giovedì 31 ottobre 2019

Mr. Ciak: Scary Stories to Tell in the Dark, Crawl, Eli, Wounds e altri horror per il tuo Halloween

Corrono gli anni dei film di Romero e del Vietnam. È la notte del trentuno e tre amici inseparabili, in compagnia dell’ultimo arrivato, l’hanno fatta grossa. In fuga dai bulli, si rifugiano dove nessuno andrebbe a fare dolcetto o scherzetto: una casa infestata. C’entrano una bambina prigioniera nello scantinato e il classico libro scritto con sangue umano, che pagina dopo pagina svela nuove vittime fra i giovani protagonisti. Si animano gli spaventapasseri nei campi di grano. I ragni sbucano sottopelle. Corpi disarticolati attentano dietro le sbarre e, nei lunghi corridoi degli ospedali, aspettano i mostri. Perfetto per Halloween, Scary Stories to Tell in the Dark attirerà in sala il pubblico più rumoroso – gli adolescenti – e gli spettatori affezionati al culto di Stranger Things. Pensato per intrattenere i Millennial, il ritorno al cinema del regista diThe Autopsy of Jane Doe segue la moda delle antologie a tema e della retromania dilagante. Il risultato, leggerissimo e con un sottotesto politico dal retrogusto agrodolce, somiglia a un’indagine vecchio stile della Misteri e affini. Prodotte da Guillermo Del Toro, le più popolari storie da falò prendono vita per raccontarcene infine una non così inedita. Di quelle da sussurrare al buio, ma da vedere senza il bisogno della luce accesa. Non spaventeranno, infatti, neppure i giovanissimi. (6)

Cose da non fare in caso d’uragano: passare a casa di tuo padre per chiedergli se è tutto bene su consiglio della sorella maggiore. E scoprire che è ferito in cantina, in balia di onde anomale e di rettili primordiali – con tanto di dolce cagnolina da salvare. Per quanto non sia un amante di questi horror acquatici nello stile di Paradise Beach, Crawl sa come diventare un’appassionantissima declinazione del genere home invasion. Può vantare un’invidiabile gestione dell’alta tensione, senza esagerare con arti mutilati, effetti splatter e sobbalzi; effetti visivi di gran livello; una prova convincente da parte della protagonista, la sfortunata Kaya Scodelario. Il merito maggiore, però, spetta alla regia di Alexandre Aja: nonostante qualche passo falso commesso in passato, finalmente sotto l’egida del produttore Sam Raimi, il francese torna a ricordarci di saperci fare in fatto di morti ammazzati e nefandezze a fantasia. C’è poco altro sotto la superficie, a parte il classico rapporto conflittuale padre-figlia, ma Crawl – umido e claustrofobico, senza tregua – fa il suo dovere. Prima di comprare una casa accanto alla palude, da oggi ci penseremo su due volte. E consulteremo più attentamente il bollettino meteorologico. (7)

Una coppia di genitori disperati si affida a un farmaco sperimentale per salvare il loro bambino, allergico al mondo esterno. L’ultima spiaggia, una clinica privata perduta nelle nebbie, somiglia proprio a una casa stregata. E ben presto il paziente inizia a mostrare segni di debolezza fisica e psicologica, stranezze. Sono le controindicazioni della terapia, o c’è dell’altro? Protagonista della versione horror di Noi siamo tutto, Eli sarà messo in allerta da una coetanea: dall’istituto, infatti, sono passati bambini simili a lui – senza mai uscirne. Atipica ghost story coprodotta dalla Paramount, può contare su un’ottima atmosfera, buone interpretazioni femminili – Kelly Reilly e Lili Taylor, sempre piacevoli da ritrovare –, piccoli grandi indizi all’insegna di un finale che fa fuoco e fiamme. L’effetto sorpresa è assicurato in molti casi, ma personalmente avevo indovinato il colpo di scena in anticipo. La visione, per fortuna, non ne perde affatto in gradevolezza, risultando un intrattenimento molto più godibile della media. Una variazione sul tema forse abusata ma affrontata da una prospettiva opposta, in cui i bambini in pericolo hanno nomi in assonanza con la parola “lie” e per sopravvivere al mondo servono bugie e anticorpi. (6,5)

Non ci si poteva aspettare altro da Babak Anvari, regista iraniano già amato-odiato ai tempi di Under The Shadow. Tornato al Sundance con il suo primo film statunitense, lascia l’Oriente per New Orleans ma non rinuncia alla suggestione. Horror di difficile comprensione, Wounds racconta delle ferite metaforiche di Armie Hammer: perdigiorno alcolista e traditore, diviso tra Dakota Johnson e Zezie Beetz. In ordine sparso lo affliggono: un’invasione di scarafaggi, escoriazioni di natura misteriosa, messaggi di morte recapitati da sconosciuti. Che lo si voglia leggere come un ordinario racconto di possessione soprannaturale o allegoria di qualcos’altro – un disagio che serpeggia nel profondo della coppia, la dipendenza da alcol –, Wounds si rivela un interessantissimo prodotto festivaliero. Spiazzante e audace, a metà fra Kafka e Bukowski, garantisce un delirio acustico e visivo capace di dividere il pubblico. Il protagonista, immerso totalmente nelle sue ricerche pur di dare un senso a un’esistenza vuota, troverà l’illuminazione o la disfatta? Restano più domande che risposte. Tante interpretazioni: tutte valide e tutte sbagliate. Troppo impenetrabile, l’ho seguito spinto da una fascinazione morbosa. L’ho compreso a sprazzi e con il senno di poi. Ma mi è piaciuto, sì, o almeno credo. (7)

Costretta a ritirarsi per la decenza della madre, una violoncellista di talento si rimbocca le maniche pur di riprendersi il posto che le spetta. In un territorio ostile, la protagonista scopre di avere una rivale: entra in competizione con lei, ma ne è attratta. Possibile frenare le scene bollenti se si parla delle bellissime Allison Williams e Logan Browning? Sexy e ributtante, sconsigliato agli ipocondriaci, The Perfection parte con un sofisticato prologo a Shangai e ci conduce poi verso l’ultima frontiera della competizione. Impossibile comprendere in anticipo dove andrà a parare. Altrettanto frenare le domande e il raccapriccio davanti agli efferati cambi di scenario, rotta e protagonista – chi è la buona e chi la cattiva, e dalla scuola di cui sono entrambe le stelle sarebbe meglio far di tutto per entrare oppure uscire? Mix febbricitante ma irresistibile, The Perfection fa il suo sporco lavoro con colpi di scena a raffica, un montaggio pazzo, sequenze di disfacimento fisico e morale. Il thriller di Shepard prende le mosse sulla scia del Cigno nero, per poi trasformarsi in un bagno di emoglobina a tinte trash, su cui pattinano personaggi chiamati alle vendette trasversali e ai duetti folli. Voi saprete contenere succhi gastrici, divertimento e orrore? (7,5)

Dopo Shining soltanto Stephen King, qui in collaborazione con il figlio Joe Hill, poteva immaginare un labirinto tanto singolare. Dopo The Cube soltanto il sottovalutato Natali, abilissimo ma a corto di progetti, poteva renderlo così claustrofobico. Partito sotto i migliori auspici, infatti, Nell’erba alta contava su uno spunto originalissimo e un regista a proprio agio con ambienti asfittici e relazioni torbide. Cosa ci fanno la famiglia dell’inquietante agente immobiliare Patrick Wilson e una ragazza incinta di sei mesi, in viaggio con il fratello, in un singolare dedalo verde dove il tempo e lo spazio hanno leggi imperscrutabili? Se al centro del labirinto c’è anche un misterioso monolite, le battute sull’erba – quanta ne hanno fumata per inventare questo guazzabuglio indigeribile? – potrebbero sprecarsi durante la visione. Trip senza fine, sontuoso dal punto di vista visivo, il racconto del Re diventa un horror psicologico dal pollice verde e dagli spunti oscuri. Servivano francamente qualche chiarimento in più e qualche sacrificio stucchevole in meno. Impossibile uscirne sani e salvi. E venirne a capo? Nel dubbio, cambiate strada all’ultimo minuto e, sul tema riti pagani e natura, guardate Apostle. (5)

