Corrono
gli anni dei film di Romero e del Vietnam. È la
notte del trentuno e tre amici inseparabili, in compagnia dell’ultimo
arrivato, l’hanno fatta grossa. In fuga dai bulli, si
rifugiano dove nessuno andrebbe a fare dolcetto o scherzetto: una
casa infestata. C’entrano una bambina prigioniera nello scantinato e il classico
libro scritto con sangue umano, che pagina dopo pagina svela nuove
vittime fra i giovani protagonisti. Si animano gli spaventapasseri
nei campi di grano. I ragni sbucano sottopelle. Corpi disarticolati
attentano dietro le sbarre e, nei lunghi corridoi degli ospedali, aspettano i mostri. Perfetto per Halloween, Scary Stories to Tell in the Dark attirerà in sala
il pubblico più rumoroso – gli adolescenti – e gli
spettatori affezionati al culto di Stranger Things. Pensato
per intrattenere i Millennial, il ritorno al cinema del regista
diThe Autopsy of Jane Doe segue la moda delle
antologie a tema e della retromania dilagante. Il
risultato, leggerissimo e con un sottotesto politico dal
retrogusto agrodolce, somiglia a un’indagine vecchio stile della
Misteri e affini. Prodotte da Guillermo Del Toro, le più
popolari storie da falò prendono vita per raccontarcene infine una
non così inedita. Di quelle da sussurrare al
buio, ma da vedere senza il bisogno della luce accesa. Non
spaventeranno, infatti, neppure i giovanissimi. (6)
Cose
da non fare in caso d’uragano: passare a casa di tuo padre per
chiedergli se è tutto bene su consiglio della sorella maggiore. E
scoprire che è ferito in cantina, in balia di onde anomale e di rettili
primordiali – con tanto di dolce cagnolina da salvare. Per quanto
non sia un amante di questi horror acquatici nello stile di Paradise
Beach, Crawl sa come diventare un’appassionantissima
declinazione del genere home invasion. Può vantare un’invidiabile
gestione dell’alta tensione, senza esagerare con arti mutilati,
effetti splatter e sobbalzi; effetti visivi di gran livello; una prova
convincente da parte della protagonista, la sfortunata Kaya
Scodelario. Il merito maggiore, però, spetta alla regia di Alexandre
Aja: nonostante qualche passo falso commesso in passato, finalmente
sotto l’egida del produttore Sam Raimi, il francese torna a ricordarci
di saperci fare in fatto di morti ammazzati e nefandezze a fantasia.
C’è poco altro sotto la superficie, a parte il classico rapporto conflittuale padre-figlia, ma Crawl – umido e claustrofobico, senza
tregua – fa il suo dovere. Prima di comprare una casa accanto alla
palude, da oggi ci penseremo su due volte. E consulteremo più
attentamente il bollettino meteorologico. (7)
Una
coppia di genitori disperati si affida a un farmaco sperimentale per
salvare il loro bambino, allergico al mondo esterno. L’ultima spiaggia, una
clinica privata perduta nelle nebbie, somiglia proprio a una casa stregata. E
ben presto il paziente inizia a mostrare segni di debolezza fisica e
psicologica, stranezze. Sono le controindicazioni della terapia, o
c’è dell’altro? Protagonista della versione horror di Noi
siamo tutto, Eli sarà messo in allerta da una coetanea:
dall’istituto, infatti, sono passati bambini simili a lui – senza
mai uscirne. Atipica ghost story coprodotta dalla Paramount, può
contare su un’ottima atmosfera, buone interpretazioni femminili –
Kelly Reilly e Lili Taylor, sempre piacevoli da ritrovare –,
piccoli grandi indizi all’insegna di un finale che fa fuoco e
fiamme. L’effetto sorpresa è assicurato in molti casi, ma
personalmente avevo indovinato il colpo di scena in anticipo. La
visione, per fortuna, non ne perde affatto in gradevolezza,
risultando un intrattenimento molto più godibile della media. Una
variazione sul tema forse abusata ma affrontata da una prospettiva
opposta, in cui i bambini in pericolo hanno nomi in assonanza con la
parola “lie” e per sopravvivere al mondo servono bugie e
anticorpi. (6,5)
Non
ci si poteva aspettare altro da Babak Anvari, regista iraniano già
amato-odiato ai tempi di Under The Shadow. Tornato al Sundance
con il suo primo film statunitense, lascia l’Oriente per New
Orleans ma non rinuncia
alla suggestione. Horror di difficile comprensione, Wounds
racconta delle ferite metaforiche di Armie Hammer: perdigiorno
alcolista e traditore, diviso tra Dakota Johnson e Zezie Beetz. In
ordine sparso lo affliggono: un’invasione di scarafaggi,
escoriazioni di natura misteriosa, messaggi di morte recapitati da
sconosciuti. Che lo si voglia leggere come un ordinario racconto di
possessione soprannaturale o allegoria di qualcos’altro – un
disagio che serpeggia nel profondo della coppia, la dipendenza da
alcol –, Wounds si rivela un interessantissimo prodotto
festivaliero. Spiazzante e audace, a metà fra Kafka e Bukowski,
garantisce un delirio acustico e visivo capace di dividere il
pubblico. Il protagonista, immerso totalmente nelle sue ricerche pur
di dare un senso a un’esistenza vuota, troverà l’illuminazione o
la disfatta? Restano più domande che risposte. Tante
interpretazioni: tutte valide e tutte sbagliate. Troppo
impenetrabile, l’ho seguito spinto da una fascinazione morbosa.
L’ho compreso a sprazzi e con il senno di poi. Ma mi è piaciuto, sì, o almeno credo. (7)
Costretta
a ritirarsi per la decenza della madre, una violoncellista di talento si
rimbocca le maniche pur di riprendersi il posto che le spetta. In un territorio ostile, la
protagonista scopre di avere una rivale: entra in competizione con
lei, ma ne è attratta. Possibile frenare le scene bollenti se si
parla delle bellissime Allison Williams e Logan Browning? Sexy e
ributtante, sconsigliato agli ipocondriaci, The Perfection parte
con un sofisticato prologo a Shangai e ci conduce poi verso l’ultima frontiera della competizione. Impossibile
comprendere in anticipo dove andrà a parare. Altrettanto frenare le
domande e il raccapriccio davanti agli efferati cambi di scenario,
rotta e protagonista – chi è la buona e chi la cattiva, e dalla
scuola di cui sono entrambe le stelle sarebbe meglio far di tutto
per entrare oppure uscire? Mix febbricitante ma irresistibile,
The Perfection fa il suo sporco lavoro con colpi di scena a
raffica, un montaggio pazzo, sequenze di disfacimento fisico e
morale. Il thriller di Shepard prende le mosse sulla scia del
Cigno nero, per poi trasformarsi in un bagno di emoglobina a
tinte trash, su cui pattinano personaggi chiamati alle vendette
trasversali e ai duetti folli. Voi saprete contenere succhi gastrici,
divertimento e orrore? (7,5)
Dopo
Shining soltanto Stephen King, qui in collaborazione con il figlio
Joe Hill, poteva immaginare un labirinto tanto singolare. Dopo The Cube
soltanto il sottovalutato Natali, abilissimo ma a corto di progetti,
poteva renderlo così claustrofobico. Partito sotto i migliori
auspici, infatti, Nell’erba alta contava su uno
spunto originalissimo e un regista a proprio agio con ambienti
asfittici e relazioni torbide. Cosa ci fanno la famiglia
dell’inquietante agente immobiliare Patrick Wilson e una ragazza
incinta di sei mesi, in viaggio con il fratello, in un singolare dedalo
verde dove il tempo e lo spazio hanno leggi imperscrutabili? Se al
centro del labirinto c’è anche un misterioso monolite, le battute
sull’erba – quanta ne hanno fumata per inventare questo
guazzabuglio indigeribile? – potrebbero sprecarsi durante la
visione. Trip senza fine, sontuoso dal punto di vista visivo, il
racconto del Re diventa un horror psicologico dal pollice verde e
dagli spunti oscuri. Servivano francamente qualche chiarimento in più
e qualche sacrificio stucchevole in meno. Impossibile uscirne sani e
salvi. E venirne a capo? Nel dubbio, cambiate strada all’ultimo
minuto e, sul tema riti pagani e natura, guardate Apostle. (5)
Il
medico Gleeson, la matriarca Rampling, i figli
Ruth Wilson e Will Poulter. Dirige Lenny Abrahmson. Alla base: un
gotico firmato da Sarah Waters, di recente portata anche a Cannes da Park Chan-wook. Possibile, date le premesse, che
L’ospite sia stato destinato in Italia direttamente allo
streaming? Il perché, dato un film senza grandi demeriti, resta un
mistero. Tragedia familiare dalle atmosfere angoscianti,
racconta della fascinazione del protagonista verso una casa in
rovina: anziché fuggire, ne è attratto – galeotti l’amore verso
la primogenita da trarre in salvo e i ricordi di un’infanzia
trascorsa, al contrario, in completa povertà. Immerso in scenari che
ricordano il soggiorno a Hill House, il film britannico fa
proprie psicosi, malanni ereditari, stanze anguste. Il paranormale ci
metterà lo zampino soltanto nell’ultima mezz’ora, con porte
sbattute all’improvviso, scampanellate notturne, scritte sui muri.
