[2012]
I bambini strillano e strepitano; all'asilo non ci vogliono andare.
Ma la piccola Klara, ultima nata in una famiglia litigiosa, lì
sta bene. Soprattutto, per il maestro Lucas. Klara
ogni tanto si perde e, quando tutta presa a contare le linee che
solcano il marciapiede non guarda se la direzione presa è quella
corretta, c'è Lucas – dolce, disponibile, affettuoso – a darle
una mano e condurla verso il bene. A scuola, dove il maestro gioca a
acchiapparella con alunni che lo venerano. A casa, dove spesso
quell'adulto solitario – nella sua vita privata, infatti, stanze
vuote, il divorzio e, all'orizzonte, la promessa dell'affidamento
congiunto e di un nuovo amore – si ferma a pranzo. I bambini dicono
tante bugie, ma le bugie non hanno mai fatto al caso di Klara, che al
contrario è precoce e sotto sotto – come lo si può essere solo a
quell'età - un po' innamorata del gigante buono e occhialuto che non
nega a nessuno un sorriso. Finché la bambina – che non è la
protagonista, perché questa non è la sua storia – non confessa,
imbarazzata, l'incofessabile: il suo amico adulto le avrebbe fatto
male. Come persone cattive sanno fare a bambini innocenti. Male così.
Il sospetto è
la storia dell'uomo su cui pesa l'accusa più grave che c'è. Il
sospetto che
è un titolo bugiardo: giacché lo spettatore, angosciato, non nutre
il minimo dubbio che quel padre di famiglia senza macchie, senza colpe,
abbia fatto pensieri impuri su quella creatura che maneggia, sulla
strada verso casa, alla stregua di un gioiello fragile. Agghiacciante
è la domanda che non mi sono posto – Lukas è un pedofilo davvero?
- e tremendo, in assenza di un (ir)ragionevole dubbio, è osservarlo
arrancare porta a porta, come un cane rognoso, mentre gli amici lo
scacciano, i commercianti gli si negano, il suo viso insonne si fa
tutto un livido scuro. Ho avvertito gli spintoni, gli insulti, il
peggio. Le orecchie che fischiano per i sibili biforcuti delle
malelingue e, sulla schiena, occhiate di quelle che squagliano il
cappotto. Mi sono sentito il suo male mortale per tutto il tempo; due
ore, queste, appresso a cui butti il sangue. Per resistere a uno dei
drammi più duri di Vinterberg servono una trasfusione, nervi saldi.
Sarai compassionevole? E tu, genitore, sarai abbastanza lucido da
discernere la bugia dalla verità, se il sangue tuo verrà, e dio non
voglia, a rivelarti un inquietante segreto? In mezzo a comprimari
grandi e piccoli, in una chiesa colma di sguardi a Natale, il profilo
inconfondibile di un Mads Mikkelsen – il signorile Hannibal che mi
ha fatto scordare Hopkins – protagonista di una sublime performance che è un ingrato calvario verso l'oro a Cannes.
Quell'anno,sospettato
di essere una delle migliori pellicole dell'annata, volava agli
Oscar. Vinceva Sorrentino, con quella Grande
bellezza
che – ancora prima di piangere su Alabama
Monroe e di
tormentarmi con l'epilogo senza pace ma perfetto dell'ultimo
Vinterberg – borbottavo, incompreso dai più, fosse come La
corazzata Potemkin per
Fantozzi. Il
sospetto resta straordinario, anche se ogni volta – troppa la bile che
sale in gola, troppa l'ingiustizia – avrai bisogno di un trapianto
di fegato. Presente la sensazione maledetta? (9)
[2012] Il medesimo anno di produzione, altra pellicola danese, lo stesso destino. A Royal Affair punta all'Oscar per il Miglior Film Straniero, un anno prima rispetto a Il sospetto. Con un Mikkelsen sempre magnetico che tenta l'en plein, portanto orgogliosamente la bandiera rossa e bianca di un Paese che sa fare grande cinema, e un genere diverso che – questa volta a giusta ragione – non è abbastanza ambizioso per il premio più desiderato. Alla base, un problema insuperabile: il mio disamore per tutto ciò che è storico. Quanto mi annoia? Tanto, troppo, e – con una durata che si aggira intorno alle due ore e venti – capirete perché il sontuoso dramma in costume di Nikolaj Arcel si sia prestato ora e non in precedenza a un sentito recupero. Ambientato nel XVIII secolo, alla corte di re Cristiano VII, parla di un Paese dalla storia ineditamente travagliata e di un triangolo che venne a crearsi nel momento in cui un carismatico medico – fruitore di libri proibiti, illuminista, rivoluzionario – s'intromise nella vita del re, infantile e iperattivo, e nelle stanze della giovane regina, splendida e malinconica nobildonna inglese. L'imperscrutabile Johann, consigliere fidato ed esperto conoscitore dei cuori nobili e delle sofferenze di un popolo miserabile, userà l'amicizia del sovrano e l'amore della consorte come instrumentum regni. A fin di bene, ma in un ambiente in cui covano l'inganno e la cospirazione da secoli. A Royal Affair, al di là di un lato tecnico all'avanguardia che non deve temere concorrenza alcuna, risulta un triangolo dai lati smussati. Classico, senza ombre. Corretto e fluido, nonostante la durata sostenuta, è all'altezza della migliore produzione BBC, con una prima parte che avvolge e una seconda, invece, che appare liquidata con inspiegabile fretta. Scorre e corre. A volte coinvolgente come un romanzo scritto ad arte, altre stringato come un riassunto per sommi capi, in vista di un esame che preoccupa. Comunque semplificato e condensato, con qualche espediente poco brillante che ha del televisivo – la protagonista morente che in una lettera ai figli, in flashback, ricostruisce la sua storia, ad esempio – e ragionevoli compromessi per appassionare – e così effettivamente è – chi tende a perdere il filo, a distrarsi. Resta il fatto che, se non sapessi il suo valore effettivo e la gloria appena sfiorata, non lo terrei probabilmente a mente. E restano tre interpreti magistrali – un Mikkelsen dal fascino indescrivibile, un Mikkel Boe Folsgaard che stupisce e diverte con la caratterizzazione del suo re matto, una intensa e bellissima Alicia Vikander, che – a tre anni di distanza – sta conquistando anche l'estero. C'è del marcio in Danimarca; lo scriveva Shakespeare. Ma, a conti fatti, c'è anche del buono. Sebbene questo A Royal Affair, altrove acclamato, non rappresenti per me il meglio. (6,5)
[1999]
Quando avete scoperto François Ozon? Io ai tempi di
Otto donne e un mistero
– commedia musicale dai toni pastello, con un cast che comprendeva
alcune tra le attrici più meravigliose del cinema d'oltralpe, allora
come adesso, e un omicidio a cui dare un senso. Avevo ancora Sky, e
Sky non si chiamava neanche così, dunque direi che è passato un
po'. In realtà, Ozon –
trentenne e con un passato da modello – faceva il suo debutto alla
regia sul finire degli anni novanta. Dopo una capatina nel mondo del
grottesco con l'introvabile Sitcom,
è Amanti
criminali la
sua autentica opera prima. Giovane coppia di liceali assassini si
smarrisce nel fitto di un bosco, con il cadavere di un coetaneo al
seguito. Finché non si imbattono in una casa apparentemente
disabitatae
nell'ombroso orco che la popola. La regia era acerba, il cast povero, ma questo Ozon così
diverso – sanguinoso, nudo e crudo – aveva già le
idee, il talento e il passepartout per la fama internazionale. Si
nota, la cosa, nel fantasioso mélange di toni – la commedia nera
che, negli anni '90, spopolava negli USA; il retelling che adesso è
venuto a noia a furia di usi e abusi; l'eros sadomasochistico – e
nei caratteri ambiguamente delineati di due Bonnie e Clyde liceali:
Alice, manipolatrice e fatale, e Luc, pazzo d'amore e
sentimentalmente confuso. Coppia fatale: la mente e il braccio.
Hansel e Gretel che sviluppano una spiazzante sindrome di Stoccolma nei confronti del
loro aguzzino, e una sceneggiatura indigesta – sui misteri del
desiderio, sulle ombre fosche dell'identità sessuale – che vuole
come protagonista, inaspettatamente, il vulnerabile Jérémie Renier;
la sexy ninfetta Natacha Régnierc, invece, è chiusa in cantina, in
compagnia di roditori e cadaveri. Le colpe del loro
sanguinoso crimine d'amore sottoposte, così, al giudizio di quel
cacciatore normativo e spietato. Intrappolati in una baracca che ha
una porta sola e di cui solo il loro personale Polifemo possiede la
chiave, bramano la libertà e, tra sevizie fisiche e psicologiche,
vengono rieducati, in un masochistico doposcuola che sembra sbucato
dal cuore nero delle storie dei Grimm. E che, amorale, non tiene conto dell'ultima riga delle favole. (7)
[2008]
Andatelo a dire a chi
era in sala con me, in quel pomeriggio di giugno, che alle nostre
orecchie il chiedersi “E questo Tom Hardy adesso chi è?”,
davanti all'ultimo Mad Max,
suona come la peggiore ammissione di colpa. Tom Hardy, che è sulla piazza da almeno un decennio e che –
trentasette anni, il passato da eroinomane, i denti storti che era
certo sarebbero stati un problema per Hollywood e invece no – a
ogni lungometraggio con la sua strana faccia dentro si scopre
bravissimo. E incredibile lo è sempre, soprattutto nell'eccesso: coi
personaggi ipercaratterizzati, le scene forti, le macchine da presa
di registi suonati che lo mostrano lurido, nudo, multiforme. Dopo il
bel Stuart – A Life Backwards,
Bronson è un altro
consiglio della solita Lisa che, per un equivoco, pensava che le
avessi consigliato proprio io uno dei primi Winding Refn, quando
invece lo conoscevo solo per la losca fama che lo precedeva. Bizzarra
biografia di un criminale senza arte né parte, questa, che, nel
culto dell'amata ultraviolenza, cercava l'immortalità di un nome
d'arte e una fama ottenuta a suon di pugni. Ancora in vita, ancora in
carcere, Michael Gordon Peterson – per la stampa inglese, Bronson,
come l'attore – si godrebbe questo suo quarto d'ora di
notorietà: trent'anni passati in isolamento, ma finalmente le luci
della ribalta. Lui che non sapeva cantare, ballare, recitare, ma
sognava disperatamente la notorietà: ottenerla, perciò, diventando
il detenuto più pericoloso – e costoso – del Regno Unito. Una
spina nel fianco per la Regina in persona. Si parte canonicamente, da
un'infanzia noiosa in una noiosa famiglia borghese, e seguono poi i
pestaggi, gli atti vandalici, il sanguinoso bisogno d'attenzione; il
tutto intervallato da scene grottesche perfette, in cui Bronson –
con la faccia truccata di bianco, come un divo del muto – si
rivolge a una sala vuota. E' in quei siparietti surreali che il film
si scopre meno tradizionale e il protagonista straordinario: lui e la
sua camminata alla Charlot, lui e il sogno dell'applauso. Hardy,
tozzo e muscoloso, è la star indiscussa di un film che altrimenti,
per una trama esile contrapposta a un personaggio che pesa, non mi è
piaciuto del tutto. Visivamente all'avanguardia, con un regista che
si dà a ritmi meno lenti dei suoi, le impennate pazzesche della
colonna sonora classica, lo shock del colore sbattuto in faccia, ma
il paragone con Kubrick è un azzardo, e si sapeva, e, alla fine, non
si ricorda che per l'ennesima trasformazione di Hardy, e si sapeva.
