venerdì 31 agosto 2018

Mr. Ciak: La penuria estiva? Ridiamoci su (per fortuna, è finita)

Sempre nella stessa taverna a mezz'ora di autobus dall'università, mi sono avvicinato ai giochi da tavolo. All'inizio in un angolo, ho scoperto che quella scusa per rivedersi non stonatava affatto come piano alternativo. Posso dirlo, sì, ma sottovoce: quel mondo – etichettatio come intrattenimento per nerd, né più né meno – mi piace. Probabilmente sarei finito lo stesso per recuperare Game Night, ma conoscere di persona quei meccanismi, quelle strategie, me l'ha fatto vedere con uno spirito diverso. Sarà per questo che non ha conquistato uno che appassionato lo sta diventando? Bateman e la McAdams aprono le porte di casa agli amici per una serata a tema. Una cena con delitto organizzata da un fratello al centro di loschi traffici, però, diventa una caccia al tesoro, anzi al rapito, in cui persone medie si troveranno a fare i conti con un gioco che sfugge di mano. Lo spunto del film si esaurisce presto. Game Night lascia di lato le sue pedine e, tra buoni sentimenti e stiracchiati colpi di scena, inseguimenti e sparatorie all'americana, preferisce i muscoli al ragionamento. I protagonisti avrebbero potuto essere indifferentemente membri del club del libro o rappresentanti Tupperware. Mancano loro, purtroppo, le strategie dei giocatori incalliti, i piani studiati nel dettaglio, un regolamento ferreo. Non all'altezza delle premesse, la commedia degli autori di Come ammazzare il capo è arrivata giusto in tempo per la stagione, scorrevole e ben diretta com'è – inaspettati il livello di splatter e la cura dei piani sequenza a effetto. Peccato non sia uno Sleuth in cerca di leggerezza, peccato tradisca non troppo originalmente il giallo per l'azione. Diventando, dopo Notte folle a Manhattan Crazy Night, l'ennesimo ibrido con persone qualunque, serate qualunque, piani criminosi qualunque: barando. (6,5)

Altri amici nostagici, altri giochi per adulti. Non per una notte e basta, questa volta, ma per tutto un mese: un maggio consacrato a un acchiapparello senza confini e senza regole. Ci si insegue perciò negli anni, fra le nascite, i matrimoni e i drammi personali. Una buona scusa per darsi sui nervi a vicenda, per riavvicinarsi. Forse per l'ultima volta, se l'imbattibile Jeremy Renner convola a nozze, e il matrimonio è l'occasione perfetta per metterlo con le spalle al muro? Helms, Hamm e Johnson, con al seguito un'adorabile Fisher e una Wallis in cerca di scoop, tornano a casa come i Perdenti di It. Si ride, in Prendimi!, e si finisce con un po' di affanno grazie a quel cast perennemente in moto e a una regia che non si fa mancare neppure gli uomini incappucciati del thriller. Sono ammessi i tiri mancini, i siparietti ingannevoli, colpi bassi non sempre metaforici: il gioco sporco, pur di aggrapparsi pateticamente al tempo perduto. Rischieranno di rovinare proprietà private, relazioni e ricordi. Restano gli zigomi che tirano, lo stupore per una vicenda così assurda da essere vera, il pensiero sinceramente preoccupato per quello che faranno di lì a un anno. Cosa hanno vinto, infatti? Cosa hanno perso? Per fortuna la ruota della fortuna gira, il gioco tiene giovani e in forma e, a volte, il vero trionfo sta nel dichiarare bandiera bianca in nome di un abbraccio da prendere, e poi subito da restituire. (7)

Quattro amiche dalla pelle fieramente nera cercano di riallacciare i contatti, con la scusa di un festival nella scatenata New Orleans. La scrittrice Regina Hall, legata alla star di Nick Cage per convenienza, accetta i tradimenti per mantenere la propria indipendenza; Queen Latifah, giornalista passata alla cronaca rosa, gestisce un blog di gossip che non la rispecchia; Jada Pinkett Smith, infermiera repressa, quando non accudisce i suoi pazienti bada alla sua bisognosa nidiata; Tiffany Haddish – sboccata rivelazione che per questo ruolo ha collezionato perfino qualche nomination – è un'impiegata troppo impulsiva per lasciarsi comandare. Come recuperare il tempo perso, se non scambiandosi i segreti di amanti superdodati e trucchi per il sesso orale; prendere parte a sfide di ballo sotto allucinogeni che sfociano presto in rissa; spruzzare fiotti di urina su spettatori che non sanno bene se dirsi disgustati o divertiti fino alle lacrime? Le parolacce non sono una prerogativa maschile. Non sono una prerogativa dei bianchi. Volgarissimo ma da record al botteghino, Il viaggio delle ragazze è all black e, soprattutto, retto da un cast di sole donne: binomio vincente, in questo periodo di commedie giuste nel momento sbagliato, tra razzismo che purtroppo ritorna e #metoo. L'emancipazione, infatti, sembra passare anche dalla grassa risata. E Malcolm D. Lee, cugino del ben più impegnato Spike, ti reinventa così la parità e il femminismo, lontano dagli impegni del politicamente corretto. (7)

Le Barden Bellas sono tornate. Dopo un secondo capitolo che non aveva né il piglio ironico né la colonna sonora del primo. Dopo la fine degli studi, che le ha sorprese confuse, lontane e non sempre realizzate – qualcuna fa i conti con la maternità, qualcun'altra con un lavoro sottopagato. Rimettersi in gioco allietando le truppe in un viaggio per l'Europa, con un tour fa tappa ora dalla Spagna, ora dalla Costa Azzurra. E scoprire che c'è chi gioca sporco, tra gruppi a cappella che ammettono strumenti e padri redivivi, coinvolti in situazioni di dubbia legalità. Pitch Perfect 3, uscito da noi in sordina e in ritardo, è una piacevole via di mezzo a cui non si osava chiedere nulla di più, nulla di meno. Questa volta, esplorando nuove sottotrame, la commedia musicale si tinge di sfumature criminose, e una regia da action finisce per dare spazio più alle gag comiche di una Rebel Wilson bad-ass che alle canzoni. Misto colorato di canto, umorismo grossolano e femminismo militante, non ne sentirò la mancanza ma da vecchio orfano di Glee, da spettatore che se si tratta di commedie demenziali non va affatto per il sottile, aspetto in fondo l'arrivo di un altro ibrido sul pentagramma; di un'altra scusa per tornare, tra me e me, a canticchiare. (5,5)

Un bambino da sottrarre alla custodia di un padre fanfarone e una strana coppia pronta ad accoglierlo in famiglia. Lo spunto di A Modern Family, vecchio come il mondo, è aggiornato per l'occasione al tempo delle unioni civili e di quelle famiglie monogenitoriali che fanno discutere. Scorretto per finta, è abbastanza innocuo e tenero, in verità, da non scandalizzare troppo neanche il nostro Ministro della famiglia. Tenere l'orfano o non tenerlo: cos'è giusto e cosa sbagliato? Un bravissimo Coogan e il compagno Paul Rudd, particolarmente bello con la barba da hipster, non si pongono il problema: credono di stare meglio da soli e, dopo dieci anni di convivenza, giurano che il loro amore sia ormai cosa finita. Quel bambino di cui non ricorderanno mai il nome li tiene insieme, li spinge a ripensare alle loro priorità e a mettere il prossimo al centro. La variazione sul tema di Tre scapoli e un bebè, questa volta con una coppia gay e un anonimo teppistello in cerca d'affetto per protagonisti, risulta mediamente divertente e trasmette quel po' di dolce progressismo che basta. Ma la lezione, già familiare agli americani, non rivoluzionerà di certo i nostri cinema, il nostro pensare. In una stagione in cui le commedie leggere leggere sono le bene accette, sì, ma i messaggi importanti, gli insegnamenti di civiltà, avrebbero avuto bisogno di maggiore eco per aprire gli occhi. (6)