Austero sotto ogni punto di vista, dal cast superbo alle scenografia,
ha ritmi lentissimi e una regia ora incantevole, ora asfissiante. Non
meritava l’oblio, però, nonostante una chiusa frettolosa. Somiglia
proprio, infatti, a una di quelle magioni in rovina che conservano a
sorpresa il loro fascino polveroso. (7)
Cresciuto
dalla mamma single, James è un piccolo lord, pettinato con la riga
di lato e sempre ben vestito. Senza amici, ha paura de ragni e di
ricominciare altrove dopo un trasferimento improvviso. E non deve assolutamente
giocare nei pressi della voragine che si apre al centro del bosco
dietro casa. Disobbedisce, ovvio, e niente sarà più lo stesso. Ma
le stranezze, crescenti giorno dopo giorno, le percepisce soltanto una mamma sull’orlo
di una crisi nervosa o sono forse reali? Forte dei paragoni ingannevoli
con The Babadook e della notevole somiglianza tra il bambino e
Haley Joel Osment, The Hole è un horror a basso budget che
raggiunge il massimo risultato con il minimo sforzo. Discreta
macchina di tensione, con un’ottima interprete nel ruolo di
protagonista, a ben vedere ha però un’introspezione psicologica
appena accennata – il difetto maggiore è che manca di qualsiasi
doppiezza o ambiguità – e una trama, con tanto di finale mordi e
fuggi nelle grotte di The Descents, che rimesta alla cieca nel mito dei
changeling e nei classici horror di ragazzini maligni e madri
al limite. Non gli si vuol male, ma avremmo tutti fatti a meno della
distribuzione in sala o dei confronti con una regista, Jennifer Kent,
contro i cliché. (5,5)
Un’altra
mamma single, un altro bambino con amici che stanno sulle dita di una
mano. L’evasione non avviene grazie alle scorribande nei boschi,
bensì con un giocattolo che già conosciamo tutti: l’iconico Chucky,
incubo di generazioni vicine e lontane. Ritornato in un remake non
richiesto, il rimodernamento della bambola infernale preferisce
concentrarsi sulla dimensione infantile anziché su quella
orrorifica. Il rinnovo generazionale, per fortuna, chiama comunque
all’appello omicidi sanguinosissimi e un doppiatore d’eccezione,
Mark Hamill, ad animare un villain per il resto non troppo
convincente dal punto di vista estetico. Al tempo di Stranger
Things e Black Mirror, i bambini sono ricettivi e gli
adulti appaiono ciechi davanti all’evidenza; la crudeltà di Chucky
non dipende da una possessione demoniaca, bensì da un
malfunzionamento tecnologico. Preceduta da un geniale battage
pubblicitario che faceva a pezzi i personaggi di Toy Story, la
nuova Bambola assassina è una commedia nera scoppiettante ma
prevedibile dall’inizio alla fine. Ben recita, capace di indovinare
target ed equilibri, resta poco incisiva ma tanto è bastato a
far gridare all’eccezione alla regola pubblico e critica, al cospetto di un remake al passo con i tempi. Ma se il gioco cambia estetica, le regole restano le
stesse. (6)
Nell’era
segnata dall’influenza dei cinecomic, ne sa qualcosa il caro Martin Scorsese, quanto poteva essere geniale un’idea del genere: prendere un eroe dei
fumetti, amato da grandi e piccini, e trasformarlo questa volta nell’antagonista
della storia. Il coraggioso Clark Kent, così, sbarcato da un pianeta
lontano e adottato da una famiglia di amorevoli campagnoli, si trasforma in un
bambino sfrenato e dispotico: respinto da una coetanea, irritato
dalle bugie dei genitori, minaccia di usare i suoi poteri per i fini
peggiori. Esisterà anche qui l’equivalente della kryptonite? Tipica storia
sulle origini di un atipico supereroe, a Brightburn si
chiedeva poco. Amaramente, il film prodotto da James Gunn osa dare perfino
meno del previsto. Di scarsissime pretese, con un svolgimento indegno
dell’assunto di base, ha un cast non di primo taglio – fa
eccezione giusto Elizabeth Banks – e un Omen dotato di raggi laser negli occhi,
meno carismatico e più caciarone dell’infante diabolico del
classico di Richard Donner. Inutile accanirsi ulteriormente: questo volo nel lato oscuro lo
abbiamo già scordato. (4)
Cristin
Milioti, book blogger sorpresa da una gravidanza indesiderata, scopre
nel portiere del suo condominio un angelo custode. Dev Patel,
ideatore di un sito d’incontri, vive il paradosso di essere
sfortunato in amore: intervistato da Catherine Keener, altra esperta
di occasioni perse, guarderà con occhi diversi alla sua ex. Anne
Hathaway, con un sorriso a mille watt e un’esistenza sbucata da un
musical, custodisce un segreto che nei giorni storti le impedisce di
scendere dal letto: il bipolarismo. Tina Fey e consorte, al centro di
una crisi matrimoniale, si affidano a una terapista e all’hobby del
tennis: il rimedio per quest’amore stanco appare tuttavia già brevettato altrove.
Reduci da un appuntamento culminato all’ospedale, Sofia Boutella e
John Gallagher non hanno niente in comune: a sorpresa sono la mia coppia preferita, sbucata
da una commedia indie che al cinema avrei amato alla follia.
L’insopportabile Julia Garner frequenta un uomo di trent’anni più
grande: lei ci vede il padre mai avuto e lui, impossibile da
biasimare, una fiamma. Andrew Scott si affida ai capricci
di Olivia Cooke, incinta di sei mesi, pur di diventare
padre: il tema è scontato, ma ci piacciono le famiglie
arcobaleno, i protagonisti principali e il cameo divertito di
Sheeran. Jane Alexander, settant’anni e non sentirli, è una vedova
che non ha mai smesso di correre: necessario
innamorarsi ancora, nonostante la salute precaria possa rendere breve
la relazione con un coetaneo. Otto episodi, otto storie a sé: cos’hanno
in comune? Il tema – l’amore, ovviamente – e
il fatto che siano vere fino all’ultimo sospiro. La serie Amazon prende
ispirazione da una rubrica del Times e dalle idee del regista John Carney: cantore per eccellenza di sentimenti sospesi, cast raccolti,
città magnifiche. Già confermato per una seconda stagione, Modern
Love è un intrattenimento a prova di cuori di pietra. Alto il
rischio di sciogliersi come un ghiacciolo – non altrettanto l’indice glicemico –, mai quello di averne abbastanza.