Forte, imponenente: anche abbastanza da reggere il tutto? E io che
salto qui e lì nella sua caotica filmografia e, ogni volta, giuro
che quella – questa?
- sia la prova della sua carriera. Fino a quando, stupefatto, non
assisto allla successiva. (6,5)
[2002]
Era l'estate dei miei
otto anni e avevamo traslocato. La ricerca di un appartamento in cui
ci stessimo tutti e quattro, i materassi sul pavimento come barboni
perché il camion che ci aveva seguito dalla Sicilia si era perso i
letti in giro. Una città nuova, coi centri commerciali di vetro, i
McDonald che profumavano di fritto, un negozio di videocassette e cd
in cui passavo le ore. Ora è tutto cambiato: la città si è
rimpicciolita mentre io crescevo, i supermercati si sono spopolati,
quella videoteca non esiste più. Triste visione. Una mattina,
ricordo di avere aiutato papà con cose noiose, da grandi: sono
orgoglioso di quel bambino già maturo che faceva la fila alle poste,
aiutava gli adulti a scegliere, andava matto per i film dell'orrore.
Ricompensa per quel giorno, siccome non mi ero lamentato ed ero stato
buono, un VHS in regalo. Avevo scelto The Ring,
l'horror con la bambina nel pozzo che aveva fatto chiacchierare il
mondo. Ricordavo più le circostanze dell'acquisto, sinceramente, che
il film in sé. Lo conservo ancora, ma chissà se il nostro
videoregistratore funziona... Lo avevamo visto a casa dei miei nonni,
intorno a mezzogiorno. La nonna faceva avanti e dietro dalla cucina,
lanciando occhiate riprovevoli alla tivù, e il cielo azzurro mi
aiutava a scacciare la paura. O ero un bambino coraggioso io, oppure
The Ring era una
pizza: non mi aveva impressionato. Non come quelle volte quando io
e Diego avevamo fatto dormire papà accanto a noi, sulla sdraio, per colpa di un film vietato ai minori.
Adesso è cult e io ricordo più positivamente il seguito,
piacevolissimo ma bistrattato, che l'inizio di questo cerchio (quasi)
senza fine. L'ho rivisto un sabato pomeriggio, con la stessa
familiare compagnia di un decennio fa, per vedere come lo avrei
trovato a una seconda occhiata. Dodici anni di horror hanno reso
scontato il mistero della mitica Samara, ma affascinanti i suoi
oscuri simboli e i suoi crudeli percorsi. Ghost story classica,
questa, di cui buchi narrativi e l'inconcludente finale, buttato lì
a caso, senza un briciolo di enfasi, si scambiano però erroneamente
per mistero. Da rivedere di nuovo per lo schermo a tubo catodico, i
telefoni antiquati, le cassette maledette di cui ce ne freghiamo,
tanto ormai tirano lo streaming e i Blu-Ray, l'effetto post Scary
Movie 3. Il pregio è che, come
la splendida Naomi Watts, The Ring
invecchia bene. I passi concitati dell'indagine li ho seguiti con più
curiosità della prima volta e i ricordi appannati che mi ritrovo
hanno reso non dico inaspettate, ma riuscite alcune svolte di questo
conto alla rovescia dalle ore contate. Per il resto, non inquietava
allora; figuriamoci oggi. Gli si riconosce una regia di un
perfezionismo notevole, la recitazione che per un horror mainstream è
al di sopra della media, il merito – o la colpa? - di avere dato
per primo tratti occidentali ai mostri con gli occhi da manga. (6)
Io
sono accucciato dietro di loro e la mia faccia spunta dalla cornice
formata dai loro fianchi. Sembra un fotomontaggio. E ora so che se mi
sono infilato tra loro è perché non ho una vita mia.
Titolo:
La ricchezza
Autore:
Marco Montemarano
Editore:
Beat – Neri Pozza
Numero
di pagine: 271
Prezzo:
€ 9,00
Sinossi:
A
quindici anni Fabrizio Pedrotti è già un gigante. È bello, è un
leader. A scuola è attorniato da una folla di cortigiani, e il mondo
gli si srotola ai piedi come un tappeto. Un giorno del 1975, nel
corridoio di un liceo romano, Fabrizio sceglie Giovanni come amico.
Gli mette una mano sulla testa e lo elegge a suo scudiero. Poi lo
ribattezza Hitchcock e lo accoglie nella cerchia più intima della
sua famiglia. Nel lussuoso appartamento dei Pedrotti,
Giovanni-Hitchcock si muta nel testimone della vita dell'intero
nucleo familiare. Riesce a scorgere il padre, un onorevole
perennemente assente da casa, in una imbarazzante intimità; si rende
subito conto della svagata cortesia ed estraneità della madre;
stringe amicizia con Mario, il fratello minore, un ragazzo gracile,
un fantasma in pantofole che rasenta i muri aprendo e chiudendo in
silenzio le porte; ha una relazione clandestina con Maddalena, la
seducente sorella; e infine apprende il lato nascosto, la zona
d'ombra del rapporto tra Fabrizio e il fratello. Al fianco dei
Pedrotti, Giovanni abbraccia completamente l'identità di Hitchcock.
Al punto tale che si convince persino di aver determinato la rovina e
l'infausto destino di Fabrizio, Mario e Maddalena con un atto
scriteriato. Finché, con il trascorrere degli anni, e l'irrompere
della maturità, la verità dei Pedrotti e di Hitchcock, il loro
scudiero, gli appare sotto una luce inaspettata e sorprendentemente
diversa.
La recensione
Gli
anni ottanta sono appena iniziati e Giovanni, diciassettenne
silenzioso e spaventato dalla povertà, arriva in motorino, con un
amico ripetente aggrappato alla schiena per i troppi scossoni,
davanti al cancello dell'onorevole Pedrotti. Casa di notizie in prima
pagina, auto blu, privilegi sconosciuti, alberi altissimi. Soprattutto, il posto in cui incontrarsi per vedere una partita
decisiva, sulla televisione a colori dei tre figli dell'insigne
politico. Il giorno dopo, una telefonata e la notizia che il signor
Pedrotti è morto.
E la sensazione, per via di uno scherzo, di avere
a che fare con la sua grottesca dipartita. E con la sfortuna che,
dopo il funerale del patriarca, perseguiterà a vita i suoi orfani,
eredi di un impero dai giorni contati. Cosa è successo, in quella
sera deformata dal senso di colpa? Cosa sarà di Fabrizio, il
gigante; di Mario, l'incompreso; di Maddalena, la zingara ribelle?
Una foto lasciata lì a prender polvere - e una foto come quella in
copertina, su un prato un po' verde e un po' in bianco e nero, quando
si poteva essere compagni di giochi nonostante tutto e provare a
somigliare a un Battisti, a un Lennon, a un Dustin Hoffman - e,
secondo il più classico degli espedienti, lasciare che i ricordi
vengano a galla e che passato, presente e futuro camminino su strade
adiacenti. Verso nuove mete, in un Paese dai cervelli già in fuga, e
amici a cui, nonostante il peso dei segreti e la lontananza, si
continua a volere tutto il bene del mondo. Vincitore, due anni fa,
del prestigioso premio Neri Pozza e prima opera che leggo di un Marco
Montemarano che scopro qui, bravissimo, ma a breve nuovamente in
libreria – e sul mio comodino, per forza - con un nuovo titolo e la
protezione del suo vecchio editore, La ricchezza è
uno di quei titoli che ho scoperto in ritardo, complice l'uscita
della versione economica, e che, se non avessi agito d'impulso,
probabilmente non avrei mai letto.
Mi lascio intimorire con facilità.
Da certi editori appannaggio di pochi, da scrittori italiani che sul
mio blog avranno sempre un posto speciale anche se spesso peccano di
presunzione, da trame che si annunciano decisamente impegnative.
