Sempre
nella stessa taverna a mezz'ora di autobus dall'università, mi sono
avvicinato ai giochi da tavolo. All'inizio in un angolo, ho scoperto
che quella scusa per rivedersi non stonatava affatto come piano
alternativo. Posso dirlo, sì, ma sottovoce: quel mondo – etichettatio come intrattenimento per nerd, né più né
meno – mi piace. Probabilmente sarei finito lo
stesso per recuperare Game
Night,
ma conoscere di persona quei meccanismi, quelle strategie, me l'ha
fatto vedere con uno spirito diverso. Sarà per questo che non
ha conquistato uno che appassionato lo sta diventando? Bateman e la
McAdams aprono le porte di casa agli amici per una serata a
tema. Una cena con
delitto organizzata da un fratello al centro di loschi traffici, però, diventa una caccia al tesoro, anzi al rapito, in cui persone
medie si troveranno a fare i conti con un gioco che sfugge di mano.
Lo spunto del film si esaurisce presto. Game
Night lascia
di lato le sue pedine e, tra buoni sentimenti e stiracchiati colpi di
scena, inseguimenti e sparatorie all'americana, preferisce i muscoli
al ragionamento. I protagonisti avrebbero potuto essere
indifferentemente membri del club del libro o rappresentanti
Tupperware. Mancano loro, purtroppo, le strategie dei giocatori
incalliti, i piani studiati nel dettaglio, un regolamento ferreo. Non
all'altezza delle premesse, la commedia degli autori di Come
ammazzare il capo è
arrivata giusto in tempo per la stagione, scorrevole e ben diretta
com'è – inaspettati il livello di splatter e la cura dei piani
sequenza a effetto. Peccato non sia uno Sleuth in
cerca di leggerezza, peccato tradisca non troppo originalmente il
giallo per l'azione. Diventando, dopo Notte
folle a Manhattan e Crazy
Night, l'ennesimo
ibrido con persone qualunque, serate qualunque, piani criminosi
qualunque: barando. (6,5)
Altri amici
nostagici, altri giochi per adulti. Non per una notte e basta, questa volta,
ma per tutto un mese: un maggio consacrato a un acchiapparello senza
confini e senza regole. Ci si insegue perciò negli anni, fra le
nascite, i matrimoni e i drammi personali. Una buona scusa per darsi sui nervi
a vicenda, per riavvicinarsi. Forse per l'ultima volta, se
l'imbattibile Jeremy Renner convola a nozze, e il matrimonio è
l'occasione perfetta per metterlo con le spalle al muro? Helms, Hamm
e Johnson, con al seguito un'adorabile Fisher e una Wallis in cerca
di scoop, tornano a casa come i Perdenti di It. Si ride, in
Prendimi!, e si finisce con un po' di affanno grazie a quel
cast perennemente in moto e a una regia che non si fa mancare neppure
gli uomini incappucciati del thriller. Sono ammessi i tiri mancini, i
siparietti ingannevoli, colpi bassi non sempre metaforici: il gioco
sporco, pur di aggrapparsi pateticamente al tempo perduto. Rischieranno di rovinare
proprietà private, relazioni e ricordi. Restano gli zigomi che
tirano, lo stupore per una vicenda così assurda da essere vera, il
pensiero sinceramente preoccupato per quello che faranno di lì a un
anno. Cosa hanno vinto, infatti? Cosa hanno perso? Per fortuna la
ruota della fortuna gira, il gioco tiene giovani e in forma e, a
volte, il vero trionfo sta nel dichiarare bandiera bianca in nome di
un abbraccio da prendere, e poi subito da restituire. (7)
Quattro amiche
dalla pelle fieramente nera cercano di riallacciare i contatti, con
la scusa di un festival nella scatenata New Orleans. La scrittrice
Regina Hall, legata alla star di Nick Cage per convenienza,
accetta i tradimenti per mantenere la propria indipendenza; Queen
Latifah, giornalista passata alla cronaca rosa, gestisce un blog di
gossip che non la rispecchia; Jada Pinkett Smith, infermiera
repressa, quando non accudisce i suoi pazienti bada alla sua
bisognosa nidiata; Tiffany Haddish – sboccata rivelazione che per
questo ruolo ha collezionato perfino qualche nomination – è un'impiegata troppo impulsiva
per lasciarsi comandare. Come recuperare il tempo perso, se non
scambiandosi i segreti di amanti superdodati e trucchi per il sesso
orale; prendere parte a sfide di ballo sotto allucinogeni che
sfociano presto in rissa; spruzzare fiotti di urina su spettatori
che non sanno bene se dirsi disgustati o divertiti fino alle lacrime?
Le parolacce non sono una prerogativa maschile. Non sono una
prerogativa dei bianchi. Volgarissimo ma da record al
botteghino, Il viaggio delle ragazze è all black e,
soprattutto, retto da un cast di sole donne: binomio vincente, in
questo periodo di commedie giuste nel momento sbagliato, tra razzismo
che purtroppo ritorna e#metoo. L'emancipazione, infatti, sembra passare anche dalla grassa risata. E Malcolm D. Lee, cugino del ben più impegnato
Spike, ti reinventa così la parità e il femminismo, lontano dagli
impegni del politicamente corretto. (7)
Le
Barden Bellas sono tornate. Dopo un secondo
capitolo che non aveva né il piglio ironico né la colonna
sonora del primo. Dopo la fine degli studi, che le ha sorprese confuse,
lontane e non sempre realizzate – qualcuna fa i conti con la
maternità, qualcun'altra con un lavoro sottopagato. Rimettersi in
gioco allietando le truppe in un viaggio per l'Europa, con un tour fa tappa
ora dalla Spagna, ora dalla Costa Azzurra. E scoprire che c'è chi
gioca sporco, tra gruppi a cappella che ammettono strumenti e padri
redivivi, coinvolti in situazioni di dubbia legalità. Pitch
Perfect 3, uscito da noi in
sordina e in ritardo, è una piacevole via di mezzo a cui non si osava chiedere nulla di più, nulla di
meno. Questa volta, esplorando nuove sottotrame, la commedia musicale si tinge di sfumature criminose, e una regia da action finisce per dare
spazio più alle gag comiche di una Rebel Wilson bad-ass che alle
canzoni.Misto colorato di canto, umorismo grossolano e
femminismo militante, non ne sentirò la mancanza ma da
vecchio orfano di Glee, da spettatore che se si tratta di commedie
demenziali non va affatto per il sottile, aspetto in fondo l'arrivo
di un altro ibrido sul pentagramma; di un'altra scusa per tornare,
tra me e me, a canticchiare. (5,5)
Un
bambino da sottrarre alla custodia di un padre fanfarone e una strana
coppia pronta ad accoglierlo in famiglia. Lo spunto di A Modern Family,
vecchio come il mondo, è aggiornato per l'occasione al tempo
delle unioni civili e di quelle famiglie monogenitoriali che fanno
discutere. Scorretto per finta, è abbastanza innocuo e tenero, in verità, da non
scandalizzare troppo neanche il nostro Ministro della famiglia.