Costituito da piccoli miracoli di scrittura e leggerezza,
semplicemente delizioso, potrebbe diventare il rimedio contro il
rigore dei mesi che verranno. Confortevole quanto una coperta sulle
ginocchia, a metà tra i puzzle sentimentali
di Curtis e i ritratti jazz di Allen, è un riconciliante feel-good
movie a puntate. Sceneggiato con equilibrio, grazie a una
delicatezza che si trasforma raramente in melassa – vedasi
l’epilogo: unica concessione alla furbizia per cercare nessi e lacrime –, sa condensare storie e personaggi memorabili in trenta
minuti. Coinvolge grandi attori, come si diceva sopra, ma
sanno comunque tutti farsi discreti pur di far risaltare
l’importanza delle storie che interpretano. E la bellezza di New
York, magica sotto la pioggia. Rimessi al mondo, a fine visione
avremo voglia di gentilezza, biglietti aerei dell’ultimo minuto e
altri miracoli. (8)
Una
ragazza viene stuprata nella notte. L’aggressore irrompe
in casa sua: la immobilizza, la fotografa mentre ne
abusa. Dopodiché si dilegua, minacciando la vittima di morte in caso denunci. Ma la ragazza non ha paura, e immediatamente avverte le
forze dell’ordine.
Peccato che gli interrogatori insistenti, le visite umilianti, le
pressioni psicologiche di investigatori e conoscenti la portino
infine ad ammettere resa: a volte, se poco conferme al profilo della
vittima perfetta, una ragazza abusata fa prima a dichiararsi una
bugiarda che a battagliare. Sembra follia, ma è una
storia vera. L’aggressore è un maniaco seriale. Metodico,
inafferrabile, sfuggente, seleziona donne di età e paesi diversi.
Unire i puntini all’inizio non è facile, neanche per due
agguerrite agenti a capo di una task force interamente al femminile:
agli antipodi per metodi e stile di vita – una devota madre di
famiglia, l’altra segugio dal sarcasmo affilatissimo –,
riusciranno a conciliare i loro caratteri opposti in nome della
giustizia? Partita sotto i migliori auspici, la discussa miniserie
Netflix perde in fretta di vista l’importanza della reale vicenda
di cronaca nera – un eclatante caso di falsa testimonianza, che
nasconde in realtà le fragilità e le fobie di una giovane
superstite – per diventare lo spin-off non dichiarato di True Detective. Questa revisione in chiave femminile e femminista del
serie crime prende in prestito dal mondo di Pizzolatto qualche
lungaggine nella gestione dei tempi, la presunta natura antologica,
due caratteri non troppo inconciliabili. Toni Collette
e Merritt Wever si confermano straordinarie padrone di casa, e
Kaitlyn Dever è una rivelazione alle prese con le
contraddizioni di un personaggio per molti difficile da comprendere:
una ventenne che non vorrebbe essere d’esempio, ma soltanto avere
il diritto di ricominciare. Possibile con un risarcimento
danni che ammonta a soli cinquecento dollari? Lontano
dall’asciuttezza di When They See Us, esempio da manuale di
intensità e concitazione, Unbelievable segue stilemi
smaccatamente televisivi che ricordano per foggia e approccio le
inchieste di Law & Order. Fanno la differenza l’alchimia
tra le protagoniste e uno spunto così nero da sembrare proprio
incredibile. Lo stesso, stando al mio parere controcorrente, non può
dirsi del resto. (6,5)
Sono
uno spettatore incostante. Ci sono cose che mi piacciono e cose che
non mi piacciono. Sostanzialmente, perciò, non sono un fan sfegatato
di niente o nessuno. Nel caso di Breaking Bad – per me una
delle più belle serie di sempre, senza farne misteri – è stato
sì amore grande, ma non sono mai arrivato a farne un oggetto di culto. Nell’armadio mi tengo cara una maglietta a tema,
infatti, ma controllando dappertutto – sul fondo, dietro i
giubbotti invernali, sotto i maglioni – non ho serbato alcuna curiosità sul destino dei personaggi principali. Perfetta così, la
quinta stagione non doveva agli spettatori affezionati nessuna
spiegazione di sorta. Sapendo di un prosieguo lungo due ore, arrivato
ad anni di distanza dall’ultimo ciak, ho storto il naso. Giunto su
Netflix in gran segretezza, preceduto da voci di corridoio e
supposizioni fantasiose, El Camino è proprio quello che
sembra: una chiosa prolissa e inutile, poco
necessaria e altrettanto poco credibile. Nel frattempo, infatti,
Aaron Paul è diventato adulto e Jesse Plemons è ingrassato, mentre
gli sceneggiatori non hanno trovato il miracoloso pretesto per
includere personaggi amatissimi – Walt e Mike, per citarne un paio,
insieme ai membri della famiglia White – senza ricorrere ai
classici flashback dalla lacrima facile. Cosa è stato di Jesse dopo
la sua fuga? Come ha trascorso i giorni della sua prigionia, prima di
salire su un’auto col motore a tavoletta e perdersi nella lunga notte dei
titoli di coda? Serviva venircelo a dire? Nel film seguiamo i suoi tentativi reiterati per
raggiungere l’Alaska. Non c’è interesse a costruire qualcosa di
nuovo. Neanche i membri del cast, a parte un Paul con la carriera un
po’ in caduta libera, sembrano crederci fino in fondo. Aggiungete
la modestia dei film destinati allo streaming e qualche ricordo
nostalgico; sottraete la dimensione corale, qui sacrificata per un
one man show all’insegna degli andirivieni frustranti. Francamente, ci
si annoia. Per fortuna l’evitabile El Camino nulla toglie e
nulla aggiunge, sbadigli a parte, al mito dei cristalli blu. (5)
Ci
andò a morire Partenope, la creatura leggendaria uccisa dall’amore
non corrisposto per il subdolo Ulisse.
Ci
fece tappa per l’ultima volta Virgilio, il poeta con la fama da
mago, che scelse di farsi seppellire nel quartiere di Piedigrotta. A
lungo fu il principale porto affacciato sul Mediterraneo.
Dal
mare arrivavano spezie, stoffe e maledizioni. Dal mare, ancora,
arrivavano i forestieri e le sirene. A volte per viverci, altre per
morire. Quante storie lontane sono rimaste intrappolate nel sartiame
e nei vicoli? Quante ne ha ispirate una città che, a furia di
custodirle per le generazioni successive, si è trasformata nella
storia più affascinante di tutte? Sterminata, contraddittoria,
antichissima, Napoli fa bene alla pancia e alla fantasia. Deve
portare fortuna. Quest’anno ci sono stato prima con Storia del nuovo cognome, poi attraverso gli occhi della studentessa
straniera di Perduti nei Quartieri spagnoli, ma
purtroppo manco in città da un po’. E mi manca. Si può provare
nostalgia di qualcosa che non conosci bene o che forse non hai mai
conosciuto? Nato in Sicilia da genitori casertani, cresciuto poi a
cavallo tra Molise e Abruzzo, ho radici frastagliate e nessun senso
di appartenenza. Ma se c’è una regione che sento nel profondo più
delle altre è la Campania. Sarà che quando mi arrabbio scappano
puntualmente improperi in quel dialetto buffo e sanguigno. Sarà che
i miei nonni dicono che lì splenda sempre il sole e che tutti,
proprio tutti, abbiano questa gran voglia di cantare. Sono
meteoropatico, somatizzo le giornate uggiose fino a star male, e
anch’io sin da bambino cantavo – Claudio Baglioni al
karaoke, per quanto lo rinneghi, e soprattutto storie di janare.
Avere l’occasione di rileggere finalmente Lavinia Petti è stato un
ritorno a casa.
Appena
lo vide, Fanny capì che ogni passo che aveva mosso dal Moiariello
era stato un passo verso di lui. Aveva dato retta all’istinto
sconosciuto che guida la gente di mare, che quando è triste ha
bisogno della sua vicinanza per mitigare la sofferenza. Come il sale,
che cura le ferite ma prima le fa bruciare.
Scoperta qualche anno fa con Il ladro di nebbia, esordio stupefacente da
me consigliato per vie ufficiali e ufficiose, la giovane autrice
napoletana è di nuovo in libreria con un romanzo dal destino
tortuoso ma dalla resa perfetta. Nel tempo l’ho scritta, l’ho
tampinata, l’ho aspettata come accade di raro.
