giovedì 25 febbraio 2021

Recensione in anteprima: L'ultima estate, di André Aciman

| L'ultima estate, di André Aciman. Guanda, € 16, pp. 160 |

Prendete una località turistica in alta stagione. Collocateci un nutrito gruppo di villeggianti americani: rumorosi, cinici, un po' sprezzanti. Aggiungete al loro tavolo un ospite misterioso: un gentiluomo sulla sessantina, con un impeccabile accento inglese, origini peruviane e un fiuto infallibile per i segreti altrui. Se poi vi anticipassi la nascita di un amore istantaneo, in grado di superare un importante gap generazionale, ogni indizio sarebbe al posto giusto. A occhi chiusi sapreste dirmi di essere proprio in una storia di André Aciman. Dopo il successo di Chiamami col tuo nome e di quel seguito non apprezzato all'unanimità – a me piacque molto –, l'autore torna oggi in libreria con un romanzo che somiglia più a un racconto lungo. Scritto con eleganza e ironia, si legge in un pomeriggio. Se da un lato Aciman ripropone nuovamente la sua formula consolidata, dall'altro aggiunge leggere venature paranormali per sorprendere il lettore.

La persona amata ritorna sempre. Vedete, è la vita a essere transitoria, non l'amore.

Ambientato in una Costiera amalfitana sospesa nel tempo, dove tutto appare possibile, L'ultima estate si colora di magia grazie al dono di Raùl. A colpo d'occhio il sessantenne indovina i segni zodiacali, i sentimenti inespressi e le conformazioni familiari dei protagonisti. Capace anche di inspiegabili abilità taumaturgiche, filosofeggia di multiversi e connessioni, vite passate e vite possibili. Malinconico flaneur, Raùl fa da Cicerone alla bella Margot: l'unica tra gli americani a trattarlo con sprezzo. Tradita troppo in fretta la dimensione corale dell'inizio, Aciman segue la strana coppia tra pranzi prelibati, passeggiate e rivelazioni. Paradisiaco, lo sfondo campano cinge i protagonisti in un abbraccio di frutti esotici, giardini lussureggianti, anfitrioni facoltosi. E, al solito, grazie alla cultura umanistica dell'autore si tinge di un irresistibile fascino leggendario: nel sesto libro dell'Eneide, infatti, Virgilio scriveva che lì sorgevano i “lugentes campi”, luoghi in cui solevano struggersi gli amanti inappagati.

Non facciamo che ricostruire e reinventare sia il passato sia il futuro. A volte, mentre ci troviamo per strada o su un autobus affollato, ci assale il pensiero che quella persona di cui abbiamo intercettato lo sguardo o che abbiamo appena incrociato sul nostro cammino sia un'altra versione di qualcuno che abbiamo amato in passato e ameremo in futuro. Quella persona, però, potremmo essere noi stessi in un altro corpo. E la cosa bella è che lo sentiamo entrambi. Quella persona siamo noi, oppure è qualcuno destinato a noi che però in ogni vita continua a sfuggirci? Noi in un altro, non è forse questa la definizione di amore?

Delicato dialogo generazionale ai confini della realtà, il racconto propone una spiegazione soprannaturale per far luce su colpi di fulmine e dejà vu. Avete mai avuto la sensazione di essere già stati in un posto? Vi siete mai domandati cosa spinga persone inconciliabili l'una tra le braccia dell'altra? Il pieno apprezzamento dell'Ultima estate dipenderà dal vostro grado di romanticismo, da quanto crediate alle anime gemelle e ai miracoli. Scettico per natura, ho accolto con il sopracciglio alzato la deriva fantasy di Aciman – questa volta somiglia più ai colleghi Guillaume Musso e Marc Levy –, benché vinto comunque dalla dolcezza dell'epilogo. Il più grande difetto di questa lettura si rivela essere anche il suo più grande pregio: lo sfondo oleografico di un'Italia da cartolina, anzi da favola, che riempirà di malinconia al pensiero di quando ci era concesso di essere innamorati, abbronzati e in vacanza. Si chiama L'ultima estate, ma ci tenta a fantasticare sulla prossima. Cosa avrà in serbo per noi?

