domenica 30 aprile 2017

Recensione: Tutta colpa della mia impazienza, di Virginia Bramati

Titolo: Tutta colpa della mia impazienza (e di un fiore appena sbocciato)
Autrice: Virginia Bramati
Editore: Giunti – A
Numero di pagine: 240
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Sono nata con due mesi di anticipo, sono fisicamente allergica ai tempi morti e adoro il tasto fast forward": Agnese è così, una ragazza esuberante, autonoma, insofferente verso tutto ciò che frena la sua corsa. Ma improvvisamente, la vita prende una piega terribilmente dolorosa e la scaraventa dal centro di una metropoli che non dorme mai a una grande casa lungo un fiume, immersa nei ritmi immutabili della campagna e circondata da curiosi personaggi che solo in provincia si incontrano: il conte proprietario di tutte le terre circostanti, una anziana signora dagli occhi ciechi ma dalla memoria vivissima, un ragazzo bello e strano segnato da un grande dolore... Agnese reagisce come sempre, impulsiva fino all'autolesionismo. Ma mentre l'inverno finisce e tutto comincia a fiorire, ecco nuove sorprese per lei: dalle pagine di un libro riemerge una bustina di semi di Impatiens, la pianta i cui fiori rosa curano le ferite dell'anima, e la solitudine della sua grande casa è spezzata dall'arrivo di un giovane medico, misterioso e affascinante come una domanda sussurrata nella notte...
                                               La recensione
Il primo romanzo di Virginia Bramati che leggo fa parte di quella categoria di libri che pilucco in attesa del corriere. L'ho ricevuto a sorpresa un giorno e ho iniziato a sfogliarlo non molto tempo dopo, tra una cosa e l'altra, pronto a riporlo e a rispolverarlo all'occorrenza. La durata della relazione tra me e Tutta colpa della mia impazienza dipendeva dallo squillo del citofono. Agnese Treves, diciannovenne friccicarella e intrigante, ha saputo imporsi però in quella maniera tutta sua. Come osavo abbandonarla prima dell'ultimissima pagina? Così, piacevolmente persuaso, ho soggiornato nell'immaginaria Verate più del previsto: vitto e alloggio compresi, e con la compagnia di anfitrioni dalla parlantina assai coinvolgente. Ambientato nell'estate della maturità, Tutta colpa della mia impazienza segue il trasferimento della protagonista milanese – impaziente come da titolo, a tal punto da considerare la lettura una colossale perdita di tempo – nella suggestiva campagna brianzola. Sono già passati cinque mesi da quando, testarda e iperattiva com'è, piangeva la nuova routine da pendolare, la monotonia del panorama campestre, la perdita di una persona cara. 
Sua madre, stimata insegnante, è morta in un incidente in alta montagna. Agnese e suo papà, in viaggio per riprendersi dalla vedovanza, non si danno pace ma intanto fingono di star meglio. La nostalgia e la solitudine spingono la protagonista a stringere amicizia e a scambiarsi qualche bacio con Adelchi: in lui, un altro studente pendolare, ha riconosciuto un dolore simile e ha trovato un compagno di viaggio. Il ragazzo cerca di trasmetterle il proprio amore per i fiori, di farla innamorare di lui, ma Agnese ha la testa altrove. Nonostante gli orali alle porte e una disastrosa prova di matematica, lei è presa dalle lotte contro i mulini al vento – nello specifico, un club di tennis aperto soltanto ai “gentiluomini” –, da un mistero – chi ha ucciso il padre di Adelchi, rinvenuto nell'Adda con la camicia di qualcun altro -, dallo sguardo sfuggente del dottore Marco Aleardi. La convivenza con l'impegnato sostituto del padre, più grande di lei di una decina di anni, mette alla prova i suoi ormoni. Perché, come in certi romanzi, il medico di campagna di turno non somiglia propriamente a Giulio Scarpati, ma ha un passato avventuroso in Sudan e una bella silhouette in boxer. Tutta colpa della mia impazienza, avrete intuito, mi ha discretamente divertito. 
Un po' commedia, un po' young adult, con una galleria di personaggi simpatici – su tutti Margherita, la libraia che consiglia ad Agnese di cambiare idea sui libri con lo zampino di Pennac – e un paesello del nord, autentico protagonista, popolato da falsi benpensanti e benefattori sospetti. Ci sono le rovine di una vecchia cartiera, figuranti dai titoli nobiliari obsoleti, orti punteggiati di boccioli e profumi. Ci si prende cura, lì, del cuore dei nuovi arrivati e del giardino. Ma il fatto di conoscersi, di essere tutti mezzi imparentati, porta spesso a chiudere un occhio di fronte alle irregolarità. La Bramati, colorata e lieve, potrebbe essere una sostituta della Gazzola – chissà – quando la sessione mette agitazione e Alice Allevi è in ferie. In comune: il pretesto di un giallo da svelare, le eredità della zia Austen, triangoli in cui spiccano amanti giramondo (con sorellastre egocentriche annesse). Si lascia il capoluogo per un sobborgo ignorato perfino da Google Earth, e spaventano il posto vuoto a tavola e i cambiamenti grandi e piccoli. La natura, però, mette di buonumore. All'improvviso in Agnese c'è voglia di aspettare un'altra primavera. Il desiderio di godersi la gioventù senza sbuffare, tenenendo il tempo col piede, pensando a chi hai detto addio. A cosa porta, insomma, la tanto biasimata impazienza? A prendersi sbandate impreviste, a fare scelte avventate, a sventare congiure di provincia. A dare un colore, una svolta decisa, alla calma stagnante di questa nostra mezza stagione.
Il mio voto: ★★★ +
Il mio consiglio musicale: Malika Ayane – Feeling Better 