Lavinia
mi raccontava in privato di una gestazione lunga e faticosa; di una storia
uguale ma diversa dalla precedente, in cui far convergere il frutto
delle sue ricerche e i segreti di un capoluogo che per comodità ama
talora schermirsi dietro il cliché. L’attesa, non gliene ho fatto
misteri, è stata ripagata. E dalle pagine della Ragazza delle
meraviglie emerge infine l’affresco di una Napoli inedita –
probabilmente l’autentica protagonista –, che solo il regista
Ferzan Ozpetek ha provato a svelarci di recente fra riti esoterici, simbologie arcane e sguardi di seduzione.
Francesca Annunziata, detta Fanny, è nata laggiù: peccato non si
sappia da chi. Salvata dalla Ruota degli Esposti da una coppia di
coniugi maledetti dalla sterilità e dalla piaga dei parenti
impiccioni, la quattordicenne senza passato cresce bruna, selvaggia
e malinconica. Né grande né piccola, enigmatica in primis agli
occhi di sé stessa, fruga nelle case sfitte e nelle scatole di
scarpe: ha la propensione a cacciarsi nei guai e un inquietante sesto
senso che di notte la porta a fronteggiare incubi catastrofici e
premonizioni mortifere. Le sue origini, un segreto di Pulcinella di
cui venire a capo. Potranno il ritrovamento di una moneta vecchia di
millenni e una chiave ossidata guidarla fino ai genitori biologici:
gli unici a poter fugare la sua fama di strega, assieme alla sindrome
d’abbandono che l’affligge?
«Pensano
che sia una terra di luce. Si sbagliano: il Sud è pieno di tenebre.
E le tenebre allettano gli uomini, soprattutto quelli che credono
nella ragione. Un uomo razionale e ambizioso difficilmente resisterà
alla tentazione di spazzarle via», fece una pausa. Quando parlò la
sua voce era bassa, dolente. «Mi chiedo se sto commettendo un errore
a voler salvare Napoli dai suoi fantasmi, a volerla salvare dal suo
passato.»
Con
il profilo mastodontico di Castel dell’Ovo all’orizzonte, mentre
i gechi – fate in incognito, si mormora – scorrazzano sui muri
scrostati e i tinelli ospitano le macchinazioni di una strana
congrega al femminile, le ricerca della protagonista la porterà a
domandare informazioni a prostitute dal trucco sbavato – Clemenza
–, agli antiquari con le cravatte a fantasia – il signor Marrone
–, a politici senza scrupoli – Augusto d’Avalos – che
promettono di dare un nuovo assetto alla città a discapito della
tradizione.
È
una Napoli d’inverno, la sua, eccezionalmente fredda. Risulta
piacevolissimo, allora, rifugiarsi nei bar per bere cioccolate
bollenti e caffè forti, concedersi lo sfizio irrinunciabile di un
morso di pizza con ricotta e cicoli, ricercare il calore umano della
folla che infesta i mercatini caratteristici e i negozi d’anticaglie.
È
una Napoli lontana dagli occhi ma mai dal cuore, stratificata.
Proprio sotto il suolo cittadino, infatti, vive in silenzio
un’esistenza parallela. Ha tunnel labirintici, pozzi e
nicchie di tufo, templi sotterranei. Appare esplorabile, eppure, in
sella alla bici di Tommaso: un coetaneo agorafobico e sfregiato dal
fuoco – un munaciello –, con cui avventurarsi fino a un
casolare di pietra della costa sorrentina. Il motto di Fanny,
spavalda quanto la Lila di Elena Ferrante: «Io non mi metto a paura
‘e niente». Vorremmo avere tutti un briciolo del suo coraggio.
Qualcosa
di vero c’è sempre, ma quando si tratta delle leggende popolari di
questa terra, vecchie di secoli o millenni, c’è da impazzire.
Possiamo scavare, arrivare al centro del pianeta e spuntare
dall’altra parte, ma nella maggioranza dei casi quello che
ricaveremo saranno solo altri racconti. Racconti che rimandano ad
altri racconti, in un gioco di specchi. Viviamo in quella parte di
mondo in cui chiunque cerchi la verità è destinato a trovare
storie.
La
ragazza delle meraviglie è scandito da episodi
spettrali, in cui c’è poco d’intentato o d’inventato. Dove la
suggestione è di casa e la mappa topografica riporta quasi alla
mente i viottoli di Diagon Alley, si tramanda che un uovo magico
preservi gli equilibri malsicuri del luogo, che i sogni siano da
prendere sul serio – consultate la Smorfia, per esempio, che li
prende davvero alla lettera – e che la maschera di Pulcinella, qui
presenza tutt’altro che rassicurante, sia un tramite con l’aldilà.
Nell’architettare una trascinante ballata dal gusto rétro, che ci
ricorda di capitolo in capitolo gli amori impossibili tra i marinai e
le sirene, Lavinia non dimentica l’attualità. Le rimostranze grandi
e piccole amplificate da un megafono in piazza, i teatri che chiudono
per far posto ai supermercati costruiti in serie, i monti crivellati
sin nelle viscere dagli appalti abusivi. Non c’è niente di sacro:
neanche l’arte, neanche l’infanzia di un’innocente.
È
una Napoli da salvare non dallo tsunami, ma semplicemente da noi
stessi.
È una Napoli presso cui tornare, usando l’incanto di questa storia
come fosse una bussola. L’immaginazione contagiosa di Lavinia Petti
la illumina a giorno, la scandaglia, la protegge. Ne fa meraviglie.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Roberto Murolo e Mia Martini – Cu’mme
Com’è
il rapporto con i membri della vostra famiglia? Dalla sincerità
della risposta potrebbe dipendere la percezione dell’ultimo romanzo
dello svedese Jonas Hassen Khemiri: una rimpatriata caustica e
dolce-amara su tutto quello che una coppia di neosposi innamorati,
probabilmente, preferirebbe non sapere. Con la mia famiglia, come sa
chi mi legge da qualche anno, i rapporti son tesi. Da figlio maggiore
ho il compito ingrato di coordinare i movimenti degli altri, sparsi
in tre diversi angoli dell’Italia; di ricordare cosa posso dire a
mamma e cosa devo nascondere a papà, o viceversa; di far sì,
attraverso messaggi che sono autentiche newsletter, che un fratello
con la memoria da pesce rosso ricordi di onorare i compleanni, gli
onomastici, le feste comandate. L’ultima occasione per riunirsi è
stata la mia laurea, ad aprile. Ero più preoccupato per le loro
interazioni che per il discorso di dieci minuti da ripetere al
cospetto della commissione, o di quelle scarpe eleganti un po’
troppo larghe. Si sarebbero comportati bene? Sarebbero stati a loro
agio chiusi a forza nell’aula magna? Ho evitato festeggiamenti
formali per non fronteggiare l’imbarazzo di vederli costretti alla
stessa tavolata. Abbiamo brindato in piedi, sul prato
dell’università, con i bicchieri di plastica e mio padre da un
lato, mia mamma d’altro, mio fratello che all’occorrenza faceva
da spola. A fine giornata ho tirato un sospiro di sollievo: basta,
finiti i momenti di aggregazione. E se ti sposi?, ribatte chi
mi è vicino. E se hai un figlio?, rilancia. L’angoscia di un’altra
occasione ufficiale – io che m’improvviso equilibrista, io che
per quieto vivere ridimensiono nuovamente i miei entusiasmi – è
l’anticoncezionale migliore.
L’amore
è una dittatura, pensa il papà, e le dittature sono un bene, perché
non era mai stato così felice come quando non aveva la minima
libertà, quando l’unica cosa che sapeva era che non poteva stare
lontano da lei. Lei. Sua moglie. La sua ex moglie.
Leggere La
clausola del padre ha significato scoperchiare un vaso di
Pandora di amarezze, memorie, rancori personali. Lo
consiglierei con il contagocce, tant’è incandescente. Chi ha la
fortuna di non esserci passato potrebbe reputarlo folle; chi ha un
matrimonio in cantiere, magari bambini in arrivo, potrebbe trovarlo
fatale. Impietoso, divertentissimo, pieno zeppo di tiri pancini e
parole non dette, il romanzo ha punti di vista complementari ma
assolutamente inconciliabili.
