mente la prima fidanzatina: attraverso gli SMS hanno imparato a conoscersi e attraverso gli SMS si sono lasciati, incapaci di vincere l'incomunicabilità. Il cinema, al pari della lettura, è la migliore soluzione al mal di vivere: camminando lungo i corridoi di una videoteca per otaku, così, il protagonista medita sull'ultimo film in assoluto che vorrebbe vedere. Gli orologi gli ricordano il padre, orologiaio ligio al dovere, e come il tempo – insieme alle classificazioni, alle etichette, alle nostalgie – sia un'invenzione tipicamente umana. Infine ci sono i gatti: padroncino di Cavolo, una palla di pelo grigia eredita dalla defunta madre, il protagonista ritiene che coccole e fusa siano la testimonianza migliore per ricordarci che siamo ancora vivi. Tutto è indispensabile: anche l'oggetto più minuscolo, anche la vita più oscura. La morale insomma è sempre la stessa, e in tempi recenti già mi aveva fatto storcere parecchio il naso con La biblioteca di Mezzanotte: la vita è bella, non importa quanto duri, ma come la si spenda. Troppo cinico per prestare fede a frasi fatte di queste, ho comunque apprezzato il tocco orientale dell'autore: grazie a uno stile semplice e delicato, forse un po' freddo, riesce per fortuna a non essere melenso neanche quando la retorica è immancabilmente dietro l'angolo. Gattini adorabili (a casa ne ho tre) e citazioni cinematografiche (Chaplin, Fellini, Wong Kar-wai) mi hanno rabbonito qui e lì.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: U2 - Beautiful Day

mercoledì 23 dicembre 2020

Le visioni indie di dicembre: Sound of Metal | Ema | Matthias e Maxime | Waves | Under the Silver Lake

Lo cantavano Simon e Garfunkel: anche il silenzio ha un suono. Lo scopre d’un tratto Ruben, un batterista rock, all’improvviso costretto a rinunciare a un tour insieme alla compagna cantante. Perde l’udito. Ex tossicodipendente, fidanzato da quattro anni con la dolcissima Olivia Cooke e da quattro anni pulito, minaccia il suicidio; nega; si aggrava; nega ancora; distrugge. Al centro di un doloroso processo di accettazione, il protagonista si trasferisce in una comunità per non udenti dalle regole ferree. Quando gli ospiti – guidati da un Paul Raci in odore di nomination – comunicano fittamente fra loro nel linguaggio dei segni, sullo schermo non compaiono sottotitoli: lo smarrimento di Ruben, che non conosce la LIS, è pari al nostro. Questa è la grande sfida dell’esordio alla regia di Darius Marden: renderci vicinissimi all’esperienza del batterista. Complice un uso del sonoro mai sperimentato prima, Sound of Metal diventa allora una visione sperimentale, intima e immersiva: tagliati fuori, ma per questo perfettamente calati nel disagio di Ruben, ascoltiamo suoni ovattati, fischi, fruscii, tonfi, voci che sembrano rimbombare dalle profondità oceaniche. Gli anni Trenta erano il trionfo del cinema muto. Questo, invece, è un cinema sordo: capace di sfruttare le commoventi potenzialità della settimana arte per garantire totale empatia. Chiusi per due ore nella bolla della sordità, facciamo compagnia a un incredibile Riz Ahmed: l’attore di origini pachistane picchia i piatti della batteria con furia selvaggia e comunica resa a ogni sguardo. Artefice di una delle migliori performance su piazza, scrive pensieri farneticanti; impara pian piano a padroneggiare i movimenti delle mani, i vuoti, le parole non dette. Questo ex batterista fatica a riprendere il ritmo, ad abituarsi: insegue perciò l’utopia di un costosissimo impianto cocleare. Che rumore fa la disperazione? Cosa resta quando la musica finisce? A sorpresa, il silenzio – e l’oscurità, vecchia amica – garantiscono un’acustica perfetta. Marden li indaga sin nelle vibrazioni più infinitesimali. Il risultato, paradossalmente, è un’orchestra di emozioni. (8,5)

Sensuale e folle, mette a disagio soltanto aprendo bocca. Flirta spudoratamente e in ogni occasione. Ema ha i capelli ossigenati, una crew di amiche ballerine per branco e una lunga relazione con un coreografo di dodici anni più grande. Passando da un assistente sociale all’altro, vive sensi di colpa per un bambino voluto, cercato, infine ceduto nuovamente indietro. L’orfano che ha adottato con Gaston – già grandicello, con un’ombra di baffi sul labbro e l’hobby dei fiammiferi – ha rivelato agli altri l’inadeguatezza della coppia. Come può un bambino violento essere allevato da due genitori sui generis? O forse non ci potrebbero essere persone migliori di due ribelli poliamorosi per far sentire benaccetta una mina vagante? Dopo la biografia di un’algida first lady americana, Pablo Larraìn torna in Cile per un nuovo ritratto femminile. Per la prima volta, seminando sconcerto tra i suoi estimatori, lascia da parte l’impegno politico da parte. Non per questo meno ambizioso, il film presentato a Venezia è un puzzle sentimentale stranissimo mosso dalle forme d’amore più disparate. Benché sofisticato, si muove a ritmo di raggaeton. Pur rendendoci partecipe del dramma di una famiglia disfunzionale, ha le fattezze di un thriller erotico. Ammaliante ma respingente, malsano eppure armonioso, di una bellezza conturbante, è una festa di leggerezza e devasto con i rossi saturi di Noè e le passioni dell’Almodovar più scandaloso. Il bel Bernal fa un passo indietro davanti al magnetismo della rivelazione Mariana di Girolamo. Quintessenza della libertà, Ema e i suoi mille amanti – importanti un pompiere e un’avvocatessa – cercano il raggiungimento di un nuovo equilibrio nella maniera più controversa. Madre, moglie, ballerina, piromane, trasforma ogni mossa in un passo di danza; ogni incontro in un’ammucchiata. Tra fascino e inquietudine, è il soggetto di un ritratto più che moderno: futuristico. Contro natura, oltre natura. (8)