Il medico Gleeson, la matriarca Rampling, i figli Ruth Wilson e Will Poulter. Dirige Lenny Abrahmson. Alla base: un gotico firmato da Sarah Waters, di recente portata anche a Cannes da  Park Chan-wook. Possibile, date le premesse, che L’ospite sia stato destinato in Italia direttamente allo streaming? Il perché, dato un film senza grandi demeriti, resta un mistero. Tragedia familiare dalle atmosfere angoscianti, racconta della fascinazione del protagonista verso una casa in rovina: anziché fuggire, ne è attratto – galeotti l’amore verso la primogenita da trarre in salvo e i ricordi di un’infanzia trascorsa, al contrario, in completa povertà. Immerso in scenari che ricordano il soggiorno a Hill House, il film britannico fa proprie psicosi, malanni ereditari, stanze anguste. Il paranormale ci metterà lo zampino soltanto nell’ultima mezz’ora, con porte sbattute all’improvviso, scampanellate notturne, scritte sui muri. Austero sotto ogni punto di vista, dal cast superbo alle scenografia, ha ritmi lentissimi e una regia ora incantevole, ora asfissiante. Non meritava l’oblio, però, nonostante una chiusa frettolosa. Somiglia proprio, infatti, a una di quelle magioni in rovina che conservano a sorpresa il loro fascino polveroso. (7)

Cresciuto dalla mamma single, James è un piccolo lord, pettinato con la riga di lato e sempre ben vestito. Senza amici, ha paura de ragni e di ricominciare altrove dopo un trasferimento improvviso. E non deve assolutamente giocare nei pressi della voragine che si apre al centro del bosco dietro casa. Disobbedisce, ovvio, e niente sarà più lo stesso. Ma le stranezze, crescenti giorno dopo giorno, le percepisce soltanto una mamma sull’orlo di una crisi nervosa o sono forse reali? Forte dei paragoni ingannevoli con The Babadook e della notevole somiglianza tra il bambino e Haley Joel Osment, The Hole è un horror a basso budget che raggiunge il massimo risultato con il minimo sforzo. Discreta macchina di tensione, con un’ottima interprete nel ruolo di protagonista, a ben vedere ha però un’introspezione psicologica appena accennata – il difetto maggiore è che manca di qualsiasi doppiezza o ambiguità – e una trama, con tanto di finale mordi e fuggi nelle grotte di The Descents, che rimesta alla cieca nel mito dei changeling e nei classici horror di ragazzini maligni e madri al limite. Non gli si vuol male, ma avremmo tutti fatti a meno della distribuzione in sala o dei confronti con una regista, Jennifer Kent, contro i cliché. (5,5)

Un’altra mamma single, un altro bambino con amici che stanno sulle dita di una mano. L’evasione non avviene grazie alle scorribande nei boschi, bensì con un giocattolo che già conosciamo tutti: l’iconico Chucky, incubo di generazioni vicine e lontane. Ritornato in un remake non richiesto, il rimodernamento della bambola infernale preferisce concentrarsi sulla dimensione infantile anziché su quella orrorifica. Il rinnovo generazionale, per fortuna, chiama comunque all’appello omicidi sanguinosissimi e un doppiatore d’eccezione, Mark Hamill, ad animare un villain per il resto non troppo convincente dal punto di vista estetico. Al tempo di Stranger Things e Black Mirror, i bambini sono ricettivi e gli adulti appaiono ciechi davanti all’evidenza; la crudeltà di Chucky non dipende da una possessione demoniaca, bensì da un malfunzionamento tecnologico. Preceduta da un geniale battage pubblicitario che faceva a pezzi i personaggi di Toy Story, la nuova Bambola assassina è una commedia nera scoppiettante ma prevedibile dall’inizio alla fine. Ben recita, capace di indovinare target ed equilibri, resta poco incisiva ma tanto è bastato a far gridare all’eccezione alla regola pubblico e critica, al cospetto di un remake al passo con i tempi. Ma se il gioco cambia estetica, le regole restano le stesse. (6)

Nell’era segnata dall’influenza dei cinecomic, ne sa qualcosa il caro Martin Scorsese, quanto poteva essere geniale un’idea del genere: prendere un eroe dei fumetti, amato da grandi e piccini, e trasformarlo questa volta nell’antagonista della storia. Il coraggioso Clark Kent, così, sbarcato da un pianeta lontano e adottato da una famiglia di amorevoli campagnoli, si trasforma in un bambino sfrenato e dispotico: respinto da una coetanea, irritato dalle bugie dei genitori, minaccia di usare i suoi poteri per i fini peggiori. Esisterà anche qui l’equivalente della kryptonite? Tipica storia sulle origini di un atipico supereroe, a Brightburn si chiedeva poco. Amaramente, il film prodotto da James Gunn osa dare perfino meno del previsto. Di scarsissime pretese, con un svolgimento indegno dell’assunto di base, ha un cast non di primo taglio – fa eccezione giusto Elizabeth Banks – e un Omen dotato di raggi laser negli occhi, meno carismatico e più caciarone dell’infante diabolico del classico di Richard Donner. Inutile accanirsi ulteriormente: questo volo nel lato oscuro lo abbiamo già scordato. (4)

lunedì 28 ottobre 2019

I ♥ Telefilm: Modern Love | Unbelievable | El Camino

Cristin Milioti, book blogger sorpresa da una gravidanza indesiderata, scopre nel portiere del suo condominio un angelo custode. Dev Patel, ideatore di un sito d’incontri, vive il paradosso di essere sfortunato in amore: intervistato da Catherine Keener, altra esperta di occasioni perse, guarderà con occhi diversi alla sua ex. Anne Hathaway, con un sorriso a mille watt e un’esistenza sbucata da un musical, custodisce un segreto che nei giorni storti le impedisce di scendere dal letto: il bipolarismo. Tina Fey e consorte, al centro di una crisi matrimoniale, si affidano a una terapista e all’hobby del tennis: il rimedio per quest’amore stanco appare tuttavia già brevettato altrove. Reduci da un appuntamento culminato all’ospedale, Sofia Boutella e John Gallagher non hanno niente in comune: a sorpresa sono la mia coppia preferita, sbucata da una commedia indie che al cinema avrei amato alla follia. L’insopportabile Julia Garner frequenta un uomo di trent’anni più grande: lei ci vede il padre mai avuto e lui, impossibile da biasimare, una fiamma. Andrew Scott si affida ai capricci di Olivia Cooke, incinta di sei mesi, pur di diventare padre: il tema è scontato, ma ci piacciono le famiglie arcobaleno, i protagonisti principali e il cameo divertito di Sheeran. Jane Alexander, settant’anni e non sentirli, è una vedova che non ha mai smesso di correre: necessario innamorarsi ancora, nonostante la salute precaria possa rendere breve la relazione con un coetaneo. Otto episodi, otto storie a sé: cos’hanno in comune? Il tema – l’amore, ovviamente – e il fatto che siano vere fino all’ultimo sospiro. La serie Amazon prende ispirazione da una rubrica del Times e dalle idee del regista John Carney: cantore per eccellenza di sentimenti sospesi, cast raccolti, città magnifiche. Già confermato per una seconda stagione, Modern Love è un intrattenimento a prova di cuori di pietra. Alto il rischio di sciogliersi come un ghiacciolo – non altrettanto l’indice glicemico –, mai quello di averne abbastanza. Costituito da piccoli miracoli di scrittura e leggerezza, semplicemente delizioso, potrebbe diventare il rimedio contro il rigore dei mesi che verranno. Confortevole quanto una coperta sulle ginocchia, a metà tra i puzzle sentimentali di Curtis e i ritratti jazz di Allen, è un riconciliante feel-good movie a puntate. Sceneggiato con equilibrio, grazie a una delicatezza che si trasforma raramente in melassa – vedasi l’epilogo: unica concessione alla furbizia per cercare nessi e lacrime –, sa condensare storie e personaggi memorabili in trenta minuti.  Coinvolge grandi attori, come si diceva sopra, ma sanno comunque tutti farsi discreti pur di far risaltare l’importanza delle storie che interpretano. E la bellezza di New York, magica sotto la pioggia. Rimessi al mondo, a fine visione avremo voglia di gentilezza, biglietti aerei dell’ultimo minuto e altri miracoli. (8)