Tenere l'orfano o non tenerlo: cos'è giusto e cosa sbagliato? Un
bravissimo Coogan e il compagno Paul Rudd, particolarmente bello con
la barba da hipster, non si pongono il problema: credono di stare
meglio da soli e, dopo dieci anni di convivenza, giurano che il loro
amore sia ormai cosa finita. Quel bambino di cui non ricorderanno mai il
nome li tiene insieme, li spinge a ripensare alle loro
priorità e a mettere il prossimo al centro. La variazione sul tema di Tre scapoli e un bebè,
questa volta con una coppia gay e un anonimo teppistello in cerca
d'affetto per protagonisti, risulta mediamente divertente e trasmette
quel po' di dolce progressismo che basta. Ma la lezione, già
familiare agli americani, non rivoluzionerà di certo i nostri
cinema, il nostro pensare. In una stagione in cui le commedie leggere
leggere sono le bene accette, sì, ma i messaggi importanti, gli
insegnamenti di civiltà, avrebbero avuto bisogno di maggiore eco per
aprire gli occhi. (6)
Tre
adolescenti pronte a spiccare il volo e i
loro rispettivi nonché preoccupatissimi genitori. Leslie Mann, mamma single
che teme la solitudine; un inedito John Cena, papà piagnucoloso
di una futura campionessa di calcio; Ike Barinholtz, alias il
fac-simile di Mark Walberg, che divorziando ha perso la moglie, ma
non quella primogenita che tentenna all'idea dell'outing. Se in una
commedia assai alla buona, lo spunto ironico ma affatto
iconico è presto servito. Il ballo è alle porte, la partenza
altrettanto: perchè non perdere la verginità all'unisono, si
domandano così le tre amiche, inconsapevoli dei piani di sabotaggio
dei parenti. Uniti per cospirare contro i capricci delle ragazze e, si spera almeno, per farci
ridere. Giù le mani dalle nostre figlie,
a rischio di confusione con il francese Non
sposate le mie figlie!, ha difetti grandi e
piccoli: Cena non possiede un po' della verve del collega The Rock e Barinholtz avrà diritto sì alla storyline più toccante, ma alla deliziosa Mann
tocca riconoscere a mani basse i tempi comici migliori. Quello davvero imperdonabile, di difetto, è come spesso succede un altro: il trailer. Lo stesso che ti svela
le gag più spassose, tra gare alcoliche per via rettale e tanga
prelevati dal cassetto sbagliato. Lo stesso che ti ruba l'ilarità delle
situazioni, in una sera prima degli esami a cui, già di tuo, chiedevi le scarse pretese di un'altra stupida commedia americana. (5,5)
|
Resto qui, di Marco Balzano. Einaudi, € 18, pp. 192 |
La
punta di un campanile che sbuca da un lago, lo scatto bellissimo di
una sorta di miraggio: ma non si giudica un libro dalla copertina, o
così dice il proverbio. Alla prima impressione, scorcio triste e
meraviglioso che un giorno vorrei vivamente vedere di persona,
aggiungi anche la fascetta promozionale dei romanzi finalisti al
premio Strega: riconoscimento che di solito intimorirebbe un po',
vero, con il sentore di autorialità e pesantezza che porta con sé,
ma che questa volta eppure sembrava sin da subito fare positivamente
eccezione. Resto qui ha
l'aspetto giusto, le giuste menzioni e soprattutto, a una seconda
occhiata, la giusta trama. È un romanzo giusto, giustissimo –
questo l'aggettivo chiave –, ma quanto destinato a restare nel
cuore del lettore come promesso dal titolo? Siamo a Curon, provincia
di Bolzano: terra di confine e di lingua tedesca divisa tra l'Italia,
la Germania e la Svizzera; fra le camicie nere e i nazisti. Un paese
per vecchi. Se nati lì nei primi del Novecento, si vive una doppia
lotta, una doppia fuga: da un lato l'indecisione grande sul male
minore da scegliere – lasciarsi guidare da Hitler o forse dal Duce?
–, con la Seconda guerra mondiale che bussa alle porte a tempo di
marcia. Dall'altra, invece, la drammatica notizia della costruzione
di una diga che seppellirà sotto venti metri d'acqua due moderne
Pompei ed Ercolano. Quelle le montagne, quelli i pericoli, quelle le
questioni di vita o di morte di Trina: all'inizio adolescente, poi
moglie, che a una prima battuta rifiuta il destino di angelo del
focolare, il lavoro in bottega, la compagnia degli uomini, e studia
per diventare maestra prima che a Curon venga imposto l'obbligo
dell'italiano – una lingua esotica, pericolosa –, con il tedesco
relegato invece a lezioni clandestine per non dimenticare le proprie
origini. Infine compagna di Erich, madre di Michael e Marica, che nel
congedarsi da noi stringe al seno come può i cocci di una famiglia
disintegrata per sempre. Non mancano le lotte tra vicini di casa,
l'immobilismo generato dalla neve che cade, i moti di scetticismo
verso lo Stato e Dio. Conquista dalle prime pagine, invece, una
protagonista stoica e appassionata, condannata purtroppo a una
solitudine siderale: una Jo March di campagna, che ha tanto della
forza dei personaggi femminili di Michela Murgia e Donatella
Pietrantonio.
Io
invece credevo che il sapere più grande, specie per una donna,
fossero le parole. Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era
averne fame e tenersele strette per quando la vita si complicava o si
faceva spoglia. Credevo che mi potessero salvare, le parole.
Marco
Balzano, scoperto qui, piace e commuove. Ha tutte le carte giuste per
funzionare, e senza cattive sorprese funziona, galeotti uno spunto
dall'impatto immediato e uno stile per fortuna sempre all'altezza.
Potrei dire che è furbo, che è perfettino. Potrei dire che
questa lettera aperta indirizzata a una figlia irraggiungibile –
Marica: assente ma presente, incarnazione di un egoismo infantile che
me l'ha presto resa presto detestabile – ricordi troppo altri
romanzi, perfino La madre di Eva, presente nella stessa
acclamata dozzina. Potrei dire che, dopo la complessità della prima
parte, a poco serva lo stillicidio dei capitoli conclusivi, con
battaglie vane e quei paesi dal destino già segnato in partenza.
Tutto verissimo, sì, ma Resto qui gioca
con sentimento e saggezza le sue carte scoperte. Emozionando con una
storia di ordinaria resilienza, in cui una memorabile mamma coraggio
si fa portabandiera di tutta una cultura sepolta e di ciascun
genitore lasciato indietro dall'ingratitudine del sangue del suo
sangue. Istruendoci sui torti e le prepotenze che i libri di scuola
saltano a pie' pari. Dando alla resistenza un significato alternativo
e il volto umano di un Beppe Fenoglio. Non servirà però farsi
crescere le branchie, no. La lettura infatti è di quelle affatto
accidentate, semplici e scorrevoli, che non troppo fanno dispiacere
per la mancata vittoria – a chi piace in fondo vincere facile?
Risulta scontato ma bello, tuttavia, andare alla deriva con Balzano.
Tornano a galla allora i ricordi dolce-amari, il senso di ingiustizia
profondissimo, le voci fantasma dei sopravvissuti all'abisso.
Anche
le ferite che non guariscono prima o poi smettono di sanguinare. La
rabbia, persino quella della violenza inflitta, è destinata come
tutto a slentarsi, ad arrendersi a qualcosa di più grande di cui non
conosco il nome. Bisognerebbe saper interrogare le montagne per
sapere quello che è stato.
Resto
qui: imperativo categorico di
chi si è imputato, con i pugni chiusi sui fianchi e lo sguardo che
non ammette repliche. È con piacere che non la si scontenta, Trina,
e le si fa dunque spazio all'interno delle nostre giornate. Con lei,
di conseguenza, c'è il bagaglio a mano di una storia che non è
soltanto sua. La stessa che riserva forse meno sorprese di una
narratrice avanti coi tempi, ma lascia con la curiosità,
l'indignazione e l'incanto di spingersi fino alle soglie di questa
moderna Atlantide sommersa. Con la speranza di scoprire altri
travagli, altri segreti, sotto una superficie che intanto brulica di
pesci e memorie.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore
|
Salvare le ossa, di Jesmyn Ward. NN Editore, € 19, pp. 316 |
Dici
uragano, e subito pensi alla tempestività di una catastrofe che non
si prende la briga di avvisare. Alle immagini di un film spaventoso, eppure degno di stupore, passato su tutti i telegiornali tredici anni
fa di questi tempi. Le case ridotte a miniature per bambole da
buttare via, onde di alberi tegole randagi e lavatrici, divani e bare
finiti chissà come sul bagnasciuga, una macchina incastrata tra i
fili del telefono come un ragno nella tela. Lo sfondo, quel Sud
remoto di coccodrilli e riti che tanto doveva affascinare,
all'epoca, l'undicenne attonito che una simile quantità di relitti,
le stesse macerie, doveva averle viste solo quando le Torri Gemelle
erano cadute nel bel mezzo di una puntata della Melevisione.