Dopo un viaggio in America che aveva dato vita al suo film più bistrattato – per me ingiustamente – Dolan torna alle origini per leccarsi le ferite. La provincia canadese è quella dei suoi primi successi, e sempre da lì vengono i miscugli particolarissimi tra inglese e francese, i rapporti di amore-odio con mamme troppo ingombranti, gli amori impossibili a tinte arcobaleno. Storia di un’amicizia messa all’improvviso in discussione, Matthias e Maxime parte con un bacio che i due protagonisti si scambiano per prendere parte a un corto cinematografico. Gli altri, intorno, non sembrano dar peso all’evento. Ma nei diretti interessati qualcosa cambia: contriti e confusi, prendono a evitarsi. Cosa nasconde il loro imbarazzo? Raccontati in presa diretta, sembrano muoversi senza seguire una sceneggiatura. Tra primissimi piani, dialoghi che si accavallano, brindisi e feste piene di armonia, permettono che l’incomunicabilità generi momenti di tensione. Riusciranno a confessarsi l’inconfessabile? Concitato, caotico e festoso, l’ultimo film dell’ex ragazzo prodigio mantiene un basso profilo. Tende a non strafare. Intimo, è al servizio di una storia semplice e priva di manierismi, che ovviamente non rinuncia ai classici riferimenti pop: la scena del bacio, la più memorabile, omaggia Titanic. Più sentito che riuscito, il film – fatto di esterni gelidi e d’interni calorosi, di un’allegria sguaiata intrisa di disperazione – è una festa di addio per salutare per sempre l’ultimo scampolo della giovinezza di Xavier. Ma è comunque una festa. (6,5)

Lo hanno abituato a eccellere. Afroamericano in un Paese intollerante, checché se ne dica, deve fare sforzi sovraumani per essere all’altezza delle aspettative altrui. Studente brillante e stella del wrestling, è spinto oltre i suoi limiti – o fino ai suoi limiti? – dalle pressioni di un padre troppo normativo. Come venire a patti prima con un infortunio, poi con l’arrivo di un bambino indesiderato, se nel suo futuro non sembravano esserci spazio per gli errori? Chi ha tutto, purtroppo, a tutto da perdere. E durante un ballo scolastico sotto antidolorici, la tensione crescerà fino a sfociare nella tragedia immancabile. Allora il film cambia aspect ratio e volto, cambia protagonista. Si lascia spazio al punto di vista della sorella minore, aspirante veterinaria alle prese con il primo amore per un tenerissimo Lucas Hedges. Waves – arrivato in homevideo con il sottotitolo Le onde della vita – è un dramma familiare con un bagaglio emotivo pesantissimo e una generosità fuori dall’ordinario. Potente, emozionante, vero, segue un andamento imprevedibile e tumultuoso. Sembra scosso dalle forze crudeli di una moderna tragedia. Parabola sull’ira e sul perdono, sulla disperazione e sulla libertà, scioglie i nodi intricati della prima parte con l’espiazione della seconda. Tra danze liberatorie sotto la luna, sbronze e faccia a faccia urlatissimi, riflette sulla mutevolezza delle sorti e dei sentimenti. Diretto da Trey Edward Shults – già notato con un interessante horror indipendente –, qui e lì è stato accusato di essere troppo pretenzioso. Con i suoi folgoranti primi piani, con le luci al neon e i colori fluo, con scene madri su scene madri, probabilmente lo è. Il montaggio da videoclip, inoltre, è una montagna russa. Ma il regista trentaduenne si è fatto le ossa come assistente di Terrence Malick, e si nota nella perfezione della messa in scena che ricorda anche le sperimentazioni visive di Dolan, le giovinezze allo stato brado di Guadagnino, i drammi all black di Jenkins. Strizzando l’occhio ai migliori, Shults cura maniacalmente la forma, però non scorda il cuore. Rinfrancato nello sguardo e nell’anima, mi sono goduto moltissimo questo doppio romanzo di formazione dove l’incomunicabilità prolifera per lasciare spazio al senso di colpa. Sui cocci della perfezione infranta, Waves regala picchi e creste. Travolge. Nelle sue onde, che ti circondano come un bozzolo, puoi o annegare o salvarti. (7,5)

Un impunito serial killer di cani. Una sensuale vicina di casa scomparsa nel nulla. Il cadavere di un milionario morto in un incendio doloso. Un fumettista occhialuto fissato con leggende e simbolismi. Un nuovo gruppo rock, Gesù e le spose di Dracula, i cui brani sono scritti da un misterioso paroliere che sembra custodire le sorti del mondo. Sto bene, sì? Cosa diamine sto guardando? Sta bene il regista, David Robert Mitchell, o ha scritto e diretto il suo ultimo film in pieno trip allucinogeno? Nel dubbio, per oltre due ore, ho sguazzato allegramente nelle stramberie di Under the Silver Lake. A metà tra un noir, una commedia grottesca e un horror esoterico, segue le indagini di un subito iconico Andrew Garfield: con jeans a sigaretta, converse e occhiali da sole, corre di qua e di là; spulcia; fa inseguimenti in macchina; bacia ragazze bellissimi e fatali. Messe da parte le sue grandi ambizioni, il giovane nullafacente affetto da manie persecutorie comincia a credere in messaggi subliminali, cospirazioni e schemi ricorrenti. Perfino il libero pensiero e le idee di rivoluzione sono una bugia instillata dai piani alti? Passato in sordina a Cannes e bistrattato dalla successiva distribuzione, il ritorno del regista dell’indigesto It Follows è il flop a cui soltanto i cultori di Lynch e Hitchcock, sul web, hanno dato nuova linfa vitale. È audace, sperimentale, pasticciato: troppo. È un inno al pop, alla cultura del consumo, alla solitudine delle stelle: spiazza. Benché irrisolto, però, offre una delle visioni più originali dell’anno. Una caccia al tesoro mossa da curiosità e inquietudine, dove non importa capire cosa ci sia bene in ballo. Un rebus divertente e confusionario, da portare a termine soprattutto per il piacere giocoso della sfida in sé. (7,5)