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – Un'estate fa

lunedì 22 febbraio 2021

Recensione: Questo giorno che incombe, di Antonella Lattanzi

| Questo giorno che incombe, di Antonella Lattanzi. Harper Collins, € 19,50, pp. 456 |

Lo hanno ribattezzato il Giardino di Roma. Lontano quanto basta dal caos cittadino, è il quartiere perfetto per ricominciare. Le strade portano nomi di attori e cantanti famosi, i parchi intorno sono verdeggianti, la vita trascorre placida. Composto da sei palazzoni azzurri, con al centro un cortile animato dagli schiamazzi dei bambini, il complesso residenziale in cui si trasferiscono Francesca e famiglia sembra paradisiaco. I vicini sono ospitali, anche se un po' ficcanaso: gli appartamenti, infatti, sono sprovvisti di tende. Il cancello rosso all'ingresso ispira un senso di sicurezza diffuso: rossi sono anche i braccialetti ai polsi dei più piccoli. Lì i protagonisti saranno felici, al sicuro. Come nel più classico degli horror, però, niente è come sembra. E ben presto Francesca si trova a fare i conti con i modi scorbutici dei responsabili della portineria, strane ombre che si muovono ai margini del suo campo visivo, atti di piromania inspiegabili... Fino alla tragedia: una sparizione raggelante – un rapimento, forse un omicidio –, che trasforma il tranquillo quartiere in uno scenario da cronaca nera. Che fine ha fatto Teresina? Il pericolo è all'interno: dentro quel condominio non così perfetto; nella testa a soqquadro di Francesca, donna sull'orlo di un tracollo psicologico.

Perché non succede qualcosa a qualcuno? Anche qualcosa di brutto, purché succeda qualcosa (sei una creatura malvagia – scusa, scusa).

Madre di due bambine piccole, moglie nell'ombra del ricercatore universitario Massimo, la protagonista è una trentacinquenne vittima dell'alienazione tipica di molte neomamme. Nevrotica, sfiorita, senza prospettive future, patisce l'insonnia, gli automatismi della routine e lo start working mentre il marito è impegnato altrove: sradicata da Milano e vittima di misteriosi vuoti di memoria, prende a guardare con sospetto e un po' di invidia il vicinato. I condomini formano un organismo policefalo. Dotati di un senso di giustizia tutto loro, si riuniscono in autentiche adunate e sobillano contro chi non si adegua: l'affascinante Fabrizio, ad esempio, violoncellista che preferisce starsene in disparte. Pur di ritrovare sé stessa, Francesca sarebbe disposta a diventare parte di quel coro vagamente mostruoso? Proposto per il premio Strega da Domenico Starnone, Questo giorno che incombe è un romanzo sorprendente. Anzi, è tanti romanzi in uno. Una riflessione amarissima sulla maternità, la solitudine, la depressione. Una storia d'amore tanto spasimata quanto impossibile. Un thriller psicologico che strizza l'occhio al giornalismo d'inchiesta.

Le altre madri sanno tutto, forse. Io non so niente. Se le madri sapessero tutto, i bambini non scomparirebbero. Se le madri sapessero tutto, i figli non sarebbero estranei con sopra la faccia dei tuoi figli. Le madri non sanno niente, e i figli soffrono, crescono, sbagliano, chiedono aiuto da soli nella notte ma nessuno li viene a salvare, crescono, vivono, impazziscono, muoiono, e le madri non sanno niente. Non esiste un sesto senso delle madri. C'è solo il caso, l'amore, la speranza, o il tradimento.

Il troppo stroppia? A giudicare dal parere di qualche lettore scontento, sì. Personalmente ho trovato il microcosmo di Antonella Lattanzi di un magnetismo irrinunciabile, anche se sarebbe meglio per la vostra incolumità non soggiornarvi troppo a lungo. Sensibile nello scandagliare tanto il mondo degli adulti – pulsioni segrete, bugie, tensioni – quanto quello dei bambini – riti, giochi, cantilene –, l'autrice architetta una vicenda oscura, dai ritmi perfettamente cinematografici, dove una scrittura sincopata e ossessiva fa da potente amplificatore. Generosissima, Lattanzi rende il romanzo un concentrato di grandi terremoti interiori, di grandi passioni, con un senso di tragedia che aleggia palpabile dalla prima all'ultima pagina. Minacciato da un predatore senza nome, il quartiere appare d'un tratto in decadenza. Il cortile è una scena del crimine. Mentre fuori dai cancelli si muovono ombre sinistre e giornalisti affamati di scoop, dentro è un assalto continuo ai nervi della povera Francesca. Quella casa, all'inizio inondata di luce, si fa man mano più piccola, più buia, più maligna. E, grazie a un espediente memorabile, comincia a parlare alla donna: autentica coprotagonista, diventa infatti la migliore amica e la peggiore aguzzina di Francesca. Storia di una novella Rosemary's Baby, Questo giorno che incombe ha i palazzoni di Eshkol Nevo e Aisha Cerami – a ogni piano c'è una storia, una voce, un rumore –, ma si lascia divorare grazie alle atmosfere del miglior Polanski. Tesissimo, è un attacco di panico. Un ossimoro. È urlare, ma sottovoce. Di là ci sono le bambine che dormono, meglio non svegliarle.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sunday Girl – Where is my mind

sabato 20 febbraio 2021

Il mio primo incarico: gli insegnanti imparano

12 febbraio 2021. Ore 13:20. 