venerdì 28 aprile 2017

Recensione: Le cose che abbiamo perso nel fuoco, di Mariana Enriquez

Sono gli uomini a fare i roghi, piccola. Ci hanno sempre bruciato. Ora ci bruciamo da sole. Non per morire, ma per mostrare le nostre cicatrici.

Titolo: Le cose che abbiamo perso nel fuoco
Autrice: Mariana Enriquez
Editore: Marsilio – Farfalle
Numero di pagine: 208
Prezzo: 16, 50
Sinossi: Piccoli capolavori di realismo macabro che mescolano amore e sofferenza, superstizione e apatia, compassione e rimpianto, le storie di Mariana Enriquez prendono forma in una Buenos Aires nerissima e crudele, vengono direttamente dalle cronache dei suoi ghetti e dei quartieri equivoci. Sono storie che emozionano e feriscono, conducendo il lettore in uno scenario all’apparenza familiare che si rivela popolato da creature inquietanti. Vicini che osservano a distanza, gente che sparisce, bambini assassini, donne che s’immolano per protesta. Quello di Mariana Enriquez è un mondo dove la realtà accoglie le componenti più bizzarre e indecifrabili della natura umana, e dove il mistero e la violenza convivono con la poesia. Sullo sfondo di un’Argentina oscura e infestata dai fantasmi, con la sua brillante mescolanza di horror, suspense e ironia, Le cose che abbiamo perso nel fuoco ha fatto di Mariana Enriquez la risposta contemporanea a Edgar Allan Poe e Julio Cortázar, la voce più interessante della nuova letteratura sudamericana. Una voce intensa e diretta, che racconta di personaggi brutali e talvolta buffi trascinando il lettore in una spirale fascinosa e disturbante, cui è difficile resistere.
                                                  La recensione
Mi vengono in mentre The Babadook, A Girl Walks Home Alone at Night, Under the Shadow. Tre film del circuito indipendente, di donne o sulle donne, a riprova di come l'horror contemporaneo abbia smesso di essere un genere declinato soltanto al maschile. Si affermano registe e scrittrici di talento. Prendono piede storie dallo sguardo profondo, femminile, che portano l'orrore a un livello diverso. Fatta eccezione per la bellissima opera prima di Jennifer Kent, australiana che scandagliava i demoni della perdita, non ho trovato le parole per parlarvi delle vampire in bianco e nero venute dall'Iran o dei soffitti sbrindellati a Teheran. Mi sono piaciuti, ma qualcosa sfuggiva. Una simbologia sconosciuta, un contesto lontano, la politica tra le righe.
Spostandoci dal Medio Oriente a Buenos Aires, potrei dire lo stesso della raccolta di Mariana Enriquez. Le cose che abbiamo perso nel fuoco prende il titolo dall'ultimo di dodici racconti brevi e brevissimi – a mio dire, il migliore. Troviamo, in ordine sparso, mendicanti ridotti a carne da macello; case abbandonate; le spaventose allucinazioni indotte dalle droghe, dalla stanchezza di un neonato che non smette di frignare, da un licenziamento che ci ha lasciato gli psicofarmaci al posto della buona uscita; gli amici che si barricano in casa e dicono addio al mondo, le amiche che si perdono e le conoscenze superficiali che ci traviano; i segreti dell'acqua stagnante e di fiamme che divampano da sé, per opporsi a alla caccia alle streghe. Con parole di fuoco la Enriquez descrive gli altarini ai bordi delle strade, le chiese profanate, gli orfani cresciuti nella deformità. 
C'è un sole rosso in cielo. Nella raccolta, ville decadenti e mercati coperti, fantasmi vendicativi e divinità pagane. Le cose che abbiamo perso nel fuoco è crudele, altero, nero. Fastidiosissimo, con immagini scabrose e dettagliate, ma mai insostenibile. Sarà che ha una prosa che affascina intimamente. E i mostri marini di Lovecraft, e i bambini curiosi del primo King, e la psicologia di Allan Poe. Si beve tutto d'un fiato, con il rischio che possa strozzarti – spaccato autentico di un Paese amorale, che ha vissuto più dittature che giorni di pace. Restano i teschi ornati di lucine, le donne sfregiate con l'acido, militari dal pugno di ferro che molestano le cameriere nell'indifferenza generale. Alcuni episodi sono miratissimi, di altri ho fatto fatica a capire il messaggio. Ho sussultato e mi sono detto sì, e allora? Qual è il prosieguo? Qual era il punto, ché forse mi sono distratto un attimo? A volte, come nei film citati, manca la chiave di lettura; altre, invece, la si intuisce a colpo d'occhio. La curiosità non viene appagata in quei racconti che finiscono coi punti di sospensione e una pagina bianca. Allora non restano che la suggestione e l'inquietudine della sirena Enriquez – una che denuncia, divide, terrorizza. E, del fuoco delle pire della sua Argentina, la bellezza sinistra delle cicatrici.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Johnny Cash – Ring of Fire 


mercoledì 26 aprile 2017

Recensione: Eppure cadiamo felici, di Enrico Galiano

Sai perché mi scrivo tutti i giorni sul braccio quelle parole, “la felicità è una cosa che cade”