Una ragazza viene stuprata nella notte. L’aggressore irrompe in casa sua: la immobilizza, la fotografa mentre ne abusa. Dopodiché si dilegua, minacciando la vittima di morte in caso denunci. Ma la ragazza non ha paura, e immediatamente avverte le forze dell’ordine. Peccato che gli interrogatori insistenti, le visite umilianti, le pressioni psicologiche di investigatori e conoscenti la portino infine ad ammettere resa: a volte, se poco conferme al profilo della vittima perfetta, una ragazza abusata fa prima a dichiararsi una bugiarda che a battagliare. Sembra follia, ma è una storia vera. L’aggressore è un maniaco seriale. Metodico, inafferrabile, sfuggente, seleziona donne di età e paesi diversi. Unire i puntini all’inizio non è facile, neanche per due agguerrite agenti a capo di una task force interamente al femminile: agli antipodi per metodi e stile di vita – una devota madre di famiglia, l’altra segugio dal sarcasmo affilatissimo –, riusciranno a conciliare i loro caratteri opposti in nome della giustizia? Partita sotto i migliori auspici, la discussa miniserie Netflix perde in fretta di vista l’importanza della reale vicenda di cronaca nera – un eclatante caso di falsa testimonianza, che nasconde in realtà le fragilità e le fobie di una giovane superstite – per diventare lo spin-off non dichiarato di True Detective. Questa revisione in chiave femminile e femminista del serie crime prende in prestito dal mondo di Pizzolatto qualche lungaggine nella gestione dei tempi, la presunta natura antologica, due caratteri non troppo inconciliabili. Toni Collette e Merritt Wever si confermano straordinarie padrone di casa, e Kaitlyn Dever è una rivelazione alle prese con le contraddizioni di un personaggio per molti difficile da comprendere: una ventenne che non vorrebbe essere d’esempio, ma soltanto avere il diritto di ricominciare. Possibile con un risarcimento danni che ammonta a soli cinquecento dollari? Lontano dall’asciuttezza di When They See Us, esempio da manuale di intensità e concitazione, Unbelievable segue stilemi smaccatamente televisivi che ricordano per foggia e approccio le inchieste di Law & Order. Fanno la differenza l’alchimia tra le protagoniste e uno spunto così nero da sembrare proprio incredibile. Lo stesso, stando al mio parere controcorrente, non può dirsi del resto. (6,5)

Sono uno spettatore incostante. Ci sono cose che mi piacciono e cose che non mi piacciono. Sostanzialmente, perciò, non sono un fan sfegatato di niente o nessuno. Nel caso di Breaking Bad – per me una delle più belle serie di sempre, senza farne misteri – è stato sì amore grande, ma non sono mai arrivato a farne un oggetto di culto. Nell’armadio mi tengo cara una maglietta a tema, infatti, ma controllando dappertutto – sul fondo, dietro i giubbotti invernali, sotto i maglioni – non ho serbato alcuna curiosità sul destino dei personaggi principali. Perfetta così, la quinta stagione non doveva agli spettatori affezionati nessuna spiegazione di sorta. Sapendo di un prosieguo lungo due ore, arrivato ad anni di distanza dall’ultimo ciak, ho storto il naso. Giunto su Netflix in gran segretezza, preceduto da voci di corridoio e supposizioni fantasiose, El Camino è proprio quello che sembra: una chiosa prolissa e inutile, poco necessaria e altrettanto poco credibile. Nel frattempo, infatti, Aaron Paul è diventato adulto e Jesse Plemons è ingrassato, mentre gli sceneggiatori non hanno trovato il miracoloso pretesto per includere personaggi amatissimi – Walt e Mike, per citarne un paio, insieme ai membri della famiglia White – senza ricorrere ai classici flashback dalla lacrima facile. Cosa è stato di Jesse dopo la sua fuga? Come ha trascorso i giorni della sua prigionia, prima di salire su un’auto col motore a tavoletta e perdersi nella lunga notte dei titoli di coda? Serviva venircelo a dire? Nel film seguiamo i suoi tentativi reiterati per raggiungere l’Alaska. Non c’è interesse a costruire qualcosa di nuovo. Neanche i membri del cast, a parte un Paul con la carriera un po’ in caduta libera, sembrano crederci fino in fondo. Aggiungete la modestia dei film destinati allo streaming e qualche ricordo nostalgico; sottraete la dimensione corale, qui sacrificata per un one man show all’insegna degli andirivieni frustranti. Francamente, ci si annoia. Per fortuna l’evitabile El Camino nulla toglie e nulla aggiunge, sbadigli a parte, al mito dei cristalli blu. (5)

venerdì 25 ottobre 2019

Recensione: La ragazza delle meraviglie, di Lavinia Petti

| La ragazza delle meraviglie, di Lavinia Petti. Longanesi, € 18,50, pp. 448 |

Ci andò a morire Partenope, la creatura leggendaria uccisa dall’amore non corrisposto per il subdolo Ulisse.
Ci fece tappa per l’ultima volta Virgilio, il poeta con la fama da mago, che scelse di farsi seppellire nel quartiere di Piedigrotta.
A lungo fu il principale porto affacciato sul Mediterraneo.
Dal mare arrivavano spezie, stoffe e maledizioni. Dal mare, ancora, arrivavano i forestieri e le sirene. A volte per viverci, altre per morire. Quante storie lontane sono rimaste intrappolate nel sartiame e nei vicoli? Quante ne ha ispirate una città che, a furia di custodirle per le generazioni successive, si è trasformata nella storia più affascinante di tutte? Sterminata, contraddittoria, antichissima, Napoli fa bene alla pancia e alla fantasia. Deve portare fortuna. Quest’anno ci sono stato prima con Storia del nuovo cognome, poi attraverso gli occhi della studentessa straniera di Perduti nei Quartieri spagnoli,  ma purtroppo manco in città da un po’. E mi manca. Si può provare nostalgia di qualcosa che non conosci bene o che forse non hai mai conosciuto? Nato in Sicilia da genitori casertani, cresciuto poi a cavallo tra Molise e Abruzzo, ho radici frastagliate e nessun senso di appartenenza. Ma se c’è una regione che sento nel profondo più delle altre è la Campania. Sarà che quando mi arrabbio scappano puntualmente improperi in quel dialetto buffo e sanguigno. Sarà che i miei nonni dicono che lì splenda sempre il sole e che tutti, proprio tutti, abbiano questa gran voglia di cantare. Sono meteoropatico, somatizzo le giornate uggiose fino a star male, e anch’io sin da bambino  cantavo – Claudio Baglioni al karaoke, per quanto lo rinneghi, e soprattutto storie di janare. Avere l’occasione di rileggere finalmente Lavinia Petti è stato un ritorno a casa.