Ho scattato questa foto la settimana scorsa, in un'aula deserta. Non sapevo che dall'indomani non avrei più rimesso piede nella scuola della mia prima vera supplenza: il liceo scientifico di Ortona (CH) Alessandro Volta. Siamo passati improvvisamente in DAD e la mia ultima settimana di lavoro si è svolta a casa, davanti al computer, senza la possibilità di congedarmi a dovere: c'è voluto poco, infatti, affinché mi affezionassi alla sveglia alle 5:30 del mattino, alle attese e alle accelerate della vita da pendolare, agli altri passeggeri del regionale diretto a Pescara, ai pettegolezzi in aula professori, alla schiettezza un po' rumorosa dei ragazzi di quarta e quinta. 

Ho insegnato, Italiano (l'Illuminismo e Parini, D'Annunzio e Pascoli) e Latino (l'esametro, Lucrezio; Plinio il Vecchio, Quintiliano, Tacito). Ho imparato. A chiedere indicazioni a chicchessia, a fraternizzare con gli autisti degli autobus, a usare il registro elettronico Argo, a tenere testa tanto alle pretese dei superiori quanto a quelle degli studenti, a impostare un compito in classe, poi a correggerlo. In venticinque giorni di viavai, dal 19 gennaio al 12 febbraio, sono diventato un po' più grande. Ho preso confidenza col suono della mia voce, con le molle delle mascherine che mi segano le orecchie, con l'ampiezza delle mie braccia mentre gesticolo. Non so bene quando sia successo né come, ma a un certo punto nei corridoi non mi scambiavano più per un alunno travestito da adulto: finalmente credibile, mi sono sentito al posto giusto, e sì, ho avvertito un fremito di emozione nello spiegare  la musicalità della "Pioggia nel pineto", ma soprattutto nel negare agli studenti recidivi il permesso di andare al bagno.

La supplenza è finita poco fa, ho salutato tutti davanti allo schermo. Chiuso il computer, mi sono guardato intorno in cerca di un nuovo senso da dare alle mie prossime giornate, alle mie nuove attese, e ho pensato: chissà se in strada, prima o poi, riconoscerò lo sguardo di uno studente attento quando potremo tornare a girare a volto scoperto; chissà quando mi sentirò chiamare ancora professo'.

martedì 16 febbraio 2021

Recensione: Lolita, di Vladimir Nabokov


| Lolita, di Vladimir Nabokov. Adelphi, € 12, pp. 395 | 

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Sono passati sessantasei anni da quando Vladimir Nabokov spese queste parole indimenticabili per introdurci la sua protagonista, Dolores Haze, e stupisce constatare come la malia della scandalosa ninfetta continui tutt'ora a illuminare, ardere, far dannare. L'incipit, uno dei più belli di sempre, ci catapulta immediatamente in una storia tossica che non ha bisogno di presentazioni: quella tra Humbert Humbert, accademico di mezza età originario della Costa Azzurra, e l'unica figlia dell'insipida Charlotte, sposata soltanto per bearsi della vicinanza della bambina. Perché Lolita, tredici anni, è questo: una bambina, già consapevole della propria avvenenza, bramata da un predatore sessuale. Il suo stesso patrigno. A dispetto di una tematica che riempe di repulsione – la pedofilia –, il censuratissimo classico dell'autore russo annovera uno stuolo di lettori che ne parlano come del romanzo della vita: cosa lo rende un capolavoro estraneo tanto al tempo quanto alla morale? Attratto dalle mentalità deviate e dagli argomenti scabrosi, ho letto senza formulare giudizi «la confessione di un vedovo di razza bianca»: il diario dettagliato di un'ossessione morbosa che, anziché inquietare, nella prima parte regala sprazzi di impensabile poesia. Il merito spetta a Humbert, il supremo dei narratori inattendibili: con voce musicale e mani da rapace, sceglie parole di miele per svelarci le proprie perversioni. Soave perfino nella turpitudine, irresistibile anche quando osceno, intreccia fantasie pedopornografiche e pensieri omicidi in una tessitura sopraffina di istinti animaleschi, caos e fatalità. Dall'alto di una prima persona tronfia ed egoriferita, Humbert sventola il dito verso una giuria immaginaria. Apostrofa il lettore.