Titolo: Eppure cadiamo felici
Autore: Enrico Galiano
Editore: Garzanti
Numero di pagine:
Prezzo: € 16,90
Numero di pagine: 384
Sinossi: Il suo nome esprime allegria, invece agli occhi degli altri Gioia non potrebbe essere più diversa. A diciassette anni, a scuola si sente come un’estranea per i suoi compagni. Perché lei non è come loro. Non le interessano le mode, l’appartenere a un gruppo, le feste. Ma ha una passione speciale che la rende felice: collezionare parole intraducibili di tutte le lingue del mondo, come cwtch, che in gallese indica non un semplice abbraccio, ma un abbraccio affettuoso che diventa un luogo sicuro. Gioia non ne hai mai parlato con nessuno. Nessuno potrebbe capire. Fino a quando una notte, in fuga dall’ennesima lite dei genitori, incontra un ragazzo che dice di chiamarsi Lo. Nascosto dal cappuccio della felpa, gioca da solo a freccette in un bar chiuso. A mano a mano che i due chiacchierano, Gioia, per la prima volta, sente che qualcuno è in grado di comprendere il suo mondo. Per la prima volta non è sola. E quando i loro incontri diventano più attesi e intensi, l’amore scoppia senza preavviso. Senza che Gioia abbia il tempo di dare un nome a quella strana sensazione che prova. Ma la felicità a volte può durare un solo attimo. Lo scompare, e Gioia non sa dove cercarlo. Perché Lo nasconde un segreto. Un segreto che solamente lei può scoprire. Solamente Gioia può capire gli indizi che lui ha lasciato. E per seguirli deve imparare che il verbo amare è una parola che racchiude mille e mille significati diversi.
                                                  La recensione
I romanzi young adult nelle mie corde li riconosco subito. Questione di allenamento, di letture per giovanissimi smistate con il lanternino: ora che il superlativo assoluto mi calza e non mi calza, come quel vecchio paio di jeans saltato fuori col cambio di stagione, sono diventato più selettivo nelle scelte. Eppure cadiamo felici faceva pendant con la mia vena malinconica sin dal titolo. Mi piacciono, si sa, protagonisti un po' così. Presi da hobby inconsueti, fuori posto, vestiti sempre nero su nero. Se non è chiedere troppo, magari, dotati di un'armatura superficiale di romanticismo difettoso, cinismo spiccio e inconsueto buon gusto. Nell'intimità perciò ci si chiama “Cosa” e “Articolo determinativo”, si impreca a suon di “Pianeta di merda”, suonano doverosi i riferimenti alle buste volanti di American Beauty e ai maiali (volanti anche quelli) dei Pink Floyd. Gioia, ribattezzata Maiunagioia, si imbatte nel cappuccio scuro di Lo una sera in cui vorrebbe scappare da tutto: i genitori che fanno tremare le palazzine popolari a forza di darsi addosso, il farfugliare di una nonna che solo la musica classica sa illuminare a sprazzi, un liceo in cui non è nel novero delle ragazze in. Lui si fa vedere di notte, temporeggiando quando si tratta di confidarsi. Hanno entrambi diciassette anni e sono strani, ognuno a modo suo. 
Lei colleziona termini intraducibili, se li appunta a penna sulle braccia e nei taccuini: la gente parla con il pilota automatico, filtra le conversazioni per colpa dell'insincerità, e Gioia resta fan delle parole intraducibili e delle persone limpide. Lui invece vaga con un barattolo pieno di pietre: un sasso per ogni posto importante in cui è stato; l'indizio di un dolore che minaccia di portarlo a fondo. Dove finisce il ragazzo quando a un certo punto scompare? E se per tutto il tempo fosse stato della stessa materia di cui sono fatti Tonia, sboccata amica immaginaria, e i sogni di una Gioia vittima del dubbio? Insomma, ci sono una ragazza sui generis che si innamora di un ragazzo sui generis. Sono felici finché dura. Ma c'è qualcosa che non va. Un segreto eluso, il mistero dell'assenza, il confine invisibile tra lucidità e palpitazioni. Qual è allora la differenza tra Eppure cadiamo felici e altri drammi del filone? L'autore, Enrico Galiano. Uno che dissemina poesie per la città riempiendo il mondo di bellezza. Uno che ama il suo mestiere sottopagato, e si vede. Un bel tipo davvero. Il professore che voleva essere John Keating fa il suo esordio nella narrativa, e ci mette la passione, la giusta profondità e gli adolescenti in carne e ossa a cui deve avere prestato ascolto tra i banchi. La lettura di Eppure cadiamo felici fila a meraviglia nonostante le quattrocento pagine – è intelligente, immediata, piena di spunti di riflessione vincenti.
Assenti: la furbizia del collega D'Avenia, i toni da grillo parlante, le frasi a effetto che ammiccano a Facebook. Purtroppo o per fortuna, ché dipende dai punti di vista, anche il dolore di un Raccontami di un giorno perfetto. Ho sorriso spesso, sperato forte, ma a un certo punto l'emozione avrebbe avuto bisogno di una spinta decisiva per prendere il largo. Discreto e di indole poetica, Galiano sceglie per i suoi personaggi bellissime fisse – le fotografie scattate ai passanti di spalle, un glossario unico nel suo genere – e ritaglia per sé un alter ego, il prof di filosofia, che risponde di buon grado ai buongiorno e alle domande a proposito della paura, dell'incomunicabilità, di un mondo contro. Ma, accoppiati dal destino, la guerra non è persa. In due si fa meno fatica a parare i colpi. A scuola da Galiano i sentimenti hanno le parole delle favole di Apuleio, e il mito parla proprio di Gioia e Lo. Psiche sposa Amore, ci dorme assime, ma non può guardarlo neanche alla luce di una candela: rotto il buio, volerebbe via. Perché non incontrarsi in pubblico e passeggiare sotto il sole? Il primo amore, quello lento e totalizzante, dev'essere per forza perdita di raziocinio? In Eppure cadiamo felice somiglia tanto alla via maestra scorta lungo un sentiero di sassolini. A un qualcosa di intraducibile, anche se l'autore ci prova. “Abbacinare” emagari”, mi ha insegnato, sono alcune delle parole care a Gioia Spada. Esistono solo in italiano. Prova a spiegarla a uno straniero, la storia di due che si attraggono e si accecano insieme; che l'interiezione deriva da un aggettivo greco, “felice”, e che insieme esprime il desiderio irrealizzabile che in fondo è, appunto, la felicità stessa. Una cosa che cade. Il punto preciso in cui hai perso le chiavi di casa. Un termine da coniare dal nuovo, per voi che alla felicità avevate rinunciato – come la volpe del proverbio con l'uva acerba. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: James Bay – Let it go