Il titolo: Katrina. I satelliti, in realtà, la avevano avvertita e
le previsioni meteo parlato con ampio anticipo: un turbine
implacabile, sebbene affatto improvviso, che cresceva come montava il
vento. Idealmente ci sarebbe stato il tempo per affrontarlo
preparati: lo scatolame da stipare sugli scaffali in dispensa, porte
e scuri da rinforzare, gente e ricordi a cui assicurare una fuga
certa in casi estremi. I Batiste, famiglia protagonista del primo
capitolo della trilogia di Jesmyn Ward, di tempo non ne hanno avuto a
sufficienza: impegnati come sono a sbrogliare le proprie vite a un
bivio, a disinfettarsi ferite aperte. Ci sono un padre alticcio e
dolente, che campa soltanto con la pensione di invalidità; Junior,
il piccolo di casa, che di crescere non ha fretta; Randall,
promessa del basket in attesa degli esiti di una borsa di studio;
Skeetah, il maggiore, proprietario di un pitbull immacolato con una
nuova cucciolata sotto le mammelle gonfie di latte. E infine Esch, narratrice interna e unica figlia femmina. Che legge per la
scuola dell'amore sbagliato di Medea per Giasone, e di come
quest'ultima voltò le spalle al padre, al fratello e ai figli per
colpa di un traditore. E che proprio a un traditore a sua volta si è concessa – Manny,
la pelle dorata e i denti affilati: il migliore amico di Randall –,
scoprendo che fare sesso è come imparare a nuotare e che, se in
dolce attesa a quindici anni, non si controllano il vomito e l'urina
a fiotti, né la fame incontenibile. Senza età, senza sesso, senza
privacy, i Batiste si scambiano i vestiti e si ingozzano di noodles e
zuppa di piselli. Vivono precariamente, come sotto assedio, eppure se
glielo chiedessi si direbbero contenti così. Questo li rende forse preparati alla calamità?
Sono i corpi a raccontare le storie.
Le
loro entrate dipendono dalla salute del pitbull, China: si commettono
perciò infrazioni per rubare il vermifugo ai vicini, ci si contende
pezzi di legno e linoleum non per le finestre da schermare ma per una
cuccia improvvisata, ci si domanda se la maternità abbia reso il
molosso troppo cagionevole per i combattimenti clandestini – i
cuccioli valgono ottocento dollari ciascuno, infatti, ma la barbarie
del cane contro cane paga, e profumatamente. Essenziale ma dalla
potenza cinematografica, Salvare le ossa è
il ritratto incantevole e terrificante di una famiglia come tante
sullo sfondo di un cielo che muta a vista d'occhio faccia e colore.
Ora ringhia, ora uggiola e infine canta, insieme alla prosa di vento
di una scrittrice bravissima. L'allerta meteo è un pensiero
accidentale, una preparazione lentissima. Le poche scorte non bastano.
Katrina arriva soltanto negli ultimi capitoli, e li fa disintegrare e
ricomporre nel buio di un solaio divelto; in una catena di braccia
lunghe e affetti commoventi, che lasciano in strada falò alti così
per guidare a casa i dispersi e in tasca cocci di vetro e bottiglia,
un pezzo di mattone. La proverbiale quiete dov'è che sta,
prima o dopo la tempesta? Nella frenesia della routine degli inizi, o
nella pacifica rassegnazione che interviene poi, quando ci si scopre
un niente, sì, ma con il cuore in pace?
Legherò
i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti
sopra al letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia
di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per
portare la morte. [...] Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha
lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò
che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non
arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.
Gli
indimenticabili fratelli Batiste sono neri, tenaci, ben piantati
sulle gambe. L'uragano, pensavano, non li avrebbe mai spostati.
Perché la loro natura non è meno prevedibile di quella lì fuori.
Ce ne racconta la sopravvivenza da una prospettiva d'eccezione Esch,
infiltrata in un microcosmo maschile che maschio non può fingersi
ormai più, eludendo le richieste di un corpo già in metamorfosi.
Ciò che ha radici profonde resiste, non rischia la deriva: a Bois
Sauvage, Mississipi, dove gli uomini portano i pantaloni e le forze
della natura, intanto, nomi di donna.
Il
mio voto: ★★★★½
Il
mio consiglio musicale: Alicia Keys – Girl on Fire (Acoustic)
Crescere,
che fatica. Avete quasi diciassette anni, tra bombardamenti ormonali
e l'incertezza nel futuro: fatica doppia. Metti poi che ti
piacciano da sempre i ragazzi, ma la parola omosessualità ancora
spaventa. Qual è il tempo per conoscersi meglio, per scoprirsi già
uomini, se alla complessità del disegno tocca aggiungere il dramma
di una mamma gravemente in sovrappeso, che di un papà fedifrago è
diventata in fretta lo zimbello, e di una sorella maggiore che così,
da un momento all'altro, ha deciso di distrarsi alla guida e morirci?
Quinn – e no, l'imbarazzante nome di battesimo non può
figurare nella lista delle sciagure di famiglia – in realtà,
adesso, di tempo per rimuginare ne avrebbe a bizzeffe. Esperto
nell'arte di rimandare a domani quello che potrebbe fare oggi,
vorrebbe esitare all'infinito davanti all'inevitabilità di diventare
grande, così come ha già fatto con il condizionatore da montare in
camera, un bruttissimo murales che proprio non rende giustizia alla
bellezza della parente scomparsa, l'acquisto di un nuovo cellulare,
la domanda di ammissione a un concorso per sceneggiatori a Los
Angeles. Sì, perché l'eccentrico Quinn – una autentica drama
queen: d'obbligo il gioco di
parole – vorrebbe seguire le orme del vicino di casa ormai
famoso, che da bambino l'ha inconsapevolmente iniziato alle
meraviglie del cinema e alle prime avvisaglie delle cotte in arrivo.
C'è un problema però. Non sa ancora camminare con le proprie gambe.
Non sa immaginarsi unica penna, unico pilota, senza le preziose
dritte della sorella che non c'è – lei la regista dei suoi corti
sperimentali, lei la regista della vita di quel protagonista che spesso
parte per la tangente davanti a responsabilità grandi e piccole. Non
saranno più come i Coen, i Farrelly o le Wachowski. Una ragione
valida, forse, per fare carta straccia di un sogno condiviso fino
all'ultimo? Per quanto ancora si può evitare l'inevitabile, infatti:
primo amore compreso?
Non
c'è niente di meglio che non sentirti più te stesso. Almeno, se sei
me.
Il
Liberty, cinema del cuore, minaccia chiusura, venuto meno lo storico
proprietario; Geoff, il tipo di migliore amico che battezza i propri
peti, ha un segreto pronto a venire alla luce; Amir, universitario di
origini iraniane che a un appuntamento romantico strappa il biglietto
per un film di Kurosawa sottotitolato, trova che Quinn nasconda un
bel sedere nei jeans, e la consapevolezza potrebbe fare
improvvisamente di lui non più l'ultimo vergine d'America. La vita
fino a quel momento è stata un film agrodolce ma pur sempre con capo
e coda. Ora le pagine si confondono, si sovrappongono, se il naturale
divenire delle cose sovverte le regole tutt'altro che fisse della
scrittura creativa. Le promesse rischiano di diventare bugie a lungo
andare, e il pensiero che ci siano cose che la sorella non farà mai
– dare un bacio, fare sesso – paralizza per il senso di colpa,
benché ci siano aneddoti che il protagonista verrà a sapere solo
dopo, per bocca di terzi.
C'è
una corrente della psicologia, chiamata psicologia positiva, mi ha
spiegato la mia terapeuta, che dice che la cosa migliore per andare a
incidere sul modo in cui guardiamo la nostra vita è considerare
quello che si ha, piuttosto che quello che non si ha. E quindi, potrò
anche non avere un cellulare, o una sorella che mi aspetta a casa, o
un padre, o un futuro, ma santa la miseria: ho il cielo.
La
vita nonostante tutto è una
commedia adolescenziale che con il linguaggio caro ai fanatici della
settima arte s'interroga con autoironia sui tre atti canonici del
viaggio dell'eroe – topos da cui ogni avventura esistenziale,
tanto su pellicola quanto su carta, prende tradizionalmente avvio.
Quanto ti arricchiscono e quando, invece, ti incasinano e basta? Si
affastellano tanti dispiaceri, ma siamo lontani dall'intensità di
The Sky is everywhere.