C’è
un padre straniero che ogni cinque mesi, due volte all’anno, torna
in Europa un po’ per affetto e un po’ per opportunismo: burbero e
presuntuoso, malato di diabete, si addormenta davanti alla TV per
fugare la solitudine e all’arrivo in aeroporto – in un marasma
invidiabile di parenti, autisti, amanti – non ha nessuno ad
aspettarlo. Quali torti avrà mai commesso quel vecchio con il
pallino della fuga e dei film d’azione, che da quando si è
scoperto cagionevole ha la pretesa illegittima di essere considerato
fragile? Suo figlio, a sua volta genitore di due bambini
insopportabili, è troppo impegnato per occuparsi anche delle
recriminatorie dell’anziano: commercialista in pausa, si prende
cura dei piccini quando la compagna è a lavoro e vive il ruolo di “mammo” con una costante ansia da prestazione. Un tempo
abbastanza intraprendente da strappare la fidanzata a un altro uomo
attraverso un’appassionata corrispondenza telematica, ora fa fiasco
alle serate di stand-up comedy e non ha voglia di riappropriarsi di
una relazione senza più l’intimità originaria. Troverà le parole
per dire al padre in visita che questa volta non è aria, lui che per
natura è compiacente e paciere quanto il sottoscritto? Poi c’è la
sorella minore, donna in carriera reduce da un matrimonio
fallimentare e dichiaratamente allergica alle storie serie: istintiva
e libertina come un’eterna adolescente – leggera come lo sono
spesso i secondogeniti, i più coccolati, nonostante un dolore
nascosto nel passato –, come reagirà quando il test di gravidanza
le comunicherà che lei e il suo fidanzato occasionale, un adorabile
cinefilo di sette anni più giovane, sono in dolce attesa?
Non
conosco nessuno che abbia una relazione normale con qualcun altro,
tanto meno i suoi genitori. E questa relazione quanto è normale?,
aveva scritto lui. Il giusto, aveva risposto lei. Ogni nuova mail
apriva la strada a qualcosa di più. La sensazione era quella di
avvicinarsi a un frisbee invisibile e farsi trascinare via dalla
realtà. Di avvicinarsi a qualcosa che ti trasforma in una versione
migliore di te stesso. In realtà non sono poi così divertente,
aveva scritto uno dei due dopo un paio di mesi. Nemmeno io, aveva
risposto l’altro. Non importa chi aveva scritto cosa, perché
avevano già iniziato a diventare una persona sola. Quando finalmente
si incontrarono, era ormai troppo tardi. Erano fatti l’uno per
l’altra.
In
una Svezia colorata dalla presenza di ambulanti, extracomunitari e
turisti, dove i nativi appaiono al contrario sempre grigi e
indaffarati, i protagonisti hanno l’Ikea Family nel portafoglio, la
cronologia internet affollata di ricerche su utilitarie e passeggini
ergonomici, un posto di straforo in costose caffetterie vegane dove i
passeggini devono restare fuori alla stregua dei cani. Indossano
maglioni, paraorecchie, cappotti pesanti: fa freddissimo d’inverno,
ed è inutile confidare nel calore del prossimo. A strapparci sorrisi
frequenti, per fortuna, ci pensano i capitoli affidati ai narratori
più impensati: capolavori di scrittura creativa dove a condannare
l’incomunicabilità degli adulti, le contraddizioni di quei pareti
che ci demoralizzano in privato per poi vantarci in pubblico, sono i
piccoli di casa – quante critiche allora a quei genitori senza più
la meraviglia nello sguardo, incapaci di godere dell’incanto di una
mattina di neve senza mandare tutto allo scatafascio oppure di
cogliere le sfumature di significato di un muuu. Vittime
di una solitudine siderale, per il resto, perseguitati dai fantasmi
degli amori perduti o dal ricordo delle occasioni perse, i tre non
riusciranno a incrociarsi nella stessa pagina e non avranno mai un
nome di battesimo: non risultano, tuttavia, anonimi neanche per un
attimo. L’autore specifica soltanto i gradi di parentela, che li
qualificano e li imprigionano annullandone l’autonomia. Troppo
tardi per riprendersi l’identità, o per bacchettare il capostipite
per inadempienza contrattuale?
Cos’è
successo davvero tra voi?, chiede lei. La vita, risponde lui. Prima
la vita. Poi la morte.
Le
famiglie difficili da gestire inacidiscono. Le famiglie difficili
stancano. Non puoi prenderti ferie da loro, no, né annullare un
contratto siglato con il sangue. Complicatissime, sono davvero fatte
a modo loro. Ma chi dice che in fondo non si somiglino? C’è più
della mia qui che in una foto ricordo. Le chiamate da bypassare, le
rimostranze continue, la scomodità nel vedersi in territorio
neutrale. Con troppo da organizzare. Con troppo da incastrare. Ma è
il meccanismo di difesa di chi è rimasto bruciato una volta, il mio:
a volte, infatti, provo tanta nostalgia di noi.
Accade
quando i protagonisti maschili di Khemiri si scoprono a trattenere il
fiato sovrappensiero, pensando che alla fine della prova di apnea la
porta d’ingresso si aprirà per premiarli per cotanto coraggio.
Quando
io vedo una signora bionda di spalle, per strada, e mi scopro a
seguirla da lontano: l’ho scambiata per mia madre, e per un paio di
isolati mi sono dimenticato di avercela con lei.
O
quando, dopo aver messo l’ospite sul mezzo che lo riporterà
finalmente alla sua nuova casa – una casa che non siamo più noi –,
gli diremo di mandarci un messaggio non appena arriva: la più grande
dichiarazione d’amore di chi si vuol bene, ma tace.
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: The Cinematic Orchestra – To Build A Home
Dichiararsi
confuso davanti al film su cui tutti hanno le idee chiarissime.
Succede quando diventa impossibile elaborare una recensione dal
taglio tradizionale. Per l’ultimo vincitore del Festival di Venezia, infatti, servirebbe uno di quegli articoli monografici a
cura di Gianni Canova: la lente d’ingrandimento puntata su un
aspetto in particolare – la recitazione di Joaquin Phoenix –, con
il resto lasciato in secondo piano. Come parlare altrimenti di un
film che esiste esclusivamente in funzione dell’istrionismo del
primo attore? Secondari l’intreccio, la morale di fondo, il
comparto tecnico. Tanto è già stato scritto a priori: il cinecomic
d’autore farà storia per il suo trionfo nel tempio della
critica impegnata, il passaggio di Phillips dalla commedia demenziale
alle atmosfere scorsesiane, le rappresaglie all’uscita delle sale
statunitensi. Ma, a ben vedere, il ritorno della nemesi di Batman è
un dramma di rivalsa tanto solido quando convenzionale, prevedibile
nello svolgimento e meno coraggioso del previsto. Indegno
delle assurde controversie in patria, e della vittoria in Laguna?
Tutto va come da programma, nella metamorfosi del giullare che voleva
diventare re. Messo ai margini, costretto a prendersi cura di una
madre che non sempre la conta giusta, il protagonista sta a cuore
con poco: capitano tutte a lui, è il capro espiatorio per
eccellenza, e quando inizia a seminare morte miete vittime fra
personaggi sgradevoli o sacrificabili. Lancia il sasso ma nasconde la
mano. Senza fare spoiler, per esempio, perché non mostrare l’esito
della relazione fra lui e la vicina di casa: paura di gettare
ulteriori ombre su un cattivo che risultasse tale ma non troppo?