lunedì 24 aprile 2017

Recensione: Anime scalze, di Fabio Geda

Le madri contengono. Ogni cosa. Fratelli e sorelle accompagnano.

Titolo: Anime scalze
Autore: Fabio Geda
Editore: Einaudi – Stile Libero
Prezzo: € 17,50
Numero di pagine: 224
Sinossi: Ercole è asserragliato sul tetto di un capannone, armato e circondato dalla polizia. Con lui c'è Luca, che ha sei anni. Come sono finiti lassù? Ercole Santià trascorre l'infanzia ricucendo gli strappi quotidiani della vita. Lui e sua sorella Asia tirano avanti a stento - con fantasia e caparbietà - insieme al padre, un personaggio tanto inadeguato quanto innocente; eppure, come tutti, crescono, vanno a scuola, s'innamorano. Finché, all'improvviso, ogni cosa attorno a Ercole inizia a crollare. Niente sembra in grado di fermare la slavina che lo sta travolgendo, nemmeno Viola, la ragazza che da qualche tempo illumina i suoi giorni. Convinto che quello di incasinarsi sia un destino scritto nel sangue della propria famiglia, è sul punto di arrendersi quando viene a sapere che la madre, di cui non ha notizie da anni, abita non lontano da lui. L'incontro con la donna lo metterà di fronte alla necessità di reagire compiendo una scelta drammatica. L'unica possibile, forse, se vuole cambiare il proprio destino e proteggere le persone che ama.
                                                  La recensione
Ci sono quei romanzi per cui fai il conto alla rovescia e quelli come Anime scalze, che vedi una volta di sfuggita e non sai nulla sul loro conto, se non che vuoi leggerli presto. Non ne aspettavo l'uscita. L'ho visto sul sito, con la sua copertina illustrata, e la Einaudi è stata così generosa da farmene avere una copia. Conoscevo l'autore di fama e per uno scambio di battute a proposito del suo Berlin: una serie per ragazzi che non mi aveva impressionato, ai tempi del primo volume, e non ero stato così volenteroso da voler proseguire. Posso dire di averlo conosciuto qui, così. Posso dire di averlo apprezzato a tal punto da andarmi a recuperare il prima possibile i suoi romanzi precedenti. Nel bene e nel male, Anime scalze me lo facevo diverso. Mi aspettavo storie di sobborghi stagnanti e gioventù bruciate, i tiri mancini di Ammaniti. Credo sia il primo libro, dopo tanto tempo, che leggo a scatola chiusa. A ridosso dell'uscita. Mi hanno stupito i toni concitati, giovanili. Una narrazione che conosce la frenesia di una famiglia fatta a modo suo, ma anche la leggerezza dei giorni pari.
Geda non è interessato alla mestizia a tutti i costi. Al peggio dei Santià, gente che si arrangia da generazioni. Ma a Ercole, e autenticamente. L'autore, infatti, non invade i suoi spazi. Non ne copre la voce. Non lo mette nei guai per avere risvolti più degni di interesse. Gli concede una crescita bellissima. Qualche farfalla allo stomaco e qualche bivio a cui fermarsi, contando fino a dieci. Il protagonista, quindici anni, vive un'esistenza modesta. Si muove in una Torino grigia, in un contesto difficile, che forma in fretta il carattere. E' un adolescente raro, che non si sporca e non scende a patti. Divide la casa con un padre irresponsabile ma dolce che, se capita, rubacchia qui e lì, e con Asia, sorella maggiore e lavoratrice instancabile, che all'improvviso annuncia di volere andare a vivere con il fidanzato. Il trasferimento imminente somiglia a un abbandono: l'ennesimo. E poi c'è Viola, con cui passeggiare al cimitero comprando fiori per tombe di perfetti sconosciuti e leggere L'amico ritrovato stesi su un prato. Una ragazza bellissima, di buona famiglia, con la quale viene naturale darsi ai paragoni e non sentirsi all'altezza. Fabio Geda parla del primo amore, del viaggio, del sangue. 