Appena lo vide, Fanny capì che ogni passo che aveva mosso dal Moiariello era stato un passo verso di lui. Aveva dato retta all’istinto sconosciuto che guida la gente di mare, che quando è triste ha bisogno della sua vicinanza per mitigare la sofferenza. Come il sale, che cura le ferite ma prima le fa bruciare.

Scoperta qualche anno fa con Il ladro di nebbia, esordio stupefacente da me consigliato per vie ufficiali e ufficiose, la giovane autrice napoletana è di nuovo in libreria con un romanzo dal destino tortuoso ma dalla resa perfetta. Nel tempo l’ho scritta, l’ho tampinata, l’ho aspettata come accade di raro.
Lavinia mi raccontava in privato di una gestazione lunga e faticosa; di una storia uguale ma diversa dalla precedente, in cui far convergere il frutto delle sue ricerche e i segreti di un capoluogo che per comodità ama talora schermirsi dietro il cliché. L’attesa, non gliene ho fatto misteri, è stata ripagata. E dalle pagine della Ragazza delle meraviglie emerge infine l’affresco di una Napoli inedita – probabilmente l’autentica protagonista –, che solo il regista Ferzan Ozpetek ha provato a svelarci di recente fra riti esoterici, simbologie arcane e sguardi di seduzione. Francesca Annunziata, detta Fanny, è nata laggiù: peccato non si sappia da chi. Salvata dalla Ruota degli Esposti da una coppia di coniugi maledetti dalla sterilità e dalla piaga dei parenti impiccioni, la quattordicenne senza passato cresce bruna, selvaggia e malinconica. Né grande né piccola, enigmatica in primis agli occhi di sé stessa, fruga nelle case sfitte e nelle scatole di scarpe: ha la propensione a cacciarsi nei guai e un inquietante sesto senso che di notte la porta a fronteggiare incubi catastrofici e premonizioni mortifere. Le sue origini, un segreto di Pulcinella di cui venire a capo. Potranno il ritrovamento di una moneta vecchia di millenni e una chiave ossidata guidarla fino ai genitori biologici: gli unici a poter fugare la sua fama di strega, assieme alla sindrome d’abbandono che l’affligge?

«Pensano che sia una terra di luce. Si sbagliano: il Sud è pieno di tenebre. E le tenebre allettano gli uomini, soprattutto quelli che credono nella ragione. Un uomo razionale e ambizioso difficilmente resisterà alla tentazione di spazzarle via», fece una pausa. Quando parlò la sua voce era bassa, dolente. «Mi chiedo se sto commettendo un errore a voler salvare Napoli dai suoi fantasmi, a volerla salvare dal suo passato.»

Con il profilo mastodontico di Castel dell’Ovo all’orizzonte, mentre i gechi – fate in incognito, si mormora – scorrazzano sui muri scrostati e i tinelli ospitano le macchinazioni di una strana congrega al femminile, le ricerca della protagonista la porterà a domandare informazioni a prostitute dal trucco sbavato – Clemenza –, agli antiquari con le cravatte a fantasia – il signor Marrone –, a politici senza scrupoli – Augusto d’Avalos – che promettono di dare un nuovo assetto alla città a discapito della tradizione.
È una Napoli d’inverno, la sua, eccezionalmente fredda. Risulta piacevolissimo, allora, rifugiarsi nei bar per bere cioccolate bollenti e caffè forti, concedersi lo sfizio irrinunciabile di un morso di pizza con ricotta e cicoli, ricercare il calore umano della folla che infesta i mercatini caratteristici e i negozi d’anticaglie.
È una Napoli lontana dagli occhi ma mai dal cuore, stratificata. Proprio sotto il suolo cittadino, infatti, vive in silenzio un’esistenza parallela. Ha tunnel labirintici, pozzi e nicchie di tufo, templi sotterranei. Appare esplorabile, eppure, in sella alla bici di Tommaso: un coetaneo agorafobico e sfregiato dal fuoco – un munaciello –, con cui avventurarsi fino a un casolare di pietra della costa sorrentina.
Il motto di Fanny, spavalda quanto la Lila di Elena Ferrante: «Io non mi metto a paura ‘e niente». Vorremmo avere tutti un briciolo del suo coraggio.

Qualcosa di vero c’è sempre, ma quando si tratta delle leggende popolari di questa terra, vecchie di secoli o millenni, c’è da impazzire. Possiamo scavare, arrivare al centro del pianeta e spuntare dall’altra parte, ma nella maggioranza dei casi quello che ricaveremo saranno solo altri racconti. Racconti che rimandano ad altri racconti, in un gioco di specchi. Viviamo in quella parte di mondo in cui chiunque cerchi la verità è destinato a trovare storie.

La ragazza delle meraviglie è scandito da episodi spettrali, in cui c’è poco d’intentato o d’inventato. Dove la suggestione è di casa e la mappa topografica riporta quasi alla mente i viottoli di Diagon Alley, si tramanda che un uovo magico preservi gli equilibri malsicuri del luogo, che i sogni siano da prendere sul serio – consultate la Smorfia, per esempio, che li prende davvero alla lettera – e che la maschera di Pulcinella, qui presenza tutt’altro che rassicurante, sia un tramite con l’aldilà. Nell’architettare una trascinante ballata dal gusto rétro, che ci ricorda di capitolo in capitolo gli amori impossibili tra i marinai e le sirene, Lavinia non dimentica l’attualità. Le rimostranze grandi e piccole amplificate da un megafono in piazza, i teatri che chiudono per far posto ai supermercati costruiti in serie, i monti crivellati sin nelle viscere dagli appalti abusivi. Non c’è niente di sacro: neanche l’arte, neanche l’infanzia di un’innocente.
È una Napoli da salvare non dallo tsunami, ma semplicemente da noi stessi.
È una Napoli presso cui tornare, usando l’incanto di questa storia come fosse una bussola. L’immaginazione contagiosa di Lavinia Petti la illumina a giorno, la scandaglia, la protegge. Ne fa meraviglie.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Roberto Murolo e Mia Martini – Cu’mme


lunedì 21 ottobre 2019

Recensione: La clausola del padre, di Jonas Hassen Khemiri

La clausola del padre, di Jonas Hassen Khemiri. Einaudi, € 19,50, pp. 256 |

Com’è il rapporto con i membri della vostra famiglia? Dalla sincerità della risposta potrebbe dipendere la percezione dell’ultimo romanzo dello svedese Jonas Hassen Khemiri: una rimpatriata caustica e dolce-amara su tutto quello che una coppia di neosposi innamorati, probabilmente, preferirebbe non sapere. Con la mia famiglia, come sa chi mi legge da qualche anno, i rapporti son tesi. Da figlio maggiore ho il compito ingrato di coordinare i movimenti degli altri, sparsi in tre diversi angoli dell’Italia; di ricordare cosa posso dire a mamma e cosa devo nascondere a papà, o viceversa; di far sì, attraverso messaggi che sono autentiche newsletter, che un fratello con la memoria da pesce rosso ricordi di onorare i compleanni, gli onomastici, le feste comandate. L’ultima occasione per riunirsi è stata la mia laurea, ad aprile. Ero più preoccupato per le loro interazioni che per il discorso di dieci minuti da ripetere al cospetto della commissione, o di quelle scarpe eleganti un po’ troppo larghe. Si sarebbero comportati bene? Sarebbero stati a loro agio chiusi a forza nell’aula magna? Ho evitato festeggiamenti formali per non fronteggiare l’imbarazzo di vederli costretti alla stessa tavolata. Abbiamo brindato in piedi, sul prato dell’università, con i bicchieri di plastica e mio padre da un lato, mia mamma d’altro, mio fratello che all’occorrenza faceva da spola. A fine giornata ho tirato un sospiro di sollievo: basta, finiti i momenti di aggregazione.  E se ti sposi?, ribatte chi mi è vicino. E se hai un figlio?, rilancia. L’angoscia di un’altra occasione ufficiale – io che m’improvviso equilibrista, io che per quieto vivere ridimensiono nuovamente i miei entusiasmi – è l’anticoncezionale migliore.