lunedì 21 dicembre 2020

Recensione: Solo un ragazzo, di Elena Varvello

| Solo un ragazzo, di Elena Varvello. Einaudi, € 18,50, pp. 181 |

È stato un bravo bambino, non faceva né i capricci né piangeva. È diventato grande in maniera serpentina e sfuggente, incomprensibile ai suoi stessi parenti: silenzioso, selvatico, con la bocca serrata e gli occhi spalancati, tutt'uno con la natura circostante. Si è trasformato, a diciassette anni, in un brivido lungo la spina dorsale: il ragazzo è una presenza quiescente ai piedi del letto, con un cacciavite stretto nel pugno. Le mie parole, come diapositive in rapida successione, spererebbero di mettere in ordine il puzzle di questa crescita spaventosa. E di farvi luce. Quale speranza ho di comprenderne il disagio esistenziale – le irruzioni, i furti, gli atti vandalici, le tendenze voyeuristiche –, se perfino chi l'ha messo al mondo brancola a tentoni appresso al suo mistero? Lo scriveva anche Donato Carrisi nel suo ultimo romanzo, riflettendo su una questione spinosa: quando la cronaca nera ci racconta di una gioventù criminale, quanta responsabilità dovrebbero assumersi i genitori del minorenne? Come possono una mamma e un padre perdonare loro stessi, se non hanno saputo leggere i segnali della catastrofe incombente? Discreta e minimalista come i migliori autori americani – ho pensato a Elizabeth Strout per le somiglianze con le vicende della sfortunata famiglia Doyle, presente in Olive Kitteridge –, l'autrice di La vita felice indaga con decoro le inquietudini degli incompresi e di chi non li comprende, gli estinti e i superstiti, i fantasmi che il bosco libera di notte.

Facciamo tutti cose orribili, anche se non vogliamo.

Ogni capitolo segue un membro della famiglia e, costruito tra passato e presente, costituisce quasi un racconto a sé stante. Come in Lacci di Domenico Starnone, la storia di una famiglia italiana annientata dalla tragedia e dal peso della vergogna prende vita grazie all'alternanza dei punti di vista. Perché nessuno è nella testa di nessuno, scrive l'autrice, e allora tanto vale prestare ascolto alle storie di Sara, Pietro, Angela e Amelia: quattro derelitti che orbitano attorno a un'unica assenza, allo stesso buco nero. Ex infermiera, Sara è una madre anziana e sconfitta, con la mente e il cuore fragili: durante una tormenta di neve, con il Natale alle porte, crede di vedere il figlio redivivo sotto un cappuccio scuro. Pietro, il marito prigioniero di un matrimonio votato all'incomunicabilità, si è rifugiato nell'insegnamento: professore stacanovista e integerrimo, conosce una bidella dal trucco pesante e accarezza l'idea del tradimento. Le loro figlie, Angela e Amelia, si confrontano invece in un campeggio in riva al fiume: divorate dai sensi di colpa, confrontano i ricordi falsati legati al fratello più piccolo e dicono basta alle bugie. Le illusioni, il sesso, gli ansiolitici, la religione sono soltanto alcuni dei palliativi più frequenti per mettere a tacere le coscienze. Nell'ultimo capitolo, struggente e originalissimo, ne sapremo di più del ragazzo del titolo. Un adolescente dalle tendenze sociopatiche, con frequenti pensieri cattivi e il sogno di vivere da eremita.

Lui è gentile e buono e sorridente. È il primo della classe. È un piccolo ladruncolo, un bugiardo, un tipo strano. Un guardone del cazzo, un'ombra che si aggira in un parcheggio. È tutte queste cose e insieme non è niente.

Poco più che un'ombra ai margini della carreggiata e delle vite altrui, il ragazzo spicca comunque. Perché le assenze si notano, e urlano a squarciagola. Mentre ambienta il romanzo in una località fittizia che ricorda le suggestioni del Midwest – le atmosfere placide, gli stili di vita sonnacchiosi, i portici, i torrenti e le vallate –, Elena Varvello fa apparire semplicissimo ciò che è difficile. Ci sono piccoli dettagli stridenti a rendere sinistri i suoi scorci verdeggianti. I personaggi hanno alibi oscuri e cuori misteriosi. Il tempo del racconto, in maniera sorprendente, si piega, si plasma e si scioglie in una scansione cronologica degna del film A Ghost Story. Molto più che un thriller, oltre il dramma, Solo un ragazzo è una presenza fantasmatica che regala qui e lì fantasiose tinte horror. Selvatico ma poetico come il soggetto di un dipinto di Ligabue, il non protagonista di questo romanzo è una creatura sorpresa da un passante nel proprio habitat naturale. Elena Varvello gli tende la mano. Descrive le profondità dell'insondabile, e non tenta di illuminarlo a ogni costo. Quando il ragazzo fugge via, no, lei non lo insegue. Si rifiuta di braccarlo, di abbassargli a forza il cappuccio, di affibbiargli un nome proprio. Il suo rispetto – la sua resa – appartiene alla pietas degli autori bravissimi.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Maneskin – Vent'anni


giovedì 17 dicembre 2020

Il cinema al tempo del Covid-19: Mank, Elegia americana, L'incredibile storia dell'isola delle Rose, Uncle Frank, Il processo ai Chicago 7