Del lavoro dei fratelli maggiori, che a volte danno violenti strattoni agli adulti per farli pensare. Di una mamma trovata dopo sette anni, attraverso un rocambolesco vagabondare per i campi piementosi: adesso ha un figlio piccolo, Luca; gli abiti di un uomo sulla spalliera dalle sedia; più di qualche spiegazione da dare. La curiosità di sapere che fine ha fatto, perché l'ha fatto, ha rimpiazzato il rancore. Le cose possono andare forse sempre male? Crescere comporta ovunque la stessa fatica? Il difetto: la folgorazione dell'incipit, durissimo, ti promette una deriva diversa. Ho pensato al protagonista del bellissimo Ti prendo e ti porto via, al posto sbagliato nel momento sbagliato. Buono nel profondo, ma dal destino segnato da un gesto avventato. Ci si arriva a tempo debito, alla svolta annunciata, ma senza grandi traumi. I ritmi sono diversi, più sonnacchiosi e pacifici. Come quelle estati che ci spossano; come quelle adolescenze da esplorare. L'assedio, le volanti della polizia, non sono in realtà il momento clou. Aspetti qualcosa che non capita – un colpo di testa, un segreto svelato, una catastrofe che faccia pendere gli equilibri dalla parte sbagliata. Ciò che resta è però un romanzo sincero, tenero, a me molto vicino. Nel linguaggio: asciutto ma nostalgico, tendente ai voli pindarici. Nei temi: le scelte fatte e quelle subite, le famiglie in cerca di nuove conformazioni, i cambiamenti a cui opporsi per paura di scoprirsi tagliato fuori. La riscossa delle anime scalze, che imparano a farsi notare. A lasciare impronte. Finalmente, a fare rumore.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Vasco Rossi – Anima Fragile

sabato 22 aprile 2017

Mr. Ciak: The Edge of Seventeen, La cura dal benessere, Famiglia all'improvviso, Baby Boss, Piuma

Nadine convive con il trauma della morte del padre, una mamma protettiva, un fratello vanesio ma non vuoto come il luogo comune vorrebbe. La sua migliore amica, la sola, le ha spezzato il cuore. A scuola la fanno distrarre un insegnante esasperato, che la protagonista deve avere scambiato per uno sportello psicologico, e il classico ragazzo bello e dannato. Eppure The Edge of Seventeen non è il classico film teen. Di certo, non un'altra stupida commedia americana. Esordio fortunatissimo nel circuito indipendente - la protagonista è arrivata anche ai Golden Globe -, è una fotografia agrodolce della vita liceale. Ci sono i pro e i contro, il pessimismo cosmico, le beffe di Madre Natura. Un'eroina sconsolata che, in cerca della propria autenticità, si perde e si ritrova. Nadine non è particolarmente bella, non è particolarmente popolare. Costretta alla crudeltà per legittima difesa, si rende una una spina nel fianco pur di non essere ignorata. Sboccata, egocentrica, sprezzante, è fieramente chiusa nella propria misantropia: barricata dietro i musi lunghi e i vestiti brutti; nella lotta contro i mulini al vento, gli adulti e il suo nemico numero uno – se stessa. Solo lei soffre, infatti. Solo lei ama non ricambiata. Solo lei ha ragione, mentre chi le sta accanto ha torto marcio. A essere sbagliati sono l'universo, gli altri, o proprio lei? Hailee Steinfeld, qui brutto anatroccolo, è adorabile con le sue smanie, il suo cinismo e gli scarponi che danno nell'occhio: sui Red Carpet, intanto, fa girare le teste. Il titolo originale parla dell'adolescenza come fosse una vertigine. Un bordo, un limite. Ma tranquilli, dice, se vi sbucciate le ginocchia. Se baciate le persone sbagliate, rispondete male e ve ne pentite. A un tratto rinsavisci. Hai tanto tempo, tanta vita ancora, per rimediare. Per fare pace con il tuo riflesso allo specchio, mattina dopo mattina. (7)