Invece nel calore di un pomeriggio che mi voleva morto, all'ora di
punta, arrabbiato non ricordo più per quale motivo – ma dovevo
esserlo parecchio, per scendere in spiaggia alle due e mezza e
gettare il necessario alla rinfusa, nel mio zaino grigio – ho preso
un volumetto della Beat dalla pila pericolante di libri intonsi e,
giusto perché era abbastanza sottile da starci bene tra la bottiglia
d'acqua e l'asciugamano, l'ho portato appresso. Parlava di un
poveraccio amico di tre nababbi della Roma bene, degli imprevedibili
giochi del destino, di legami che – dagli anni settanta a oggi, dai
Parioli all'America Latina – non si sfilacciavano. L'amicizia di
quello strano quartetto – un gigante scherzoso, un fratello
minuscolo allergico al solletico, un'esotica sorella maggiore per cui
il sesso segue un codice nascosto, un intruso accolto in salotto per
i compiti in classe e goffi esperimenti sotto le lenzuola, cavia di
smaliziate adolescenti – è come un elastico: tiri forte e non si
rompe, almeno non subito. Al massimo, quando lo lasci andare, ti ferisce
le dita della mano. Ti lascia un segno viola. Intorno a me la gente
parlava - a fine luglio scendono i turisti, e il lido balneare è un
mercato di accenti diversi, karaoke, vucumprà – e l'unica fuga
possibile erano dunque le cuffie dell'mp3. La musica che dico io,
anche se non è in rima con quella ascoltata all'epoca dei figli dei
fiori, anche se poi mi metto a canticchiare tra me e me con il
rischio di perdere il filo. Ho capito quanto
La ricchezza fosse diretto,
vivace e bello nel momento in cui è risultato, nella sua studiata
semplicità, più forte di tutto il resto. Grazie a quel che mi
faceva all'inizio dubitare, poi rivelatosi pura soddisfazione: un
marchio che non delude, un professionista che ha capito che la
franchezza coinvolge più di qualsiasi parola ardita, una vicenda
poco politica – ho pensato a un Grande Gatsby cacio e pepe,
a un'Espiazione raccontato
da un Briony al maschile; le testate giornalistiche citano però Moravia e altri grandi di cui sono ahimè a digiuno – anche se, alla fine, cosa richiede maggiori strategie di un'amicizia che resiste?
Un narrazione, questa, esempio della nostra ricchezza.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Lucio Battisti – La canzone del sole
Tu
sei tu. E mi capisci. E sei triste come me e, per quanto assudo,
questo è bellissimo. Sei come un cielo grigio. Bella, anche se non
vuoi.
Titolo:
Il mio cuore e altri buchi neri
Autrice:
Jasmine Warga
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 279
Prezzo:
€ 17,00
Sinossi:
Aysel
ha sedici anni, una passione per la scienza e un sogno che coltiva
con quotidiana dedizione: farla finita. Tutto ormai sembra convergere
in quel buco nero che è diventata la sua vita: i compagni di classe
che le parlano alle spalle, un lavoro deprimente, il delitto commesso
da suo padre che ha segnato per sempre il suo destino. Aysel vorrebbe
sparire dalla faccia della Terra, ma le manca il coraggio di farlo da
sola. Per questo trascorre il tempo libero su "Dipartite
serene", un sito di incontri per compagni... di suicidio. Roman,
perseguitato da una tragedia familiare e da un segreto che vuole
lasciarsi alle spalle, è il prescelto. Eppure, proprio nell'attimo
in cui stanno per abbandonarla, la vita potrebbe mostrare il suo lato
leggero, dolce e pieno.
La recensione
“Mi
domando se anche la gioia abbia un'energia potenziale. O se l'energia
potenziale possa condurre alla gioia, come un siero che agisce nello stomaco e ribolle fino a suscitare la sensazione
chie chiamiamo felicità. Ma anche se così fosse, il mio tarlo nero
la divorerebbe tutta.” Nonostante un titolo che pensandoci su è
anche bello, ma che letto di sfuggita lascia pensare alla biografia
segreta di Valentina Nappi – e, essendo traduzione precisa
dall'inglese, mi viene ragionevolmente da chiedermi: ma questi
americani non conoscono i doppi sensi? -, Il mio cuore e altri buchi
neri, inizialmente ignorato per
un titolo che, come detto, non è colpa nostra e una copertina
stucchevolissima che invece è colpa nostra eccome, complici una
Mondadori prodiga di copie omaggio e recensioni positive di fidati
amici della blogosfera, è finito schiacciato tra i mattoncini –
tutti capolavori, si spera – che mi ero ripromesso di leggere
durante le vacanze. Quando il mare finisce per diventare routine, si
è insofferenti a temperature da bollino rosso e si va in cerca, per
noia e soddisfazione personale, della lettura dell'anno, dopo esami
che spingono a trasformarci in lettori pigri e a divorare, senza
sentirci in colpa, storie brevi, leggere e vagamente
preconfezionate.
Con la solita scusa della stanchezza arretrata,
inserito tra l'ultimo voluminoso King (letto), il vincitore del
Premio Neri Pozza (in lettura) e l'autore Pulitzer di quest'anno (da
leggere), trovarmi tra le mani l'esordio di Jasmine Warga mi ha fatto
rimangiare la promessa di dedicarmi soltano a letture impegnate, ora
che il tempo è dalla mia, e riflettere sul fatto che tanta serietà
non fa per me, dunque perché non spezzarla, ogni tanto, con qualcosa
così? Un romanzo estivo e dal suono sì osceno, ma che dalla sua ha
più di qualche piccolo pregio che, in definitiva, può risultare
abbastanza? Scrivevo in una delle mie familiari parentesi
cinematografiche, qualche giorno fa, la lista degli ingredienti che
devono costuire l'abc della commedia alternativamente romantica che
dico io. Il perfetto film, o romanzo, del filone boy
meets girlavrà
un lui e una lei che si incontrano in un'occasione bizzarra – un
sito anonimo per cercare un compagno di suicidio - , personaggi
particolari che si contano su due dita – Aysel, di origini turche,
lavora in uno squallido call center e ha il pallino della fisica;
Roman, un tempo campione di popolarità, ha l'altezza giusta per fare
canestro e mani d'oro per ritratti bellissimi: entrambi, inoltre,
vogliono morire, a sedici anni –, una scrittura brillante – qui
restiamo purtroppo a bocca asciutta, perché la Warga si limita a
scrivere correttamente e senza guizzi speciali, evitando però
l'aforisma facile e scenette pruriginose di sorta – e temi
importanti, al di là dei toni lievi – il pessimismo cosmico, la
voglia di farla finita, deprimersi. Due numeri primi che si
incontrano, il sentimento che nasce: l'amore li salverà dal baratro?
Arrivato in libreria sulla scia di Raccontami di un giorno
perfetto, adorato e contestato
insieme, parla ancora del suicidio e dei giovanissimi, con punte di
ironia tragica, delicatezza e pochi baci per rimarginarsi a vicenda
le ferite. Pare sia piaciuto di più del romanzo della Niven, dicono
ci sia, almeno, un po' di speranza che non guasta, ma – nonostante
a differenziarli, nella mia valutazione, ci sia appena una mezza
stella – ho preferito l'altro. Politicamente scorretto, tosto,
disperato.
Ci sono più buchi neri in quel Theodore Finch – scrivo
il suo nome senza il bisogno di sbirciare, giuro, perché mi ha
scavato un tunnel nello stomaco – che in una storia
agrodolce e priva di buchi – narrativi, interstellari, neri –
come questa. A volte ci si sveglia tristi e si va a dormire tristi;
si nasce con l'inclinazione alla malinconia e, se l'abisso chiama, non
c'è interferenza a distoglierci dal sogno disgraziato della tomba. A
volte, ed è il caso di Aysel e Roman, brutti pensieri sono legati a
brutte esperienze: il 7 aprile, i due decidono di uccidersi perché
si sentono responsabili di tragedie di cui invece non hanno colpa.