Tre adolescenti pronte a spiccare il volo e i loro rispettivi nonché preoccupatissimi genitori. Leslie Mann, mamma single che teme la solitudine; un inedito John Cena, papà piagnucoloso di una futura campionessa di calcio; Ike Barinholtz, alias il fac-simile di Mark Walberg, che divorziando ha perso la moglie, ma non quella primogenita che tentenna all'idea dell'outing. Se in una commedia assai alla buona, lo spunto ironico ma affatto iconico è presto servito. Il ballo è alle porte, la partenza altrettanto: perchè non perdere la verginità all'unisono, si domandano così le tre amiche, inconsapevoli dei piani di sabotaggio dei parenti. Uniti per cospirare contro i capricci delle ragazze e, si spera almeno, per farci ridere. Giù le mani dalle nostre figlie, a rischio di confusione con il francese Non sposate le mie figlie!, ha difetti grandi e piccoli: Cena non possiede un po' della verve del collega The Rock e Barinholtz avrà diritto sì alla storyline più toccante, ma alla deliziosa Mann tocca riconoscere a mani basse i tempi comici migliori. Quello davvero imperdonabile, di difetto, è come spesso succede un altro: il trailer. Lo stesso che ti svela le gag più spassose, tra gare alcoliche per via rettale e tanga prelevati dal cassetto sbagliato. Lo stesso che ti ruba l'ilarità delle situazioni, in una sera prima degli esami a cui, già di tuo, chiedevi le scarse pretese di un'altra stupida commedia americana. (5,5)

mercoledì 29 agosto 2018

Recensione: Resto qui, di Marco Balzano

| Resto qui, di Marco Balzano. Einaudi, € 18, pp. 192 |

La punta di un campanile che sbuca da un lago, lo scatto bellissimo di una sorta di miraggio: ma non si giudica un libro dalla copertina, o così dice il proverbio. Alla prima impressione, scorcio triste e meraviglioso che un giorno vorrei vivamente vedere di persona, aggiungi anche la fascetta promozionale dei romanzi finalisti al premio Strega: riconoscimento che di solito intimorirebbe un po', vero, con il sentore di autorialità e pesantezza che porta con sé, ma che questa volta eppure sembrava sin da subito fare positivamente eccezione. Resto qui ha l'aspetto giusto, le giuste menzioni e soprattutto, a una seconda occhiata, la giusta trama. È un romanzo giusto, giustissimo – questo l'aggettivo chiave –, ma quanto destinato a restare nel cuore del lettore come promesso dal titolo? Siamo a Curon, provincia di Bolzano: terra di confine e di lingua tedesca divisa tra l'Italia, la Germania e la Svizzera; fra le camicie nere e i nazisti. Un paese per vecchi. Se nati lì nei primi del Novecento, si vive una doppia lotta, una doppia fuga: da un lato l'indecisione grande sul male minore da scegliere – lasciarsi guidare da Hitler o forse dal Duce? –, con la Seconda guerra mondiale che bussa alle porte a tempo di marcia. Dall'altra, invece, la drammatica notizia della costruzione di una diga che seppellirà sotto venti metri d'acqua due moderne Pompei ed Ercolano. Quelle le montagne, quelli i pericoli, quelle le questioni di vita o di morte di Trina: all'inizio adolescente, poi moglie, che a una prima battuta rifiuta il destino di angelo del focolare, il lavoro in bottega, la compagnia degli uomini, e studia per diventare maestra prima che a Curon venga imposto l'obbligo dell'italiano – una lingua esotica, pericolosa –, con il tedesco relegato invece a lezioni clandestine per non dimenticare le proprie origini. Infine compagna di Erich, madre di Michael e Marica, che nel congedarsi da noi stringe al seno come può i cocci di una famiglia disintegrata per sempre. Non mancano le lotte tra vicini di casa, l'immobilismo generato dalla neve che cade, i moti di scetticismo verso lo Stato e Dio. Conquista dalle prime pagine, invece, una protagonista stoica e appassionata, condannata purtroppo a una solitudine siderale: una Jo March di campagna, che ha tanto della forza dei personaggi femminili di Michela Murgia e Donatella Pietrantonio.

Io invece credevo che il sapere più grande, specie per una donna, fossero le parole. Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era averne fame e tenersele strette per quando la vita si complicava o si faceva spoglia. Credevo che mi potessero salvare, le parole.

Marco Balzano, scoperto qui, piace e commuove. Ha tutte le carte giuste per funzionare, e senza cattive sorprese funziona, galeotti uno spunto dall'impatto immediato e uno stile per fortuna sempre all'altezza. Potrei dire che è furbo, che è perfettino. Potrei dire che questa lettera aperta indirizzata a una figlia irraggiungibile – Marica: assente ma presente, incarnazione di un egoismo infantile che me l'ha presto resa presto detestabile – ricordi troppo altri romanzi, perfino La madre di Eva, presente nella stessa acclamata dozzina. Potrei dire che, dopo la complessità della prima parte, a poco serva lo stillicidio dei capitoli conclusivi, con battaglie vane e quei paesi dal destino già segnato in partenza. Tutto verissimo, sì, ma Resto qui gioca con sentimento e saggezza le sue carte scoperte. Emozionando con una storia di ordinaria resilienza, in cui una memorabile mamma coraggio si fa portabandiera di tutta una cultura sepolta e di ciascun genitore lasciato indietro dall'ingratitudine del sangue del suo sangue. Istruendoci sui torti e le prepotenze che i libri di scuola saltano a pie' pari. Dando alla resistenza un significato alternativo e il volto umano di un Beppe Fenoglio. Non servirà però farsi crescere le branchie, no. La lettura infatti è di quelle affatto accidentate, semplici e scorrevoli, che non troppo fanno dispiacere per la mancata vittoria – a chi piace in fondo vincere facile? Risulta scontato ma bello, tuttavia, andare alla deriva con Balzano. Tornano a galla allora i ricordi dolce-amari, il senso di ingiustizia profondissimo, le voci fantasma dei sopravvissuti all'abisso.

Anche le ferite che non guariscono prima o poi smettono di sanguinare. La rabbia, persino quella della violenza inflitta, è destinata come tutto a slentarsi, ad arrendersi a qualcosa di più grande di cui non conosco il nome. Bisognerebbe saper interrogare le montagne per sapere quello che è stato.

Resto qui: imperativo categorico di chi si è imputato, con i pugni chiusi sui fianchi e lo sguardo che non ammette repliche. È con piacere che non la si scontenta, Trina, e le si fa dunque spazio all'interno delle nostre giornate. Con lei, di conseguenza, c'è il bagaglio a mano di una storia che non è soltanto sua. La stessa che riserva forse meno sorprese di una narratrice avanti coi tempi, ma lascia con la curiosità, l'indignazione e l'incanto di spingersi fino alle soglie di questa moderna Atlantide sommersa. Con la speranza di scoprire altri travagli, altri segreti, sotto una superficie che intanto brulica di pesci e memorie.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore

lunedì 27 agosto 2018

Recensione: Salvare le ossa, di Jesmyn Ward

| Salvare le ossa, di Jesmyn Ward. NN Editore, € 19, pp. 316 |

Dici uragano, e subito pensi alla tempestività di una catastrofe che non si prende la briga di avvisare. Alle immagini di un film spaventoso, eppure degno di stupore, passato su tutti i telegiornali tredici anni fa di questi tempi. Le case ridotte a miniature per bambole da buttare via, onde di alberi tegole randagi e lavatrici, divani e bare finiti chissà come sul bagnasciuga, una macchina incastrata tra i fili del telefono come un ragno nella tela. Lo sfondo, quel Sud remoto di coccodrilli e riti che tanto doveva affascinare, all'epoca, l'undicenne attonito che una simile quantità di relitti, le stesse macerie, doveva averle viste solo quando le Torri Gemelle erano cadute nel bel mezzo di una puntata della Melevisione. Il titolo: Katrina. I satelliti, in realtà, la avevano avvertita e le previsioni meteo parlato con ampio anticipo: un turbine implacabile, sebbene affatto improvviso, che cresceva come montava il vento. Idealmente ci sarebbe stato il tempo per affrontarlo preparati: lo scatolame da stipare sugli scaffali in dispensa, porte e scuri da rinforzare, gente e ricordi a cui assicurare una fuga certa in casi estremi. I Batiste, famiglia protagonista del primo capitolo della trilogia di Jesmyn Ward, di tempo non ne hanno avuto a sufficienza: impegnati come sono a sbrogliare le proprie vite a un bivio, a disinfettarsi ferite aperte. Ci sono un padre alticcio e dolente, che campa soltanto con la pensione di invalidità; Junior, il piccolo di casa, che di crescere non ha fretta; Randall, promessa del basket in attesa degli esiti di una borsa di studio; Skeetah, il maggiore, proprietario di un pitbull immacolato con una nuova cucciolata sotto le mammelle gonfie di latte. E infine Esch, narratrice interna e unica figlia femmina. Che legge per la scuola dell'amore sbagliato di Medea per Giasone, e di come quest'ultima voltò le spalle al padre, al fratello e ai figli per colpa di un traditore. E che proprio a un traditore a sua volta si è concessa – Manny, la pelle dorata e i denti affilati: il migliore amico di Randall –, scoprendo che fare sesso è come imparare a nuotare e che, se in dolce attesa a quindici anni, non si controllano il vomito e l'urina a fiotti, né la fame incontenibile. Senza età, senza sesso, senza privacy, i Batiste si scambiano i vestiti e si ingozzano di noodles e zuppa di piselli. Vivono precariamente, come sotto assedio, eppure se glielo chiedessi si direbbero contenti così. Questo li rende forse preparati alla calamità?

Sono i corpi a raccontare le storie.

Le loro entrate dipendono dalla salute del pitbull, China: si commettono perciò infrazioni per rubare il vermifugo ai vicini, ci si contende pezzi di legno e linoleum non per le finestre da schermare ma per una cuccia improvvisata, ci si domanda se la maternità abbia reso il molosso troppo cagionevole per i combattimenti clandestini – i cuccioli valgono ottocento dollari ciascuno, infatti, ma la barbarie del cane contro cane paga, e profumatamente. Essenziale ma dalla potenza cinematografica, Salvare le ossa è il ritratto incantevole e terrificante di una famiglia come tante sullo sfondo di un cielo che muta a vista d'occhio faccia e colore. Ora ringhia, ora uggiola e infine canta, insieme alla prosa di vento di una scrittrice bravissima. L'allerta meteo è un pensiero accidentale, una preparazione lentissima. Le poche scorte non bastano. Katrina arriva soltanto negli ultimi capitoli, e li fa disintegrare e ricomporre nel buio di un solaio divelto; in una catena di braccia lunghe e affetti commoventi, che lasciano in strada falò alti così per guidare a casa i dispersi e in tasca cocci di vetro e bottiglia, un pezzo di mattone. La proverbiale quiete dov'è che sta, prima o dopo la tempesta? Nella frenesia della routine degli inizi, o nella pacifica rassegnazione che interviene poi, quando ci si scopre un niente, sì, ma con il cuore in pace?

Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra al letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. [...] Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.

Gli indimenticabili fratelli Batiste sono neri, tenaci, ben piantati sulle gambe. L'uragano, pensavano, non li avrebbe mai spostati. Perché la loro natura non è meno prevedibile di quella lì fuori. Ce ne racconta la sopravvivenza da una prospettiva d'eccezione Esch, infiltrata in un microcosmo maschile che maschio non può fingersi ormai più, eludendo le richieste di un corpo già in metamorfosi. Ciò che ha radici profonde resiste, non rischia la deriva: a Bois Sauvage, Mississipi, dove gli uomini portano i pantaloni e le forze della natura, intanto, nomi di donna.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alicia Keys – Girl on Fire (Acoustic)

sabato 25 agosto 2018

Recensione: La vita nonostante tutto, di Tim Federle

| La vita nonostante tutto, di Tim Federle. Il Castoro, € 15,50, pp. 280 |

Crescere, che fatica. Avete quasi diciassette anni, tra bombardamenti ormonali e l'incertezza nel futuro: fatica doppia. Metti poi che ti piacciano da sempre i ragazzi, ma la parola omosessualità ancora spaventa. Qual è il tempo per conoscersi meglio, per scoprirsi già uomini, se alla complessità del disegno tocca aggiungere il dramma di una mamma gravemente in sovrappeso, che di un papà fedifrago è diventata in fretta lo zimbello, e di una sorella maggiore che così, da un momento all'altro, ha deciso di distrarsi alla guida e morirci? Quinn – e no, l'imbarazzante nome di battesimo non può figurare nella lista delle sciagure di famiglia – in realtà, adesso, di tempo per rimuginare ne avrebbe a bizzeffe. Esperto nell'arte di rimandare a domani quello che potrebbe fare oggi, vorrebbe esitare all'infinito davanti all'inevitabilità di diventare grande, così come ha già fatto con il condizionatore da montare in camera, un bruttissimo murales che proprio non rende giustizia alla bellezza della parente scomparsa, l'acquisto di un nuovo cellulare, la domanda di ammissione a un concorso per sceneggiatori a Los Angeles. Sì, perché l'eccentrico Quinn – una autentica drama queen: d'obbligo il gioco di parole – vorrebbe seguire le orme del vicino di casa ormai famoso, che da bambino l'ha inconsapevolmente iniziato alle meraviglie del cinema e alle prime avvisaglie delle cotte in arrivo. C'è un problema però. Non sa ancora camminare con le proprie gambe. Non sa immaginarsi unica penna, unico pilota, senza le preziose dritte della sorella che non c'è – lei la regista dei suoi corti sperimentali, lei la regista della vita di quel protagonista che spesso parte per la tangente davanti a responsabilità grandi e piccole. Non saranno più come i Coen, i Farrelly o le Wachowski. Una ragione valida, forse, per fare carta straccia di un sogno condiviso fino all'ultimo? Per quanto ancora si può evitare l'inevitabile, infatti: primo amore compreso?

Non c'è niente di meglio che non sentirti più te stesso. Almeno, se sei me.

Il Liberty, cinema del cuore, minaccia chiusura, venuto meno lo storico proprietario; Geoff, il tipo di migliore amico che battezza i propri peti, ha un segreto pronto a venire alla luce; Amir, universitario di origini iraniane che a un appuntamento romantico strappa il biglietto per un film di Kurosawa sottotitolato, trova che Quinn nasconda un bel sedere nei jeans, e la consapevolezza potrebbe fare improvvisamente di lui non più l'ultimo vergine d'America. La vita fino a quel momento è stata un film agrodolce ma pur sempre con capo e coda. Ora le pagine si confondono, si sovrappongono, se il naturale divenire delle cose sovverte le regole tutt'altro che fisse della scrittura creativa. Le promesse rischiano di diventare bugie a lungo andare, e il pensiero che ci siano cose che la sorella non farà mai – dare un bacio, fare sesso – paralizza per il senso di colpa, benché ci siano aneddoti che il protagonista verrà a sapere solo dopo, per bocca di terzi.

C'è una corrente della psicologia, chiamata psicologia positiva, mi ha spiegato la mia terapeuta, che dice che la cosa migliore per andare a incidere sul modo in cui guardiamo la nostra vita è considerare quello che si ha, piuttosto che quello che non si ha. E quindi, potrò anche non avere un cellulare, o una sorella che mi aspetta a casa, o un padre, o un futuro, ma santa la miseria: ho il cielo.