Lockhart, giovane rampante a Wall Street, viene spedito in una spa all'ombra delle alpi per ricondurre all'ovile un importante azionista. Chi, in fondo, non sarebbe lieto di soggiornare in un simile paradiso? Bloccato con una gamba rotta nel castello – teatro, duecento anni prima, di un amore finito nel fuoco –, Lockhart si infatuerà della sfuggente Hannah e, in cerca della verità, tornerà dal suo trattamento cambiato nel profondo. Sano o malato? La cura dal benessere, nuova creatura dell'inaffidabile Verbinski, è un'esperienza curiosa. Ha una durata spropositata, una straordinaria estetica burtoniana, un gusto tipicamente europeo. Lo spettatore, dall'inizio alla fine, ne è in balia. Avevo provato qualcosa di simile, vagamente, seguendo le stranezze  di The OA – e dal gioiello Netflix, neanche a farlo apposta, Verbinski prende in prestito lo scienziato pazzo di Jason Isaacs. Se però nella serie TV il gioco valeva la candela, lo stesso non può dirsi di questo ibrido riuscito a metà. Un horror con lo spunto di Shutter Island, le montagne innevate di Youth e i degenti sui generis di The Lobster, che sembra un gioco punta e clicca. Un'indagine nei territori del romanzo gotico e della mente umana, in cui il senso di attesa – in definitiva, mal riposto – porta all'affermarsi di una progressiva frustrazione. In due ore e venti di incesti, corpi in formaldeide e anguille, La cura dal benessere si rivela squilibrato e a tratti senza capo né coda. Ci sono buchi narrativi imperdonabili, scene visionarie splendide ma assolutamente fini a loro stesse – il sontuoso ballo finale, la sequenza di un Lockhart annaspante mentre il suo infermiere si trastulla –, dettagli che vanno al posto sbagliato o restano sospesi nel loro brodo primordiale. Verbinski risponde con un comparto tecnico impeccabile, il carisma del promettente DeHaan, la seduzione di Mia Goth (che a volte è bella, altre brutta, ma nel dubbio si fa contemplare). La sua: una terapia claustrofobica, irrisolta, piuttosto superficiale. Un pasticcio di idee, echi, volontà incoerenti. Ma un pasticcio di quelli affascinantissimi, e tanto basta. (6)

Samuel mette la testa a posto nel momento in cui si scopre padre. Tocca farlo, se la mamma di sua figlia gli lascia la neonata tra le braccia e scompare. Il protagonista parte per Londra in cerca della genitrice in fuga. Rimarrà lì, dopo aver trovato lavoro come stuntman e rinunciato alla speranza di dare una madre alla piccola Gloria. Finché, otto anni dopo, la fuggitiva non torna all'ovile. Famiglia all'improvviso è il remake di una commedia messicana vista qualche anno fa, Instructions Not Included: una chicca imperfetta ma emozionante, con una protagonista dolcissima e una svolta finale da crepacuore. La copia carbone dei francesi – di solito, quelli destinati a essere riadattati, non a riadattare – piacerà, forse, a chi non sa bene cosa aspettarsi. A chi della pellicola originale non ha conosciuto il calore e i difetti grandi e piccoli – una durata eccessiva e la serietà della parentesi giudiziaria, anche qui superflua e furbissima. La storia cambia lingua e colore, e nella traduzione trova quella retorica, quella stucchevolezza, di cui non reputavo capace il cinema d'oltralpe. Il remake parigino ambientato in Inghilterra sembra una produzione statunitense. Con gli sfarzosissimi loft dai mattoni a vista, gli stereotipati amici gay, la bambine ricciolute che scorazzano in giro come in Annie e un Omar Sy, venuto già a noia, che vorrebbe essere Will Smith. Una falsa americanata, insomma. Di quelle patinate, ricattatorie, che del vecchio film fa proprie le pecche ma non l'onestà. Che si lasciano guardare a guance asciutte, e da chi ha lasciato i dotti lacrimali sfitti in attesa che This is us, a proposito di genitori e figli, di famiglie allargate, torni a farci disperare come questo Hugo Gélin qualsiasi non sa. (5,5)