L’amore è una dittatura, pensa il papà, e le dittature sono un bene, perché non era mai stato così felice come quando non aveva la minima libertà, quando l’unica cosa che sapeva era che non poteva stare lontano da lei. Lei. Sua moglie. La sua ex moglie.  

Leggere La clausola del padre ha significato scoperchiare un vaso di Pandora di amarezze, memorie, rancori personali.  Lo consiglierei con il contagocce, tant’è incandescente. Chi ha la fortuna di non esserci passato potrebbe reputarlo folle; chi ha un matrimonio in cantiere, magari bambini in arrivo, potrebbe trovarlo fatale. Impietoso, divertentissimo, pieno zeppo di tiri pancini e parole non dette, il romanzo ha punti di vista complementari ma assolutamente inconciliabili.
C’è un padre straniero che ogni cinque mesi, due volte all’anno, torna in Europa un po’ per affetto e un po’ per opportunismo: burbero e presuntuoso, malato di diabete, si addormenta davanti alla TV per fugare la solitudine e all’arrivo in aeroporto – in un marasma invidiabile di parenti, autisti, amanti – non ha nessuno ad aspettarlo. Quali torti avrà mai commesso quel vecchio con il pallino della fuga e dei film d’azione, che da quando si è scoperto cagionevole ha la pretesa illegittima di essere considerato fragile? Suo figlio, a sua volta genitore di due bambini insopportabili, è troppo impegnato per occuparsi anche delle recriminatorie dell’anziano: commercialista in pausa, si prende cura dei piccini quando la compagna è a lavoro e vive il ruolo di “mammo” con una costante ansia da prestazione.  Un tempo abbastanza intraprendente da strappare la fidanzata a un altro uomo attraverso un’appassionata corrispondenza telematica, ora fa fiasco alle serate di stand-up comedy e non ha voglia di riappropriarsi di una relazione senza più l’intimità originaria. Troverà le parole per dire al padre in visita che questa volta non è aria, lui che per natura è compiacente e paciere quanto il sottoscritto? Poi c’è la sorella minore, donna in carriera reduce da un matrimonio fallimentare e dichiaratamente allergica alle storie serie: istintiva e libertina come un’eterna adolescente – leggera come lo sono spesso i secondogeniti, i più coccolati, nonostante un dolore nascosto nel passato –, come reagirà quando il test di gravidanza le comunicherà che lei e il suo fidanzato occasionale, un adorabile cinefilo di sette anni più giovane, sono in dolce attesa?

Non conosco nessuno che abbia una relazione normale con qualcun altro, tanto meno i suoi genitori. E questa relazione quanto è normale?, aveva scritto lui. Il giusto, aveva risposto lei. Ogni nuova mail apriva la strada a qualcosa di più. La sensazione era quella di avvicinarsi a un frisbee invisibile e farsi trascinare via dalla realtà. Di avvicinarsi a qualcosa che ti trasforma in una versione migliore di te stesso. In realtà non sono poi così divertente, aveva scritto uno dei due dopo un paio di mesi. Nemmeno io, aveva risposto l’altro. Non importa chi aveva scritto cosa, perché avevano già iniziato a diventare una persona sola. Quando finalmente si incontrarono, era ormai troppo tardi. Erano fatti l’uno per l’altra. 

In una Svezia colorata dalla presenza di ambulanti, extracomunitari e turisti, dove i nativi appaiono al contrario sempre grigi e indaffarati, i protagonisti hanno l’Ikea Family nel portafoglio, la cronologia internet affollata di ricerche su utilitarie e passeggini ergonomici, un posto di straforo in costose caffetterie vegane dove i passeggini devono restare fuori alla stregua dei cani. Indossano maglioni, paraorecchie, cappotti pesanti: fa freddissimo d’inverno, ed è inutile confidare nel calore del prossimo. A strapparci sorrisi frequenti, per fortuna, ci pensano i capitoli affidati ai narratori più impensati: capolavori di scrittura creativa dove a condannare l’incomunicabilità degli adulti, le contraddizioni di quei pareti che ci demoralizzano in privato per poi vantarci in pubblico, sono i piccoli di casa – quante critiche allora a quei genitori senza più la meraviglia nello sguardo, incapaci di godere dell’incanto di una mattina di neve senza mandare tutto allo scatafascio oppure di cogliere le sfumature di significato di un muuu. Vittime di una solitudine siderale, per il resto, perseguitati dai fantasmi degli amori perduti o dal ricordo delle occasioni perse, i tre non riusciranno a incrociarsi nella stessa pagina e non avranno mai un nome di battesimo: non risultano, tuttavia, anonimi neanche per un attimo. L’autore specifica soltanto i gradi di parentela, che li qualificano e li imprigionano annullandone l’autonomia. Troppo tardi per riprendersi l’identità, o per bacchettare il capostipite per inadempienza contrattuale? 

Cos’è successo davvero tra voi?, chiede lei. La vita, risponde lui. Prima la vita. Poi la morte.

Le famiglie difficili da gestire inacidiscono. Le famiglie difficili stancano. Non puoi prenderti ferie da loro, no, né annullare un contratto siglato con il sangue. Complicatissime, sono davvero fatte a modo loro. Ma chi dice che in fondo non si somiglino? C’è più della mia qui che in una foto ricordo. Le chiamate da bypassare, le rimostranze continue, la scomodità nel vedersi in territorio neutrale. Con troppo da organizzare. Con troppo da incastrare. Ma è il meccanismo di difesa di chi è rimasto bruciato una volta, il mio: a volte, infatti, provo tanta nostalgia di noi.
Accade quando i protagonisti maschili di Khemiri si scoprono a trattenere il fiato sovrappensiero, pensando che alla fine della prova di apnea la porta d’ingresso si aprirà per premiarli per cotanto coraggio.
Quando io vedo una signora bionda di spalle, per strada, e mi scopro a seguirla da lontano: l’ho scambiata per mia madre, e per un paio di isolati mi sono dimenticato di avercela con lei.
O quando, dopo aver messo l’ospite sul mezzo che lo riporterà finalmente alla sua nuova casa – una casa che non siamo più noi –, gli diremo di mandarci un messaggio non appena arriva: la più grande dichiarazione d’amore di chi si vuol bene, ma tace.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: The Cinematic Orchestra – To Build A Home