Cose che capitano quando sei ragazzino, solo e, in mancanza di
responsabili, accusi te stesso: per la vita che ha strappato tuo
padre (puoi compensare strappandoti la tua?), per una dimenticanza
che ha significato tanto dolore (puoi ricordartene, adesso, andando
via a un anno esatto da quel giorno?). Per Green era colpa delle
stelle – ogni riferimento a John non è casuale, con
protagoniste dai nomi in assonanza, lunghe chiamate telefoniche,
salti a casa di Gus o Roman -, per la Warga è colpa delle
circostanze, per la Niven – e ciò mi ha davvero colpito; non c'è
consolazione – non è colpa di nessuno. Chi cerca una
lettura garbata, rasserenante, simpatica apprezzerà Il mio
cuore e altri buchi neri. Io
sono per la cruda verità, anche se alla redenzione delle favole mi
piacerebbe crederci. Un romanzonon
troppo simile a Raccontami di un giorno perfetto,
purtroppo o per fortuna, che vorrei assicurarvi sia una storia mai
letta. Non posso. Non va oltre i classici racconti sugli amori salvifici, le
seconde opportunità e gli innamorati sfortunati e un po' geniali. Ma
non sembra scritto a tavolino, ha un messaggio da comunicare e, se la
vita dovesse farsi dura, Jasmine Warga – dolcemente – ci direbbe
che c'è del buono. Rassicurante, come sentirsi dire una parola giusta nel
momento sbagliato.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Ozark Henry – I'm Your Sacrifice
Al
piccolo Mateusz piacciono le stelle, i sorrisi, i seni pesanti che riesce a spiare dalla
scollatura delle clienti di mamma. Mateusz, piccolo anche a
venticinque anni, piegato in due da una grave disabilità fisica,
vede, capisce e sente. Fantastica sulle vite dei vicini e – come può
– combatte le piccole ingiustizie e i primi dolori. Fino al trasferimento in un istituto per
infermi, dove – tra le attenzioni di una volontaria, la scoperta
che c'è chi capisce, i soprusi – tenterà di imporsi come essere umano. Io sono Mateusz stupisce
per un delicatezza che ricorda un certo cinema francese che, anche
davanti alla pena, non si piange addosso e perché i paragoni con
La teoria del tutto non
andrebbero a suo sfavore. Se c'è una cosa straordinaria nel guardare
lungometraggi dalla provenienza quasi sconosciuta, lavoro di attori e
registi di cui non sapresti neanche pronunciare il nome, è che –
nella tua ignoranza – scambi la finzione per verità. E,
giuro, per tutto il tempo sono stato fermamente convinto che
l'interprete di Mateusz, magnifico, fosse davvero su una sedia a
rotelle, chiuso in un mutismo a cui la settima arte dà voce. Invece,
mentre i titoli di coda passavano, il vero Mateusz posa accanto al
giovane talento che è scomparso nella
performance. Cercate Dawid Ogrodnik, a fine visione, e stupitevi: è
un bellissimo ragazzo, in Ida era
il musicista che tentava la timida suora dai capelli rossi, questo
era il suo primo film. Straordinario, in una prova
degna di quella di Redmayne. Distribuito con due anni di ritardo dopo
la vittoria agli Oscar dello stesso Ida,
è un'altra testimonianza che il cinema polacco esistenze e non teme
l'espatrio. Dramma capace di alternare leggerezza e
profondità, sebbene il candore con cui si mostra la malattia generi
tanta umana commozione, vive di un protagonista sprovvisto di parola
e di una voce narrante, briosa e mai invadente, che in prima persona
– un po' come in Amélie
– parla di un favoloso universo di matti ed eroi, di cui Mateusz,
che rimanda saggiamente il lieto fine al giorno successivo, è il
grande capomastro. (7,5)
Ci
sono cose che, quando sei un liceale, non comprendi dell'universo
femminile. E ci sono cose che grossomodo non comprendi neanche dopo,
anche se una variante sembra ripetersi: nei gruppi di amiche, c'è
sempre un elemento che rende le belle più belle ancora e le
inarrivabili a portata di mano. Negli Stati Uniti, c'è un acronimo –
e un film – per indicarlo: The Duff. Commedia adolescenziale
dal discreto successo in patria e destinata al cinema
quando è estate, protagonista, tra l'altro, di una crisi
d'indentità senza precedenti: c'è il romanzo che si chiama,
infatti, Quanto ti ho odiato ma
in sala arriverà con un altro titolo ancora, L'A.S.S.O
nella manica. Com'è scoprire di
avere quel ruolo ingrato, in un trio affiatato? Ci ride e ci scherza,
anche se segretamente schiatta di delusione, la nerd Bianca, spalla
per sempre di due regine di popolarità. Chiedere una mano, perciò,
all'unico amico che le resta – popolare anche lui, ma
inconciliabile, con i modi da vincente e l'umorismo poco brillante,
alle passioni vintage e agli hobby del brutto anatroccolo di turno.
Come si piace agli altri, ma soprattutto, come si piace a sé stessi?
Le risposte sono a portata di mano, ma fino alla fine
The Duff, spigliato e
fresco com'è, estivissimo, si rivela una gradevole compagnia.
Misteri di un genere che, nella sua semplicità, in passato, ha
saputo spesso coinvolgermi, soprattutto quando era pensato con simile
ironia, e di una protagonista che resta fedelmente ancorata a salopette, rispostacce mirate e
principi azzurri stronzi. Insieme
all'alternativamente glamour Mae Whitman, campionessa di imbarazzi e
sorrisi, tante star del piccolo schermo che indossano con simpatia le
loro vecchie etichette – il fisicato The Tomorrow People,
l'odiosa di Scream, la
dolce bionda di AHS–
e insieme le spiccicano via e le incollano secondo nuove
combinazioni, in una puntata allungata di Awkward o,
meglio, in un ritorno alle commedie dei compianti anni '90.
(6,5)
Timida
insegnante in sovrappeso passata alla CIA,
innamorata pazza dell'agente segreto di cui è guida e consigliera,
viene coinvolta – dopo anni di dietro le quinte – in una missione
internazionale. Lei, che non ha certamente il fisique du
role, riuscirà a rivelarsi la
più impensata delle risorse? Niente di nuovo sotto il sole. Niente
di nuovo in questo Spy, che
eppure è stato un successone, e non si stenta a capire il
perché. Scritto e diretto da Paul Feig – che dopo il buon Le
amiche della sposa e il
dimenticabile Corpi da reato
sembra avere trovato la sua musa comica – Spy è
cucito addosso alla strabordante Melissa McCarthy, che torna a
divertire grazie alla sua fisicità
esagerata e alla battuta pronta. Per par condicio, sembra giusto che
– come l'eroe di Fleming – abbia anche lei diritto a due
valletti. I suoi Bond Boys: l'inglesissimo Jude Law – perfettino,
elegante – e Jason Statham – più sboccato, più ironico. Due, per bilanciare,
le ore complessive e pure i supercattivi: lo stereotipato Bobby
Cannavale e una Rose Byrne mai così splendida, che sfoggia qui
cadenze straniere e un'indomabile capigliatura. Parodia dell'amato e
odiato genere spionistico – sarebbe meglio dire ennessima parodia,
anche se lo spettacolare Kingsman,
quest'anno, ha già detto tutto – ha personaggi poco originali ma
impersonati da grandi mattatori e una
protagonista abbastanza ingombrante e simpatica da meritarsi, tra
qualche anno, un sequel che – prevedibilmente – non avrà tutta
questa freschezza; tutta questa energia. (6,5)
Cose
che deve avere la commedia romantica che dico io. Un
lui che incontra una lei in un'occasione strana. Una copertina con
due attori faccia a faccia, che mi fa pensare a lunghi dialoghi,
personaggi che si contano sulle dita, uno script intelligente. Il
resoconto minuzioso del ciclo vitale di una storia d'amore.
Comet ha più di qualche elemento che mi è caro. Il
sentimento tra Dell e Kimberly, logorroici e genialoidi, viaggia su
realtà parallele. Ma qual è l'ordine
corretto? Cos'è successo, cosa succederà, costa sta succedendo?
Sopra le righe, ma con stoffa da vendere l'esordio alla regia di Sam
Esmail – visionario il giusto, ben pensato e con al comando un
giovanissimo che, in rete, sta facendo parlare per la serie di cui è
autore: Mr. Robot. Più
nelle mie corde di quella meritevole storia di hacker, Comet
può vantare nel suo cast la
presenza di due attori assai in gamba – Justin Long e Emmy Rossum – e uno stile espressivo vivido e originale. Alle
spalle dei due, protagonisti di un amore che è una meteora che
impiega sei anni a passare oltre, un cielo con due soli, una pioggia
di stelle e un treno che passa davanti allo schermo verde. Strizzare l'occhio a tipi come Jonze e Gondry, mentre
Dell e Kimberly volano su piani temporali diversi e si trovano alla
fine, in cima a a un palazzo. Alle porte del sogno. Questa commedia
sui generis - stramba ma bellina – racconta la storia di una tipica
rottura con un atipico spettro di colore: l'amore pasticciato,
l'amore pasticcione. Il tema di due cuori tra passato e presente va
forte nel mélo – e i personaggi sono troppo teatrali e ciarlieri,
sì – ma le scene a casaccio della loro unione, come in 500
giorni insieme, ricordano il
buon cinema indipendente e l'ultima parte, imprevedibile,
insieme agli strati multicolore della stessa torta da sogno, ha un
che – pensate – di Inception. Quando
la finiranno di ronzarsi attorno? E poi la trottola smetterà mai
di girare? (7)
Una
ragazza in fuga, un chitarrista timido, una rampolla che prende
lezioni di piano sperando che il talento, che viaggia forse porta a
porta, raggiunga anche lei. A unirli, la musica – suonata,
inseguita, sognata - e una lunga estate insieme. God Help the
Girl, premiato al Sundance e
scritto dall'anima dei Belle and Sebastien, è un musical di quelli
mai visti. Dimenticate gli acuti, lasciate a casa le luci dei
riflettori, abbandonate l'idea di coreografie complicate e canzoni
che fanno tanto Broadway. Qui si cammina dove i turisti non passano e
si accennano piccoli passi di danza; ci si veste con studiatissima
trasandatezza; i pezzi – saltati fuori da un diario di disturbi
alimentari e fragilità adolescenziali – suonano come improvvisati
lì per lì, semplici e riempiti, all'occorrenza, con tanti “la la
la”. Ma dietro a una colonna sonora di canzoni indie-pop leggere
come piume c'è un grande compositore e, in meno di due ore, infinita
voglia di stare bene, nonostante i personaggi non se la spassino
proprio un mondo. Una anoressica, un'altra un tantino incapace e il
terzo, l'unico maschio del gruppo, innamorato matto di una ragazza
che scappa, dice bugie, fa l'amore coi cantanti che strillano il rock
'n roll. Protagonisti bene a fuoco, la stonata Hannah Murray che, per
tutti, è la Cassie di Skins;
il dinoccolato Olly Alexander, voce del gruppo Years & Years –
che con la loro King mettono
addosso la voglia di ballare – dal look che invidio; la fata di
porcellana Emily Browning, che canta, incanta e mi ricorda a ogni
battito di ciglia sui suoi occhi di cerbiatta perché, quando ero
bambino, mi innamorati di lei in Lemony Snickets.