La vita nonostante tutto è una commedia adolescenziale che con il linguaggio caro ai fanatici della settima arte s'interroga con autoironia sui tre atti canonici del viaggio dell'eroe – topos da cui ogni avventura esistenziale, tanto su pellicola quanto su carta, prende tradizionalmente avvio. Quanto ti arricchiscono e quando, invece, ti incasinano e basta? Si affastellano tanti dispiaceri, ma siamo lontani dall'intensità di The Sky is everywhere. Si toccano tanti temi importanti, e la leggerezza è quella dell'altrettanto indolore e gay friendly Non so chi sei ma io sono qui. Si alternano tante pagine narrative ad altrettanti stralci di sceneggiatura, ma la genialità di Quel fantastico peggior anno della mia vita non è purtroppo di casa. Nonostante il “tanto” dappertutto, stano ma vero, drammi, spunti e trovate non sembrano abbastanza. Colpa e merito di una scrittura senza peso, più che leggera, che non s'imprime né fa grande simpatia. Di un protagonista sopra le righe, spiritoso a ogni costo, che fra apostrofi ai lettori, il maiuscolo a sproposito, l'abbondanza dei colloquiali “tipo” e “ah ah”, a tratti irrita mentendo a noi e a sé stesso. 
Crescere, che fatica: lo si diceva in apertura. Pesa meno, se intervengono l'ironia e la leggerezza di un narratore che questa volta ho mal sopportato. La vita nonostante tutto avrebbe avuto bisogno di qualche ritocco in post-produzione e delle diritte di un co-sceneggiatore onesto. Per farsi Young Adult che piaccia anche a noi, lettori cresciuti. Per farsi film in streaming degno di essere visto e rivisto.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Dear Jack – Domani è un altro film

giovedì 23 agosto 2018

I ♥ Telefilm: Insatiable | UnREAL S04

In sovrappeso, seguita a ruota da una migliore amica dai dubbi gusti sessuali, figlia di una mamma single che per lavoro sforna burritos e di un padre dall'identità segreta, Patty, diciassette anni e sentirsene cento, è il ritratto dell'impopolarità in un'età – in un Paese – che pretenderebbe bellezza, valori tradizionali, modelli vincenti. Chi poteva immaginarlo che l'ennesima prepotenza – il pugno di un barbone rissoso – avesse dei pregi? Dimagrita di trenta chili durante la convalescenza, più avvenente ma non per questo più felice, la liceale punta alla vendetta. Adesso vuole vincere, anche a costo di umiliare o allontanare gli altri. Soltanto così può andare oltre il famigerato soprannome di Maiale Patty. Rimpiazzandolo, magari, con una nuova reputazione: anche pessima. Sete di sangue e fame di vendetta portano la semisconosciuta Debby Ryan a incrociare così la strada di Dallas Roberts, irresistibile cinquantenne in crisi d'identità – ufficialmente avvocato ma, a porte chiuse, consulente di bellezza nell'occhio del ciclone –, che si barcamena fra le arringhe e i pettegolezzi, la moglie Alyssa Milano e il rivale brillante di un Christopher Gorham che più invecchia, più si fa bello. Boicottato per presunto fat shamingInsatiable è l'anti-Tredici per eccellenza: commedia adolescenziale di nero vestita che scherza sullo stupro, sull'aborto e la sessualità, sui chili in più, con sommo disappunto di chi non apprezza il grottesco o l'umorismo caustico. A ben vedere, però, il dente avvelenato è pura apparenza: ecco la morale, sempre (ben) nascosta dietro l'ennesimo sfottò alle serie TV a tesi, al perbenismo medio-borghese, a cacce alle streghe in nome del politicamente corretto che di questi tempi fanno più male che bene. Cattiva Patty, che per tutta l'adolescenza ha covato tra sé e sé una rabbia ferocissima, o forse gli altri? I comportamenti diseducativi dell'ex bruttina, comunque eternamente sulla difensiva, smascherano infatti l'opportunismo di nemici convertiti in amanti. Si parte dalle aule di tribunale del pilot, per poi muoversi fra concorsi di bellezza e aule scolastiche: la stessa giungla spietata. Insatiable, ho constatato con un po' di sorpresa, non ha la struttura della comedy che ci si aspetterebbe: quei quaranta minuti, giudicati troppi all'inizio, si rivelano utili invece per seguire le vicende di amici, mentori e figuranti, tutti ugualmente indispensabili – e, sempre con un po' di sorpresa, tocca scoprire strada facendo quanto gli intrighi degli adulti divertano più di quelli dei giovanissimi del cast. La scrittura, per quanto spassosa, non è purtroppo il punto forte: va incontro a qualche problema con personaggi che troppo in fretta passano da buoni a cattivi, dall'ira al pentimento insincero; svolte e situazioni a dir poco sopra le righe, con attori ridotti a macchiette caricaturali per amore della risata facile; contaminazioni con l'horror o con le soap opera che mancano tuttavia del candore sincero di un Jane The Virgin. Deliziosamente perfido, questo guilty pleasure al sangue pizzica il palato con personaggi al limite – dell'immoralità, del buon gusto – e battute senza peli sulla lingua che scontenteranno i buonisti. Se la scorrettezza con me vince facile, minaccia sul fronte opposto di far perdere iscrizioni in casa Netflix: probabilmente non rivedremo Insatiable, da sacrificare sull'altare delle future cancellazioni, e me ne dispiaccio. Morale della favola? La vendetta dà la bulimia. Ma la mia insaziabile fame di trash, intanto, è stata per fortuna parzialmente placata. (6,5)

Dopo l'affannoso trascinarsi della stagione precedente, inatteso e in sordina torna per la quarta volta UnREAL. Il proposito di non proseguire: accantonato senza ripensamenti alla notizia che all'indomani di questo nuovo arco di episodi – otto, e non dieci come da patti – non ce ne sarebbero stati altri. Accorciata, cancellata, la serie scritta dall'acclamata Marti Noxon – autrice in questo stesso palinsesto del soporifero Sharp Objects – era stata infatti salvata da Hulu, e da Hulu messa in streaming per un binge watching conclusivo. Lasciati da parte i toni delle passate puntate, più moraliste e per questo, forse, inadatte a chi sin dall'inizio domandava intrattenimento senza tabù, Everlasting – fittizio programma d'incontri sulla scia del nostro Temptation's Island – riscopre fieramente il trash e la crudeltà. Che gli spettatori armati di un altro po' di pazienza, perciò, si preparino a un'edizione stellare. Shiri Appleby e Constance Zimmer, all'apparenza complici e manipolatrici come ai tempi d'oro, hanno chiamato all'appello vecchi concorrenti affinché a nessuno venisse negato il lieto fine. Tra questi, un ballerino bisessuale e tossicodipendente, con un programma tutto suo in uscita e le peggiori intenzioni di rovinarsi gambe e reputazione; una giovane vittima di stupro che in gara ritrova proprio il suo assalitore, ben lontano dall'abbandonare il suo spregevole vizietto; una spogliarellista, un'intrusa, che nella sorpresa generale dà al femminismo un nuovo volto. Se Quinn, incinta contro ogni pronostico, a tratti si addolcisce in nome dell'istinto materno, è una Rachel bionda e spregiudicata a far sembrare quisquiglie gli scorsi misfatti: totalmente fuori controllo, fa concorrenza alle partecipanti, facendo perdere il conto degli amanti e degli errori. È lei la vera nemica delle ragazze in gara, e soprattutto di sé stessa. Per un lungo tratto, dunque, riaccogliamo a braccia aperte il black humour, i piani machiavellici, gli sgambetti che infrangono legge e buon gusto. Cosa vuol saperne la coscienza, infatti, se lo share parla chiaro? Troppo presto, però, per cantare vittoria. E ci si mette purtroppo di mezzo quel finale affrettato, imperdonabilmente tarallucci e vino, all'insegna della solidarietà – e dell'incoerenza – femminile. Più che una brusca virata, si fa allora retromarcia. Quando, date le premesse, il redivivo UnREAL poteva ambire in extremis persino a superarsi. (6)

lunedì 20 agosto 2018

Recensione: Non è colpa della luna, di M.L. Rio

| Non è colpa della luna, di M.L. Rio. Frassinelli, € 19,90 pp. 316 |

Silenzio in sala. Signore e signori, prego, i cellulari spenti. Nessuna foto, grazie
Si alza il sipario. Che la luce dei riflettori illumini uno a uno gli attanti: sette silhouette in nero, William Shakespeare e l'omicidio colposo in scena. Hanno interpretato Macbeth a Halloween, Romeo e Giulietta durante il ballo in maschera di Natale, Sogno di una notte di mezza estate con la mìse succinta dei pigiama party. È arrivato poi il tempo di Giulio Cesare – dramma storico o tragedia, e con Cesare o Bruto nel ruolo di autentico protagonista? –, personaggio destinato ad ascendere e cadere nell'ennesima rilettura in chiave contemporanea. Gli attori in giacca e cravatta, come nella corsa alle elezioni politiche, e un tagliacarte per arma del delitto. Di certo non cambia il finale, no; di certo non cambiano i ruoli in programma.