giovedì 17 ottobre 2019

Mr. Ciak: Joker | It - Capitolo due

Dichiararsi confuso davanti al film su cui tutti hanno le idee chiarissime. Succede quando diventa impossibile elaborare una recensione dal taglio tradizionale. Per l’ultimo vincitore del Festival di Venezia, infatti, servirebbe uno di quegli articoli monografici a cura di Gianni Canova: la lente d’ingrandimento puntata su un aspetto in particolare – la recitazione di Joaquin Phoenix –, con il resto lasciato in secondo piano. Come parlare altrimenti di un film che esiste esclusivamente in funzione dell’istrionismo del primo attore? Secondari l’intreccio, la morale di fondo, il comparto tecnico. Tanto è già stato scritto a priori: il cinecomic d’autore farà storia per il suo trionfo nel tempio della critica impegnata, il passaggio di Phillips dalla commedia demenziale alle atmosfere scorsesiane, le rappresaglie all’uscita delle sale statunitensi. Ma, a ben vedere, il ritorno della nemesi di Batman è un dramma di rivalsa tanto solido quando convenzionale, prevedibile nello svolgimento e meno coraggioso del previsto. Indegno delle assurde controversie in patria, e della vittoria in Laguna? Tutto va come da programma, nella metamorfosi del giullare che voleva diventare re. Messo ai margini, costretto a prendersi cura di una madre che non sempre la conta giusta, il protagonista sta a cuore con poco: capitano tutte a lui, è il capro espiatorio per eccellenza, e quando inizia a seminare morte miete vittime fra personaggi sgradevoli o sacrificabili. Lancia il sasso ma nasconde la mano. Senza fare spoiler, per esempio, perché non mostrare l’esito della relazione fra lui e la vicina di casa: paura di gettare ulteriori ombre su un cattivo che risultasse tale ma non troppo? Seguendo Arthur nel suo sogno irrealizzabile – quello di un mondo gentile –, ci lasciamo turbare dal rantolio sofferto della sua risata e guidare da una scena madre all’altra. Quant’è incredibile Phoenix mentre si concede una danza liberatoria in bagno o, leggero come non mai, quando affronta saltellando una scalinata all’inizio spossante: probabilmente è una delle migliori performance di cui abbia memoria. Ma se molto fanno le danze e gli alterchi improvvisati sul set, il corpo scarnificato per i venti chili persi, quali meriti spettano invece alla sceneggiatura? Se il film fosse pari alla complessità della sua prova, sarebbe lecito gridare al capolavoro. Invece resta un buon compromesso, per me distante dalla potenza del nostro Dogman – altra fiaba nera di perdenti al limite, altro anti-eroe struggente –, che funziona alla stregua di un’esibizione di stand-up comedy. Un palco vuoto, un canovaccio appena abbozzato, le luci della ribalta. Ma non sorprendono né le battute del mattatore, che tiene banco con riflessioni didascaliche, né le reazioni del pubblico. Phoenix è più spettacolare dello spettacolo – un’arma a doppio taglio. Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante. Allora il suo Joker è un planetario; una cazzo di discoteca itinerante. (7)

La paura c’era, ma per le ragioni sbagliate. Già stroncato dalla critica, il ritorno di Pennywise partiva svantaggiato: non sarebbe stato superiore al primo capitolo, e lo sapevano a prescindere dal minutaggio eccessivo – quasi tre ore – o da una computer grafica tremendamente kitsch. Nella lista dei difetti: la mancanza dei magici anni Ottanta e la consapevolezza che King e i finali non vadano d’accordo. Lo fanno notare anche al personaggio di Bill, suo alter-ego alle prese con l’adattamento di un besteller: saprà architettare una chiusa decorosa? Si fa dell’autoironia e, in cerca dell’epilogo perfetto, ci si mette in viaggio: direzione Derry. Sono passati ventisette anni dalla promessa di rimanere amici per sempre: il pagliaccio è tornato a colpire e i Perdenti si riuniscono così come si sono divisi. Allegra rimpatriata di morte, il secondo capitolo di It funziona proprio come reunion commossa e godereccia: nel ristorante cinese del romanzo, scopriamo quanto sono belli la Chastain e MacAvoy – ma occhio a Jay Ryan, non più bambino in sovrappeso –, quant’è esilarante Hader, quanto sia stato ridimensionato il personaggio del bibliotecario Mike. Bowers evade, ma la sua fuga costituisce un pericolo passeggero; di ritorno all’ovile, Beverly e Bill non sono seguiti né da un marito manesco né da una moglie avventata. La resa dei conti – esemplificata, esclusiva – conta i personaggi superstiti e Pennywise, bullo sopra le righe a digiuno di scene madri – a parte l’adescamento allo stadio o nella casa degli specchi, il resto sono apparizioni di fantocci grotteschi in una pessima CGI – ma non di carne fresca. Chiamato a un compito arduo, Muschietti s’impegna: gestisce al meglio le tempistiche e le stelle del suo cast, nella prima metà pretende miracoli dal direttore della fotografia e dal tecnico del montaggio, ma la seconda frana poi goffamente fra riti e trappole per ragni. Pessimo come la miniserie originale non lo diventa mai, ma il problema è uno: perché l’accento esagerato su battute sarcastiche e sfottò in contrapposizione alla totale mancanza di tensione? Salti in poltrona a parte, le bizze di Skarsgard non suscitano più spavento; il conflitto finale celebra sì un’unione che fa la forza, ma resta la copia sbiadita del film precedente. Da bravo fan, tuttavia, conosco bene il mondo interiore di King – qui impegnato anche in un cameo –, e non vive soltanto di spauracchi da multisala. Ci illumina la Chastain, in parte, ricordandoci che un attizzatoio potrebbe diventare anche un’arma letale: basta crederci. Quando si uniscono passato e presente e la solita nostalgia canaglia s’intromette a gamba tesa, così, l’incanto di un’estate sul filo del rasoio risulta per fortuna sano e salvo. (6,5)

martedì 15 ottobre 2019

I ♥ Telefilm: The Politician | Big Mouth S03 | Jane The Virgin S05

L’instancabile Ryan Murphy ci riprova. Con l’inizio dell’anno scolastico torna al liceo: mancava dai tempi di Glee. Riecco perciò i colori sgargianti, le faide grandi e piccole, le strategie per primeggiare e sì, perfino le canzoni, se il protagonista – la rivelazione Ben Platt, venticinquenne dal talento sorprendente – ha il pallino segreto del pianobar. Intelligente, affabulatore, bisessuale, al contrario degli allievi di Will Schuester non sogna il musical bensì la presidenza americana: essendo ancora una matricola, gli tocca prima diventare rappresentante degli studenti. Dalla sua ha una parlantina naturale, unita a un abbigliamento che gli ho invidiato per tutte le puntate, e la ricca ma infelice Gwyneth Paltrow come mamma adottiva. Quello che gli manca, a parte l’amore della sua vita – il suo maestro privato di mandarino, morto suicida nel pilot –, è un braccio destro all’altezza: perché non Zoey Deutch, presumibilmente malata di leucemia, a cui la sempre subdola Jessica Lange nasconde informazioni sulle sue reali condizioni? La scalata al potere del protagonista, vittima presto della sua stessa ambizione, prevede un tentato omicidio, tante parole di miele misto a veleno, il trash del Murphy che più ci piace. Commedia nera nello stile di Election, The Politician si difende dagli eccessi con una palette degna di Wes Anderson, un cast divertitissimo e il salto avanti di un epilogo alla Scandal, con in campo altre mattatrici – Judith Leight e Bette Midler – e lo skyline della spietata New York sullo sfondo. La politica annoia. La politica non è un gioco da ragazzi. Non ditelo a Platt e ai suoi simpatici scagnozzi, sopravvissuti agli avvelenamenti più folli e ai luoghi comuni più ostinati, anche se non completamente in salvo dal già visto. L’ape regina di Lucy Boynton, ad esempio, somiglia tanto, troppo alla cheerleader Quinn Febray – ve la ricordate? La serie, in sintesi, non è forse la versione d’autore del guilty pleasure Insatiable? Pur senza plebiscito, comunque, confido che le simmetrie perfette della regia e la doppiezza del candidato rampante bastino per un altro mandato. Il mio voto, intanto, lo ha. (7)