Acclamato dalla critica come il film dell’anno, lo si attendeva con ansia. Mank, l’ultima fatica di David Fincher, sbancherà ai prossimi Oscar soprattutto nelle categorie secondarie. Prodigio di tecnica, con il suo bianco e nero pastoso e un audio leggermente gracchiante, sembra sbucato dagli anni Quaranta. Ci si poteva aspettare forse qualcosa di meno da un biopic che racconta la genesi dell’intramontabile Quarto potere? Seppur meno funambolico e barocco del capolavoro originale, Mank è una visione perfino più godibile del previsto grazie ai dialoghi scoppiettanti e a un personaggio sopra le righe. Il cuore, però, dov’è? Il sempre impeccabile Oldman interpreta l’eponimo sceneggiatore: erano anni di crisi. Con ancora i postumi della Grande Depressione, il cinema faceva il passo dal muto al sonoro e assoldava drammaturghi per attirare nuovo pubblico. C’erano l’avanzata di Hitler, inoltre, e le elezioni del 1934 da sabotare al suon di falsi cinegiornali. Chiamato a scrivere un film su commissione per Welles, il protagonista sceglierà un soggetto inusuale: la vita di un ricco magnate perso dietro gli intrighi del subdolo Mayer. Accompagnato dall’incantevole Amanda Seyfried, moglie trofeo ingiustamente bollata come bella e stupida, Oldman si muove tra i labirinti, le fontane e gli animali esotici della reale Candalù. In un puzzle costruito su diversi piani temporali, Fincher – con una sceneggiatura del defunto padre Jack – lavora al ritratto di un malinconico giullare destinato a farsi sempre terra bruciata per via della lingua lunga. Sbronzo e caracollante, Oldman punta il dito contro i miti e i mostri della MGM; scandalizza i figuranti della fitta corte dei miracoli di Charles Dance; menziona attori, addetti ai lavori, politicanti sconosciuti. Pieno di rimandi com’è, Mank affascina per la foggia bellissima ma lascia spesso indifferenti per il contenuto: quando Hollywood parla di sé, infatti, dovrebbe farlo con un linguaggio alla portata di tutti. Ripiegato su sé stesso, invece, il film va incontro a un controsenso. La fabbrica dei sogni ci svela dall’interno il proprio funzionamento. E, come dopo lo svelamento di un trucco, perde parte della magia. (7)

Su carta aveva tutto per piacermi. Le atmosfere rurali dei romanzi di Haruf, un regista classico ma solidissimo, due protagoniste che sin dal trailer facevano a gara di bravura. Le recensioni avevano presto frenato le aspettative. Elegia americana, tratto dal romanzo biografico di J.D. Vance, era il disastro preannunciato? Storia di tre generazioni a confronto, il film racconta il sogno americano del solito self-made man: uno scrittore partito dal nulla e giunto con successo al prestigio, che tuttavia non ha dimenticato l'importanza delle radici. Diviso tra dovere e famiglia, deve fare i conti con il richiamo del proprio sangue e con i guai ereditati da una genitrice perennemente sull'orlo dell'abisso. Articolato in una serie di lunghi flashback, Elegia americana si concentra sui bracci di ferro tra la madre e la nonna di Vance: più che a lui, infatti, si lascia spazio agli strepiti di due donne al centro di un rapporto di amore-odio. Amy Adams, imbolsita e fuori parte, esagera con i pianti, le urla e le salopette sformate: così sopra le righe da risultare involontariamente comica, offre purtroppo la prova peggiore della sua carriera a causa di un personaggio che segue tutti i cliché delle donne autodistruttive. Molto meglio Glenn Close, nonna dolcissima nonostante i modi spicci, che sotto il suo mascherone posticcio e l'andatura caracollante riesce comunque a lasciar trapelare una grande commozione: sarà la volta buona per l'Oscar? Dopo gli eccessi melodrammatici della prima parte, le cose si aggiustano nella seconda, dedicata al riscatto personale del protagonista. Moralmente edificante, vittima dei luoghi comuni e di un'intensità variabile, il film  è sin troppo caricaturale per apparire veritiero e la sceneggiatura – scritta a tavolino per strizzare l'occhio all'Academy – viene presto a noia: il tocco di un Clint Eastwood, più schietto del patinatissimo Howard, avrebbe fatto la differenza. Ciò che resta è una puntata di This is us lunga e dimenticabile, che riesce nell'impossibile: deludere, nonostante la presenza delle sue stelle. (6)

Dopo aver raccontato dei ricercatori al verde di Smetto quando voglio, criminali per necessità, il talentuoso Sibilia confeziona un’altra ode spassionata alla follia e al coraggio dei sognatori; a coloro che inventano e si reinventano. Ispirato a una vicenda talmente assurda da essere realmente accaduta, L’incredibile storia dell’isola delle Rose segue le avventure picaresche di un sempre ottimo Elio Germano. Ingegnere di belle speranze, più volte segnalato alle autorità per le sue invenzioni strampalate, a un certo punto progetta un’isola a largo di Rimini. In acque internazionali, nel 1968, sorge una piattaforma sorretta de sei piloni d’acciaio: sembra un lido o poco più, una discoteca. Invece era un’utopia galleggiante con le pretese di diventare uno Stato indipendente dall’Italia. Come acquisire la giusta credibilità, se accusato di contribuire al malcostume del Paese con la sua concezione di dolce vita? Rifugio felice per naufraghi, apolidi, reduci e neomamme, l’esistenza dell’isola insospettirà i piani alti – Zingaretti e Bentivoglio, esilaranti – e sarà discussa a Strasburgo, nel consiglio d’Europa. Accompagnati da una romantica De Angelis, Sibilia e il suo Germano ci rendono partecipi di una pagina di cronaca dal forte valore emblematico. Perfetto nel cast, nella CGI e nei colori sfavillanti, il film Netflix non è esente dalle lungaggini della seconda metà ma si riscatta con un epilogo emozionantissimo, che propone una catena di mani intrecciate e una morale sempreverde: i sogni non li abbattono neanche le cannonate. Il regista convince anche a ritmo di twist e con accento bolognese: artefice di prodotti giovani, ambiziosi e rinvigorenti, fatti di intuizioni e soprattutto di idee. Può esistere un’isola che non c’è? E un cinema che non c’era? (7+)

Hanno tutti un parente che si distingue dagli altri. Quello colto e distinto, seduto in disparte a leggere Flaubert, che per un motivo imprecisato non piace a nessun membro della famiglia. Quello diverso, in una maniera di cui da bambini non si capisce bene il perché. Ma Frank non è poi così diverso da Betty: la sua nipote prediletta, che nonostante le origini campagnole ha puntato alla Grande Mela per studiare letteratura. Lì scopre che lo zio professore ha una doppia vita: omosessuale, nasconde un compagno amorevole e amici strampalati. Costretti a tornare a casa per un funerale, nipote e zio viaggiano in macchina da New York a Creekville sulle scene di un passato doloroso. Quale trattamento ha ricevuto Frank? Cosa lo ha reso disincantato e omertoso? Alan Ball, autore premio Oscar per American Beauty, torna su Amazon. E scrive e dirige una commedia drammatica vagamente autobiografica, con un immediato effetto benefico. Ora spensierato, ora malinconico, Uncle Frank risulta leggerissimo nonostante i temi luttuosi. Riuscito tanto nelle ambientazioni anni Sessanta quanto per la caratterizzazione interiore dei personaggi, si ricorderà soprattutto per la bravura insospettabile di Paul Bettany: dolente e spiegazzato, elegantissimo, emoziona per la piega amara della bocca e per il tremore impercettibile delle mani. Con lui la giovane Sophia Ellis, un volto su cui puntare. Tra confronti, funerali e coming out, Uncle Frank è la rimpatriata agrodolce sull'orgoglio di essere pecore nere. (7)