Si toccano tanti temi importanti, e la leggerezza è quella
dell'altrettanto indolore e gay friendly Non so chi sei ma io sono qui. Si alternano tante
pagine narrative ad altrettanti stralci di sceneggiatura, ma la
genialità di Quel fantastico peggior anno della mia vita
non è purtroppo di casa. Nonostante il “tanto” dappertutto,
stano ma vero, drammi, spunti e trovate non sembrano abbastanza.
Colpa e merito di una scrittura senza peso, più che leggera,
che non s'imprime né fa grande simpatia. Di un protagonista sopra le
righe, spiritoso a ogni costo, che fra apostrofi ai lettori, il
maiuscolo a sproposito, l'abbondanza dei colloquiali “tipo” e “ah
ah”, a tratti irrita mentendo a noi e a sé stesso. Crescere, che
fatica: lo si diceva in apertura. Pesa meno, se intervengono l'ironia
e la leggerezza di un narratore che questa volta ho mal sopportato.
La vita nonostante tutto avrebbe
avuto bisogno di qualche ritocco in post-produzione e delle diritte
di un co-sceneggiatore onesto. Per farsi Young Adult che piaccia
anche a noi, lettori cresciuti. Per farsi film in streaming degno di essere
visto e rivisto.
Il
mio voto: ★★½
Il
mio consiglio musicale: Dear Jack – Domani è un altro film
In
sovrappeso, seguita a ruota da una migliore amica dai dubbi gusti
sessuali, figlia di una mamma single che per lavoro sforna burritos e
di un padre dall'identità segreta, Patty, diciassette anni e
sentirsene cento, è il ritratto dell'impopolarità in un'età – in
un Paese – che pretenderebbe bellezza, valori tradizionali, modelli
vincenti. Chi poteva immaginarlo che l'ennesima prepotenza – il
pugno di un barbone rissoso – avesse dei pregi? Dimagrita di trenta
chili durante la convalescenza, più avvenente ma non per questo più
felice, la liceale punta alla vendetta. Adesso vuole vincere, anche a
costo di umiliare o allontanare gli altri. Soltanto così può andare
oltre il famigerato soprannome di Maiale Patty. Rimpiazzandolo,
magari, con una nuova reputazione: anche pessima. Sete di sangue e
fame di vendetta portano la semisconosciuta Debby Ryan a incrociare
così la strada di Dallas Roberts, irresistibile cinquantenne in
crisi d'identità – ufficialmente avvocato ma, a porte chiuse,
consulente di bellezza nell'occhio del ciclone –, che si barcamena
fra le arringhe e i pettegolezzi, la moglie Alyssa Milano e il rivale
brillante di un Christopher Gorham che più invecchia, più si fa
bello. Boicottato per presunto fat
shaming, Insatiable è
l'anti-Tredici per
eccellenza: commedia adolescenziale di nero vestita che scherza sullo
stupro, sull'aborto e la sessualità, sui chili in più, con sommo
disappunto di chi non apprezza il grottesco o l'umorismo caustico. A
ben vedere, però, il dente avvelenato è pura apparenza: ecco la
morale, sempre (ben) nascosta dietro l'ennesimo sfottò alle serie TV
a tesi, al perbenismo medio-borghese, a cacce alle streghe in nome
del politicamente corretto che di questi tempi fanno più male che
bene. Cattiva Patty, che per tutta l'adolescenza ha covato tra sé e
sé una rabbia ferocissima, o forse gli altri? I comportamenti
diseducativi dell'ex bruttina, comunque eternamente sulla difensiva,
smascherano infatti l'opportunismo di nemici convertiti in amanti. Si
parte dalle aule di tribunale del pilot, per poi muoversi fra
concorsi di bellezza e aule scolastiche: la stessa giungla
spietata. Insatiable,
ho constatato con un po' di sorpresa, non ha la struttura della
comedy che ci si aspetterebbe: quei quaranta minuti, giudicati troppi
all'inizio, si rivelano utili invece per seguire le vicende di amici,
mentori e figuranti, tutti ugualmente indispensabili – e, sempre
con un po' di sorpresa, tocca scoprire strada facendo quanto gli
intrighi degli adulti divertano più di quelli dei giovanissimi del
cast. La scrittura, per quanto spassosa, non è purtroppo il punto
forte: va incontro a qualche problema con personaggi che troppo in
fretta passano da buoni a cattivi, dall'ira al pentimento insincero;
svolte e situazioni a dir poco sopra le righe, con attori ridotti a
macchiette caricaturali per amore della risata facile; contaminazioni
con l'horror o con le soap opera che mancano tuttavia del candore
sincero di un Jane
The Virgin.
Deliziosamente perfido, questo guilty pleasure al sangue pizzica il
palato con personaggi al limite – dell'immoralità, del buon gusto
– e battute senza peli sulla lingua che scontenteranno i buonisti.
Se la scorrettezza con me vince facile, minaccia sul fronte opposto
di far perdere iscrizioni in casa Netflix: probabilmente non
rivedremo Insatiable,
da sacrificare sull'altare delle future cancellazioni, e me ne
dispiaccio. Morale della favola? La vendetta dà la bulimia. Ma la
mia insaziabile fame di trash, intanto, è stata per fortuna
parzialmente placata. (6,5)
Dopo
l'affannoso trascinarsi della stagione
precedente, inatteso e in sordina torna per la quarta
volta UnREAL.
Il proposito di non proseguire: accantonato senza ripensamenti alla
notizia che all'indomani di questo nuovo arco di episodi – otto, e
non dieci come da patti – non ce ne sarebbero stati altri.
Accorciata, cancellata, la serie scritta dall'acclamata Marti Noxon –
autrice in questo stesso palinsesto del soporifero Sharp
Objects –
era stata infatti salvata da Hulu, e da Hulu messa in streaming per
un binge
watching conclusivo.
Lasciati da parte i toni delle passate puntate, più moraliste e per
questo, forse, inadatte a chi sin dall'inizio domandava
intrattenimento senza tabù, Everlasting –
fittizio programma d'incontri sulla scia del nostro Temptation's
Island –
riscopre fieramente il trash e la crudeltà. Che gli spettatori
armati di un altro po' di pazienza, perciò, si preparino a
un'edizione stellare. Shiri Appleby e Constance Zimmer, all'apparenza
complici e manipolatrici come ai tempi d'oro, hanno chiamato
all'appello vecchi concorrenti affinché a nessuno venisse negato il
lieto fine. Tra questi, un ballerino bisessuale e tossicodipendente,
con un programma tutto suo in uscita e le peggiori intenzioni di
rovinarsi gambe e reputazione; una giovane vittima di stupro che in
gara ritrova proprio il suo assalitore, ben lontano dall'abbandonare
il suo spregevole vizietto; una spogliarellista, un'intrusa, che
nella sorpresa generale dà al femminismo un nuovo volto. Se Quinn,
incinta contro ogni pronostico, a tratti si addolcisce in nome
dell'istinto materno, è una Rachel bionda e spregiudicata a far
sembrare quisquiglie gli scorsi misfatti: totalmente fuori controllo,
fa concorrenza alle partecipanti, facendo perdere il conto degli
amanti e degli errori. È lei la vera nemica delle ragazze in gara, e
soprattutto di sé stessa. Per un lungo tratto, dunque, riaccogliamo
a braccia aperte il black humour, i piani machiavellici, gli
sgambetti che infrangono legge e buon gusto. Cosa vuol saperne la
coscienza, infatti, se lo share parla chiaro? Troppo presto, però,
per cantare vittoria. E ci si mette purtroppo di mezzo quel finale
affrettato, imperdonabilmente tarallucci e vino, all'insegna della
solidarietà – e dell'incoerenza – femminile. Più che una brusca
virata, si fa allora retromarcia. Quando, date le premesse, il
redivivo UnREAL poteva
ambire in extremis persino a superarsi. (6)
Silenzio
in sala. Signore e signori, prego, i cellulari spenti. Nessuna foto,
grazie
Si
alza il sipario. Che la luce dei riflettori illumini uno a uno gli
attanti: sette silhouette in nero, William Shakespeare e l'omicidio colposo in scena. Hanno interpretato Macbeth
a Halloween, Romeo e Giulietta durante il ballo in
maschera di Natale, Sogno di una notte di mezza estate con la
mìse succinta dei pigiama party. È arrivato poi il tempo di Giulio
Cesare – dramma storico o tragedia, e con Cesare o Bruto nel
ruolo di autentico protagonista? –, personaggio destinato ad ascendere e cadere
nell'ennesima rilettura in chiave contemporanea. Gli attori in
giacca e cravatta, come nella corsa alle elezioni politiche, e un
tagliacarte per arma del delitto. Di certo non cambia il finale, no; di
certo non cambiano i ruoli in programma.