Quello che succede con Shakespeare è che lui è così eloquente... Parla di ciò di cui non si può parlare. Trasforma il dolore e il trionfo e l'estasi e la rabbia in parole, in qualcosa che possiamo comprendere. Rende comprensibile l'intero mistero dell'umanità. Si può giustificare qualsiasi cosa se la si rende abbastanza poetica.

La Dellecher, istituto con una retta di ventimila dollari e la crème de la crème nel corpo docenti, è infatti un microcosmo in cui vigono parti fisse e precari equilibri di potere. Alla ribalta ecco lo sprezzante Richard, nato con la camicia: cosa succederebbe se qualcuno gli negasse i riflettori e l'annunciato ruolo dell'eroe? Seguono Wren, sua cugina, ragazza pallida e cagionevole sbucata da un'epoca di gentilezza incondizionata e principesse da destare con un bacio; la facoltosa e bellissima Meredith, che per selezione naturale di Richard è prevedibilmente la ragazza; Filippa, con frequenti ruoli en travesti, un passato misterioso e un intuito finissimo, a dispetto del fare laconico; Alexander, giullare vizioso e carismatico, senza tabù in camera da letto e con il bicchiere sempre pieno alle feste; James, l'alter-ego di Richard e il suo yin: tutti lo amano, e lui magnanimamente ama tutti. Non fa eccezione il narratore, Oliver: il compagno di stanza fedele e l'ombra inseparabile, al centro di un'ambigua amicizia dalle inespresse pulsioni omoerotiche che lo fa sentire graziato per ogni affettuosa pacca sulla spalla, per ogni momento – o segreto – condiviso.

Gli attori sono per natura instabili: creature alchemiche composte di elementi incendiari, emozione ed ego e invidia. Surriscaldali, rimestali insieme, e a volte otterrai l'oro. Altre un disastro.

I sette privilegiati hanno famiglie che non li comprendono fino in fondo, Per aspera ad astra come motto e i giorni contati per riuscire a emergere. Siamo agli sgoccioli degli anni Novanta. Sta per finire il vecchio millennio, assieme al loro ultimo anno di corso. Tutto ha un equilibrio, tutto un senso: perfino la spocchia, quando diventa crudeltà verso il prossimo. Come contrastarla, se non con l'assassinio? Congiurati non soltanto per finzione, allora, ci si copre le spalle, ci si accusa, ci si condanna in 300 pagine elettrizzanti. Ci si ama e ci si odia, spesso contemporaneamente. Ci si scopre tutti vicini: dietro le quinte, nella malasorte.

Non esiste conforto maggiore della complicità.

Arrivato in Italia con una copertina dai toni inutilmente seriosi, Non è colpa della luna è un irresistibile thriller alla Kevin Williamson che ha scene, non capitoli; atti, non sezioni. Colto nelle citazioni, elegantissimo benché in linea con lo spirito irrequieto e giovanile dei romanzi di formazione, l'esordio della talentuosa M.L. Rio rende perfettamente le ambizioni, le passioni torride, l'impalcatura e lo spettacolo mirabolante dei loro brutti segreti. Manca un guizzo alla cronaca di Oliver, fino all'ultimo il personaggio con meno ombre: spalla drammatica generosa e versatile, che fa brillare gli altri anche su carta, rimanendoci in parte – nonostante l'impiego della prima persona – sconosciuto. A non mancare, ovvio, è il coup de théatre. Quando scoppia il caos in seno alla compagnia, si crea un posto vacante. E ognuno di loro vorrà inconsciamente riempirlo, per salvaguardare lo status quo: non c'è spettacolo, infatti, senza antagonista. Ingredienti indispensabili: gli omicidi, i segreti, la poesia. Sotto l'incantesimo di uno Shakespeare che ha i versi e le parole per tutto, sono dunque i benvenuti gli intrighi proibiti, le vendette trasversali, le passioni omicide. Gli attori, per deformazione professionale, fanno infatti loro ogni emozione. Saranno chiamati questa volta a recitare il dispiacere, a recitare l'innocenza. Nuovo ruolo? Quello dei superstiti, alla deriva nei flutti del sospetto. Quello dei cattivi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tears for Fears – Everybody Wants to Rule the World

venerdì 17 agosto 2018

Recensione: Tu l'hai detto, di Connie Palmen

| Tu l'hai detto, di Connie Palmen. Iperborea, € 17, pp. 291 |

Che fossero sin dall'inizio infelici e male assortiti. Che fossero entrambi in cerca di fama letteraria, e per questo eternamente in competizione. Che amarono, forse, fino a morirne o impazzire. Lei fragilissima lepre, lui despota dalla furbizia di volpe. Lo dici tu. Che conosci della Plath giusto il nome e le modalità di un suicidio ormai famigerato. Che essendoci in ballo crisi di nervi e tradimenti coniugali, a scatola chiusa, dai all'uomo la colpa esclusiva del triste sfacelo. Cosa ne penserebbero loro, se potessero contraddirti dal profondo della tomba? Come rigetterebbe le accuse il marito fedifrago, per anni messo a tacere da una schiera di estimatori con i paraocchi in nome del culto postumo dell'autrice della Campana di vetro? Dev'essere nato così Tu l'hai detto: un'apologia fittizia dal punto di vista inedito dell'istigatore; una raccolta a tappeto di falsità e menzogne, e la loro matematica ritrattazione. L'occasione, a vent'anni dalla morte, per lasciarlo finalmente dire proprio a Ted Hughes.

Per la maggior parte delle persone esistiamo solo in un libro, la mia sposa e io. Negli ultimi trentacinque anni ho dovuto assistere con impotente ribrezzo a come le nostre vite reali sono state sommerse da un’onda fangosa di racconti apocrifi, false testimonianze, pettegolezzi, invenzioni, leggende; a come le nostre reali, complesse personalità sono state sostituite da stereotipi, ridotte a immagini banali tagliate su misura per un pubblico di lettori affamati di sensazionalismo. E così lei era la fragile santa e io il brutale traditore. Ho taciuto. Fino ad ora.

A lui, che in fondo credeva negli astri e nell'occultismo, l'incontro con Sylvia – loquace americana con le cicatrici dell'elettroshock e quelle di un precedente suicidio non andato a buon fine – era parso subito una disastrosa collisione astrale. L'intensità dell'attrazione, tuttavia, lo aveva spinto a ignorare i segnali celesti. Lei gli morde una guancia nel suo vestito da sera, lui la sposa in gran segreto. Da lì i viaggi fra i luoghi di Cime tempestose e gli Stati Uniti in fermento, con Ted pronto a privarla delle sovrastrutture, a educarla, a liberarla. La scrittrice in caduta libera che si sognava Virginia Woolf aveva paura in verità della bomba atomica, dell'appendicite, della fama. Affetta da insicurezza cronica, non si perdonava l'assenza del padre e provava frustrazione all'idea dei bestseller o dei figli. Sylvia e Ted, segretamente in lotta per la prima pagina, avrebbero voluto vivere di parole e fantasia. Non tagliati per affrontare il contingente, erano troppo simili, e per questo si respingevano: la pienezza dell'essere, infatti, pare essere negli opposti. Lei troverà la pace infilando la testa nel forno a gas: i bambini che inconsapevoli dormono al piano di sopra, le carte di una separazione consensuale appena firmate. Per il consorte, invece, avrà inizio un supplizio infinito per scagionarsi dal senso di colpa; dalle voci di femministe che lo volevano a tutti i costi un mostro. Farsi giustizia a parole non significa però perdonarsi. Ammantato dallo stesso fatalismo di una tragedia greca, con i reali attanti trasformati grazie a una prosa straordinaria in personaggi di interessante levatura drammaturgica, il romanzo dell'olandese Connie Palmen è un lungo flusso di coscienza in cui tutti appaiono comparse passeggere nella corrente: l'amante di Ted, detta Lilith alla stregua di un demone sanguinario, che sette anni dopo imiterà la Plath nella morte; figli, il secondo dei quali erediterà, stando alla nota biografica in appendice, la stessa indole autodistruttiva della madre; perfino Sylvia, messa in ombra da un narratore che – sarà per vendetta? - non rifrange la luce della personalità di lei.