L'usurpatore è arrivato in casa in taxi. Indossava un completo scuro e uno di quei sorrisi che fanno fessi gli adulti. Si è introdotto nella famiglia perfetta. Solo Tim sa che il nuovo arrivato, però, non è innocente come appare. Sembrerebbe l'intreccio di un thriller home invasion. Siamo, invece, all'interno dell'ultimo cartone DreamWorks. Colui che ha stravolto gli equilibri di una famiglia come tante altri non è che un neonato. Un fratello minore tenero e dispotico, che monopolizza le attenzioni, toglie il sonno e, sul suo seggiolone, ordisce congiure insieme ai malefici bimbi del vicinato. Da dove vengono i bambini? Cosa fanno quando nessuno li tiene d'occhio? In Baby Boss non li portano le cicogne né crescono sotto i cavoli. Qualcuno di loro, infatti, si forma in una compagnia esclusiva in cui si resta imberbi per sempre e si combatte la concorrenza spietata dei cuccioli, amatissimi sui social. E se smettessimo di fare figli, un giorno, preferendogli il cane dei sogni? Tra allegre contaminazioni di generi e citazioni – dall'Esorcista al Signore degli anelli, chi ne ha, più ne metta -, pappe e guance cicciottelle, Baby Boss è un intrattenimento spassosissimo, educativo e originale nell'approccio. Racconta le rivalità in famiglia come in una storia di spie (in pannolino). Ricorda l'importanza dei legame di sangue – i parenti purtroppo non li scegli e non puoi neanche rimandarli indietro, tocca farseli piacere scovando il meglio – con una leggerezza gradevole, ma incapace di durare nel tempo. Per chi dai fratelli maggiori ha ereditato i panni smessi e i giocattoli usati. Per chi, come me, dai minori ha preso tutto il resto – complessi di inferiorità inclusi. (6,5)

Ferro e Cate hanno fatto una cazzata epocale. Glielo rimproverano tutti. Adolescenti o poco più, si sono imbarcati in un'impresa più grande di loro: diventare genitori. Pensano di tenere la bambina. Vorrebbero chiamarla così, Piuma, come augurio di leggerezza. Presentato al Festival di Venezia, accolto dalla severità dei fischi in sala, la commedia di Roan Johnson aveva disseminato il tappeto rosso di simpatiche paperelle di gomma. Aveva provato invano a portare una ventata di freschezza nel rigore della nostra kermesse. Di chi era la colpa: della critica ufficiale, notoriamente intransigente, o di un film troppo modesto per un cinema italiano che ci ha regalato numerosi fiori all'occhiello? La verità sta nel mezzo. Piuma è un lungomotreggio senza grandi ambizioni e senza grossi meriti. Male non gli si vuole, ma il Juno dalla cadenza romanesca – qui, a tratti, decisamente fastidiosa – ha esordienti spontanei e una sceneggiatura risicata. Le arie da commedia indie, giustificate nelle sequenze oniriche a pelo d'acqua, si incontrano e si scontrano con situazioni concepite calcando la mano; con personaggi chiassosi, nevrotici, che non rimpiangevamo. Le minacce d'aborto portano i protagonisti a passare l'estate a casa, rinunciando al viaggio della maturità. I compagni ritornano vittoriosi, tra tentazioni e conquiste amorose. L'appartamento si restringe, con una piscina gonfiabile in salotto, due genitori litigiosi e un papà scansafatiche, un nonno con procace fisioterapista al trotto. E ci si ripensa ma ci si ravvede. E si esagera, a volte, con la commedia goliardica – quella delle famiglie allargate, dei tradimenti immotivati, dei figli venuti a colpo sicuro: I Cesaroni, per intenderci –, preferita provincialmente a quella indipendente. (5,5)

giovedì 20 aprile 2017

Sipario #1: Piccoli crimini coniugali, di Eric-Emmanuel Schmitt

Leggendo i botta e risposta dei protagonisti di Schmitt, ho deciso di usare la sua pièce come scusa per dare il via a una rubrica su cui fantasticavo da qualche tempo. Nasce così, senza impegno, Sipario. Mi sono laureato lo scorso dicembre con una tesi in Letteratura teatrale, infatti, e ho già sulla scrivania qualche dramma di Becket e Pinter per l'esame di Storia del teatro inglese, da preparare nella prossima sessione. Perché, mi sono detto, non unire l'utile al dilettevole e parlarne anche a voi? Perché non cominciare da qui?
Quando vedete un uomo e una donna davanti al sindaco o al prete, chiedetevi chi dei due sarà l'assassino.

Titolo: Piccoli crimini coniugali
Autore: Eric-Emmanuel Schmitt
Editore: E/O
Numero di pagine: 141
Prezzo: € 9,00
Sinossi: Gilles è vittima di un misterioso incidente. Ritorna a casa dall’ospedale con la moglie Lisa. Ha perduto la memoria. Lui chi è? E chi è Lisa? Com’era la loro vita di coppia? A partire da ciò che lei gli racconta, Gilles cerca di ricostruire la propria vita. Ma se Lisa mentisse? Lui è proprio così come lei lo descrive? E lei è veramente sua moglie? Attraverso il serrato dialogo e i continui colpi di scena si fa strada una verità inattesa. Il lettore si trova continuamente spiazzato. A chi bisogna credere? La vita matrimoniale è davvero questo inferno di crudeltà mentale? E quando vediamo un uomo e una donna davanti al sindaco o al prete, dobbiamo veramente chiederci quale dei due sarà l’assassino?