Seguitissime, le lezioni di anatomia di Big Mouth sono arrivate alla terza stagione. I giovani protagonisti stanno per tagliare un traguardo importante, la terza media. E ormai tutti, nessuno escluso, hanno con sé un Mostro degli ormoni, una cotta inespressa, una prurigine da grattare. A scuola si fanno sfilate contro il sessismo. Qualcuno alimenta un rapporto tossico con lo smartphone, qualcuno esplora il vasto spettro della sessualità, qualcun altro assume pasticche per combattere il deficit dell’attenzione. Le migliori amiche si masturbano? La bisessualità è vista con simpatia soltanto fra ragazze? Come reagire alle mani lunghe di un prof? Inferiore alla prima stagione, superiore alla seconda, la serie torna a regalarci trovate memorabili – il musical scolastico ispirato al thriller erotico Rivelazioni, l’episodio monografico dedicato al fantasma di Duke Ellington – e spunti nonsense – la Florida rasa al suolo da un terremoto da Antico Testamento –, con tanto di amichevoli cameo: riusciranno le fate turchine di Queer Eye a rivoluzionare l’esistenza di quel coach Steve in stato d’abbandono? Restano una certa antipatia verso Nick, l’adorazione purissima per il personaggio di Lola e una tenera curiosità verso la vicinanza fra Jay e Missy, gli outsider agli antipodi che trovano rifugio in un mondo di fantasie oscene e fanfiction.  Il difetto? Una formula consolidata, a cui manca da un po’ l’effetto sorpresa, che comunque non rinuncia a piccoli colpi di genio per risultare spassosa, schietta, al passo con i nostri tempi: a ben vedere, perfino istruttiva. Prontamente rinnovata, sembra proprio che la famigerata boccaccia della serie animata Netflix non la smetterà presto di fare allusioni sporche. Riuscirà a inventarsene anche di nuove? (7)

Bisognerebbe partire dalla fine. Affidarsi al diciannovesimo episodio – l’ultimo: un nostalgico backstage con interviste e retroscena –, per lasciar parlare le lacrime del cast e le parole degli sceneggiatori. Dura dirsi addio, soprattutto se significa rinunciare al guilty pleasure per antonomasia: quello che piace alla critica e, a sorpresa, in passato, perfino alla stagione dei premi. Giungono così a conclusione le disavventure di Jane Gloriana Villanueva: protagonista di un’esilarante immacolata concezione e di una serie TV che prima ancora del movimento metoo, del politicamente corretto in risposta a Trump, includeva a bordo donne resistenti agli urti e minoranze latine. Perché potrebbe diventare un classico della commedia sentimentale? Gli ingredienti sono una scrittura scoppiettante; un’irresistibile mescolanza linguistica che a volte preferisce lo spagnolo, altre l’inglese; i toni da fiaba profana, fra momenti di classico realismo magico e bislacche sequenze musicali, che hanno conquistato anche gli ospiti Bruno Mars, Britney Spears, Rosario Dawson. Bisognerebbe partire dalla fine, si diceva allora, perché non basta l’affetto a nascondere i difetti di una stagione conclusiva con pochi spunti e troppi episodi. Scritta su misura dei fan, Jane The Virgin mira al traguardo della centesima puntata – trascurabile il fatto che ormai manchi pochissimo per arrivare all’ovvio lieto fine – e al compleanno della protagonista, qui trentenne. Se l’unico elemento degno di meraviglia è l’amicizia nascente fra Jane e Petra, all’inizio sua storica nemesi, il resto ruota attorno a tre temi lungamente diluiti: la carriera da scrittrice della nostra eroina, in cerca della formula del perfetto romanzo rosa; la cattura della trafficante Sin Rostro; la risoluzione di uno dei triangoli romantici più sentiti del mondo delle serie TV, con un innamorato tornato dall’oltretomba e l’altro diventato nel frattempo povero in canna. Lunga la strada verso la conclusione, senz’altro inutilmente. Ma si è ben contenti di arrivare a una cascata di fiori d’arancio, accanto alla persona giusta – Jane no, non delude –, facendo lo slalom fra saltuari rischi di cancellazione e pregiudizi di sorta. (6,5)

sabato 12 ottobre 2019

Recensione: I testamenti, di Margaret Atwood

| I testamenti, di Margaret Atwood. Ponte alle Grazie, € 18, pp. 502 |

Sono passati trentacinque anni dall’arrivo in libreria del Racconto dell’ancella. Romanzo lungimirante e spietato che, nell’arco di un paio di decenni, si è imposto a giusta ragione come un moderno classico della distopia: un genere d’invenzione, a tinte satiriche, che mai come oggi – nell’era della presidenza Trump, del movimento metoo, di barriere geografiche e ideologiche – si è rivelato spaventosamente premonitore. Tornato sotto i riflettori grazie al successo inarrestabile dell’omonima serie TV, il capolavoro dell’autrice canadese – nei giorni scorsi considerata perfino un papabile premio Nobel – trova in ritardo una sua prosecuzione ufficiale. La domanda, a fine lettura, prevedibilmente nasce da sé: serviva davvero? Sia Benedetto il frutto, e invece il sequel fuori tempo massimo? Giunto sugli scaffali con una trama tenuta sotto stretta segretezza, atteso a prescindere con un misto di fibrillazione e scetticismo, I testamenti si aggiunge all’universo temporale del predecessore. Per leggerlo, tuttavia, è preferibile essere al pari con la programmazione della serie con Elisabeth Moss. Meglio sapere già cos’è stato di June, ancella recalcitrante. Meglio sapere, soprattutto, se la sua gravidanza sia andata o meno in porto. A Gilead, infatti, tutti parlano della piccola Nicole: che fine ha fatto? C’è speranza che venga restituita alla famiglia del Capitano? 

La storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa. 

In una comunità in gran fermento, erosa all’interno da scandali e corruzione, s’incrociano a qualche anno di distanza dagli eventi del primo capitolo le voci di tre personaggi femminili. Il primo, già noto, è Zia Lydia: aguzzina al solito dotata di carisma e sarcasmo straordinari, nella sua confessione fraudolenta mescola frammenti di un passato come giudice e descrizioni della routine ad Ardua Hall: un covo di donne di potere e corruzione, dove le rivalità all’ultimo sangue fra Zie e le contromosse per frenare il business della fuga costituiscono ormai la norma. In biblioteca, in mezzo a titoli proibiti che comprendono Jane Austen, Thomas Hardy e le sorelle Bronte, i posteri potranno trovare un giorno la sua confessione. Inediti, al contrario, i punti di vista delle altre narratrici mostrano le due facce dell’essere giovani al tempo del regime. Daisy, sedici anni, vive oltre il confine canadese: sfrontata e sicura di sé, è costretta a mettere tutto in discussione alla notizia della dipartita di quei genitori un po’ hippy e davanti a una missione rischiosa – infiltrarsi a Gilead sotto copertura. A Gilead, invece, la timida Agnes ha sempre vissuto all’insegna della cieca obbedienza: case di bambole, gonne fruscianti, una paura inconscia per gli uomini e l’autorità, un ambiente scolastico competitivo e crudele che dà lezioni morali attraverso sanguinosi episodi biblici. Costretta prematuramente a sposarsi, potrebbe sfuggire al suo destino di sposa bambina entrando a far parte delle Supplicanti: meglio diventare una macchina da figli, però, o scendere a patti con le contraddizioni delle Sacre Scritture, con tanto di documenti da insabbiare e messaggi censurati? 