Non amo i film d’inchiesta, ma per Aaron Sorkin ho fatto un’eccezione. Lo sceneggiatore e drammaturgo americano, qui anche regista, ci porta nell’estate turbolenta del 1968. Alle porte dell’Hotel Hilton, dove in previsione di una convention di democratici si riuniscono a pretestare tre gruppi di sinistra: uguali ma diversi, hanno intenti pacifisti – correva l’epoca del Vietnam – ma lo scontro con la polizia è inevitabile. Chi ha colpito per primo? Il film, un puro dramma processuale, racconta del processo per stabilire se la colpa spetti ai dimostranti o alle forze dell’ordine. Concitatissimo, parte con i migliori auspici e un montaggio serrato, ma si perde in un prosieguo caotico man mano che il caso diventa più logorante. Profondamente americano, il dramma di Sorkin strizza l’occhio con incertezza all’attualità e pecca di una caratterizzazione molto semplicistica, indulgente verso gli indagati e impietosa contro la polizia. Per me non al suo meglio, lo sceneggiatore riesce a essere comunque sorprendentemente piacevole a tratti, ma per me la sua ricostruzione non centra il punto. Nel cast, popoloso ma dispersivo, inoltre non spicca nessuno in particolare fatta eccezione per Sacha Baron Cohen e Jeremy Strong: due spassosi hippy, che rispondono a tono e con ironia. Peccato che nulla possano contro un epilogo alla Spielberg, altamente retorico, che vorrebbe stillare lacrime e miele in quantità, ma finisce soltanto per far sbuffare. Probabilmente non ne ho compreso l’urgenza. Non amo i film d’inchiesta, e Aaron Sorkin non è stato l’eccezione. (5,5)

lunedì 14 dicembre 2020

Recensione: Un'amicizia, di Silvia Avallone

| Un'amicizia, di Silvia Avallone. Rizzoli, € 19, pp. 447 |

Ogni amicizia è una storia d'amore. Come si resta uniti nonostante tutto? Se smarriti, come ci si ritrova? Per una coppia di amici non esistono terapisti o consulenti matrimoniali; non è previsto il sesso riparatore per riconciliarsi; non sono contemplati figli, case di proprietà, bollette da pagare o altri collanti. L'amicizia deve bastare a sé stessa in quanto tale, è pura e svincolata, è un autogoverno destinato o all'eternità o all'implosione. Senza compromessi. Ma quando finisce fa più male di una separazione: è un lutto da cui non ci si riprende più. Perché gli amori vanno e vengono, ma l'amicizia – al pari della famiglia – resta. Elisa e Beatrice non si parlano da tredici anni, e la prima si sente ancora orfana dell'ex compagna di banco del liceo Pascoli. Rifugiata nei ricordi dell'adolescenza, in una città di fantasmi di cui evita le strade principali, la protagonista recupera dal fondo del buio sei diari: lì sono contenute le cronache dei cinque anni delle superiori – i più belli – e quelle del primo anno da universitaria fuori sede, in una Bologna destinata a dividere. In apnea, Elisa trascura il Natale imminente e i propri doveri per battere al portatile questa confessione ossessiva, viscerale, sincera. Per liberarsi dell'indimenticata Bea, o forse per riappropriarsene. Chi era la Rossetti, oggi influencer amata e odiata al pari della nostra Chiara Ferragni, prima di essere sulla bocca e sugli schermi di tutti? Può forse un personaggio pubblico custodire ancora un privato, dei segreti?

Crescere è una perdita. 

Nella vita c'è chi posa e chi scatta. Sempre al di qua dell'obbiettivo, Elisa è stata un'assistente di scena, una confidente, una testimone. Mossa dal desiderio di proteggerla, a dispetto di oltre un decennio di silenzi, qui gratta la carta delle riviste patinate per cercare la donna nascosta dietro l'icona di stile. Emergerà la verità, o Bea resterà soltanto uno strappo? In un nostalgico amarcord, una Silvia Avallone al suo meglio ci conduce a ritroso alla scoperta dei dissapori tra le protagoniste. Empatica e generosa, l'autrice di Acciaio vuole un bene dell'anima alle sue ragazze. E noi non possiamo che fare altrettanto, in un romanzo generazionale densissimo che avrei voluto non finisse più. Il merito maggiore spetta in particolare alla narratrice, che ha la mia sensibilità, la mia formazione umanistica e i miei dolori. Trapiantata da Biella a un'anonima cittadina della costa toscana, Elisa conosce gli scatoloni chiusi e gli abbandoni. Affidata alla tutela di un padre dolce ma pressoché sconosciuto, stritola la cornetta in attesa di un ripensamento della madre: donna passionale e incostante, l'ha strappata a forza da una casa odorosa di hashish e ribellione per garantirle gli equilibri mancati al primogenito, l'irrecuperabile Niccolò. Topo di biblioteca con la Morante per talismano, a Ferragosto conoscerà Bea: al contrario ricca e appariscente, con una mamma-manager che l'ha educata a eccellere.

Perché si legge? Perché non rimanere altro. Nessuna vocazione nobile si annida nel gesto di aprire un libro. […] Per leggere occorrono necessità e disperazione: è una cosa che si fa in galera, in solitudine, in vecchiaia, nell'emarginazione; quando né la TV né Internet distraggono dal fatto che nella vita si perde, e si perde tutto; e chi conosci ti sembra felice e tu ti consumi d'invidia; quando l'unica soluzione è farla finita e diventare un altro. 