Quanto sei hipster? Per l'inverno, in mancanza della chitarra in
spalla, sto lasciando crescere una barba finto incolta. Quanto è
bella questa Eve? Sono un suo affezionato stalker da quando entrambi
non avevamo l'età e nell'adorabile God Help the Girl è
ribelle come una diva del Beat. Quanto è alternato il musical che se
ne infischia? Tanto da essere adatto a pochi, da gustarsi coi
sottotitoli, da finire sugli mp3 con le sue canzonette messe su senza
sforzo e sfarzo. Quanto lo stile? (7+)
Un
bambino paralizzato a letto, con un'unica finestra che dà su un
mondo irraggiungibile. Finché da quella finestra non fa capolinea
una coetanea sfacciata e curiosa: si è trasferita da poco in città
e, in quel quartiere senza gioventù, sceglie il fragile protagonista
come migliore amico. Anche se non può giocare all'aria aperta; anche
se la sua famiglia è disposta a tutto per tenerli separati. Cosa c'è
nel passato di quella bambina vispa? Cosa nasconde, in realtà, una
famiglia stremata dal male peggiore? The Harvest –
produzione del 2013, passata sfortunatamente inosservata – parte
alla maniera dei drammi per famiglie che tanto tiravano qualche anno
fa – l'amicizia, e il quasi amore, tra un lui fragile e un'orfana
precoce – e si rivela, strada facendo, di tutta altra pasta. Se le
suggestioni degli horror – il campo di grano, lo spaventapasseri,
qualche spruzzo di sangue – e i risvolti del thriller psicologico –
la prigionia, il pericolo, il gioco del gatto col topo - potrebbero
potenzialmente essere fiaccate dalla regia di un John McNaughton
arrugginito, The Harvest – nonostante la
bidimensionalità della confezione – rimonta in sella grazie alla
presenza di due attori di cui vantarsi a gran voce. I mancati premi
Oscar Michael Shannon e Samantha Morton; sottovalutatissimi: lui
obbediente e schivo; lei, straordinariamente crudele come la Bates,
infermiera assassina in Misery. Lieve nella prima parte,
nevrotico nella seconda, sa piazzare al momento giusto un twist ad
effetto per mettere alla prova la solidità delle sue stesse
fondamenta, rivelandosi – a sorpresa – un valido film di genere.
Un mènage familiare senza respiro, infatti, fa da base a un thriller
claustrofobico e riflessivo, su prigioni che hanno la carta da parati
colorata al muro e, alle finestre, le tende ricamate. Case di bambole
di cui non siamo padroni e nelle cui stanze segrete vivono colpi di
scena che hanno del tragico. (7)
Un
cliché di pop star si innamora della sua guardia del corpo, dopo che
lui la salva da un
tentato suicidio. Un cliché di storia d'amore, per una cantante che
ricorda un po' Rihanna, ma vorrebbe fare il
verso alla buonanima di Whitney Huston e a Kevin Costner, con il suo
moroso, in The Bodyguard. Beyond the lights –
dramma musicale all black, in cui i pochi personaggi bianchi sono
spregevoli: la mamma menager, il paparazzo invadente, l'ex tutto rap
e tatuaggi che pare Fedez, i discografici – è prevedibilissimo, ma
diversamente da Empire sono
riuscito a vederlo per intero. Nonostante il razzismo al contrario e la mancanza di pezzi degni. Se quelli intonati dalla brava
protagonista, infatti, oscillano dal brano pop-tutto-poppe al lamento
melodico, a fare da sfondo al colpo di fulmine ci pensano Nina
Simone, Jamiroquai, Beyoncé, Birdy, Rita Ora – quest'ultima,
candidata agli Oscar per la bella Grateful che,
aguzzate le orecchie, si sente prima dei titoli di coda. Ma,
nonostante sapessi prevedere dialoghi e situazioni con ore
d'anticipo, Beyond the lights è
come la sua protagonista, questa brava Gugu Mbatha-Raw che,
abbandonati gli abiti succinti e le parrucche a fantasia, si scopre
non una personcina a modo e non la regina delle cafone. La pellicola
si rivela delicata soprattutto nella seconda parte, con una mezza
fuga d'amore e lo scoprirsi innamorati ugualmente anche al di là
delle luci del titolo. In un processo inverso che vede il brutto
anatroccolo delle prime immagini, diventato cigno multicolore,
ricercare la bambina solitaria degli inizi. (5)
Quando ripenso a Charles Jacobs, non riesco neppure a considerare che la sua presenza nella mia vita fosse dovuta al destino. Altrimenti significherebbe che quelle vicende tremende, quegli orrori, erano destinati ad accadere.
Titolo:
Revival
Autore:
Stephen King
Editore:
Sperling & Kupfer
Numero
di pagine: 470
Prezzo:
€ 19,90
Sinossi:
Più
di cinquant'anni fa, in una placida cittadina del New England,
un'ombra si allunga sui giochi di un bambino di sei anni. Quando il
piccolo Jamie alza lo sguardo, sopra di lui si staglia la figura
rassicurante del nuovo reverendo, appena arrivato per dare linfa alla
vita spirituale della congregazione. Intelligente, giovane e
simpatico, Charles Jacobs conquista la fiducia dei suoi parrocchiani
e l'amicizia incondizionata del bambino: per lui il pastore è un
eroe, soprattutto dopo che gli ha "salvato" il fratello con
una delle sue strepitose invenzioni elettriche. Ma l'idillio dura
solo tre anni: la tragedia si abbatte come un fulmine su Jacobs,
tutto il suo mondo è ridotto in cenere e a lui rimane solo l'urlo
disperato contro il Dio che lo ha tradito. E il bando dal piccolo
Eden che credeva di avere trovato. Trent'anni dopo, quando Jamie avrà
attraversato l'America in compagnia dell'inseparabile chitarra che
l'ha reso famoso, e dei demoni artificiali che ha incontrato lungo il
cammino, l'ombra di Charles Jacobs lo avvolgerà ancora: questa volta
per suggellare un patto terribile e definitivo. "Revival" è
il racconto di due vite, quella che King ha vissuto e quella che
avrebbe potuto vivere, attraverso due personaggi formidabili per
potenza e fragilità, due uomini ai quali accade di incontrare il
demonio e di affondare nel suo cuore di tenebra.
La recensione
"La curiosità è un istinto terribile ma umano. Molto umano."
Stranamente,
da quanto Stephen King – ormai in età pensionabile – ha iniziato
a scrivere libri su libri, complici giornate che quando hai
sessantasette anni immagino scorrano lentissime, ho deciso di
prendermela con calma: Mr Mercedes letto appena a novembre, il
desiderato sequel – Chi perde paga – atteso per
quest'autunno e, tra un capitolo e l'altro della nuova trilogia
gialla, piazzarci Revival. Con la folgore bluastra in
copertina e un'edizione italiana uscita in un lampo. Ho atteso il
cinquanta percento e i porci comodi di Libraccio per poterlo dire
mio; senza fretta. Perché, come dicevo, adesso più che in passato,
colui che mi ha iniziato alle gioie (e ai dolori) della lettura, è
puntuale e onnipresente: so che, in caso di ritardi negli acquisti,
in libreria potrò comunque trovare non uno, ma almeno due titoli
inediti. Questa, infatti, la media annua di pubblicazioni di un re
longevo e scaltro che, ormai, chi osa rovesciare dal suo trono di
spade? E quel Revival per cui
tanto c'era tempo – messo nel carrello, in attesa del click; messo
sul comodino, in attesa di fare ciao con la mano alla mia estate –
mi ha catturato, sin dall'inizio, con uno degli incipit destinati a
rimanere nella storia di un anno di letture, e non solo, per bellezza
e semplicità. In quanti abbiamo pensato alle persone della nostra
vita come ai personaggi di un film? Ma in quanti abbiamo saputo dirlo
così, con la voce che rischia di spezzarsi per la malinconia verso i
bei tempi andati? C'è da vivere a lungo e intensamente. E ci sono
vite lunghe e intense in un romanzo che parte da lontano, con i
giochi di infanzia di Stagioni Diverse,
i momenti in cui ci si smarrisce nella selva oscura degli
stupefacenti come in Doctor Sleep,
fino ad arrivare alle svolte fantastiche di Cose Preziose
o La tempesta del secolo.
Il titolo, Revival, fa
dunque riferimento alle pratiche miracolose di un blasfemo
Frankenstein che sfida i limiti invalicabili della morte, donando una
seconda possibilità a chi era ferito nel corpo e nello spirito, e a
quel che la ricomparsa di temi simili, nella bibliografia del mio
autore preferito, rappresentano: un ritorno all'orrore che fu. Quando
l'ora sta per giungere e, con la vecchiaia, la morte inizia a fare
paura, la vita – o così si racconta spesso, almeno – ci scorre
davanti, proprio come uno di quei film di cui vi parlavo poco fa.
Revival, racconto
della giovinezza spericolata di Jamie Morton e della conoscenza che
lo segnò irreversibilmente, è quel flusso; è quel film mandato
indietro velocemente ma non troppo, direi, viste le quasi
cinquecento pagine totali.
Titoli di testa, il primo piano di un
bambino che schiera a terra i suoi amati soldatini, poi la fatidica
ombra che si allunga sui suoi giochi innocenti e non lo abbandonerà
mai più. Appartiene a Charles Jacobs, il giovane reverendo che –
con la sua bellissima moglie che suona con grazia l'organo e un
figlio piccino, tenerissimo, che diventa subito l'allegra mascotte
dei bambini del paese – avvicina le famiglie, sprona gli
impertinenti affinché obbediscano agli adulti, guarisce gli infermi
con il potere dell'elettricità. Dio dava la vita con un soffio,
Jacobs con una scintilla. Ma quando Dio o chi per Lui, in un violento
incidente, lo priva della sua adorata famiglia, per il reverendo –
scomunicato, dopo un infuocato sermone contro il Paradiso – inizia
il cammino infernale oltre le colonne d'Ercole: l'imbonitore, il
ciarlatano in tivù, lo scienziato pazzo. La morte è una porta e lui
vuole aprirla un po', dare una sbirciata dall'altra parte. In quasi
mezzo secolo, la storia di Jamie – da bambino dalla Fede
compromessa da una parola di troppo a chitarrista tossicodipentente
nel favoloso panorama rock 'n roll dei primi anni settanta – si
incrocerà in modi imprevisti con quella dell'adulto che, un giorno
d'estate, oscurò il sole con la sua lunga nera ombra. La sua nemesi,
il suo agente del cambiamento – quello che, in un'esistenza in
formato 16:9, gli farà conoscere gli amici giusti, i nemici
sbagliati e davanti a un bivio, davanti a una scelta, scaverà a mani
nude una terza via alternativa. Il loro rapporto di amore odio –
simile a quello tra Faust e Mefistofele, tra Renfield e il Conte
Dracula: come tirarsi indietro davanti alle richieste d'aiuto di un
genio disperato, se è a quello stesso genio disperato che dobbiamo
la nostra felicità? - è un'evoluzione continua, che mette sullo
stesso piano antagonista e protagonista e, come in uno di quei
lungometraggi pensati con cura o comunque in una di quelle vite al
massimo, ha occhi di riguardo e parole belle per chi va, chi viene e
chi, innamorato o con un piede nella fossa, finalmente si ferma.