Piansi? Sì: scese qualche lacrima dai miei occhi visibili, i miei umidi e piagnucolosi occhi umani. Però ne avevo un terzo, in mezzo alla fronte. Lo sentivo: era freddo come una pietra. E non piangeva, vedeva. E dietro qualcuno pensava: Rifarò i conti con voi. Non mi importa quanto tempo servirà e quanta merda dovrò mangiare nel frattempo, ma ci riuscirò.

Se le prospettive descritte sono parzialmente inedite, gli scenari e le situazioni risultano per forza di cose già esplorati sul piccolo schermo. Più credibile quando alle prese con l’evocazione dei costumi e dei trattamenti più barbari, Margaret Atwood è a disagio con scene d’azione e svolte da film di spionaggio. Soprattutto, pasticcia in maniera imperdonabile – parliamo, infatti, di una signora scrittrice – con segreti di Pulcinella che durano poche pagine appena e colpi di scena risibili, nemmeno avvertiti come tali dal lettore smaliziato. Si concentra sui giochi di potere interni, su tinte lievi e giovanili, ma il lungo salto temporale aggiunge poco allo spaccato dell’inquietante Repubblica, meno ancora al mito della Atwood. A corto di scene memorabili o nuovi spunti di riflessione, elegantissima nello stile ma elementare nell’architettura, la lettura è parsa al di sotto delle aspettative e tutt’uno con la trasposizione televisiva: da qualche anno a questa parte in caduta libera, spiace constatarlo, dopo gli exploit della prima stagione – non a caso, riproposizione fedele del Racconto dell’ancella. Ci sono voluti trentacinque anni, pare, per svelarci l’ovvio.  Prevedibilmente, il prosieguo della storia patisce una pianificazione a tavolino. Mancano le brutalità e l’urgenza, resta una scrittura tanto consapevole quanto compiaciuta: più forte ancora, però, è l’impressione che dietro la speculazione economica non ci sia sostanza. Pensavo fosse un testamento, invece era una fanfiction.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Sia – Unstoppable 

mercoledì 9 ottobre 2019

Recensione: Kentuki, di Samanta Schweblin

| Kentuki, di Samanta Schweblin. Sur, € 16, pp. 230 |

Sono a forma di animali, come i peluche che preferivi quando eri bambino. Pesano due chili scarsi e sono fatti soprattutto di plastica e piume. Costano un po’, 279 dollari, ma è il prezzo ragionevole delle tecnologie all’avanguardia. Dietro i loro occhi deliziosi – biglie non così inespressive, non così inconsapevoli – i kentuki nascondono microcamere che ci collegano tutti in tempo reale. Nessuna brutta sorpresa: acquistandoli sai già in anticipo che accoglierne uno in casa significa aprire le porte a un perfetto estraneo. Che può spiare la tua routine, e qualche volta intervenire a gamba tesa. Le possibilità sono due: avere un kentuki o esserlo. Preferiresti accogliere uno sconosciuto, infatti, o al contrario essere lo sconosciuto nell’esistenza del prossimo? La scelta è personale, dettata dalla tua generosità o dalla tua perversione, da quanto tu ti senta solo al mondo. Qualcuno cerca di scoprire l’identità dell’utente oltre il visore, che da remoto controlla le ruote del peluche.  Qualcuno si diverte invece a scandalizzarlo con il sesso, le torture, la pubblica umiliazione. 
Il romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di una copertina bellissima, può contare anche su tematiche e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror: quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare, nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire nell’arco di un solo capitolo. 
Spiccano allora le vicende di Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva, studentessa che si sta concedendo al ragazzo sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per scorrazzare sulla neve in libertà. 

Non sapeva nemmeno in quale città si trovasse, né come fosse il suo padrone. Ai suoi amici aveva raccontato della neve, ma la cosa non li aveva colpiti più di tanto. Dopo averlo deriso perché un culo da principessa e un appartamento a Dubai erano meglio della neve, avevano detto che tanto la neve non la si poteva mica toccare. Marvin sapeva che sbagliavano: se riuscivi a trovare la neve, e spingevi abbastanza forte il tuo kentuki contro un cumulo alto e soffice, ci lasciavi il segno. Ed era come toccare con le dita l’altro capo del mondo.

Le modalità sono sterminate e casuali. A scatola chiusa potresti trovarti nell’appartamento di una figlia dei fiori con tendenze nudiste, in una famiglia disfunzionale, perfino in un covo criminale. A spasso fra le noie della routine, i segreti torbidi o le avventure pericolose, meglio non perdere di vista il punto della situazione: quello che sembra un innocuo videogioco di ruolo, in verità, è reale. Troppo tardi per guardare altrove fingendo indifferenza? E per denunciare? I kentuki sono dappertutto. Una moda che impazza, e fa impazzire. In queste storie grottesche che oscillano dalla tenerezza infantile alla cattiveria più disturbante, ci sono novelli animalisti che formano autentiche squadre di liberazione, informatici poveri in canna che fanno la cresta sulle vendite, teppisti dal cuore d’oro che promettono di accessoriare i pupazzi – pensate alle macchine truccate, per farvene un’idea – o di acquistarli non più alla cieca. L’autrice ha dimenticato di darci il libretto delle istruzioni. E nel corso della lettura tendiamo spesso a vedere il bicchiere mezzo pieno, scordandoci che dietro queste adorabili tecnologie ci sono persone in carne e ossa: permalose, umorali, vendicative. A volte oggetto di devozione, altre di perversione.

C’era davvero più gente interessata a guardare che a essere guardata? Non c’era bisogno di sofisticate analisti di marketing, a Grigor bastava un po’ di buon senso per trarre le sue conclusioni. Ma i pro e i contro della scelta tra l’essere padrone o essere kentuki non spiegavano mai in modo esauriente i vantaggi di ciascuna posizione. Pochi erano disposti a esporre la propria intimità agli occhi di uno sconosciuto, mentre a tutti piaceva guardare. Comprare un dispositivo significava portarsi a casa un oggetto tangibile che avrebbe occupato uno spazio reale, quanto di più simile a un robot di compagnia il mercato potesse offrire; comprare un codice di accesso, invece, voleva dire spendere una bella somma in cambio di diciotto misere cifre virtuali, senza contare che alla gente piace da pazzi tirare fuori cose nuove da scatole dal design sofisticato. La parità di prezzo avrebbe mantenuto per un po’ una certa parità nella domanda, ma secondo Grigor presto o tardi il rapporto si sarebbe invertito a favore dei codici di accesso.

Possiamo forse giudicare le loro scelte sbagliate? Chi non ha mai ricercato una valvola di sfogo? Chi non vorrebbe sentirsi Dio per un giorno soltanto? Da adolescenti, quando i peluche avevano già perso la loro attrattiva su di noi, abbiamo preteso prima il Tamagotchi e poi The Sims. Volevamo sentirci responsabili di qualcuno. Volevamo essere onnipotenti.
A morte il Tamagotchi allora: per dispetto, lasciavamo agonizzare quell’animaletto immaginario in preda ai morsi della fame. 
Al via l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Depeche Mode – I Feel You 

lunedì 7 ottobre 2019

Dear Old Mr. Lynch: Mulholland Drive, Velluto blu, Strade perdute, The Elephant Man, Una storia vera

[2001] Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che, forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove, affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo portati a cercare un senso – a volte con successo, altre brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile in ordine cronologico.  Se una regia priva di guizzi rivela l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio, traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)

[1986] Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio. Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi – simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini, per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’ storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute; meno la brillantezza del giallo. (7)

[1997] A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri. Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna, perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla somma delle sue parti. (5,5)

[1980] Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure, l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi, perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft, vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere, onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente. Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere. È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)

[1999] Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia. Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani, ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente. (6,5)