Non siamo dei depravati! Non violentiamo come fanno i bravi soldati. Siamo miti signori infelici, con occhi da cane, sufficientemente ben integrati da saper controllare i nostri impulsi in presenza degli adulti, ma pronti a dare anni e anni di vita per un'unica occasione di toccare una ninfetta. Non siamo, nel modo più categorico, degli assassini. I poeti non uccidono mai.

Tra lunghe digressioni e alibi furbastri, legittimato da una ricca schiera di poeti antichi e criminali, il protagonista sotto accusa costruisce un'orazione ciceroniana dove attraverso gli espedienti retorici più fantasiosi cerca di giustificare ogni scelleratezza. Comunque ben lontani dall'assolverlo, non possiamo non gustarci i suoi guizzi funambolici; un eloquio impreziosito di francesismi e calembour, colto fino a diventare insopportabile; la resa visiva di ambientazioni lussureggianti e lussuriose, d'altri tempi, popolose di creature botticelliane. Se la prima parte sarebbe da imparare a memoria – il capitolo più magistrale, per quanto disturbante, racconta l'inutile veglia di Humbert in attesa che i narcotici agiscano sulla figliastra: medita di violarla nel sonno –, la seconda si trascina fino ad annoiare. Rinunciando a quell'incantevole sentore di sospensione, i protagonisti si dedicano a estenuanti viaggi in macchina che danno al romanzo un'indigesta dimensione on the road. La loro è una fuga dal mondo, dal sospetto altrui, che tuttavia non può tagliare fuori il tempo: continuando a scorrere incessantemente, arrotonda le forme della giovinetta; le aggiunge centimetri in altezza; la rende più ordinaria. Servita e riverita, schiava d'amore o forse perfetta padrona del gioco, Lolita tiranneggia al suon di gelosie e capricci. Bambina fatale, amante dei rotocalchi cinematografici e del tennis, conduce il romanzo verso territori noir e il suo compagno di viaggio in una caccia sincopata, febbricitante, vertiginosa.

La vita è molto breve. Da qui a quella vecchia macchina che conosci così bene ci saranno venti, venticinque passi. È un tragitto brevissimo. Falli, quei venticinque passi. Subito. Immediatamente. Vieni così come sei. E vivremo per sempre felici e contenti.

La mia Lolita – quella che, dall'immaginario collettivo, ricordavo ben prima di fare la sua conoscenza – abita le prime duecento pagine e basta. È una farfalla intrappolata in una cornice, splendida perché cristallizzata, immortalata in tutta l'innocenza dei suoi anni sfacciati. Al posto di trasformarsi in una riflessione sulla fugacità della giovinezza, sull'eternità della poesia, l'epilogo tradisce la compostezza dell'inizio. Privata della sua magia, strappata da un Eden in cui prende languidamente il sole, la protagonista «morta e immortale» viene trascinata in disavventure rocambolesche. Conosce lo squallore dei motel, l'irruenza del sesso, il desiderio di altri malintenzionati, la maturità. Sgualcita, strattonata a destra e a manca, diventa più adulta e perde di poesia. Tradisce Humbert Humbert, secondo me, ma viene a sua volta tradita da Vladimir Nabokov. Non ho apprezzato, in particolare, il salto cronologico degli ultimi capitoli: ambientati a tre anni di distanza dagli eventi narrati, sono un brusco ridestarsi; l'amara consapevolezza che perfino le creature leggendarie, le ninfe, perdano la scintilla. Da questo sogno erotico impossibile, lungo oltre mezzo secolo, sarebbe stato meglio non svegliarsi.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Sufjan Stevens – Mystery of Love