Chi vuole creare deve morire decine di volte nella vita. Deve separarsi, svincolarsi dai suoi cari, da terra, paese, famiglia, amici e soprattutto dalle idee nelle quali è barricato. Non esiste rinascita senza prima la morte. La letteratura ama la distruzione quale condizione per rendere possibile una nuova vita.

Glamour e cronachistico, Tu l'hai detto fa pesare a lungo andare i rari dialoghi e le dense elencazioni di eventi: scartafacci, viaggi, coincidenze magiche e fatali, e un protagonista che a volte minimizza i colpi di testa e mostra una Plath tutt'altro che amabile – e se ne apprezza vivamente il coraggio, lontano dalla stucchevolezza dell'elogio funebre, ma la donna suscita nel lettore incomprensioni e antipatie frequenti. 
C'è sempre bisogno di un colpevole. Serve a semplificare le difficoltà insite in ogni matrimonio. Un capro espiatorio a cui attribuire gli sgarbi, e la presa diretta sulla manopola del gas. Impeccabile esercizio di stile, meticolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione metaletteraria, il romanzo Iperborea mi ha lasciato affascinato ma distante. Sette anni insieme che non conoscono poesia, strano ma vero; una relazione di amore-odio che non poteva essere ridotta ai minimi termini. Si ricostruiscono infatti tante cose, con il senno di poi. Mai, purtroppo, i lieto fine.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Karliene (Kate Bush) – Wuthering Heights 

lunedì 13 agosto 2018

Recensione: Dark Hall, di Lois Duncan

| Dark Hall, di Lois Duncan. Mondadori, € 17, pp. 204 |

Si erge come un castello centenario alla fine del sentiero alberato. Per un gioco prospettico sembra ingrandirsi man mano che la macchina si avvicini. Sembra prepararsi a divorarla. I portoni istoriati come fauci. La consapevolezza che ci sia qualcosa di storto a Blackwood, esclusiva scuola femminile ai confini dello stato di New York, colpisce Kit – sedici anni, una madre pronta a scaricarla lì per un secondo viaggio di nozze in Europa – con la forza di un infausto presagio. Saranno le giornate corte, lo scudo degli alberi tutt'intorno, il rigore del corpo docenti a suggerirle forse un aggettivo: malvagio. Siamo in un teen horror su un gruppo di adolescenti e una magione in cui certe notti si fanno labili i confini fra il nostro mondo e l'aldilà. La direttrice dello stabile, l'altera Madame Duret, ha un vago accento francese e l'aria di chi cova tra sé e sé qualcosa di sinistro. Il dormitorio si affaccia su un dedalo lungo e buio per corridoio, le chiavi possono chiudere le camere da letto dall'esterno ma non dall'interno: impossibile, pertanto, dormire sonni tranquilli. Sappiamo insomma che la protagonista – privata della possibilità di tornare a casa prima della vacanze di Natale, senza cellulare, senza internet e senza una migliore amica – non si sbaglia. Qualcosa di strano serpeggia fra le pagine di una compianta pioniera del genere e i cunicoli di un istituto che no, non è la versione vintage di Hogwarts. Nel personale di servizio sembra resistere soltanto una ragazza poco più grande di Kit, addetta alle cucine, che a volte ha il pericoloso vizio di parlare troppo: come spiegare il fuggifuggi dei domestici? I cancelli puntuti separano le studentesse dal resto del paese: protezione o isolamento? Ci sono, soprattutto, tre professori per sole quattro allieve: tanto spietata, ci si domanda, la selezione? Fatta eccezione per Ruth, bruttina con un fiuto eccezionale per le scienze, in classe le altre ragazze non brillano di certo. Madame Duret è stata attratta da qualcos'altro: abilità in erba, soprannaturali, che Kit e le comprimarie devono ancora mettere a fuoco. Le stesse che, amaramente, potrebbero rappresentare la loro distruzione.

C'è qualcosa di strano a Blackwood, qualcosa di sinistro. Lo percepiamo tutte, ma è impossibile da descrivere a parole. Succedono delle cose.

Gli ambienti sono circoscritti, i personaggi elencabili sulle dita delle mani, il fascino è quello sempiterno di atmosfere gotiche che da queste parti fan sempre breccia. L'orrore è nello sfacelo del passato tenutario, chiacchierato misantropo braccato dalla tragedia? La morte, con tanto di falce e cappuccio come nella splendida copertina illustrata, è un'inquietante coinquilina da temere? L'autrice, Lois Duncan, è la stessa dello slasher cult So cosa hai fatto. Ma dimenticate spargimenti di emoglobina o coltellate a destra e a manca. Dark Hall, pubblicato negli anni Settanta e tradotto per la prima volta in Italia in occasione della trasposizione cinematografica tiepidamente accolta, vive – e muore – proprio delle sue ambientazioni. Nessuna vittima, nessuna goccia di sangue versato, tantissime stranezze. Tra incubi, inappetenza e gelori ad agosto, le allieve si scopriranno infatti improvvisamente portate per la musica, la poesia, il disegno e la matematica. Le giovani menti, ricettive agli stimoli e al male, sono delle spugne. Quali sono gli effetti di una cattiva educazione che vorrebbe cambiarci nel profondo, non di certo migliorarci? Kit così si fa coraggio. Ricerca la propria indipendenza, il diritto di avere voce in capitolo, in un piano di studio personalizzato nel dettaglio. Magari, una via d'uscita dal peggio in agguato. Quarant'anni dopo, a sorpresa, l'atipica ghost story della Duncan – l'originalità dello spunto di base, infatti, si rivelerà in tutto il suo potenziale a un passo dalla conclusione – si difende piuttosto bene. Evitando le furberie di una storia d'amore proibita (Kit fantastica proprio sul figlio della direttrice, prodigio del conservatorio). Creando una suspance che terrà senz'altro sull'attenti lettori più giovani e suggestionabili di me (spiace a tal proposito per la piega finale, frettolosa e non all'altezza). Proponendo una prosa godibile e immediata, che non dissimula tuttavia il vecchio amore per le descrizioni particolareggiate e gli spauracchi di classe. Dove il mistero è di casa, ma non la memorabilità. Per un pomeriggio estivo da consacrare ai piccoli brividi.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Paramore – Decode

venerdì 10 agosto 2018

I film che leggeremo: Oscar-Friendly

Il primo uomo 
31 ottobre 2018
Dalle stelle di City of Stars alla luna. Dal musical al biopic a tinte action, sempre facendo tappa presso quel Festival di Venezia, a fine agosto, che già aveva portato fortuna la prima volta. Ryan Gosling è Neil Armostrong, nel film ispirato all'omonimo bestseller di James R. Hansen. La curiosità, onestamente, questa volta vola bassa. Genere abbastanza consolidato da essere venuto a noia, cast che poco osa – la moglie di Armstrong è Claire Foy: guarda caso, compagna di vita del sofferente Andrew Garfield in Ogni tuo respiro – e, unico grandissimo pro, un instancabile Chazelle che punta al firmamento e all'en plein.


Se la strada potesse parlare
30 novembre 2018
Chazelle e Jenkins sono destinati ancora a incontrarsi. Dopo la clamorosa gaffe di due anni fa, si spera vivamente che a fare da arbitri non saranno Beatty e Faye Dunaway. Il regista di Moonlight torna, e un trailer montato ad arte lascia intuire che in ballo abbia stile, impegno e forti emozioni. Adatta un romanzo di James Baldwin, prossimamente in ristampa grazie a Fandango Libri, ma abbandona il mondo LGBT – lo scrittore afroamericano, eppure, è noto soprattutto per il cult gay La stanza di Giovanni – senza tralasciare il razzismo, gli amori proibiti, le strade. Che parlano, sì, e in anteprima al Festival di Toronto forse ci racconteranno una storia destinata a far breccia.