Strette sotto la pioggia, a bordo di un cinquantino truccato, le migliori amiche ruberanno un jeans tempestato di Swarowski e condivideranno tanto la buona quanto la cattiva sorte (la verginità persa all'unisono, le risse in cortile per un tradimento, le irruzioni abusive nel “covo”). Unite soprattutto nei momenti più luttuosi, saranno l'una la zattera dell'altra: famiglia, sostegno e ospitalità. Destinata ai luccichii del glamour ma attratta dagli stili di vita degli outsider, Beatrice più si agghinda e più si occulta. Orgogliosa e vendicativa, eccelle nelle arti femminili e seduce sottilmente i parenti di Elisa fin quasi a usurparla. Travolte dalla rivoluzione digitale e stritolate nelle maglie del tempo, le loro vite andranno alla deriva a causa dei rovesci di fortuna e delle incomprensioni. Correvano anni che ricordo benissimo. C'erano il walkman, il telefono fisso, i quiz di Cioè, i Nokia 3310, i film a noleggio, gli ammiccamenti di Britney Spears e i Blink-182 sparati in cuffia. Si parte dalla caduta delle Torri Gemelle, si passa per la torrida estate del 2003, si giunge alla vittoria ai Mondiali. Le connessioni Internet lentissime cedono il passo al dinamismo dei blog, le amicizie diventano quelle superficiali delle chat di Facebook. Qui e lì avrei voluto picchiettare sulla spalla della Avallone, condividere un ricordo per un ricordo: dirle sai, c'ero anch'io, ho il tuo stesso bagaglio di esperienze. La tecnologia diventa in fretta obsoleta. Le stelle, perfino quelle più splendenti, tramontano. E loro?

Beatrice e io avevamo quattordici anni eppure lo sapevamo già, che il futuro è un tempo che toglie e non aggiunge.

Un'amicizia ha il suono dello scirocco e degli album scartabellati. Per me è stato un po' come frugare nella borsa di una donna, scardinare il lucchetto di un diario segreto: uno scippo a tradimento, uno scasso. Ho avuto l'impressione di leggere considerazioni troppo intime per essere destinate proprio a me; dovevo averle rubate. È per questo che non ho sottolineato le frasi più belle, anche se avrei voluto. Se mi sono esentato dall'appuntare a margine i titoli di romanzi, film e canzoni che l'autrice suggeriva tra le pagine. Ne ho avuto più cura del solito, sono stato delicato, come al cospetto di qualcosa di presto in prestito senza permesso. Sono così diverse tra loro Elisa e Bea? E da me, per tutto il tempo seduto all'ultima fila di un liceo classico ormai chiuso per mancanza di iscritti? Entrambe cristallizzate, una nel ghiaccio di una perenne nostalgia e l'altra in un selfie col filtro bellezza incorporato, si evocano in un epilogo pervaso da una tensione crescente. L'una di fronte all'altra, si strapperanno pelle e capelli per vendetta, o si uniranno per ballare a Capodanno? Le catene invisibili delle aspettative disattese le hanno ancorate alle rispettive routine. Rompendole, si potranno finalmente legare in un abbraccio che spezza le ossa e rinsalda il cuore? In quest'anno di distanza sociale, l'ho sperato. “Menzogna e sortilegio”, menzogna o sortilegio, questa lettura bellissima è una macchina del tempo che mi ha risarcito di tutto l'affetto non dato: spaventato dal presente, tormentato dal futuro, mi sono allora rivolto al passato. Inforcavo un Quartz scassato, pogavo ascoltando gruppi rock nei capannoni fuori città, meditavo di fare un piercing o un tatuaggio, dicevo che sarei diventato famoso: davanti, avevo tutta la gioventù del vecchio mondo.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Elisa – Promettimi

venerdì 11 dicembre 2020

Best-seller sul piccolo schermo: The Undoing | Us

Lei psicologa, lui chirurgo, compongono una coppia perfetta. Nonostante la frenesia della vita newyorkese, dedicano tutto il tempo che serve alla famiglia e alle pubbliche relazioni. Il loro dramma inizia all'indomani di una cena di beneficenza: una delle partecipanti, una giovane mamma di modeste origini, viene trovata massacrata sul retro del proprio laboratorio d'arte. Alla festa spiccava come un pesce fuor d'acqua, perché bella e procace. E, soprattutto, perché profondamente triste. Quale sofferenza nascondeva? Come mai i protagonisti sono i principali sospettati? Nicole Kidman e Hugh Grant, divi intramontabili che tutti avremmo sognato di vedere insieme in una commedia romantica degli anni Novanta, sono finalmente uniti da un'anonima Susanne Bier in una miniserie attesissima. Glamour e invidiabili, anche se spiegazzati, vengono torchiati dalla polizia: qual era il loro legame con la nostra Matilda De Angelis, attrice italiana al centro di una grande produzione internazionale e di un giallo modesto ispirato all'omonimo romanzo di Jean Hanff Korelitz? Non nuova al piccolo schermo, Nicole Kidman torna al ramato e nella sigla canta come fece in Moulin Rouge: superba al solito, regala al personaggio occhi sbarrati per lo shock e rossori. La sua reazione al nudo integrale della De Angelis, insieme a un breve bacio saffico in ascensore, sono già cult. Il migliore, però, è Hugh Grant: un uomo imprevedibile e sornione, nell'occhio del ciclone, a cui l'attore inglese aggiunge la sua naturale faccia da schiaffi, fascinosa anche con qualche ruga in più. È semplicemente un marito infedele, o anche un assassino? Se la prima metà di The Undoing è un patinato thriller erotico con un intrigo che promette scintille, la seconda diventa un dramma processuale senza grandi guizzi narrativi o stilistici. Più lineare del previsto e inutilmente dilungata, la storia avrebbe avuto bisogno della metà delle puntate o di un film di due ore per funzionare meglio. Mentre l'ultimo episodio è necessario per tirare le fila – c'è anche il colpo di scena, dignitoso ma non a effetto –, la maggior parte degli altri sembra voluta soltanto per far spazio al popoloso cast. Peccato che il patriarca Sutherland, il detective Ramirez e l'amica pettegola Lily Rabe abbiano ruoli minuscoli, e a spuntarla a sorpresa sia l'avvocato difensore di un'ottima Noma Dumezweni. Nel complesso senza infamia né lode, per quanto recitata ad arte, The Undoing si segue con curiosità costante. Ma in giro ne parleranno più per il look alla Eyes Wide Shut della ritrovata Nicole o per le forme da capogiro della prezzemolina Matilda. (6,5)