venerdì 12 febbraio 2021

Verso gli Oscar: Malcolm e Marie | Promising Young Woman | Pieces of a Woman

110 minuti, due soli attori, un film girato in pieno lockdown. Pochi mezzi ma grandissimi ambizioni, per un dramma da camera che vanta l'autore della serie TV Euphoria ma che nello stile – il bianco e nero, il sottofondo jazz, il montaggio concitato, il ricorso alla camera a mano – urla Nouvelle Vague in ogni sequenza. È l'una del mattino. Un regista e la sua musa tornano dalla prima di un film. In attesa di leggere le recensioni della critica bianca di turno, si scontrano: mentre lui è su di giri, euforico fino a sembrare molesto, lei appare al contrario amareggiata per via di una mancanza. Il compagno, novello Spike Lee, non l'ha ringraziata pubblicamente. Il film è più di chi lo gira o di chi lo ispira? Contano più la storia o lo stile? Perché, soprattutto, stare insieme a una venticinquenne con un passato dolorosissimo alle spalle: voglia di saccheggiarne il vissuto, oppure amore? Sexy e granitici, verbosi e in forma smagliante, John David Washington e Zendaya sono due terroristi emotivi che si braccano come pantere in una gabbia di vetro. Urlano recriminazioni da un capo all'altro della casa. Si rimpinzano di maccheroni al formaggio, ridono, piangono, si stuzzicano. Trasformano il tavolo della cucina o il talamo in un ring: a bordo si disputano sfuriate e tregue, amori e guerre, crudeltà e dolcezza. Mentre Washington fa l'istrione, grazie a un personaggio irrequieto ma ben più conformista del previsto, Zendaya ammalia recitando per sottrazione: l'ex ragazzina prodigio, ormai donna dalla bellezza statuaria, è una pantera nera che ha conosciuto la vita selvaggia e tutto il suo pericoloso degrado. Malcolm e Marie cercano ora confronti urlati, ora coccole spinte, ora segreti mai svelati, in una gara di bravura senza pari: soltanto alla fine decreteremo chi avrà l'ultima parola. Esperimento pretenzioso ma vincente – più a fuoco di Mank nel raccontare i meccanismi produttivi hollywoodiani –, il lungometraggio di Levinson divide critica e pubblico. Citando il suo protagonista, è l'esempio di un cinema estetizzante disinteressato a veicolare un messaggio morale, ma pieno di cuore ed energia. Il risultato è un manuale di critica cinematografica fuso ad arte con i referti di un'autopsia di coppia. (8)

Non fatevi ingannare dal dolce visino da cucciolo smarrito di una Carey Mulligan qui in stato di grazia, tutta vestiti confetto e rossetti vermigli: è una forza della natura. Non fatevi ingannare dalle etichette né dai sottogeneri: questo non è il solito rape and revenge. Un po' Lolita, un po' Lisbeth Salander, la giovane protagonista è una cacciatrice di predatori sessuali. Nemica giurata degli uomini che non rispettano le donne, è un'adescatrice amante dei travestimenti e dei colpi di teatro. Eccola in un bar, con le lunghe gambe messe in evidenza dalla gonna corta. Eccola a una festa di addio al celibato, agghindata come un'infermiera sexy. È strategicamente in attesa che qualcuno la abbordi. Ma le sue dita affusolate, dalle unghie sempre smaltate, sono tagliole pronte a serrarsi sui predatori notturni. Il suo diario contiene una lista chilometrica di nomi maschili, affiancata da croci rosse. Fredda e spietata, sta perdendo il contatto con la realtà: dentro le monta infatti un odio crescente, esagerato, incontrollabile. Come il titolo suggerisce, un tempo è stata una ragazza promettente. Poi cos'è successo? Perché il ritorno a casa dei genitori, la vita in pausa e le rinunce; perché i pensieri di vendetta, tossici tanto quanto le ingiustizie? Un nuovo amore – quello per un adorabile pediatra, ex compagno d'università – sarà forse più forte della vecchia sete di vendetta? Folgorante, l'esordio alla regia della rivoluzionaria Emerald Fennell – finora conosciuta come attrice, è stata Camilla nell'ultima stagione di The Crown – è una commedia nera fieramente pop – l'irresistibile colonna sonora oscilla da Britney Spears a Paris Hilton –, che prima intriga da morire, poi diverte e fa sospirare, infine sconvolge per via delle tinte più fataliste. Frullatore di toni, temi ed emozioni, Promising Young Woman è un grido femminista che ricorda le argomentazioni della migliore Diablo Cody e vanta le carte giuste per sollevare l'Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale. (8)