Quello
che succede con Shakespeare è che lui è così eloquente... Parla
di ciò di cui non si può parlare. Trasforma il dolore e il trionfo
e l'estasi e la rabbia in parole, in qualcosa che possiamo
comprendere. Rende comprensibile l'intero mistero dell'umanità. Si
può giustificare qualsiasi cosa se la si rende abbastanza poetica.
La
Dellecher, istituto con una retta di ventimila dollari e la
crème de la crème nel corpo docenti, è infatti un
microcosmo in cui vigono parti fisse e precari equilibri di potere.
Alla ribalta ecco lo sprezzante Richard, nato con la camicia: cosa succederebbe se
qualcuno gli negasse i riflettori e l'annunciato ruolo dell'eroe?
Seguono Wren, sua cugina, ragazza pallida e cagionevole sbucata da un'epoca di gentilezza incondizionata e principesse
da destare con un bacio; la facoltosa e bellissima Meredith, che per
selezione naturale di Richard è prevedibilmente la ragazza; Filippa,
con frequenti ruoli en travesti, un passato misterioso e un intuito
finissimo, a dispetto del fare laconico; Alexander, giullare vizioso
e carismatico, senza tabù in camera da letto e con il bicchiere sempre pieno alle feste; James, l'alter-ego di Richard e il suo yin: tutti lo amano, e lui magnanimamente ama tutti. Non fa eccezione il
narratore, Oliver: il compagno di stanza fedele e l'ombra
inseparabile, al centro di un'ambigua amicizia dalle inespresse
pulsioni omoerotiche che lo fa sentire graziato per ogni
affettuosa pacca sulla spalla, per ogni momento – o segreto –
condiviso.
Gli
attori sono per natura instabili: creature alchemiche composte di
elementi incendiari, emozione ed ego e invidia. Surriscaldali,
rimestali insieme, e a volte otterrai l'oro. Altre un disastro.
I
sette privilegiati hanno famiglie che non li comprendono fino in
fondo, Per aspera ad astra come motto e i giorni contati per
riuscire a emergere. Siamo agli sgoccioli degli anni Novanta. Sta per
finire il vecchio millennio, assieme al loro ultimo anno di corso.
Tutto ha un equilibrio, tutto un senso: perfino la spocchia, quando
diventa crudeltà verso il prossimo. Come contrastarla, se non con
l'assassinio? Congiurati non soltanto per finzione, allora, ci si
copre le spalle, ci si accusa, ci si condanna in 300 pagine elettrizzanti. Ci si ama e ci si
odia, spesso contemporaneamente. Ci si scopre tutti vicini: dietro le
quinte, nella malasorte.
Non
esiste conforto maggiore della complicità.
Arrivato
in Italia con una copertina dai toni inutilmente seriosi, Non è
colpa della luna è un irresistibile thriller alla Kevin
Williamson che ha scene, non capitoli; atti, non sezioni. Colto nelle
citazioni, elegantissimo benché in linea con lo spirito irrequieto e
giovanile dei romanzi di formazione, l'esordio della talentuosa M.L.
Rio rende perfettamente le ambizioni, le passioni torride,
l'impalcatura e lo spettacolo mirabolante dei loro brutti segreti.
Manca un guizzo alla cronaca di Oliver, fino all'ultimo il
personaggio con meno ombre: spalla drammatica generosa e versatile,
che fa brillare gli altri anche su carta, rimanendoci in parte –
nonostante l'impiego della prima persona – sconosciuto. A non mancare,
ovvio, è il coup de théatre. Quando scoppia il caos in seno alla
compagnia, si crea un posto vacante. E ognuno di loro vorrà
inconsciamente riempirlo, per salvaguardare lo status quo: non c'è
spettacolo, infatti, senza antagonista. Ingredienti indispensabili:
gli omicidi, i segreti, la poesia. Sotto l'incantesimo di uno
Shakespeare che ha i versi e le parole per tutto, sono dunque i benvenuti
gli intrighi proibiti, le vendette trasversali, le passioni omicide.
Gli attori, per deformazione professionale, fanno infatti loro ogni emozione. Saranno chiamati questa volta a recitare il dispiacere, a
recitare l'innocenza. Nuovo ruolo? Quello dei superstiti, alla deriva
nei flutti del sospetto. Quello dei cattivi.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Tears for Fears – Everybody Wants to Rule
the World
|Tu l'hai detto, di Connie Palmen. Iperborea, € 17, pp. 291 |
Che
fossero sin dall'inizio infelici e male assortiti. Che fossero
entrambi in cerca di fama letteraria, e per questo eternamente in
competizione. Che amarono, forse, fino a morirne o impazzire. Lei
fragilissima lepre, lui despota dalla furbizia di volpe. Lo dici tu.
Che conosci della Plath giusto il nome e le modalità di un suicidio
ormai famigerato. Che essendoci in ballo crisi di nervi e tradimenti
coniugali, a scatola chiusa, dai all'uomo la colpa esclusiva del
triste sfacelo. Cosa ne penserebbero loro, se potessero contraddirti
dal profondo della tomba? Come rigetterebbe le accuse il marito
fedifrago, per anni messo a tacere da una schiera di estimatori con i
paraocchi in nome del culto postumo dell'autrice della Campana di
vetro? Dev'essere nato così Tu l'hai detto:
un'apologia fittizia dal punto di vista inedito dell'istigatore; una
raccolta a tappeto di falsità e menzogne, e la loro matematica
ritrattazione. L'occasione, a vent'anni dalla morte, per lasciarlo
finalmente dire proprio a Ted Hughes.
Per
la maggior parte delle persone esistiamo solo in un libro, la mia
sposa e io. Negli ultimi trentacinque anni ho dovuto assistere con
impotente ribrezzo a come le nostre vite reali sono state sommerse da
un’onda fangosa di racconti apocrifi, false testimonianze,
pettegolezzi, invenzioni, leggende; a come le nostre reali, complesse
personalità sono state sostituite da stereotipi, ridotte a immagini
banali tagliate su misura per un pubblico di lettori affamati di
sensazionalismo. E così lei era la fragile santa e io il brutale
traditore. Ho taciuto. Fino ad ora.
A
lui, che in fondo credeva negli astri e nell'occultismo, l'incontro
con Sylvia – loquace americana con le cicatrici dell'elettroshock e
quelle di un precedente suicidio non andato a buon fine – era parso
subito una disastrosa collisione astrale. L'intensità
dell'attrazione, tuttavia, lo aveva spinto a ignorare i segnali
celesti. Lei gli morde una guancia nel suo vestito da sera, lui la
sposa in gran segreto. Da lì i viaggi fra i luoghi di Cime
tempestose e gli Stati Uniti in
fermento, con Ted pronto a privarla delle sovrastrutture, a
educarla, a liberarla. La scrittrice in caduta libera che si sognava
Virginia Woolf aveva paura in verità della bomba atomica,
dell'appendicite, della fama. Affetta da insicurezza cronica, non si
perdonava l'assenza del padre e provava frustrazione all'idea dei
bestseller o dei figli. Sylvia e Ted, segretamente in lotta per la
prima pagina, avrebbero voluto vivere di parole e fantasia. Non
tagliati per affrontare il contingente, erano troppo simili, e per
questo si respingevano: la pienezza dell'essere, infatti, pare essere
negli opposti. Lei troverà la pace infilando la testa nel forno a
gas: i bambini che inconsapevoli dormono al piano di sopra, le carte
di una separazione consensuale appena firmate. Per il consorte,
invece, avrà inizio un supplizio infinito per scagionarsi dal senso
di colpa; dalle voci di femministe che lo volevano a tutti i costi un
mostro. Farsi giustizia a parole non significa però perdonarsi.