Suspiria
2 novembre 2018 (USA)
In principio c'era Suspiria De Profundis. Romanzo-confessione del giornalista Thomas de Quincey che da un viaggio nell'Italia dell'Ottocento portava con sé un lungo incubo e la conoscenza delle tre Madri. Dario Argento aveva dedicato un film a ognuna di loro. Il primo, a cui avrebbero seguito gli imperfetti Inferno e La terza madre, era Suspiria: cult irripetibile, pronto a farsi remake. Non si storce il naso, però, se a occuparsene è l'esteta Guadagnino. I personaggi mantengono i nomi originali, il cameo di Jessica Harper appare quanto mai doveroso ma, titolo a parte, i due film sembrano avere poco altro in comune. Cambia il taglio – freddissimo, alla Von Trier –, cambia la durata – sfiorerà, pare, le tre ore complessive – e cambia il pubblico, se le streghe di Suspiria sono pronte non troppo a sorpresa a infestare festival solitamente chiusi al genere. Getterà un incantesimo sulla Laguna? E sull'Academy, pronta nel 2019 a mettersi in gioco con una categoria aggiuntiva: quella dei film popolari?


Beautiful Boy
12 ottobre 2018 (USA)
Com'è che si dice? Stagione dei premi che vai, Timothée Chalamet che trovi. Lo straordinario Elio di Chiamami col tuo nome, vincitore morale agli Oscar, non vuole diventare una meteora di passaggio. Tanti progetti nel cassetto – Allen, Villeneuve, Gerwig – e altrettanta voglia di lasciarsi nuovamente stupiti e commossi davanti al primo film americano del regista dello struggente Alabama Monroe. Una storia vera, di padri figli e dipendenze da stupefacenti, in cui Chalamet è il bellissimo (e problematico) ragazzo del titolo, mentre il versatile Carrell è il genitore imperturbabile che vorrebbe ricondurlo sulla retta via: quella che porta a casa. I fortunati lo vedranno sempre a Toronto. Gli altri, aspettando l'uscita italiana, lo leggeranno in libreria con Sperling Kupfer.


Mary Queen of Scots
8 novembre 2018
Si sono incrociate in tempi recenti sul Red Carpet: nominate l'una per Lady Bird, l'altra per Tonya. Bionde, giovani e bravissime, Saoirse Ronan e Margot Robbie condividono il set e la corona nel dramma in costume Mary Queen of Scots. Cugine, amiche-nemiche, rivaleggiano per il regno e per l'Oscar: si trasformano. Se a Soirse donano la treccia rossa e la fierezza dell'appassionata Mary, la bellissima Margot raccoglie il testimone di Cate Blanchett, s'imbruttisce e diventa Elisabetta I. Il romanzo di John Guy porta il nome della prima, ma a giudicare almeno dall'intensità del trailer – con quella sovrana inedita: stempiata, incompresa, sterile – potrebbero spuntarla a sorpresa le fragilità della Non protagonista.


Boy Erased
22 novembre 2018
Adolescenti omosessuali da convertire in nome della fede nell'Altissimo. Se ne era già parlato in The Miseducation of Cameron Post, coming of age vincitore dell'ultimo Sundance Film Festival. Il tema shock sarà lo stesso nel ritorno alla regia dell'attore-regista Joel Edgerton, che per l'occasione adatta di proprio pugno le memorie di Garrard Conley in uscita per le Edizioni Black Coffee e guida un cast stellare con Nicole Kidman e Russel Crowe, gentitori preoccupati, e un Lucas Hedges che alla verde età di ventidue anni indovina come un rabdomante ruoli su ruoli. Teniamolo d'occhio anche nel dramma Ben is Back, in cui è diretto dal padre John e affiancato da una ritrovata Julia Roberts.


The Wife - Vivere nell'ombra
4 ottobre 2018
Le proverbiali donne dietro i grandi uomini. Le attrici fuori classe, sfortunatamente nell'ombra. Colpa dell'età che avanza e di Hollywood che fa di conseguenza marcia indietro, o semplicemente dei progetti sbagliati? Glenn Close e Joan, la protagonista dell'omonimo romanzo di Meg Wolitzer a ottobre in libreria per Garzanti, hanno più di qualche tratto in comune. Che The Wife, un Big Eyes ambientato tuttavia nello spietato mondo della letteratura, possa essere il loro canto del cigno come giura già qualche bookmaker? 

mercoledì 8 agosto 2018

Recensione: Io so chi sei, di Paola Barbato

| Io so chi sei, di Paola Barbato. Piemme, € 18,50, pp. 515 |

Io so chi sei come Non ti faccio niente. Due frasi all'apparenza rassicuranti che, a ben pensarci, nascondono dietro un sottile tono di minaccia. Due modi di incutere paura. Due romanzi della stessa autrice che, per perizia e introspezione psicologica, sembrano rendere limitante la definizione di thriller. Torna attesissima Paola Barbato, anche se era stata sul mio comodino appena qualche mese fa con Bilico: esordio da rispolverare, da rivalutare, che non convinceva fino in fondo con i suoi equilibri malsicuri e un gusto per l'eccesso stancante sul lungo tratto. Sapienza narrativa a parte – ora, per fortuna, posso dirlo scacciando l'ombra del sospetto –, nient'altro a che vedere con la complessità delle pubblicazioni successive. Fino a questo momento, infatti, il dubbio poteva essere ragionevole: che la struggente avventura degli ex bambini di Vincenzo, l'indimenticabile rapitore che lasciava paperelle di gomma sulle sue false scene del crimine, fosse un caso isolato difficile da ripetere? Non si supera ma non delude, a questo giro, la sceneggiatrice di Dylan Dog e la musa di Matteo Bussola, compagno di vita che proprio alla loro storia d'amore ha dedicato un'ultima fatica uscita per Einaudi: un intrigo asfissiante, nonostante le ariose ambientazioni toscane, sui pregi e i difetti dell'essere costantemente rintracciabili nell'era degli smartphone. È sempre dal ritrovamento di un oggetto che si parte: un cellulare ripescato nella buca della posta dalle mani tremanti di Lena, trentaduenne con le borse sotto gli occhi e il cuore incrinato per sempre. Strano accumulo di contraddizioni, quella figlia della Firenze bene: la mortificazione dei vestiti informi, il garbuglio inestricabile dei dreadlock al posto della messa in piega delle brave cocche di papà e l'indolente Argo, molosso tenuto a stento al guinzaglio, cozzano infatti con il curriculum di un'universitaria brillante che ha deluso tutti, perfino sé stessa, in nome di una relazione che la ha imposto un nuovo look e nuove frequentazioni, che l'ha imbruttita dentro e fuori. Dal cellulare sconosciuto prendono ad arrivare messaggi dal destinatario ignoto: il primo dice Io so chi sei, e non suona una premessa troppo inquietante all'orecchio di qualcuno come la protagonista. Una giovane donna che si è tradita irreversibilmente, che purtroppo chi sia non lo sa più. È cambiata per Saverio, ma Saverio non c'è a darle ordini, coordinate esistenziali o tormenti: l'eterno ribelle che ha in comune con il Bern di Divorare il cielo le piccole smanie rivoltose, il pallino per l'ambientalismo, le frequentazioni animaliste, è caduto nell'Arno da ubriaco e non è più riemerso. Restano una bara vuota, i segni di una trasformazione radicale di cui ormai a Lena sfuggono i perché e, a due anni dalla scomparsa dell'uomo, un anonimo interlocutore che a distanza la aizza, ci gioca, la maltratta come fosse un cane da combattimento. Lui che ha sempre nutrito rispetto per le bestie, mai per le persone, e che le storpiava il nome con una canzone degli Articolo 31. Lui Saverio, redivivo desideroso di testare la cieca fedeltà della sposa? O a tramare nell'ombra è forse qualcuno che l'ha tenuto prigioniero e affamato per tutto il tempo e che adesso pretende la merce di scambio dell'obbedienza di Lena?