Una giovane coppia sceglie che il loro bambino nascerà in casa. In seguito a tragiche complicazioni, purtroppo, il neonato ha vita breve. La colpa di chi è? Di una madre alternativa e dunque irresponsabile? Dell'ostetrica? Credevo che avrei visto un piccolo film con una grandissima attrice protagonista. Invece, oltre a quel parto lungo un piano sequenza di cui tutti a giusta ragione parlano, c'è anche tanto altro. Una parabola sull'elaborazione del lutto e sul perdono, piena di pudore e decoro, con simbolismi innumerevoli – le mele, il ponte in costruzione, i negativi fotografici – che una volta sbrogliati mi hanno ridotto impunemente in una valle di lacrime. Viscerale nella prima parte, apparentemente distaccata nella seconda, la premiata Vanessa Kirby è la padrona perfetta della propria storia e del proprio dolore. Bellissima e composta, nell'incipit suda, geme, urla, piange, si contorce. Ma la sua sofferenza fisica, presto, lascia spazio a quella interiore. Destinata a tramutarsi in regina di ghiaccio, prende a guardare il mondo, le relazioni umane e gli altri bambini con una specie di indifferenza. Benché centro nevralgico del film, è sempre altrove: un fantasma inquieto che sembra trovare sfogo soltanto nella controversia, nel rifiuto, nello scontro con gli altri membri della famiglia. Egoista, orgogliosa, trincerata in una devastazione solo e soltanto sua, entra in rotta di collisione con la madre conservatrice – Ellen Burstyn, memorabile – e con il compagno – Shia LaBeouf, controparte tenera e animalesca destinata a scelte per me tutt'altro che contestabili. Nemmeno i primissimi piani possono catturare l'essenza del personaggio di Vanessa Kirby. Perfino nella scena più toccante, quella del processo, sorprende con un aplomb estraneo agli strepiti: è ai comprimari, infatti, che spetta la parte più emozionale del film. Un puzzle in cerca di una risoluzione, che fa però storcere il naso per il didascalismo un po' melenso della scena finale. Il resto è una bomba emotiva destinata a implodere in silenzio, ma anche a seminare schegge – e semi, sì – dappertutto. (7,5)

lunedì 8 febbraio 2021

Recensione: Piperita, di Francesco Mila

 
| Piperita, di Francesco Mila. Fandango, € 18 |

È un esordio di un autore giovanissimo, classe 1996. Ha un titolo e una copertina che sanno d'estate, di freschezza. Ma Piperita è una romanzo che spesso mi ha messo emotivamente alla prova. Iniziato nei giorni da pendolare, nel tragitto casa-lavoro, si è lasciato leggere lentissimamente nonostante le trecento pagine scarse. Ho dovuto metabolizzare i dolori del protagonista, infatti, insieme ai miei. È stato difficile. Quando si parla di tematiche vicine al mio vissuto, mi capita spesso di restare deluso: era successo di recente con l'ultimo Roberto Camurri. Vagamente infastidito dalla pacatezza dell'autore NN – pretendevo bile, lacrime, vergogna: pretendevo di specchiarmici –, ho apprezzato al contrario l'approccio viscerale di Francesco Mila. Leggendo nuovamente di una famiglia disfunzionale, analizzando gli strascichi sentimentali lasciati in eredità dalla sindrome d'abbandono, ho trovato tra le pagine la mia antica rabbia verso gli adulti; le memorie di un'infanzia agrodolce; tutto lo smarrimento della mia generazione. Piperita è un cerotto che ho preferito scollare piano anziché strapparlo via. Ci ho messo tutta la pazienza del mondo, nella speranza che la ferita – nascosta sotto la striscia adesiva – intanto fosse guarita da sé. Questa è la storia di una di quelle famose famiglie infelici a modo loro, ma anche a modo mio.

È una sensazione opprimente: volere disperatamente che una persona se ne vada, per respirare, e quando se n'è andata davvero, non respirare più.