Seguendo Arthur nel suo sogno irrealizzabile – quello di un mondo
gentile –, ci lasciamo turbare dal rantolio sofferto
della sua risata e guidare da una scena madre all’altra. Quant’è
incredibile Phoenix mentre si concede una danza liberatoria in bagno
o, leggero come non mai, quando affronta saltellando una scalinata
all’inizio spossante: probabilmente è una delle migliori
performance di cui abbia memoria. Ma se molto fanno le danze e gli
alterchi improvvisati sul set, il corpo scarnificato per i venti
chili persi, quali meriti spettano invece alla sceneggiatura? Se il
film fosse pari alla complessità della sua prova, sarebbe lecito
gridare al capolavoro. Invece resta un buon compromesso, per me
distante dalla potenza del nostro Dogman– altra fiaba nera
di perdenti al limite, altro anti-eroe struggente –, che funziona
alla stregua di un’esibizione di stand-up comedy. Un palco vuoto,
un canovaccio appena abbozzato, le luci della ribalta. Ma non
sorprendono né le battute del mattatore, che tiene banco con
riflessioni didascaliche, né le reazioni del
pubblico. Phoenix è più spettacolare dello spettacolo –
un’arma a doppio taglio. Bisogna avere il caos dentro di sé per
generare una stella danzante. Allora il suo Joker è un planetario; una cazzo di discoteca itinerante. (7)
La
paura c’era, ma per le ragioni sbagliate. Già stroncato dalla
critica, il ritorno di Pennywise partiva svantaggiato: non sarebbe
stato superiore al primo capitolo, e lo sapevano a prescindere dal
minutaggio eccessivo – quasi tre ore –
o da una computer grafica tremendamente kitsch. Nella lista dei
difetti: la mancanza dei magici anni Ottanta e la consapevolezza che King e i finali non vadano d’accordo.
Lo fanno notare anche al personaggio di Bill, suo alter-ego alle
prese con l’adattamento di un besteller: saprà architettare una chiusa decorosa? Si fa dell’autoironia e, in cerca
dell’epilogo perfetto, ci si mette in viaggio: direzione Derry.
Sono passati ventisette anni dalla promessa di rimanere amici per
sempre: il pagliaccio è tornato a colpire e i Perdenti si riuniscono
così come si sono divisi. Allegra rimpatriata di morte, il secondo
capitolo di It funziona proprio come reunion commossa e
godereccia: nel ristorante cinese del romanzo, scopriamo quanto sono
belli la Chastain e MacAvoy – ma occhio a Jay Ryan, non più bambino in sovrappeso –, quant’è
esilarante Hader, quanto sia stato ridimensionato il personaggio
del bibliotecario Mike. Bowers evade, ma la sua fuga costituisce un
pericolo passeggero; di ritorno all’ovile, Beverly e
Bill non sono seguiti né da un marito manesco né da una moglie
avventata. La resa dei conti – esemplificata, esclusiva – conta i personaggi superstiti e Pennywise, bullo sopra le
righe a digiuno di scene madri – a parte l’adescamento allo
stadio o nella casa degli specchi, il resto sono apparizioni di
fantocci grotteschi in una pessima CGI – ma non di carne fresca.
Chiamato a un compito arduo, Muschietti s’impegna: gestisce al
meglio le tempistiche e le stelle del suo cast, nella prima metà
pretende miracoli dal direttore della fotografia e dal tecnico del
montaggio, ma la seconda frana poi goffamente fra riti e trappole per
ragni. Pessimo come la miniserie originale non lo
diventa mai, ma il problema è uno: perché l’accento esagerato su
battute sarcastiche e sfottò in contrapposizione alla totale
mancanza di tensione? Salti in poltrona a parte, le bizze di
Skarsgard non suscitano più spavento; il conflitto finale celebra sì
un’unione che fa la forza, ma resta la copia sbiadita del
film precedente. Da bravo fan, tuttavia, conosco bene il mondo
interiore di King – qui impegnato anche in un cameo –, e
non vive soltanto di spauracchi da multisala. Ci illumina la
Chastain, in parte, ricordandoci che un attizzatoio potrebbe
diventare anche un’arma letale: basta crederci. Quando si uniscono
passato e presente e la solita nostalgia canaglia s’intromette a
gamba tesa, così, l’incanto di un’estate sul filo del rasoio
risulta per fortuna sano e salvo. (6,5)
L’instancabile
Ryan Murphy ci riprova. Con l’inizio dell’anno scolastico torna
al liceo: mancava dai tempi di Glee. Riecco perciò i colori
sgargianti, le faide grandi e piccole, le strategie per primeggiare e
sì, perfino le canzoni, se il protagonista – la rivelazione Ben
Platt, venticinquenne dal talento sorprendente – ha il pallino
segreto del pianobar. Intelligente, affabulatore, bisessuale, al
contrario degli allievi di Will Schuester non sogna il musical bensì
la presidenza americana: essendo ancora una matricola, gli tocca
prima diventare rappresentante degli studenti. Dalla sua ha una
parlantina naturale, unita a un abbigliamento che gli ho invidiato
per tutte le puntate, e la ricca ma infelice Gwyneth Paltrow come
mamma adottiva. Quello che gli manca, a parte l’amore della sua
vita – il suo maestro privato di mandarino, morto suicida nel pilot
–, è un braccio destro all’altezza: perché non Zoey Deutch,
presumibilmente malata di leucemia, a cui la sempre subdola Jessica
Lange nasconde informazioni sulle sue reali condizioni? La scalata al
potere del protagonista, vittima presto della sua stessa ambizione,
prevede un tentato omicidio, tante parole di miele misto a veleno, il
trash del Murphy che più ci piace. Commedia nera nello stile di
Election, The
Politician si difende dagli eccessi con una palette degna di Wes
Anderson, un cast divertitissimo e il salto avanti di un epilogo alla
Scandal, con in campo altre mattatrici – Judith Leight e
Bette Midler – e lo skyline della spietata New York sullo sfondo.
La politica annoia. La politica non è un gioco da ragazzi. Non
ditelo a Platt e ai suoi simpatici scagnozzi, sopravvissuti agli
avvelenamenti più folli e ai luoghi comuni più ostinati, anche se
non completamente in salvo dal già visto. L’ape regina di Lucy
Boynton, ad esempio, somiglia tanto, troppo alla cheerleader Quinn
Febray – ve la ricordate? La serie, in sintesi, non è forse la
versione d’autore del guilty pleasure Insatiable? Pur senza
plebiscito, comunque, confido che le simmetrie perfette della regia e
la doppiezza del candidato rampante bastino per un altro mandato. Il
mio voto, intanto, lo ha. (7)
Seguitissime,
le lezioni di anatomia di Big Mouth sono arrivate alla terza
stagione. I giovani protagonisti stanno per tagliare un traguardo
importante, la terza media. E ormai tutti, nessuno escluso, hanno con
sé un Mostro degli ormoni, una cotta inespressa, una prurigine
da grattare. A scuola si fanno sfilate contro il sessismo. Qualcuno
alimenta un rapporto tossico con lo smartphone, qualcuno esplora il
vasto spettro della sessualità, qualcun altro assume pasticche per
combattere il deficit dell’attenzione. Le migliori amiche si
masturbano? La bisessualità è vista con simpatia soltanto fra ragazze? Come reagire alle mani lunghe di un prof? Inferiore
alla prima stagione, superiore alla seconda, la serie torna a
regalarci trovate memorabili – il musical scolastico ispirato al
thriller erotico Rivelazioni, l’episodio monografico
dedicato al fantasma di Duke Ellington – e spunti nonsense – la
Florida rasa al suolo da un terremoto da Antico Testamento –, con
tanto di amichevoli cameo: riusciranno le fate turchine di Queer
Eye a rivoluzionare l’esistenza di quel coach Steve in stato
d’abbandono? Restano una certa antipatia verso Nick, l’adorazione purissima per il personaggio di Lola e una
tenera curiosità verso la vicinanza fra Jay e Missy, gli outsider
agli antipodi che trovano rifugio in un mondo di
fantasie oscene e fanfiction. Il difetto? Una formula
consolidata, a cui manca da un po’ l’effetto sorpresa, che
comunque non rinuncia a piccoli colpi di genio per risultare
spassosa, schietta, al passo con i nostri tempi: a ben vedere,
perfino istruttiva. Prontamente rinnovata, sembra proprio che la
famigerata boccaccia della serie animata Netflix non la smetterà
presto di fare allusioni sporche. Riuscirà a
inventarsene anche di nuove? (7)
Bisognerebbe
partire dalla fine. Affidarsi al diciannovesimo episodio –
l’ultimo: un nostalgico backstage con interviste e retroscena –,
per lasciar parlare le lacrime del cast e le parole
degli sceneggiatori. Dura dirsi addio, soprattutto se significa
rinunciare al guilty pleasure per antonomasia: quello che piace alla
critica e, a sorpresa, in passato, perfino alla stagione dei premi.