Ma,
e lo saprete già se avete dato una sbirciata alla fine della
recensione, Revival non
mi ha convinto del tutto. E senza purtroppo di sorta, perché parlare
di delusione – avando tra le mani un romanzo denso, ampio e tanto
ben scritto – è esagerato. Quel “ma” resta lì, chi lo
sposta?, e per me è colpa, principalmente, dell'ultima parte: quella
spiccatamente orrorifica. Il reverendo Jacobs prima dà, poi
riprende. Non mi ha convinto il fulcro del mistero, che ho trovato
non avesse il giusto appeal, ma mi è piaciuto un mondo tutto il
resto. Quello che viaggia dalle parti della vita vera, non l'omaggio
in definitiva già letto all'immaginazione inquieta di un Lovercraft.
Sarà che sono più per un horror che esplori questa realtà, non
quella metafisica, e che una delle immagini che il finale mi ha
lasciato – una landa desolata, omaggio per caso, mio Re, all'Aldilà
di Fuci o a Inferno di
Dario Argento? In caso, tanta tanta stima – era di impressionante
nichilismo; la prospettiva più cupa e pessimista. Accanto al King
vecchio stile che, con franchezza, non rimpiangevo, scene che
andavano a nozze con gli occhi lucidi. Il ritorno a casa dopo
trent'anni di assenza, i fratelli che non vedevi da decenni, i nipoti
che non sapevi di avere, i familiari che – in molti casi la
malattia, in un caso particolare il femminicidio – hanno lasciato
un posto vuoto a tavola. E' questo il King sedentario e malinconico
che mi strapazza un po'. Vive ogni giorno come fosse l'ultimo, scrive
ogni libro come fosse l'ultimo. L'emozione ha trionfato sul terrore,
questa volta, ma tanto un brivido vale l'altro. Revival:
per i più, un grande ritorno alle radici del genere. Ma, vedete,
c'è un errore sin dal principio. Una prospettiva diversa, alla base. Stephen
King non è tornato, perché Stephen King - per me - non è mai andato via.
"Casa è quel posto dove vorrebbero sempre che ti fermassi un po' di più."
Forse
è meglio pensare alla conversazione come a qualcosa di simile
all'attraversamento di una strada; prima di aprir bocca dovrei
prendere qualche secondo per guardare in entrambe le direzioni, e
soppesare attentamente quello che sto per dire. E se significa che
dovrò passare qualche secondo in più fermo sul metaforico
marciapiede della conversazione, guardando a destra e a sinistra, e
sia, perché è chiaro che non posso continuare a lanciarmi alla
cieca in mezzo al traffico. Non posso continuare a farmi investire in
questo modo.
Titolo:
Le domande di Brian
Autore:
David Nicholls
Editore:
Beat Edizioni
Numero
di pagine: 398
Prezzo:
€ 9,90
Sinossi:
È
il 1985 quando Brian Jackson approda all'università di Bristol.
Buffo e imbranato come tutte le matricole, imberbe diciottenne
innamorato di Kate Bush e della sua musica, Brian cela una grande
dote: sa rispondere a tutte le domande dei quiz. Un formidabile asso
nella manica che gli consente di sbaragliare tutti alle selezioni di
Bristol per la formazione della squadra da spedire all'"University
Challenge", il popolare quiz televisivo che vede i college
inglesi in gara tra di loro. All"University Challenge"
Brian si imbatte nel primo grande problema della sua vita: Alice
Harbinson, bella, leggiadra, femminile, sensuale, con i genitori così
upper class e così anticonvenzionali. In una parola:
irraggiungibile! Per la splendida Alice, Brian perde la bussola,
ignora gli amici, combina disastri e trascura Rebecca, la ragazza
impegnata che sa apprezzare il suo fascino di giovane colto e
sensibile e che considera Alice una gatta morta che
disonora l'intera storia del femminismo.
La recensione
David
Nicholls, a occhio e croce, è uno dei miei autori preferiti. Ha
scritto poco, ma mi ha sempre dato tanto. Possibile? Possibilissimo,
se gli Emma e Dexter di Un giorno – arrivati anche al cinema
– nessuno se li scorda più e se la sua ultima fatica, Noi,
si era rivelata una perla on the road che di strada ne percorreva
tanta, fino a collocarsi tra il dramma familiare e la
leggerezza del viaggiare senza meta. Prima della maturità, romanzi
più modesti: Il sostituto, simpatica commedia su un aspirante
star del teatro destinata alle porte sbattute in faccia, e –
procedendo al contrario – Le domande di Brian. L'esordio che ho recuperato solo adesso. L'ho
acquistato su Libraccio per pochi euro, mesi fa, nell'edizione
Sonzogno: una versione vintage – sfortunatamente diversa da quella
tascabile, con l'adorabile copertina che si sposa con gli altri
romanzi della lista – per una storia vintage. Gli anni '80 e gli
abiti con le spalline, la politica della Lady di Ferro e la gioventù
in rivolta, le canzoni che non ci hanno mai abbandonato e quei quiz a
premi che da noi, scomparso Mike Bongiorno, non sono
stati più gli stessi. Quella volta in cui avevo il treno da
prendere, l'ho visto lì, sul tavolino, pronto per l'uso, e ho deciso
di portarmelo appresso. L'aria condizionata a palla nel vagone
(miracolo), la giornata soleggiata ma non troppo (miracolo) e la
Sessione Estiva che – nel viaggio di ritorno – non c'era più a
procurarmi pensieri angosciosi (miracolo; traguardo) sono stati la
morte sua, come si dice. Le domande di Brian è
il romanzo da ombrellone perfetto o, se sei un fuorisede che va di
fretta, la consolazione pre/post esame. Ambientato nell'Inghilterra
di provincia degli anni più rimpianti in assoluto da chi è
nostalgico per natura, è un romanzo di formazione con tutti i sacri
crismi: voce fresca, triangoli amorosi, scuola e famiglia,
rocamboleschi incidenti di percorso. Ma lo young adult secondo il
nostro David Nicholls è un esordio spassoso, ma non troppo
controcorrente, e una lettura piacevole senz'altro, ma poco
imprescendibile. In parole povere: se volete leggere tutto
dell'autore, mettete questo in coda. Mi aspettavo qualcosa di più, e
forse è colpa mia. Ma ci ha abituati a cose più tutto – profonde,
realistiche, toccanti – e quella, invece, è colpa solo sua. Nicholls
scrive romanzi bellissimi, dunque davanti a un romanzo non brutto,
semplicemente meno bello, carino, si resta un po' così. Vi
direi una bugia, però, se affermassi che, durante la lettura, la
cosa mi è pesata: il romanzo – e non si poteva pretendere
diversamente, con al timone un autore simile – è divertentissimo,
brillante, senza intoppi.
Si ride e tutto, ma non si pensa granché:
sebbene ci siano, gli spunti di riflessione sono gli stessi già
suggeriti altrove. Oltretutto, poco familiare l'ambientazione, per me
che sono abituato agli anni '80 dei Duran Duran e non di Kate Bush –
la conosco, ma volutamente in modo superficiale: ha acuti così
striduli e sottili che solo i cani percepiscono, e quando li
sentono abbaiano come matti -, alle contestazioni pratiche e non agli
scontri dialettici tra moderni Tory e Whig, alle grasse battute di un
Animal House e non a
un umorismo inglese davanti al quale le traduzioni italiane nulla
possono e si procede, così, per note e asterischi. Però il
protagonista eponimo – uno tipetto brufoloso e sbadato, che ama
termini pomposi come “eponimo” e i pomposi film d'avanguardia –
è una sagoma. Troppo imbarazzante per essere vero, Brian ha
abbandonato la mamma vedova e i suoi scatenati migliori amici per il
grande salto: il mondo universitario. In cui sogna di filosofeggiare
per notti intere nel letto di ragazze splendide, di dormire in
pittoresche mansarde come gli Scapigliati, di guadagnare centrimetri
in altezza e bellezza aggiuntiva, di avere come amante una donna
agèe, come in Il laureato.
Al massimo, però, può ambire a un materasso sul pavimento – che
non fa un futon, per la cronaca -, a due curiosi coinquilini che
distillano birra in casa e al brivido della diretta tivù, grazie a
un famoso quiz. Tra una figuraccia colossale e un
vano tentativo di liberarsi le guance dall'acne, incontra
Alice e Rebecca: si innamora della prima, angelica e popolare, e si
lascia odiare dalla seconda, dark e scortese.
Finché, in quasi
quattrocento pagine, i ruoli si invertono, ancora e ancora:
schiacciando il tasto rosso, lo sciocco Brian – che dice sempre la
cosa sbagliata, nel momento sbagliato, all'interlocutore sbagliato –
giurerà amore all'una o all'altra; alla testa o al cuore? Più ardua
la risposta, mi domando, o reperire la versione cinematografica di quello che, in
lingua, si chiama Starter for 10? Uscito
dieci anni fa, ambientato trent'anni fa e destinato a esigui passaggi
su Sky, da noi, con il titolo Il quiz dell'amore.
Sul triste battesimo, stenderei rotoloni Regina di veli pietosi.