Diviso in due metà opposte ma complementari, il romanzo parte dai primi ricordi di Lapo: ha appena quattro anni quando nasce Emma, sua sorella, e qualcosa si guasta per sempre. Ad esempio il rapporto tra i suoi genitori. Perché papà, medico, sta più in ospedale che a casa? Perché mamma, insegnante, piange più forte della neonata e a volte minaccia fughe, a volte suicidi? Testimoni dell'impotenza del padre e della depressione della madre, Lapo ed Emma sopravvivono a un'infanzia di dissapori grazie alla loro affinità alchemica, che raggiunge i picchi più felici in vacanza. Sua sorella, soprannominata come il personaggio dei Peanuts, è una forza della natura. Simpaticissima, vitale, bugiarda, al lago o in villeggiatura in Calabria inventa storie dentro storie nelle quali è bello rifugiarsi per sfuggire alle tempeste domestiche: perciò sotto il pelo dell'acqua ci sono le lische spettrali dei bambini morti annegati; nella pancia delle donne in dolce attesa si apre una magica finestra; i ricordi di un viaggio a Disneyland si colorano di verità impossibili. I protagonisti condividono le favole, ma anche il sospetto dei tradimenti; il turbamento. Nella seconda parte, inevitabilmente, si trasformano: quando arrivano gli anni della pubertà, cupi e inquieti per definizione, Lapo ed Emma sperimentano lo stesso male che affligge i genitori. L'incomunicabilità è un contagio. Perché Lapo non riesce ad aprirsi completamente con Greta, la sua fidanzata, trincerato dietro comportamenti passivo-aggressivi? Perché Emma smette di mangiare con gusto, fino ad assottigliarsi a vista d'occhio: vuole forse scomparire? Nelle altre stanze, dappertutto, riecheggiano le parolacce e le recriminazioni di mamma e padre. Acuto e impietoso osservatore, il primogenito annota i tira e molla, gli avvocati divorzisti nominati e poi mai consultati, le smanie della genitrice alla toeletta: vanitosa, incostante e bellissima, la madre vive in un frullatore animato da pianti e slanci, periodi oscuri e feste sfrenate, citazioni pretenziose di film e attori hollywoodiani. Cos'ha ereditato Lapo – riccio e cespuglioso, come il papà di origini meridionali – da lei? Se somigliasse al suo mito cinematografico, il divo James Dean, sarebbe un figlio più amato?

Io lo so che non sei cattivo, anche se spesso ti comporti come se lo fossi. E so anche che mi vuoi bene. Ma l'affetto qualche volta bisogna saperlo dimostrare. I demoni, ti assicuro, li abbiamo tutti. Ma se i tuoi li tiene sempre chiusi, per noi respirare è impossibile. Fagli cambiare aria. Mandali a fare la spesa, almeno quando sei con me. Vedrai che farà bene a tutti, ai demoni e a te.

Piperita è un viaggio poetico nel cuore dell'inquietudine giovanile. Destinato a incupirsi di svolta in svolta, si inasprisce e immalinconisce fino a far dimenticare i toni sognanti dell'inizio. A un certo punto, il soprannome infantile del titolo apparirà anacronistico, stonato. A un certo punto l'irresistibile maglia a righe in copertina sarà da riporre negli scatoloni, fuori stagione. Francesco Mila spiazza, con una storia per certi versi risaputa. La spensieratezza di Piperita cede il testimone al cuore pesante, e al cervello pensante, del fratello Lapo. Immediato ma visionario, colto e pop al tempo stesso, il narratore ha un po' della drammaticità di Alessio Forgione e un po' del senso di meraviglia di Fabio Genovesi. Fra aneddoti tenerissimi e riflessioni esistenziali, sogni favolosi e incubi sanguinari, ci apre le porte di una seduta psicoanalitica sull'elitarismo dolore. A lungo ho peccato della stessa superbia: mi credevo il più infelice e incompreso di tutti. Ho allontanato il mio prossimo per non essere allontanato a mia volta; ho preferito la solitudine all'abbandono. La terapeuta e Francesco ci dicono, per fortuna, che non tutto è perduto. Tornerà la stagione delle ciliegie. Tornerà un'altra estate, e al lago o a Napizia indosseremo la solita maglietta a righe. E torneremo a chiamarci a vicenda coi nomignoli, come i personaggi dei Peanuts, anche se nel frattempo saremo maturati lontano dai colori pastello dei fumetti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Pinguini Tattici Nucleari – Ahia!