L'ho letto sei anni fa di questi tempi. Quando eravamo ancora una famiglia ma, lo scrivevo nella recensione, mostravamo già le prime crepe preoccupanti. Grande ritorno in libreria dell'autore di Un giorno, Noi era un romanzo diversissimo dal precedente ma non meno struggente. Soprattutto per me, che in fatto di dissapori domestici la sapevo già lunga... Qualche anno dopo avrei avuto la fortuna di incontrare David Nicholls a Milano e di raccontargli di me disturbandolo su una panchina: lui era al cellulare, stava correggendo una sceneggiatura che di lì a poco sarebbe diventata questa miniserie della BBC. Ancora inedita in Italia, Us traspone in quattro episodi il romanzo del 2016. Come appare questa storia oggi, se nel frattempo la mia famiglia si è sfaldata ufficialmente ed è arrivato il Covid-19 a proibire gli spostamenti? La trama segue tappa dopo tappa il grand tour della facoltosa famiglia Petersen: mamma, padre e figlio ormai ai ferri corti, che prima di separarsi tentano di salvare il salvabile in un lungo viaggio per l’Europa. Protagonista assoluto è uno straordinario Tom Hollander, caratterista inglese capace di slanci e patetismi: capofamiglia ansioso e razionale, intrappolato nella grigia routine del mestiere di scienziato, si improvvisa supereroe per recuperare l’amore della moglie Saskia Reeves – odiosissima – e del figlio ribelle, il promettente Tom Taylor. Tra passato e presente, tra Parigi e Venezia, Hollander ripercorre i luoghi nostalgici della luna di miele e bracca il fuggitivo Taylor, adolescente alla ricerca della propria identità sessuale, in lungo e in largo: il protagonista sta inseguendo il figlio o scappando dal responso, ossia la rottura definitiva? Ironico e delicato, inguaribilmente British, Nicholls ci spezza il cuore come soltanto lui sa fare. E ci offre il ritratto agrodolce di una coppia al capolinea, sopravvissuta con difficoltà alla fine della giovinezza e alla morte della primogenita, di cui ormai restano soltanto pochi ricordi in una scatola. Cosa rende una famiglia tale? Le carte di un eventuale divorzio ne sancirebbero la fine? Ogni giorno, soprattutto sotto le feste, me lo domando a proposito della mia. Ci ho ripensato con commozione con questa produzione inglese estranea al lockdown. Il prezioso promemoria di quand'eravamo uniti, spensierati, in viaggio: noi, prima persona plurale. (7)

martedì 8 dicembre 2020

Recensione: L'Ickabog, di J.K. Rowling


| L’Ickabog, di J.K. Rowling. Salani, € 19,80, pp. 307 |

C'era una volta una scrittrice che allevò un'intera generazione di lettori. Una zia, una madrina, una maestra. Una di quelle che avrebbero fatto meglio a investire le proprie energie sui libri, anziché su Twitter, per non perdere la credibilità e per non sottrarci la magia dei nostri ricordi migliori. J.K. Rowling è tornata in libreria, ma quest'anno se ne sono accorti in pochi: rischiano di parlare più forte le sue considerazioni sui social rispetto a una storia come questa, di cui io stesso non sapevo di avere bisogno prima di leggerla. Peccato, perché è davvero una storia bella: soprattutto da scartare sotto l'albero a Natale. Avevo immaginato una lettura innocua e piacevole. Una favoletta per bambini per riempire il tempo, con più illustrazioni – quelle all'interno sono state realizzate dai piccoli lettori durante il lockdown – che parole. A sorpresa, questo libro dalla copertina verde smeraldo comprende trecento pagine fittissime di avvenimenti, dettagli e atrocità. Nella migliore tradizione dei fantasy medievali, infatti, propone al lettore la topografia di un regno particolareggiato e una densa serie di andirivieni condita da efferatezze di varia natura. Perché c'è del marcio a Cornucopia, proprio come nella Danimarca del Bardo.

Quando mi mangerai, Ickabog, lascia il cuore per ultimo. Vorrei mantenere i miei genitori in vita il più possibile.

Regno idilliaco dilaniato da cospirazioni e lotte intestine, è governato da un sovrano sprovvisto di qualsivoglia fermezza. Vanitoso, sciocco e volubile, re Teo si lascia consigliare da due serpi che fingono di avere a cuore i suoi interessi ma che, lavorando inosservati alle loro trame, rischiano di trasformare la monarchia in tirannide. Per nascondere i segni della corruzione, hanno fatto dell'Ickabog la causa di tutti i mali: il mostro leggendario vive nella nebbia e negli acquitrini dello spaventoso Nord, e le diatribe sulla sua effettiva esistenza hanno portato alla formazioni di eserciti di fortuna, tasse alle stelle, omicidi brutali poi imputati puntualmente alla creatura. C'è qualcosa di soprannaturale nella palude, oppure è un'invenzione a tavolino per distrarre il re dai misfatti dei sottoposti? L'allarmismo si ingigantisce passando di voce in voce. Il mostro è una suggestione crescente; un capro espiatorio per celare traffici mossi da opportunismo e omertà. I cattivi dell'ultima Rowling sono realmente cattivi. Uccidono atrocemente i genitori, minacciano gli orfani dei supplizi più brutali, spargono sangue e illazioni.

In tutti quegli anni, non era mai riuscita a convincere Marta che l’Ickabog non esisteva. Quella sera però avrebbe voluto credere anche lei nel mostro, invece che nella malvagità umana che aveva visto negli occhi di Lord Scaracchino.