Giungono così a conclusione le disavventure di Jane Gloriana
Villanueva: protagonista di un’esilarante immacolata concezione e
di una serie TV che prima ancora del movimento metoo, del
politicamente corretto in risposta a Trump, includeva a
bordo donne resistenti agli urti e minoranze latine. Perché potrebbe
diventare un classico della commedia sentimentale? Gli ingredienti
sono una scrittura scoppiettante; un’irresistibile mescolanza
linguistica che a volte preferisce lo spagnolo, altre l’inglese; i
toni da fiaba profana, fra momenti di classico realismo magico e
bislacche sequenze musicali, che hanno conquistato anche gli ospiti
Bruno Mars, Britney Spears, Rosario Dawson. Bisognerebbe partire
dalla fine, si diceva allora, perché non basta l’affetto a
nascondere i difetti di una stagione conclusiva con pochi spunti e
troppi episodi. Scritta su misura dei fan, JaneThe Virgin
mira al traguardo della centesima puntata – trascurabile il fatto
che ormai manchi pochissimo per arrivare all’ovvio lieto fine – e
al compleanno della protagonista, qui trentenne. Se l’unico
elemento degno di meraviglia è l’amicizia nascente fra Jane e
Petra, all’inizio sua storica nemesi, il resto ruota attorno a tre
temi lungamente diluiti: la carriera da scrittrice della nostra
eroina, in cerca della formula del perfetto romanzo rosa; la cattura
della trafficante Sin Rostro; la risoluzione di uno dei triangoli
romantici più sentiti del mondo delle serie TV, con un innamorato
tornato dall’oltretomba e l’altro diventato nel frattempo povero
in canna. Lunga la strada verso la conclusione, senz’altro
inutilmente. Ma si è ben contenti di arrivare a una cascata di fiori
d’arancio, accanto alla persona giusta – Jane no, non delude –,
facendo lo slalom fra saltuari rischi di cancellazione e pregiudizi
di sorta. (6,5)
|I testamenti, di Margaret Atwood. Ponte alle Grazie, € 18,
pp. 502 |
Sono
passati trentacinque anni dall’arrivo in libreria del Racconto dell’ancella. Romanzo lungimirante e spietato che, nell’arco
di un paio di decenni, si è imposto a giusta ragione come un moderno
classico della distopia: un genere d’invenzione, a tinte satiriche,
che mai come oggi – nell’era della presidenza Trump, del
movimento metoo, di barriere geografiche e ideologiche – si
è rivelato spaventosamente premonitore. Tornato sotto i riflettori
grazie al successo inarrestabile dell’omonima serie TV, il
capolavoro dell’autrice canadese – nei giorni scorsi considerata
perfino un papabile premio Nobel – trova in ritardo una sua
prosecuzione ufficiale. La
domanda, a fine lettura, prevedibilmente nasce da sé: serviva
davvero? Sia Benedetto il frutto, e invece il sequel fuori tempo
massimo? Giunto sugli scaffali con una trama tenuta sotto stretta
segretezza, atteso a prescindere con un misto di fibrillazione e scetticismo, I testamenti si aggiunge
all’universo temporale del predecessore. Per leggerlo, tuttavia, è
preferibile essere al pari con la programmazione della serie con
Elisabeth Moss. Meglio sapere già cos’è stato di June, ancella
recalcitrante. Meglio sapere, soprattutto, se la sua gravidanza sia
andata o meno in porto. A Gilead, infatti, tutti parlano della
piccola Nicole: che fine ha fatto? C’è speranza che venga
restituita alla famiglia del Capitano?
La storia
non si ripete, ma fa rima con sé stessa.
In
una comunità in gran fermento, erosa all’interno da
scandali e corruzione, s’incrociano a qualche anno di distanza
dagli eventi del primo capitolo le voci
di tre personaggi femminili. Il primo, già noto, è Zia Lydia: aguzzina al solito dotata di carisma e sarcasmo straordinari,
nella sua confessione fraudolenta mescola frammenti di un passato
come giudice e descrizioni della routine ad
Ardua Hall: un covo di donne di potere e corruzione, dove le rivalità
all’ultimo sangue fra Zie e le contromosse per frenare il business
della fuga costituiscono ormai la norma. In
biblioteca, in mezzo a titoli proibiti che comprendono Jane Austen,
Thomas Hardy e le sorelle Bronte, i posteri potranno trovare un
giorno la sua confessione. Inediti, al contrario, i punti di vista
delle altre narratrici mostrano le due facce dell’essere giovani al
tempo del regime. Daisy, sedici anni, vive oltre il confine canadese:
sfrontata e sicura di sé, è costretta a mettere tutto in
discussione alla notizia della dipartita di quei genitori un po’
hippy e davanti a una missione rischiosa – infiltrarsi a Gilead
sotto copertura. A Gilead, invece, la timida Agnes ha sempre vissuto
all’insegna della cieca obbedienza: case di bambole, gonne
fruscianti, una paura inconscia per gli uomini e l’autorità, un
ambiente scolastico competitivo e crudele che dà lezioni morali
attraverso sanguinosi episodi biblici. Costretta prematuramente a
sposarsi, potrebbe sfuggire al suo destino di sposa bambina entrando
a far parte delle Supplicanti: meglio diventare una macchina da
figli, però, o scendere a patti con le contraddizioni delle Sacre
Scritture, con tanto di documenti da insabbiare e messaggi censurati?
Piansi?
Sì: scese qualche lacrima dai miei occhi visibili, i miei umidi e
piagnucolosi occhi umani. Però ne avevo un terzo, in mezzo alla
fronte. Lo sentivo: era freddo come una pietra. E non piangeva,
vedeva. E dietro qualcuno pensava: Rifarò i conti con voi. Non mi
importa quanto tempo servirà e quanta merda dovrò mangiare nel
frattempo, ma ci riuscirò.
Se le prospettive descritte sono parzialmente inedite, gli scenari e
le situazioni risultano per forza di cose già esplorati sul piccolo
schermo. Più credibile quando alle prese con l’evocazione dei
costumi e dei trattamenti più barbari, Margaret Atwood è a disagio con scene d’azione e svolte da film di spionaggio.
Soprattutto, pasticcia in maniera imperdonabile – parliamo,
infatti, di una signora scrittrice – con segreti di Pulcinella che
durano poche pagine appena e colpi di scena risibili, nemmeno
avvertiti come tali dal lettore smaliziato. Si concentra sui giochi
di potere interni, su tinte lievi e giovanili, ma il lungo salto
temporale aggiunge poco allo spaccato dell’inquietante Repubblica,
meno ancora al mito della Atwood. A corto di scene memorabili o nuovi
spunti di riflessione, elegantissima nello stile ma elementare
nell’architettura, la lettura è parsa al di sotto delle
aspettative e tutt’uno con la trasposizione televisiva: da qualche
anno a questa parte in caduta libera, spiace constatarlo, dopo gli
exploit della prima stagione – non a caso, riproposizione fedele
del Racconto dell’ancella. Ci sono voluti trentacinque anni,
pare, per svelarci l’ovvio. Prevedibilmente, il prosieguo
della storia patisce una pianificazione a tavolino.
Mancano le brutalità e l’urgenza, resta una scrittura tanto consapevole quanto compiaciuta: più forte ancora, però, è
l’impressione che dietro la speculazione economica non ci sia sostanza. Pensavo fosse un testamento, invece era una fanfiction.
|
Kentuki, di Samanta Schweblin. Sur, € 16, pp. 230 |
Sono
a forma di animali, come i peluche che preferivi quando eri bambino.
Pesano due chili scarsi e sono fatti soprattutto di plastica e piume.