Destino infelice per una commedia che in Patria è stata un
successone e che ha il merito non da poco di avere (a) lanciato
grandi attori britannici, (b) eliminato dal romanzo la ricerca della
risata forzata, (c) trasformato quello che a volte aveva le
esagerazioni di uno chick lit al maschile in una pellicola che, se
fosse stata girata negli anni novanta, avrebbe avuto diritto,
probabilmente, al più galante degli Hugh Grant. Non ci si può di
certo lamentare, però, per la presenza di un giovanissimo James
McAvoy – che potrei odiare, da presidente onorario degli
impresentabili e degli impacciati, perché impersona un Brian assai
meno impresentabile e impacciato, ma che appare abbastanza adorabile
lì dove il personaggio originale era una mezza macchietta -, conteso
dalla bambola Alice Eve e dall'affascinante Rebecca Hall – e sì,
sono tutti più belli che nel romanzo, è il cinema!, ma almeno il
triangolo appare meno inverisimile: è un idiota, lui, ma è un idiota che sembra James McAvoy. Tutt'intorno, allegri comprimari in mezzo ai quali
spicca un Dominic Cooper che si atteggia a Fonzie, un irritante
Benedict Cumberbatch, un tamarro James Corden. E con la sua colonna
sonora da manuale – ma davvero, chi se la sorbiva la Bush? Meglio
lasciare il posto, allora, a Smiths, Cure e compagnia bella – ha più
orecchio, misura e una giusta dose di cultura generale che non guasta. Nicholls alla sceneggiatura, Tom Vaughan alla regia
e – limitato l'esagerato – si raggiunge un appagante compromesso
che suona, in definitiva, come la risposta esatta. Non badate alla
semplicità delle domande, né alla prevedibilità delle risposte:
dall'esterno noi potremmo essere anche certi di chi si metterà con
chi, ma Brian è tutto un dubbio, tutto un'ansia. Un po' come capita nel rapporto tra me e i miei genitori, per capirci, quando li chiamo alla fine degli esami: da
casa, erano tutti certissimi della mia promozione, ma a me che stavo lì,
in corridoio, e tentennavo, e sudavo, e mi agitavo, chi assicurava che tutto sarebbe andato per il verso giusto? A volte, sarebbe bello darsi per scontati. Ma è così difficile farla facile.
Il
mio voto: ★★★ Il film: 7
Il
mio consiglio musicale: The Cure – Boys Don't Cry
Se
ne stava ai margini del bosco di una favola dei Grimm, che mi tentava
con le sue delizie. Irresistibili, le sue caramelle ingannatrici.
Come quella Londra vittoriana, in cui pioveva notte e giorno e, in
mezzo alle nebbie sul Tamigi, si muovevano creature spaventose e
magnifiche. Nel lungo romanzo gotico con il marchio Showtime, potevi
vedere – dalle vetrine di un elegante caffè, in una biblioteca
proibita ai profani – i personaggi di Stoker interagire con quelli
di Shelley o Wilde. Tutti corollario, però, del fiore Vanessa Ives:
bellissima dama a lutto, corteggiata dal Male e minacciata dai suoi
emissari. In sincerità, non sapevo se fossi rimasto più affascinato
dai giochi delle trame o dagli occhi di quella Eva Green come non
l'avevamo mai vista. Inspiegabilmente ignorata alla stagione dei
premi – come le colleghe Maslany e Rossum – su questo blog
aveva guadagnato scettro e corona. Aspettavo lei – e le sue metà
oscure - per una seconda stagione: ha avuto due episodi aggiuntivi,
il nuovo Penny Dreadful, ma mi è sembrato che avesse una
durata ridotta; che lasciasse di meno. Leggo che, altrove, ha
convinto gli scettici e non posso che esserne contento: merito loro
il rinnovo. Da parte mia, questa volta, l'accoglienza intipiedita di
turno. Mi ha appassionato meno che in precedenza. Ethan Chandler
aveva rivelato nel season finale la sua natura di licantropo; Sir
Marcolm trova l'amore di una donna di mezza età con un brutto
segreto; Victor Frankenstein – mentre la sua Creatura viene assunta
in un museo delle cere – dà nuova vita alla sfortunata Brona, e se
ne innamora; Dorian Gray, da Parigi, ha portato con sé un amante en
travesti che potrebbe scoprire l'enigma della sua eterna
giovinezza; Vanessa è spinta sempre di più verso il baratro da
congreghe di aristocratiche streghe che l'hanno promessa a Lucifero.
Non si può certo dire che gli sceneggiatori, artefici di alcuni dei
dialoghi più precisi a cui abbia prestato di recente ascolto, siano
rimasti con le mani in mano. Quel che manca, e che invece è elemento
fondamentale in serie come Sense8, è la coesione: il
serial conserva la sua natura quasi antologica, dando in un episodio
risalto a una vicenda, in un altro episodio risalto ad un'altra. Una
scelta accurata (e comunque poco saggia) o un montaggio che non ha la giusta
fluidità? Penny Dreadful è una giostra che tocca
il cielo quando c'è la Green in scena e la terra quando,
escludendola del tutto da una puntata, ci si concentra sui
comprimari. E si rischia, così, che la curiosità si eclissi. Colpa,
in particolare, di un Josh Hartnett legnoso e di Reeve Carney, un
Dorian imberbe che mi aveva reso dubbioso già in passato e che
adesso, complice una scrittura che ha cura soltanto del poco che fa a
letto, sembra ancora più acerbo. Una parola in più andrà spesa per
una superba Billie Piper che, sboccata e coraggiosa, si ribella alle
pretese del suo creatore. Tra le cose belle, e non si fa fatica a
ricordarle, una pioggia di sangue durante una cena di gala, il valzer
di Dorian e Lily crivellati dai proiettile, il bacio delicato dato al
più assenanto dei mostri e la visione di una Green splendida,
sorridente, di bianco vestita. (7)
Vicious Stagione II Ho
dovuto aspettare poco per trovarli dove li
avevo lasciati. Sul divano, tra la porta d'ingresso, la cucina in cui
sonnecchia il loro cane invisibile, le scale. Sono stato fortunato: in realtà, coloro che hanno
scoperto questo Vicious nel 2013 hanno dovuto
aspettare due anni, per ridere di altri sei episodi. Non sapevo fosse nemmeno ripartito, finché
non mi sono trovato i faccioni di Stuart e Freddie – con uno sfondo
blu alle spalle – su uno dei soliti siti di streaming: agli inizi
di giugno, la strana coppia che – sul finire dell'anno vecchio –
mi aveva regalato le risate più intelligenti e cattive, era tornata
a far danni. Confermato il cast e quello scenario
da sitcom tradizionale – che ha bisogno di un salotto e di grandi
attori per funzionare: poco? - che questa volta si
amplia un po', seguendo gli arzilli protagonisti all'esterno. Stuart
e Freddie – gli scortesi innamorati che avevano fatto outing
intorno ai settanta, gioia e tormento dei loro amici intimi –
si iscrivono in palestra, vanno a scuola di ballo e, per un paio di episodi, prendono strade separate. Scoprono il fuori e la crisi del
cinquantesimo anno. Ad aprire loro nuovi orizzonti e, come sempre, ad
unirli, il fandom più caloroso che pensano di avere – dico pensano
perché non hanno visto noi quando bene vogliamo a entrambi: il fratello Mason, la smemorata Penelope e, soprattutto, i personaggi interpretati da colei
che fu la ragazza di Hagrid – un'irresistibile Frances de la Tour –
e dal premuroso Iwan Rheon, che so essere cattivissimo (e bravissimo)
in Games of Thrones. Mattatori, quel Derek
Jacobi dalla carriera iniziata quando nessuno di noi, o dei nostri
genitori, era al mondo e soprattutto Ian McEllen, che in comune
con Rheon e la giunonica Frances ha tempi comici prodigiosi e
la partecipazione memorabile a serie fantastiche. Qui sarà un
altro anello la causa di un altro viaggio – nel passato della
coppia, verso alternative che non soddisfano perché il cuore, e
le battutacce sferzanti, hanno una casa sola. Le risate e gli sketch funzionali non si contano, in una
produzione brevissima che ha tre cose che mi piacciono tanto: accento
inglese, anziani più vitali di me, umorismo fulminante. Il difetto, lo stesso dell'anno scorso – o di
due anni fa, okay. I soli centoventi minuti complessivi: ci vuole
tanto per averli qualche giorno in più come ospiti? Così è
iniziato e così è finito: un giorno mi trovo
davanti il primo episodio, infatti, e un giorno l'ultimo. Ma perdoniamo volentieri la fretta, grazie
ai nuovi inizi celebrati
nell'ultimo episodio e alla scena conclusiva, che è tenera come non
ci saremmo mai e poi mai aspettati da queste due carogne. (7,5)
Dr. Horrible's Sing-Along Blog (mini)webserie Come
si passa da amorevole vicino di casa a genio del male? Come si
diventa un supercattivo dei fumetti? Lunga
la strada da fare. Ma qui, in quel Dr. Horrible's Sing-Along Blog
che mio fratello mi propina da anni, le tappe salienti ci
vengono riassunte in tre atti, per un totale di quaranta minuti. Mio secondo approccio, questo, dopo What Lives
Inside, col mondo delle webseries. Continuerò forse a non capire il senso di
questi esperimenti – perché prendere bravi attori, e in questo
caso un autore culto, e realizzare prodotti così brevi? - ma
questa volta è andata meglio. E, nonostante l'ottimo
Daredevil targato
Netflix, il cinecomic continuerò a non tollerarlo, ma Dr. Horrible –
tascabile, visto dalla prospettiva dell'antagonista, intonato – è un
ragionevole compromesso: si parla – e si canta – delle
disavventure di un aspirante villain, innamorato della
ragazza sbagliata e infastidito da un supereroe vanesio e fanfarone
che vorrebbe salvare tutto e tutti, e soprattutto essere sommerso di
attenzioni. Inevitabilmente, anche di quelle della Mary Jane di
turno, conosciuta dal protagonista in lavanderia – come in una
perfetta commedia indie – e vittima del fascino
portentoso di Captain Hammer. Dottor Horrible – Billy, per gli amici –
riuscirà mai a entrare nella squadra dei cattivi e a
conquistare Penny? Come in Galavant,
si prende un genere tutto azione e lo si personalizza a suon di
canzoni e, orecchiabili e tutto, gli inserti da musical, qui, sono
anche bellissimi. Non a caso questi quaranta minuti, per gli
appassionati, sono un tormentone e si sono guadagnati, al tempo, un Emmy. Ma sarebbe meglio dire che Galavant
è come Dr. Horrible's,
uscito nel 2008, fortunatissimo e scritto e diretto da uno che non ha
bisogno di pubblicità: Joss Whedon, geniale soprattutto – e non me
ne volete – quando è lontano dagli Avangers.