Ammantato dallo stesso fatalismo di una tragedia greca, con i reali
attanti trasformati grazie a una prosa straordinaria in personaggi di
interessante levatura drammaturgica, il romanzo dell'olandese Connie
Palmen è un lungo flusso di coscienza in cui tutti appaiono comparse
passeggere nella corrente: l'amante di Ted, detta Lilith alla stregua
di un demone sanguinario, che sette anni dopo imiterà la Plath nella
morte; figli, il secondo dei quali erediterà, stando alla nota
biografica in appendice, la stessa indole autodistruttiva della
madre; perfino Sylvia, messa in ombra da un narratore che – sarà per vendetta? - non rifrange la luce della personalità di lei.
Chi
vuole creare deve morire decine di volte nella vita. Deve separarsi,
svincolarsi dai suoi cari, da terra, paese, famiglia, amici e
soprattutto dalle idee nelle quali è barricato. Non esiste rinascita
senza prima la morte. La letteratura ama la distruzione quale
condizione per rendere possibile una nuova vita.
Glamour
e cronachistico, Tu l'hai detto fa
pesare a lungo andare i rari dialoghi e le dense elencazioni di
eventi: scartafacci, viaggi, coincidenze magiche e fatali, e un
protagonista che a volte minimizza i colpi di testa e mostra una
Plath tutt'altro che amabile – e se ne apprezza vivamente il
coraggio, lontano dalla stucchevolezza dell'elogio funebre, ma la
donna suscita nel lettore incomprensioni e antipatie frequenti. C'è sempre
bisogno di un colpevole. Serve a semplificare le difficoltà insite
in ogni matrimonio. Un capro espiatorio a cui attribuire gli sgarbi,
e la presa diretta sulla manopola del gas. Impeccabile esercizio di
stile, meticolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione
metaletteraria, il romanzo Iperborea mi ha lasciato affascinato ma
distante. Sette anni insieme che non conoscono poesia, strano ma
vero; una relazione di amore-odio che non poteva essere ridotta ai
minimi termini. Si ricostruiscono infatti tante cose, con il senno di
poi. Mai, purtroppo, i lieto fine.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Karliene (Kate Bush) – Wuthering Heights
|Dark Hall, di Lois Duncan. Mondadori, € 17, pp. 204 |
Si
erge come un castello centenario alla fine del sentiero alberato. Per
un gioco prospettico sembra ingrandirsi man mano che la macchina si
avvicini. Sembra prepararsi a divorarla. I portoni istoriati come
fauci. La consapevolezza che ci sia qualcosa di storto a
Blackwood, esclusiva scuola femminile ai confini dello stato di New
York, colpisce Kit – sedici anni, una madre pronta a scaricarla lì
per un secondo viaggio di nozze in Europa – con la forza di un
infausto presagio. Saranno le giornate corte, lo scudo degli alberi tutt'intorno, il rigore del corpo docenti a suggerirle
forse un aggettivo: malvagio. Siamo in un teen horror su un
gruppo di adolescenti e una magione in cui certe notti si
fanno labili i confini fra il nostro mondo e l'aldilà. La direttrice
dello stabile, l'altera Madame Duret, ha un vago accento francese e
l'aria di chi cova tra sé e sé qualcosa di sinistro. Il dormitorio
si affaccia su un dedalo lungo e buio per corridoio, le chiavi
possono chiudere le camere da letto dall'esterno ma non dall'interno:
impossibile, pertanto, dormire sonni tranquilli. Sappiamo insomma che
la protagonista – privata della possibilità di tornare a casa
prima della vacanze di Natale, senza cellulare, senza internet e
senza una migliore amica – non si sbaglia. Qualcosa di strano
serpeggia fra le pagine di una compianta pioniera del genere e i
cunicoli di un istituto che no, non è la versione vintage di
Hogwarts. Nel personale di servizio sembra resistere soltanto una
ragazza poco più grande di Kit, addetta alle cucine, che a volte ha
il pericoloso vizio di parlare troppo: come spiegare il fuggifuggi dei domestici? I cancelli puntuti separano le
studentesse dal resto del paese: protezione o isolamento? Ci sono,
soprattutto, tre professori per sole quattro allieve: tanto spietata,
ci si domanda, la selezione? Fatta eccezione per Ruth, bruttina con
un fiuto eccezionale per le scienze, in classe le altre ragazze non
brillano di certo. Madame Duret è stata attratta da qualcos'altro:
abilità in erba, soprannaturali, che Kit e le comprimarie devono
ancora mettere a fuoco. Le stesse che, amaramente, potrebbero
rappresentare la loro distruzione.
C'è
qualcosa di strano a Blackwood, qualcosa di sinistro. Lo percepiamo
tutte, ma è impossibile da descrivere a parole. Succedono delle
cose.
Gli
ambienti sono circoscritti, i personaggi elencabili sulle dita delle
mani, il fascino è quello sempiterno di atmosfere gotiche che da
queste parti fan sempre breccia. L'orrore è nello sfacelo del
passato tenutario, chiacchierato misantropo braccato dalla tragedia?
La morte, con tanto di falce e cappuccio come nella splendida
copertina illustrata, è un'inquietante coinquilina da temere?
L'autrice, Lois Duncan, è la stessa dello slasher cult So cosa
hai fatto. Ma dimenticate spargimenti di emoglobina o coltellate
a destra e a manca. Dark Hall, pubblicato negli anni Settanta
e tradotto per la prima volta in Italia in
occasione della trasposizione cinematografica
tiepidamente accolta, vive – e muore – proprio delle sue
ambientazioni. Nessuna vittima, nessuna goccia di sangue versato,
tantissime stranezze. Tra incubi, inappetenza e gelori ad agosto, le
allieve si scopriranno infatti improvvisamente portate per la musica,
la poesia, il disegno e la matematica. Le giovani menti, ricettive
agli stimoli e al male, sono delle spugne. Quali sono gli effetti di
una cattiva educazione che vorrebbe cambiarci nel profondo, non di
certo migliorarci? Kit così si fa coraggio. Ricerca la propria
indipendenza, il diritto di avere voce in capitolo, in un
piano di studio personalizzato nel dettaglio. Magari, una via
d'uscita dal peggio in agguato. Quarant'anni dopo, a sorpresa,
l'atipica ghost story della Duncan – l'originalità dello spunto di
base, infatti, si rivelerà in tutto il suo potenziale a un passo
dalla conclusione – si difende piuttosto bene. Evitando le furberie
di una storia d'amore proibita (Kit fantastica proprio sul figlio della
direttrice, prodigio del conservatorio). Creando una suspance che
terrà senz'altro sull'attenti lettori più giovani e suggestionabili
di me (spiace a tal proposito per la piega finale, frettolosa e non
all'altezza). Proponendo una prosa godibile e immediata, che non
dissimula tuttavia il vecchio amore per le descrizioni
particolareggiate e gli spauracchi di classe. Dove il mistero è di
casa, ma non la memorabilità.
Per un pomeriggio estivo da consacrare ai piccoli brividi.
Dalle
stelle di City of Stars alla luna. Dal
musical al biopic a tinte action, sempre
facendo tappa presso quel Festival di Venezia, a fine agosto, che già
aveva portato fortuna la prima volta. Ryan Gosling è Neil Armostrong, nel
film ispirato all'omonimo bestseller di James R. Hansen.
La curiosità, onestamente, questa volta vola
bassa. Genere abbastanza consolidato da essere venuto a noia, cast che poco osa – la moglie di Armstrong è Claire Foy: guarda
caso, compagna di vita del sofferente Andrew Garfield in Ogni tuo
respiro – e, unico grandissimo pro, un instancabile Chazelle
che punta al firmamento e all'en plein.
Se la strada potesse parlare
30 novembre 2018
Chazelle e Jenkins sono destinati ancora a incontrarsi. Dopo la
clamorosa gaffe di due anni fa, si spera vivamente che a fare da
arbitri non saranno Beatty e Faye Dunaway. Il
regista diMoonlight torna, e un trailer montato ad arte
lascia intuire che in ballo abbia stile, impegno e forti emozioni.