venerdì 5 febbraio 2021

Let's talk about sex: Pure | Bonding S02 | Big Mouth S04

Marnie pensa al sesso. In continuazione. A occhi aperti e chiusi, immagina di vedere attorno a sé ventri, capezzoli, sederi; incesti, amplessi, ammucchiate anti-Covid. È una sex addicted come Michael Fassbender in Shame? È etero, omo, o forse bisessuale? Quelli che la tormentano sono le classiche paturnie di un disturbo ossessivo-compulsivo? Venticinquenne, protagonista di una logorante lotta contro sé stessa, la giovane sbriga lavori saltuari, alza troppo il gomito, vive a scrocco a casa di un'amica londinese. Inquieta e fuori posto, con i frequenti sguardi in camera del primo episodio e la sua bellezza tutta contemporanea, ricorda perfino un po' l'iconica Fleabag. Possibile mai che una serie così fresca, così pionieristica, sia stata subito cancellata in patria? Possibile che dovessimo affidarci a RaiPlay – solitamente molto pudico – per goderci il romanzo di formazione di una presunta pornomane? A dispetto dell'originalità dell'incipit, Pure esaurisce presto le sue carte vincenti. All'inizio prontissimo a farvi scoprire una chicca nascosta, di episodio in episodio ho iniziato purtroppo ad avvertire una certa insofferenza verso i comprimari – l'amico dongiovanni in astinenza, la collega lesbica, il coinquilino sexy –, inseriti soltanto per ampliare il minutaggio. Episodi più brevi avrebbero giovato, insieme ai riflettori puntati solamente sul talento comico di Charly Clive: Pure funziona a meraviglia quando c'è lei in scena, ma si perde poi nei mari di sbadigli delle sottotrame superflue. Insomma, lungi da me piangerne la prematura cancellazione: ben venga però un prodotto così, per rassicurare tutti gli spettatori in crisi per via della loro sessualità. Ci qualificano le nostre azioni; non i nostri pensieri – peccaminosi. (6,5)

Ci avevano aperto le porte del mondo del BDSM con sfrontatezza, autoironia e piglio inguaribilmente indie. Sebbene in sordina, i protagonisti di Bonding – piccola serie che ai tempi avevo consigliato in lungo e in largo, sulla scia dell'entusiasmo per The End of the Fucking World – sono tornati in una seconda stagione tutt'altro che attesa dal pubblico degli abbonati Netflix. Con il senno di poi, dopo averla vista e dimenticata nell'arco di due serate, posso dire a malincuore che nessuno ne avrebbe sentito realmente la mancanza. La mistress Tiff e l'amico Pete, allievo aspirante, vanno a scuola di sadomaso dopo essersi inimicati gran parte della comunità fetish. Prigionieri di una doppia vita, tentano come possono di conciliare professione e vita sentimentale: lei, che fa fatica a impegnarsi, si scopre innamorata persa del ragazzo di turno, nonostante il ritorno di una vecchia fiamma; lui, invece presissimo da un nerd occhialuto, a Capodanno si rende conto che il fidanzato non ha ancora fatto coming out in famiglia. La principale storia d'amore-odio, però, resta proprio quella tra i protagonisti: due migliori amici con un passato irrisolto, che vivono un rapporto tanto simbiotico quanto tossico. Tiff si sente al sicuro accanto a Pete. Pete, invece, si percepisce spericolato e ribelle in compagnia di Tiff. Sorpresi a un bivio, alle prese con progetti e priorità diverse, popolano otto episodi fitti di monologhi e dialoghi ben strutturati: per questo, purtroppo, il tutto risulta meno spontaneo che nell'esordio. Più patinata, più televisiva, Bonding si allinea ai temi della prima stagione, ma sono lontanissime le atmosfere delle belle commedie festivaliere. Peccato. È rapida e indolore, lì dove avrebbe dovuto impartirci qualche rumorosa scudisciata di più. (6)

La boccaccia di Big Mouth, longeva serie animata Netflix per molti già oggetto di culto, torna a spalancarsi nella quarta stagione. Riversando al solito ora oscenità inenarrabili, ora perle di saggezza. Questa volta si parla di masturbazione maschile e piacere femminile; del ciclo mestruale, sdoganato perfino nelle pubblicità italiane; di transessualità, coinvolgendo nel doppiaggio italiano anche la nostra Vittoria Schisano; di depressione e ansia sociale, personificate rispettivamente da un languido gattone e da una zanzara insopportabile. Sbucati da un capitolo di American Pie – la saga cinematografica per eccellenza che segnò gli anni pruriginosi delle mie scuole medie –, gli episodi iniziali ci portano in campeggio con i protagonisti: sono i più spassosi del ciclo. Finita l'estate, con il ritorno sui banchi di scuola, la monotonia è dietro l'angolo tra coming out, colpi di fulmine e riflessioni sull'identità culturale. Scollegati e caotici, gli episodi della quarta stagione compongono una polifonia nonsense – puntate futuristiche, sprazzi horror, confraternite infernali e fantasmi: chi ne ha più ne metta –, dove la natura demenziale della produzione prevale infine sulla qualità. Questione di punti di vista: per molti è la stagione migliore delle quattro; per me di gran lunga la peggiore. L'anno prossimo tornerò a trovare Nick, Andrew, Jessie e gli altri? Mi risintonizzerò, a colloquio coi miei Mostri degli ormoni? Scontento, per un'educazione sessuale e sentimentale come si deve, aspetterò con il batticuore il ritorno di Sex Education. (5,5)