Scorretto e un po' crudele, con una vena grottesca che ricorda Roald Dahl, il romanzo parla il linguaggio semplice dell'infanzia ma nasconde un cuore politico. Chi non si allinea alle idee dei consiglieri del re è percepito come un nemico pubblico. Gli eversivi sono destinati a scomparire nel nulla. I popolani cadono sotto il peso degli stenti e dei dazi. I bambini, chiamati a sbrigare cose da grandi, sfuggono a orfanotrofi dickensiani per coalizzarsi. Guidati da Robi e Margherita – il primo figlio di un soldato assassinato, la seconda di una sarta morta di stanchezza appresso alle richieste del sovrano –, i piccoli protagonisti rappresentano la speranza delle nuove generazioni. La purezza dei loro sguardi mette in moto timide rivoluzioni e marce pacifiste. E quando giungerà, l'immancabile lieto fine sembrerà il trionfo della democrazia. Intelligente e grazioso, cos'è L'Ickabog se non lo svelamento di un'ingannevole fake new? J.K. Rowling non ha perso il tocco. Tra una polemica e l'altra, purtroppo, ne avevo dubitato anch'io. Insomma: c'era una volta, in realtà, una scrittrice che per fortuna c'è ancora.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Coldplay – Magic

giovedì 3 dicembre 2020

Recensione: Io sono l'abisso, di Donato Carrisi

| Io sono l'abisso, di Donato Carrisi. Longanesi, € 22, pp. 382 |

Il lago di Como è il posto più tranquillo della terra, recitano le agenzie immobiliari. Ma nessun luogo è perfettamente al sicuro se c'è Donato Carrisi nei paraggi: l'autore e sceneggiatore pugliese, che da dieci anni frequento assiduamente in libreria, sceglie le location dei suoi romanzi con un fiuto infallibile per le anomalie. Anche il fondo limaccioso del lago, dunque, nasconde vortici e misteri sotto le acque placide. Descritto come una discarica, conserva nelle sue profondità forzieri e cadaveri smembrati dalla corrente. Quanti decidono di farla finita annegandosi? Quanti anziani, spostandoci invece in città, vengono ritrovati ormai mummificati nell'indifferenza del parentado? Torbido come un brodo primordiale, il lago è amico di coloro che desiderano l'oblio: sotto, intanto, si agitano forze sconosciute.

Chi nasceva in questi posti, invece, non se ne poteva andare. La cacciatrice ci aveva provato, traslocando in un appartamento in una città lontana. Ma dopo un po' il lago era venuto a cercarla, e lei aveva iniziato a sentire il suo richiamo dagli scarichi dei lavandini. Un odore penetrante accompagnato da una voce di misteriosi gorgoglii, l'invito a ricongiungersi con quel brodo ancestrale. Era colpa del lago che ti entrava nelle ossa fin da bambino. Lo bevevi nel ventre di tua madre. Gli appartenevi.

Io sono l'abisso è la storia di tre personaggi che vorrebbero essere invisibili. Sprovvisti del nome di battesimo, vengono identificati dalle loro caratteristiche fisiche o dalle loro compulsioni. Mai realmente anonimi, si braccano in queste quattrocento pagine sorprendentemente intime. Eccezionalmente, il fulcro del romanzo è costituito dalla somma dei loro dolori. L'uomo che pulisce è un netturbino con un infernale amico immaginario, due cicatrici sulle tempie e un'infanzia scandita dalle visite degli assistenti sociali. Semianalfabeta e con una questione irrisolta con la madre, questo novello Norman Bates si ribella a un destino di scarti intromettendosi furtivamente nella routine dei comaschi: perfino i rifiuti custodiscono storie. Solitamente incapace di empatia, l'uomo si espone salvando una tredicenne di buona famiglia dall'annegamento: la ragazza col ciuffo viola, tanto disperata da non vedere più una via d'uscita, è troppo piccola per fare le cose da grandi a cui la costringono e, come il netturbino, vorrebbe soltanto scomparire. Mentre veglia sulla giovane come un vigilante, l'uomo che pulisce rischia di finire nella tela della cacciatrice di mosche: una collaboratrice di giustizia di mezza età, schierata a difesa delle donne, che in seguito al ritrovamento di un braccio mozzato si convince che il lago celi i misfatti di un femminicida impunito. Un sociopatico può trasformarsi all'occorrenza in un angelo custode? Le mura che proteggono le ville dei ricchi servono per proteggere la discrezione delle famiglie, o per nascondere qualcosa? Può una madre perdonarsi se, abituata a stanare il male, ha commesso l'errore di non vederlo aleggiare intorno ai propri familiari?

Le storie non sono mai lineari, si ripeteva. Invece sono labirinti. E, a volte, ci si imbatte in porte chiuse che immettono in realtà parallele o in altre segrete.

Maestro di rompicapi e incastri esemplari, dopo due bestseller ai quali avevo imputato una certa ripetitività, Donato Carrisi mi fa ricredere con la lettura di un romanzo sì imperfetto, ma diversissimo dagli altri. A corto di colpi di scena realmente a effetto, con un epilogo per me troppo frettoloso che non rende giustizia al destino di tutti, Io sono l'abisso si ribella agli stilemi dei thriller in serie e gioca a carte scoperte: in una narrazione a capitoli alterni, infatti, seguiamo le azioni tanto dei buoni quanto dei cattivi. L'originalità, per una volta, sta nell'immediatezza. Più semplice e meno legato ai ritmi americani, il romanzo è guidato dalle motivazioni di personaggi atipici. Malinconici e dolenti, non inquietano mai ma infondono un'angoscia familiare: sembrano stati restituiti al lettore attraverso l'abisso della cronaca nera. Da poco padre di un secondo figlio, Donato Carrisi è più sensibile che mai alle tematiche dei notiziari. E, per questo, più allarmato. Abusi sui minori, revenge porn, violenza domestica: fare zapping, oggi, significa imbattersi nell'onnipresenza del crimine; nella terribile banalità del male. Donato Carrisi non cambia canale. Studia, osserva e somatizza, e questa volta racconta l'attualità nuda e cruda attraverso un punto di vista originale. Il difetto: dal momento che ci si ispira a storie vere, l'intreccio più prevedibile del solito potrebbe deludere gli amanti dell'adrenalina. Più che il thriller al cardiopalma pronosticato, questo è il racconto di tre solitudine legate dal filo del disagio: si colmeranno a fine lettura? Probabilmente non vi mozzerà il fiato, ma vi spezzerà il cuore.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Melancholia - Léon