Adatta un romanzo di James Baldwin, prossimamente in ristampa grazie
a Fandango Libri, ma abbandona il mondo LGBT – lo scrittore
afroamericano, eppure, è noto soprattutto per il cult gay La
stanza di Giovanni – senza tralasciare il razzismo, gli amori proibiti, le strade. Che parlano, sì, e in anteprima
al Festival di Toronto forse ci racconteranno una storia destinata a
far breccia.
Suspiria
2
novembre 2018 (USA)
In
principio c'era Suspiria De Profundis. Romanzo-confessione del
giornalista Thomas de Quincey che da un viaggio nell'Italia
dell'Ottocento portava con sé un lungo incubo e la conoscenza delle
tre Madri. Dario Argento aveva dedicato un film a ognuna di loro. Il
primo, a cui avrebbero seguito gli imperfetti Inferno e La
terza madre, era Suspiria:
cult irripetibile,
pronto a farsi remake. Non si storce il
naso, però, se a occuparsene è l'esteta Guadagnino. I personaggi
mantengono i nomi originali, il cameo di Jessica Harper appare quanto
mai doveroso ma, titolo a parte, i due film sembrano avere poco altro
in comune. Cambia il taglio – freddissimo, alla Von Trier –,
cambia la durata – sfiorerà, pare, le tre ore complessive – e
cambia il pubblico, se le streghe di Suspiria sono
pronte non troppo a sorpresa a infestare festival solitamente chiusi
al genere. Getterà un incantesimo sulla Laguna? E sull'Academy,
pronta nel 2019 a mettersi in gioco con una categoria aggiuntiva:
quella dei film popolari?
Beautiful Boy
12 ottobre 2018 (USA)
Com'è
che si dice? Stagione dei premi che vai, Timothée Chalamet che
trovi. Lo straordinario Elio di Chiamami col tuo nome,
vincitore morale agli Oscar, non vuole diventare una
meteora di passaggio. Tanti progetti nel cassetto – Allen,
Villeneuve, Gerwig – e altrettanta voglia di lasciarsi nuovamente
stupiti e commossi davanti al primo film americano del regista dello
struggenteAlabama Monroe. Una storia vera, di padri figli e
dipendenze da stupefacenti, in cui Chalamet è il bellissimo (e
problematico) ragazzo del titolo, mentre il versatile Carrell è il
genitore imperturbabile che vorrebbe ricondurlo sulla retta via: quella che porta a casa. I fortunati lo vedranno sempre a Toronto.
Gli altri, aspettando l'uscita italiana, lo leggeranno in libreria
con Sperling Kupfer.
Mary Queen of Scots
8 novembre 2018
Si
sono incrociate in tempi recenti sul Red Carpet: nominate l'una per Lady Bird, l'altra perTonya. Bionde, giovani e
bravissime, Saoirse Ronan e Margot Robbie condividono il set e la corona nel dramma in costume Mary Queen of Scots.
Cugine, amiche-nemiche, rivaleggiano per il regno e per l'Oscar: si
trasformano. Se a Soirse donano la treccia rossa e la fierezza dell'appassionata Mary, la
bellissima Margot raccoglie il testimone di Cate Blanchett,
s'imbruttisce e diventa Elisabetta I. Il romanzo di John Guy porta il
nome della prima, ma a giudicare almeno dall'intensità del trailer –
con quella sovrana inedita: stempiata, incompresa, sterile –
potrebbero spuntarla a sorpresa le fragilità della Non protagonista.
Boy Erased
22 novembre 2018
Adolescenti
omosessuali da convertire in nome della fede nell'Altissimo. Se ne
era già parlato in The Miseducation of Cameron Post, coming
of age vincitore dell'ultimo Sundance Film Festival. Il tema shock
sarà lo stesso nel ritorno alla regia dell'attore-regista Joel
Edgerton, che per l'occasione adatta di proprio pugno le memorie di
Garrard Conley in uscita per le Edizioni Black Coffee e guida un cast
stellare con Nicole Kidman e Russel Crowe, gentitori preoccupati, e
un Lucas Hedges che alla verde età di ventidue anni indovina come un
rabdomante ruoli su ruoli. Teniamolo d'occhio anche nel dramma Ben
is Back, in cui è diretto dal padre John e affiancato da una
ritrovata Julia Roberts.
The Wife - Vivere nell'ombra
4 ottobre 2018
Le
proverbiali donne dietro i grandi uomini. Le attrici fuori classe,
sfortunatamente nell'ombra. Colpa dell'età che avanza e di Hollywood
che fa di conseguenza marcia indietro, o semplicemente dei progetti
sbagliati? Glenn Close e Joan, la protagonista dell'omonimo romanzo
di Meg Wolitzer a ottobre in libreria per Garzanti, hanno più di
qualche tratto in comune. Che The Wife, un Big Eyesambientato tuttavia nello
spietato mondo della letteratura, possa essere il loro canto del
cigno come giura già qualche bookmaker?
|Io so chi sei, di Paola Barbato.
Piemme, € 18,50, pp. 515 |
Io
so chi sei come Non ti
faccio niente. Due frasi
all'apparenza rassicuranti che, a ben pensarci, nascondono dietro un
sottile tono di minaccia. Due modi di incutere paura. Due romanzi
della stessa autrice che, per perizia e introspezione psicologica,
sembrano rendere limitante la definizione di thriller. Torna
attesissima Paola Barbato, anche se era stata sul mio comodino appena
qualche mese fa con Bilico:
esordio da rispolverare, da rivalutare, che non convinceva fino in
fondo con i suoi equilibri malsicuri e un gusto per l'eccesso
stancante sul lungo tratto. Sapienza narrativa a parte – ora, per
fortuna, posso dirlo scacciando l'ombra del sospetto –, nient'altro
a che vedere con la complessità delle pubblicazioni successive. Fino
a questo momento, infatti, il dubbio poteva essere ragionevole: che
la struggente avventura degli ex bambini di Vincenzo,
l'indimenticabile rapitore che lasciava paperelle di gomma sulle sue
false scene del crimine, fosse un caso isolato difficile da ripetere?
Non si supera ma non delude, a questo giro, la sceneggiatrice di
Dylan Dog e la musa di
Matteo Bussola, compagno di vita che proprio alla loro storia d'amore
ha dedicato un'ultima fatica uscita per Einaudi: un intrigo
asfissiante, nonostante le ariose ambientazioni toscane, sui pregi e
i difetti dell'essere costantemente rintracciabili nell'era degli
smartphone. È sempre dal ritrovamento di un oggetto che si parte: un
cellulare ripescato nella buca della posta dalle mani tremanti di
Lena, trentaduenne con le borse sotto gli occhi e il cuore incrinato
per sempre. Strano accumulo di contraddizioni, quella figlia della
Firenze bene: la mortificazione dei vestiti informi, il garbuglio
inestricabile dei dreadlock al posto della messa in piega delle brave
cocche di papà e l'indolente Argo, molosso tenuto a stento al
guinzaglio, cozzano infatti con il curriculum di un'universitaria
brillante che ha deluso tutti, perfino sé stessa, in nome di una
relazione che la ha imposto un nuovo look e nuove frequentazioni, che
l'ha imbruttita dentro e fuori. Dal cellulare sconosciuto prendono ad
arrivare messaggi dal destinatario ignoto: il primo dice Io
so chi sei, e non suona una
premessa troppo inquietante all'orecchio di qualcuno come la
protagonista. Una giovane donna che si è tradita irreversibilmente,
che purtroppo chi sia non lo sa più. È cambiata per Saverio,
ma Saverio non c'è a darle ordini, coordinate esistenziali o
tormenti: l'eterno ribelle che ha in comune con il Bern di Divorare il cielole piccole smanie
rivoltose, il pallino per l'ambientalismo, le frequentazioni
animaliste, è caduto nell'Arno da ubriaco e non è più riemerso.