Costano un po’, 279 dollari, ma è il prezzo ragionevole delle
tecnologie all’avanguardia. Dietro i loro occhi deliziosi –
biglie non così inespressive, non così inconsapevoli – i kentuki
nascondono microcamere che ci collegano tutti in tempo reale. Nessuna
brutta sorpresa: acquistandoli sai già in anticipo che accoglierne
uno in casa significa aprire le porte a un perfetto
estraneo. Che può spiare la tua routine, e qualche volta intervenire
a gamba tesa. Le possibilità sono due: avere un kentuki o
esserlo. Preferiresti accogliere uno sconosciuto, infatti, o
al contrario essere lo sconosciuto nell’esistenza del prossimo? La
scelta è personale, dettata dalla tua generosità o dalla tua
perversione, da quanto tu ti senta solo al mondo. Qualcuno cerca di
scoprire l’identità dell’utente oltre il visore, che da remoto
controlla le ruote del peluche. Qualcuno si diverte invece a
scandalizzarlo con il sesso, le torture, la pubblica umiliazione. Il
romanzo dell’argentina Samanta Schweblin, oltre all’incentivo di
una copertina bellissima, può contare anche su tematiche
e atmosfere che fanno tornare in mente il miglior Black Mirror:
quello ancora capace di far aprire gli occhi, pungere e denunciare,
nello spirito di una fantascienza minimalista interessata non tanto
alle invenzioni avveniristiche, quanto alle contraddizioni
dell’animo umano. I capitoli, all’inizio, appaiono semplici scene
giustapposte. Scorci di esistenze lontane, apparentemente a sé
stanti, che pian piano trovano una collocazione precisa. Un paio di
nomi cominciano a diventare ricorrenti; i figuranti si impongono
pagina dopo pagina come veri mattatori della scena; alcune storie
hanno la priorità su altre, destinate invece a iniziare e finire
nell’arco di un solo capitolo. Spiccano allora le vicende di
Emilia, vedova in là con gli anni che tutti i giorni si connette per
sbirciare la giovinezza e gli amori dell’affettuosa Eva,
studentessa che si sta concedendo al ragazzo
sbagliato; la crisi matrimoniale fra Alina e Klaus, ospiti presso una
comune di artisti; le difficoltà relazionali di Enzo, papà fresco
di divorzio che compra un kentuki affinché tenga compagnia al figlio
Luca ma che, infine, si troverà spesso a consultare in prima
persona come fosse un vice-genitore; il sogno impossibile del
piccolo Marvin, che vorrebbe far evadere il suo pupazzo – intrappolato
purtroppo nella vetrina di un negozio d’antiquariato – per
scorrazzare sulla neve in libertà.
Non
sapeva nemmeno in quale città si trovasse, né come fosse il suo
padrone. Ai suoi amici aveva raccontato della neve, ma la cosa non li
aveva colpiti più di tanto. Dopo averlo deriso perché un culo da
principessa e un appartamento a Dubai erano meglio della neve, avevano
detto che tanto la neve non la si poteva mica toccare. Marvin sapeva
che sbagliavano: se riuscivi a trovare la neve, e spingevi abbastanza
forte il tuo kentuki contro un cumulo alto e soffice, ci lasciavi il
segno. Ed era come toccare con le dita l’altro capo del mondo.
Le
modalità sono sterminate e casuali. A scatola chiusa potresti
trovarti nell’appartamento di una figlia dei fiori con tendenze
nudiste, in una famiglia disfunzionale, perfino in un covo criminale.
A spasso fra le noie della routine, i segreti torbidi o le avventure
pericolose, meglio non perdere di vista il punto della situazione:
quello che sembra un innocuo videogioco di ruolo, in verità, è
reale. Troppo tardi per guardare altrove fingendo indifferenza? E per
denunciare? I kentuki sono dappertutto. Una moda che impazza, e fa
impazzire. In queste storie grottesche che oscillano dalla tenerezza
infantile alla cattiveria più disturbante, ci sono novelli
animalisti che formano autentiche squadre di liberazione, informatici
poveri in canna che fanno la cresta sulle vendite, teppisti dal cuore
d’oro che promettono di accessoriare i pupazzi – pensate alle
macchine truccate, per farvene un’idea – o di acquistarli non più
alla cieca. L’autrice ha dimenticato di darci il libretto delle
istruzioni. E nel corso della lettura tendiamo spesso a vedere il
bicchiere mezzo pieno, scordandoci che dietro queste adorabili
tecnologie ci sono persone in carne e ossa: permalose, umorali,
vendicative. A volte oggetto di devozione, altre di perversione.
C’era
davvero più gente interessata a guardare che a essere guardata? Non
c’era bisogno di sofisticate analisti di marketing, a Grigor
bastava un po’ di buon senso per trarre le sue conclusioni. Ma i
pro e i contro della scelta tra l’essere padrone o essere kentuki
non spiegavano mai in modo esauriente i vantaggi di ciascuna
posizione. Pochi erano disposti a esporre la propria intimità agli
occhi di uno sconosciuto, mentre a tutti piaceva guardare. Comprare
un dispositivo significava portarsi a casa un oggetto tangibile che
avrebbe occupato uno spazio reale, quanto di più simile a un robot
di compagnia il mercato potesse offrire; comprare un codice di
accesso, invece, voleva dire spendere una bella somma in cambio di
diciotto misere cifre virtuali, senza contare che alla gente piace da
pazzi tirare fuori cose nuove da scatole dal design sofisticato. La
parità di prezzo avrebbe mantenuto per un po’ una certa parità
nella domanda, ma secondo Grigor presto o tardi il rapporto si
sarebbe invertito a favore dei codici di accesso.
Possiamo
forse giudicare le loro scelte sbagliate? Chi non ha mai ricercato
una valvola di sfogo? Chi non vorrebbe sentirsi Dio per un giorno
soltanto? Da adolescenti, quando i peluche avevano già perso la loro
attrattiva su di noi, abbiamo preteso prima il Tamagotchi e poi The
Sims. Volevamo sentirci responsabili di qualcuno. Volevamo essere
onnipotenti.
A
morte il Tamagotchi allora: per dispetto, lasciavamo agonizzare
quell’animaletto immaginario in preda ai morsi della fame. Al via
l’anarchia nel mondo dei Sims: murati vivi, spinti all’incesto o alla bulimia, e tutto per vedere comparire il personaggio del
Mietitore con falce e mantello; tutto per sapere fin dove fosse
possibile spingersi con un semplice click del mouse. Per fortuna
avevamo i nostri genitori a distoglierci dai nostri primi intenti
omicidi. Da una curiosità di quelle malevole, che al pari delle
storie di Samanta Schweblin ci connetteva agli altri e ci
disconnetteva da noi stessi. La cena era in tavola, meglio non far
arrabbiare la mamma. La crudeltà era soltanto un gioco da ragazzi da
sbrigare dopo i compiti, prima dei pasti. Le coscienze: offline.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Depeche Mode – I Feel You
[2001]
Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete
abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non
mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la
grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin
Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto
popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo
hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch
risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta
minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di
provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che,
forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto
a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei
produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo
lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica
di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di
posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona
provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi
scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle
protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli
delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir
su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi
basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è
sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano
tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i
fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove,
affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo
portati a cercare un senso – a volte con successo, altre
brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile
in ordine cronologico. Se una regia priva di guizzi rivela
l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece
per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace
di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi
LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e
svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo
nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e
figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio,
traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui
morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di
una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la
gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)
[1986]
Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza
d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette
a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio.
Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi –
simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore
della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da
detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con
pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno
all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà
accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle
tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini,
per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura
Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno
americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si
aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di
scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’
storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più
elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un
genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un
cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le
righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni
dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute;
meno la brillantezza del giallo. (7)
[1997]
A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e
Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella
quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri.
Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il
jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i
presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al
massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna,
perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza
profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i
secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci
fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una
relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre
lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film
all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente
coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire
soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione
finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno
a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla
rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa
tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora
rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio
gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per
fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad
aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena
per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma
non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla
somma delle sue parti. (5,5)
[1980]
Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione
industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un
freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno
mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un
padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure,
l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può
scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza
rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società
tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua
forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi,
perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore
e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft,
vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere,
onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno
vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente.
Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla
scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The
Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non
perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un
bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come
previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena
aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward
mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere.
È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)
[1999]
Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti
venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare
poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight
ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un
cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia.
Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino
prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un
infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il
suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo
aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani,
ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non
essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere
sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent
Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa
fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale
della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con
meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un
certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di
lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia
più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di
lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente.
(6,5)