Simpatia, originalità e attori presi dal piccolo schermo, così noti che verrebbe da chiedersi come mai le confessioni di questa pecora
nera non siano state sviluppate in altro modo, magari a mo' di
telefilm vero e proprio. Il protagonista, infatti, è un Neil Patrick
Harris che già ci ha stupito altrove con la sua duttilità; il
Nathan Fillion di Castle, piacione
e intonato; la carinissima Felicia Day, che ricordo per un ruolo
secondario in Supernatural.
Come aiutante, inoltre, il genio del male ha Simon Helberg, che
in The Big Bang Theory è quel
tipo sospetto dai maglioncini a collo alto e dalle camicie a rombi:
non mi piace il cinecomic, non mi piace Big Bang,
quindi non mi prendo la briga di cercare il nome. Ma mi è piaciuto
Dr. Horrible's Sing-Along Blog,
che è una discreta figata, anche se il suo formato ridotto mi
confonderà a vita. (7,5)
Avevo
deciso che mi sarei fatto chiamare Ari. Aggiungendo una lettera, il
mio nome diventava Aria. Sarebbe bello essere Aria. Essere qualcosa e
niente allo stesso tempo. Essenziale, ma anche invisibile.
Titolo:
Aristotele e Dante scoprono i segreti dell'universo
Autore:
Benjamin Alire Saenz
Editore:
Loescher Editore
Numero
di pagine: 320
Prezzo:
€ 12,20
Sinossi:
Di
solito i romanzi parlano di protagonisti “normali” che vivono
avventure straordinarie. Questo è un romanzo al contrario, che ci
rivela quanto è normale la vita di due ragazzi “speciali”:
Aristotele e Dante. Dall’estate del 1987, nella città di El Paso,
in Texas, seguiremo la più sensazionale delle scoperte umane: la
crescita. Dal microcosmo della famiglia – con le sue regole, i suoi
silenzi e le sue rigidità – al ring della scuola, fino allo
sconfinato orizzonte della “vita di fuori”, quella che attende
tutti tra aspettative e paure. Aristotele e Dante scopriranno i
segreti dell’universo dentro se stessi, e finalmente accetteranno
di amarsi.
La recensione
"Ci potevi trovare tutti i misteri dell'universo, in una mano."Capisco
che è importante quello che faccio in momenti come questo. In
giornate come questa. Quando basta una foto postata su Facebook, e
perdipiù in domeniche caldissime che tengono la maggioranza dei
lettori lontano dal computer, per generare il passaparola e commenti
a fiumi, che mi fanno vibrare il cellulare – incaricato di
aggiornarmi puntualmente sulle singole notifiche – ogni due minuti,
distogliendomi da cose che dovrei ripetere ma tanto non voglio già
di mio. Così mi stoppo, lascio che il ventilatore spazzi via i miei
appunti, vengo a leggere cosa avete da scrivermi voi che mi leggete.
E che questo Aristotele e Dante lo aspettavate da sempre, ma non
sapevate fosse già qui: arriva quieto, infatti, il più quieto – e
profondo, e delicato, e ironico – dei romanzi young adult di
quest'anno. Ma, nonostante la sua indole silenziosa e la sua naturale
inclinazione alla melanconia, fa tutta un'altra musica, pubblicato da una casa editrice a me sconosciuta, fino a ieri l'altro, e specializzata
in testi scolastici. Quelli che trovi in cartoleria, mica alla
Feltrinelli. Quelli che, se hai un figlio, un fratello, un nipote, magari hai sfogliato, mentre gli sistemavi la merenda nello
zaino, oppure sedendoti al suo banco per i consigli di classe, con i
professori tutt'intorno e gli scarabocchi ribelli sulla fòrmica
verde. Con il rischio che passasse in sordina,
che ci si soffermasse su una copertina che non si avvicina
all'originale, che la cura messa nella traduzione precisa e nella
compilazione di ultime pagine piene di spunti di discussione fosse
cosa sprecata, perché nel nostro Paese, nelle nostre scuole, certi
argomenti, tabù, non sono mai entrati. La Loescher Editore rischia
e c'è chi
rischia assieme a lei. Più che sul romanzo in sé, il mio pensiero
questa volta si focalizza su ciò che significa proporre in veste
didattica uno young adult che parla di omosessualità, oggi, alle
scuole secondarie. E, se avete familiarità le mie
divagazioni, solo voi sapete quanto sia spietato nel parlare degli
spietati adolescenti che vivono quell'età che è fragile ma, con la
voce grossa e il bullismo, vuole apparire forte: ci si mette paura a
vicenda, ci si dicono parole cattive, ci si passa vivi sì, ma mai
del tutto incolumi. Chiudere i ragazzini in camera e buttare via la
chiave – almeno fino ai diciotto, che portano assennatezza – o
provarci a fare qualcosa per calmare chi è rude e aiutare chi è
insicuro? Inquadrato in quest'ottica, Aristotele e Dante
scoprono i segreti dell'universo appare
ancora più speciale di quel che è, e neanche quei disegni
stilazzati – un grande editore ci avrebbe rifilato, probabilmente,
i soliti faccioni in primo piano o due indefinibili mani intrecciate
– sembrano tutta questa tragedia. Chi si fermerà a quelli, si
perderà una lettura significativa – e proposta nella più
significativa delle vie – e probabilmente non apprezzerà neanche
quel che vi è dietro.
Il romanzo di Saenz può sembrare proprio quello
scarabocchio a coloro che ricercano l'apparenza. Invece ha una
trama esile che si regge su niente - se il niente esige una scrittura
immediata, colloquiale e un po' poetica – e personaggi che camminano, senza sapere dove li porterà il passo successivo.
Protagonisti di una storia che finisce perché deve ma che potrebbe
continuare ancora. Loro sono fatti di vita e la vita, presumo, va
avanti. Se c'è una cosa che posso rimproverare a
una Loescher che ha tutti i meriti, posso?, è il sottolineare
eccessivamente il peso dell'argomento. Sul loro sito, infatti, puoi leggere:
“genere: romanzo di formazione”; “tematica: omosessualità”.
Non è certamente una rivelazione, si parla di quello, ma
“omosessualità” ha un suono troppo definitivo, consapevole: a
lungo, Aristotele non sa che omosessuale è il suo migliore amico
Dante, che bacia le ragazze ma si innamora dei maschi, e
ancora più a lungo non saprà a che punto finisce l'amicizia e
quando è che si attacca a parlare d'amore. Ma a sedici anni, alla
fine, chi lo sa? All'ora di narrativa si leggeva a voce alta, e io
ero sempre quello che leggeva a voce alta, in una classe piene di
ragazze che avevano corde vocali e polmoni meno forti dei miei:
leggevo antologie di brani, testi sull'immigrazione, una volta
perfino Dahl.
Mai qualcosa così, sintomo di una scuola non noiosa e
non ignorante. Segno che, dall'altra parte della cattedra, c'è vita.
Compito per casa: un romanzo che leggerei di mio. Con due
protagonisti di quelli riflessivi, con nomi che rispettivamente sono
due malloppi, capaci a volte di sembrare grandissimi e a volte
piccolissimi: Aristotele – la sindrome del figlio perfetto,
l'allergia alle pubbliche manifestazioni d'affetto, il fastidio di
sentirsi dire grazie: la stessa identica indole del sottoscritto,
insomma – e quel Dante che conosce dopo un tuffo rinfrescante in
piscina – figlio di accademici, innocente, espansivo, che non
scappa; da volere bene subito e accompagnare, come un suo personale
Virgilio, nel limbo della sessualità. Con loro, alla ricerca dei
segreti dell'universo – ad esempio, costellazioni nella fedina penale di fratelli di cui nessuno parla, buchi neri di zie
ripudiate, comete di sapienza di un papà con il Vietnam dentro,
gente che diventa d'un tratto la tua Orsa Maggiore – quelle famiglie
meravigliose che annuiscono e sorridono, accettano. Metteteci gli
anni ottanta, la realtà di due giovani meticci – americani in
Messico, messicani in America –, la pacatezza delle lettere di uno
Chbosky visto che gli SMS – colpevoli di avere creato tutta questa
distanza - non c'erano, a cavallo tra due estati da ricordare in cui
ognuno dei personaggi si romperà qualcosa: le gambe, le costole
e, per tutto il tempo, il cuore. Parlatene, ma con accortezza.
Leggetelo, ma lentamente. La bellezza della prima edizione Loescher,
che ci mostra che la cultura è libertà, non andrà via come il pane
– anche se spero il contrario – ma, detto tra noi,
meglio così. Aristotele e Dante è come un film
indie che solo noi abbiamo visto – il ricordo che va all'inedito
The Way He Looks,
brasiliano, con un'altra piscina e un altro sentimento cieco,
letteralmente – o come quel posto nel deserto che solo noi, un
filosofo greco e un poeta fiorentino conosciamo. Stesi nel cassone di
un pick up rosso, a contemplare quelle stelle che, secondo un altro Dante, l'amore stesso muoveva. "Il sole non fa per i tipi come me. Apparteniamo alla pioggia."
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: OneRepublic - I Lived
Hope
if everybodyruns, you choose to stay.
Hope
that youfall in love, and it hurts so bad (…)