Restano una bara vuota, i segni di una trasformazione radicale di cui
ormai a Lena sfuggono i perché e, a due anni dalla scomparsa
dell'uomo, un anonimo interlocutore che a distanza la aizza, ci
gioca, la maltratta come fosse un cane da combattimento. Lui che ha
sempre nutrito rispetto per le bestie, mai per le persone, e che le
storpiava il nome con una canzone degli Articolo 31. Lui Saverio,
redivivo desideroso di testare la cieca fedeltà della sposa? O a
tramare nell'ombra è forse qualcuno che l'ha tenuto prigioniero e
affamato per tutto il tempo e che adesso pretende la merce di scambio
dell'obbedienza di Lena?
Tutti
gli amori sono malati.
Gli
SMS mirano a farne una persona diversa e spregiudicata – ricatta,
droga, avvelena, brucia, ammazza.
Vittima, sempre, anche quando è lei l'artefice sotto costrizione. Proprio come quando appariva un corpo estraneo nella ampia cerca
degli amici di Saverio, ora decimati uno a uno. Proprio come quando,
a metà romanzo, interviene un personaggio che ruba la scena a
chiunque: lo sgrammaticato Francesco, gigante in divisa affatto
buono, le raddrizza il tiro, porta a termine quello che Lena si
rifiuta di fare, la usa come esca travalicando una giustizia al
solito malleabile. Tutto pur di acciuffare il colpevole, e di farne
carne da macello: con la protagonista, così, destinata a passare dal
mostro all'orco come in una fiaba nera, in nome della riconoscenza di
coloro che vengono salvati da terzi.
Doppiamente manipolata, contesa da amori vandalici, in un implacabile
stillicidio lungo 500 pagine questa protagonista debole, duttile e
inetta fino all'ultimo si mostra a sorpresa esattamente uguale a noi.
Ci affascina e ci irrita, vero, ma faremmo lo stesso se intrappolati
in un simile labirinto di bugie. In una gabbia a cielo aperto con
vista sul Lungo Arno.
«Non
ho più niente da perdere»
aveva risposto Lena, per poi aggiungere: «Sono
una brutta persona.»
«Tutti
lo siamo, la nostra è una brutta specie.»
Si
incontrano comprimari innumerevoli – su tutti, nella corte dei
miracoli di Saverio impossibile non ricordare Alex e Lucio, esempio
di un amore che a volte salva – che a colpi di
personalità fortissime sfuggono al classico ruolo castrante dei
personaggi minori. Si sovrappongono e confondono i buoni con i
cattivi, in un'ambigua matassa di supposizioni errate e grigi
sfumati. Si parla di stalking e allievi che superano i maestri, di
gabbie costruite nello zoo della nostra mente vulnerabile. Qualche
dubbio soltanto per il finale, molto aperto, quando ci sarebbe stato forse tutto il tempo per tirare meglio le fila: da uno spunto
all'apparenza abusato, infatti, è venuto già fuori un thriller
scorretto e solidissimo. C'è abbastanza materiale per la trilogia
nei piani di Paola, scrittrice con una prosa magnetica e cattive
intenzioni? Ma ci si affida a occhi chiusi al suo imperscrutabile
volere, perché sì. L'orecchio teso, pronti a scattare il giorno in
cui il trillo di una notifica ci informerà che il secondo capitolo è
in stampa; che le minacce scambiate per gentilezze no, non si sono
esaurite sulla costa massiccia di Io so chi sei. Per ironia della sorte, dunque, in scacco
quanto una protagonista con un caricabatterie Samsung per collare a
strozzo.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: The Police – Every Breath You Take
È
stata la lettura dell'intensoIsola,
la scorsa primavera, ad allargare i miei orizzonti – sapevo quanto
fosse interessante il catalogo Iperborea, da quel romanzo in poi, e possedevo
qualche informazione in più sulla bellezza di alcuni arcipelaghi
dispersi fra le onde del Mare del Nord. Punto la mia bussola ancora
lì, dove ho avuto la fortuna di sentirmi già una volta bene. Torno
a perdermi in mezzo ai prodigi e ai misteri di quella Finlandia che
mi ha sempre ispirato brividi di freddo e grandi avventure, e lo
faccio, al solito, leggendo. Questa volta una ristampa dalla
copertina di un magnetismo irrinunciabile, a cura del Corriere della
sera, che in edicola ha aperto ai collezionisti le porte della
narrativa boreale. Ho il piacere di dirvi che sono stato in un
anonimo paesello alla fine del mondo. Meno impermeabile al progresso
di quanto in verità ammetta, ma comunque perfetto come scenario di
una casa di riposo esclusiva per continentali eternamente stressati.
Pensate che non ci sono né chiese né cimiteri. Che la morte, al
pari di un'ospite sgradita, è stata messa al bando. Anni fa
circolava di mano in mano una petizione per accogliere finalmente
sacerdoti e becchini, ma i più non l'hanno firmata per una forma di
scaramanzia: perché attirarsi la malasorte, croci e lapidi
all'orizzonte, se abbastanza in pace da essere longevi per natura? A
morire si muore, certo: non si fanno mica miracoli. Ma i dirimpettai
andati al Creatore e gli avi incartapecoriti riposano nelle campagne
tutto attorno: gli addetti alle pompe funebri, infatti, sono anche un
po' contadini, o viceversa.
A
volte nei posti più piccoli la vita diventa più grande.
Un
magazzino, una cooperativa, una maglieria con appena dieci impiegati:
questi i perni della vita di tutti i giorni. Qualora pensaste però
che l'anonimato riguardi anche la routine dei cittadini, vi
scoprireste colti in contropiede: il destino, e uno scrittore come
Jòn Kalman Stefànsson, a volte sanno essere molto fantasiosi. Uno
stimato imprenditore locale, tormentato da inspiegabili sogni in
latino, ha trasformato la sua casa in uno spettacolare osservatorio e
ha scelto di consacrarsi all'astronomia, benché tutti gli diano del
pazzo; una postina sfaccendata, con il dente avvelenato per le email
e il sopravvalutato diritto sulla privacy, sbircia e manipola la
corrispondenza dei compaesani improvvisandosi dea ex
machina; un poliziotto frustrato
muore perché senza crimini efferati da combattere, e un ottantenne
perché portato via dal vento; i campi intanto ospitano a periodi alterni atti di vandalismo gratuito, fantasmi, infuocate relazioni
clandestine. Qualcuno ritorna dopo sei anni d'assenza in nome
dell'amore, qualcun altro si dà agli elogi della vita da camionista
se il mondo ammette spesso furbastre scorciatoie. Un contadino in
viaggio a Londra scopre che i musei egizi non sono che polvere, in
confronto ai dettami del cuore; un politico scrive invano la propria
autobiografia e un modesto attore si reinventa proiezionista, mentre
a largo, come fossero sirenette belle e fatali, danno nell'occhio
donne straniere con costumi sgambati.
Per
quale motivo ho vissuto? Che questi racconti di vita e di morte nel
nostro paese e nelle campagne intorno siano una sorta di risposta a
quella domanda, e al senso d'incertezza che ne deriva? Parliamo,
scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di
capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l'essenza che però si
allontana sempre più come l'arcobaleno. Nelle storie antiche si dice
che l'uomo non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza
dubbio vale lo stesso per quello che cerchiamo – la ricerca stessa
è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe.
Buffo,
malizioso e trasognato, Luce d'estate ed è subito notte è
un romanzo per racconti in cui un ironico narratore collettivo
immortala quattrocento anime e una manciata dei loro pittoreschi
portabandiera, affinché per il bene dei posteri e dei turisti siano
preservate le bizzarrie, le peculiarità e la magia natale. I tratti,
infatti, sono quelli propri della tradizione del realismo magico; di
un lirismo venato di leggerezza che si lascia amare, sì, ma a
piccoli bocconi. Pagine incredibili e scorci da incorniciare fanno
divorare il romanzo (inoltre è estate: c'è luce fuori, come da
titolo, e sono ancora lunghe le giornate d'ozio), e il rischio che venga un
po' a noia, che si faccia indigestione di storie come di dolci in mano a
un bambino goloso, potrebbe essere elevato. Senza troppa sorpresa, tuttavia, il
calore (umano soprattutto) non manca. Di questa vacanza piena di
cartoline e souvenir resteranno i ricordi di una colazione
con vista sul mare; una raccolta di aneddoti ed esistenze straordinarie a confine ora con i poli artici, ora con l'antologia
poetica.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Coldplay – A Sky Full of Stars