Tutti gli amori sono malati.

Gli SMS mirano a farne una persona diversa e spregiudicata – ricatta, droga, avvelena, brucia, ammazza. Vittima, sempre, anche quando è lei l'artefice sotto costrizione. 
Proprio come quando appariva un corpo estraneo nella ampia cerca degli amici di Saverio, ora decimati uno a uno. 
Proprio come quando, a metà romanzo, interviene un personaggio che ruba la scena a chiunque: lo sgrammaticato Francesco, gigante in divisa affatto buono, le raddrizza il tiro, porta a termine quello che Lena si rifiuta di fare, la usa come esca travalicando una giustizia al solito malleabile. Tutto pur di acciuffare il colpevole, e di farne carne da macello: con la protagonista, così, destinata a passare dal mostro all'orco come in una fiaba nera, in nome della riconoscenza di coloro che vengono salvati da terzi. Doppiamente manipolata, contesa da amori vandalici, in un implacabile stillicidio lungo 500 pagine questa protagonista debole, duttile e inetta fino all'ultimo si mostra a sorpresa esattamente uguale a noi. Ci affascina e ci irrita, vero, ma faremmo lo stesso se intrappolati in un simile labirinto di bugie. In una gabbia a cielo aperto con vista sul Lungo Arno.

«Non ho più niente da perdere» aveva risposto Lena, per poi aggiungere: «Sono una brutta persona.»
«Tutti lo siamo, la nostra è una brutta specie.»

Si incontrano comprimari innumerevoli – su tutti, nella corte dei miracoli di Saverio impossibile non ricordare Alex e Lucio, esempio di un amore che a volte salva – che a colpi di personalità fortissime sfuggono al classico ruolo castrante dei personaggi minori. Si sovrappongono e confondono i buoni con i cattivi, in un'ambigua matassa di supposizioni errate e grigi sfumati. Si parla di stalking e allievi che superano i maestri, di gabbie costruite nello zoo della nostra mente vulnerabile. Qualche dubbio soltanto per il finale, molto aperto, quando ci sarebbe stato forse tutto il tempo per tirare meglio le fila: da uno spunto all'apparenza abusato, infatti, è venuto già fuori un thriller scorretto e solidissimo. C'è abbastanza materiale per la trilogia nei piani di Paola, scrittrice con una prosa magnetica e cattive intenzioni? Ma ci si affida a occhi chiusi al suo imperscrutabile volere, perché sì. L'orecchio teso, pronti a scattare il giorno in cui il trillo di una notifica ci informerà che il secondo capitolo è in stampa; che le minacce scambiate per gentilezze no, non si sono esaurite sulla costa massiccia di Io so chi sei. Per ironia della sorte, dunque, in scacco quanto una protagonista con un caricabatterie Samsung per collare a strozzo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Police – Every Breath You Take

lunedì 6 agosto 2018

Recensione: Luce d'estate ed è subito notte, di Jòn Kalman Stefànsson

| Luce d'estate ed è subito notte, di Jòn Kalman Stefànsson. Iperborea, € 9,90, pp. 276 |

È stata la lettura dell'intenso Isola, la scorsa primavera, ad allargare i miei orizzonti – sapevo quanto fosse interessante il catalogo Iperborea, da quel romanzo in poi, e possedevo qualche informazione in più sulla bellezza di alcuni arcipelaghi dispersi fra le onde del Mare del Nord. Punto la mia bussola ancora lì, dove ho avuto la fortuna di sentirmi già una volta bene. Torno a perdermi in mezzo ai prodigi e ai misteri di quella Finlandia che mi ha sempre ispirato brividi di freddo e grandi avventure, e lo faccio, al solito, leggendo. Questa volta una ristampa dalla copertina di un magnetismo irrinunciabile, a cura del Corriere della sera, che in edicola ha aperto ai collezionisti le porte della narrativa boreale. Ho il piacere di dirvi che sono stato in un anonimo paesello alla fine del mondo. Meno impermeabile al progresso di quanto in verità ammetta, ma comunque perfetto come scenario di una casa di riposo esclusiva per continentali eternamente stressati. Pensate che non ci sono né chiese né cimiteri. Che la morte, al pari di un'ospite sgradita, è stata messa al bando. Anni fa circolava di mano in mano una petizione per accogliere finalmente sacerdoti e becchini, ma i più non l'hanno firmata per una forma di scaramanzia: perché attirarsi la malasorte, croci e lapidi all'orizzonte, se abbastanza in pace da essere longevi per natura? A morire si muore, certo: non si fanno mica miracoli. Ma i dirimpettai andati al Creatore e gli avi incartapecoriti riposano nelle campagne tutto attorno: gli addetti alle pompe funebri, infatti, sono anche un po' contadini, o viceversa.

A volte nei posti più piccoli la vita diventa più grande.

Un magazzino, una cooperativa, una maglieria con appena dieci impiegati: questi i perni della vita di tutti i giorni. Qualora pensaste però che l'anonimato riguardi anche la routine dei cittadini, vi scoprireste colti in contropiede: il destino, e uno scrittore come Jòn Kalman Stefànsson, a volte sanno essere molto fantasiosi. Uno stimato imprenditore locale, tormentato da inspiegabili sogni in latino, ha trasformato la sua casa in uno spettacolare osservatorio e ha scelto di consacrarsi all'astronomia, benché tutti gli diano del pazzo; una postina sfaccendata, con il dente avvelenato per le email e il sopravvalutato diritto sulla privacy, sbircia e manipola la corrispondenza dei compaesani improvvisandosi dea ex machina; un poliziotto frustrato muore perché senza crimini efferati da combattere, e un ottantenne perché portato via dal vento; i campi intanto ospitano a periodi alterni atti di vandalismo gratuito, fantasmi, infuocate relazioni clandestine. Qualcuno ritorna dopo sei anni d'assenza in nome dell'amore, qualcun altro si dà agli elogi della vita da camionista se il mondo ammette spesso furbastre scorciatoie. Un contadino in viaggio a Londra scopre che i musei egizi non sono che polvere, in confronto ai dettami del cuore; un politico scrive invano la propria autobiografia e un modesto attore si reinventa proiezionista, mentre a largo, come fossero sirenette belle e fatali, danno nell'occhio donne straniere con costumi sgambati.

Per quale motivo ho vissuto? Che questi racconti di vita e di morte nel nostro paese e nelle campagne intorno siano una sorta di risposta a quella domanda, e al senso d'incertezza che ne deriva? Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l'essenza che però si allontana sempre più come l'arcobaleno. Nelle storie antiche si dice che l'uomo non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza dubbio vale lo stesso per quello che cerchiamo – la ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe.

Buffo, malizioso e trasognato, Luce d'estate ed è subito notte è un romanzo per racconti in cui un ironico narratore collettivo immortala quattrocento anime e una manciata dei loro pittoreschi portabandiera, affinché per il bene dei posteri e dei turisti siano preservate le bizzarrie, le peculiarità e la magia natale. I tratti, infatti, sono quelli propri della tradizione del realismo magico; di un lirismo venato di leggerezza che si lascia amare, sì, ma a piccoli bocconi. Pagine incredibili e scorci da incorniciare fanno divorare il romanzo (inoltre è estate: c'è luce fuori, come da titolo, e sono ancora lunghe le giornate d'ozio), e il rischio che venga un po' a noia, che si faccia indigestione di storie come di dolci in mano a un bambino goloso, potrebbe essere elevato. Senza troppa sorpresa, tuttavia, il calore (umano soprattutto) non manca. Di questa vacanza piena di cartoline e souvenir resteranno i ricordi di una colazione con vista sul mare; una raccolta di aneddoti ed esistenze straordinarie a confine ora con i poli artici, ora con l'antologia poetica.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Coldplay – A Sky Full of Stars