                          La recensione
La scenografia è quella tipica dei drammi borghesi. Un salotto. Quadri alle pareti, una poltrona all'ombra di una lampada a stelo. Sullo sfondo, una scala a chiocciola che si arrampica ai piani superiori. Scene di un matrimonio al di sopra di ogni sospetto. Scena del crimine. Fanno il loro ingresso i padroni di casa, Lisa e Gilles. Lei moglie trofeo che invecchia con eleganza, lui scrittore di gialli dall'ego smisurato. A prima vista c'è qualcosa di stonato. Una garza avvolge la testa dell'uomo: appena dimesso dall'ospedale, ha perso la memoria. Sua moglie gli fa da guida, lo stimola e lo rimbrotta con tenerezza. A una seconda occhiata ci si accorge che c'è qualcosa che non va neanche fra loro. Non così presi. Non così sinceri l'uno con l'altra. I ripiani della libreria nascondono i trofei delle notti spese in solitudine - bottiglie di liquori buttati giù d'un fiato. Nessuno fa riferimento, e non è un caso, al lavoro più famoso del giallista di casa. Si chiama Piccoli crimini coniugali. Un bestseller che parlava della naturale degenerazione dell'amore. Tra le righe, di due come loro. Insieme per noia, per forza. La scenografia, la quiete apparente, sono il capolavoro di un falsario. Le termiti nelle pareti stanno già divorando il loro porto sicuro. Eric-Emmanuel Schmitt, raffinatissimo drammaturgo francese scoperto solo qui, ha prestato i suoi protagonisti in crisi al cinema italiano. Mi sono ricordato di questo noir sentimentale con il ritorno in sala di Alex Infascelli, regista che davo per disperso. Piccoli crimini coniugali si apre presto ai giochi di ruolo, alle recriminazioni, alle carte invertite. La guerra dei sessi fa tappa in un appartamento parigino in cui il dubbio affiora dopo una manciata di battute. Nel fare un quadro della situazione, l'insicurezza cronica di Lisa sta portando acqua al proprio mulino? Gilles, in balia di una moglie bugiarda, finge l'amnesia o vaga davvero nell'incertezza? Liberali per finta, confusi e infelici, si confessano a cuore aperto omicidi mancati, nevrosi, speranze. Si sono conosciuti tre lustri prima, al matrimonio di una coppia mai arrivata alla crisi del settimo anno. Gilles le aveva vomitato sulla macchina, Lisa aveva minimizzato con una battuta diventata poi un personale tormentone. Si può tornare a quella leggerezza, con la mente in pausa? Si può rianimare un corpo morente e ricominciare daccapo? Confesso che c'è un polpettone di Sparks, Le pagine della nostra vita, che mi emoziona anche quando non voglio. La storia di quest'anziano che racconta alla moglie malata le origini della loro unione mi farà sempre un certo effetto. Non so perché, o forse sì. E' un passaggio comune, comunque, a tanti melodrammi. Uno dei due perde sé stesso, il coniuge sano lo guida pazientemente nella ricerca. In Schmitt c'è ben poca voglia di tornare allo status quo. E il viaggio della memoria di Gilles, il rewind, può proprio fare al caso dei protagonisti. Creando, con una terapia di coppia che ammette tiri mancini e scorciatoie, il marito e la moglie perfetti. Un idillio su misura, prefabbricato, che potrebbe fare pendant con i cuscini del sofà e i fiori della carta da parati. 

martedì 18 aprile 2017

Recensione: Le nostre anime di notte, di Kent Haruf

Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L'erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te.

Titolo: Le nostre anime di notte
Autore: Kent Haruf
Editore: NN Editore
Numero di pagine: 171
Prezzo: € 17,00
Sinossi: La storia dolce e coraggiosa di un uomo e una donna che, in età avanzata, si innamorano e riescono a condividere vita, sogni e speranze. Nella cornice familiare di Holt, Colorado, dove sono ambientati tutti i romanzi di Haruf, Addie Moore rende una visita inaspettata a un vicino di casa, Louis Waters. Suo marito è morto anni prima, come la moglie di Louis, e i due si conoscono a vicenda da decenni. La sua proposta è scandalosa ma diretta: vuoi passare le notti da me? I due vivono ormai soli, spesso senza parlare con nessuno. I figli sono lontani e gli amici molto distanti. Inizia così questa storia di amore, coraggio e orgoglio.

                              La recensione
Mi piacciono le storie che parlano di senilità. Mi piacciono quei melodrammi lenti, verbosissimi, in cui una coppia chiacchiera e passeggia per tutto il tempo, e probabilmente non finisce neppure insieme prima del sopraggiungere dei titoli di coda – da Before Sunrise in poi, quanti ne ho visti e quanti ne ho cercati, al cinema, di amori così. Mi piacciono gli stati del sud, la delicatezza di Kent Haruf e il senso di immortalità che ispirano i romanzi postumi, in cui l'emozione la generano un po' le pagine riempite e un po' l'assenza intorno. Le nostre anime di notte è una storia che parla della terza età e della tententazione delle seconde chance. Addie e Louis, settantenni, saranno interpretati presto da Jane Fonda e Robert Redford in un dramma Netflix che ne mostrerà le passeggiate lungo la via principale, a braccetto, mentre si godono la reciproca compagnia. Si siedono in un caffè, proprio in vetrina, affinché tutti sparlino dei vedovi che hanno richiamato le loro emozioni dal pensionamento anticipato. Quando finisce l'età per innamorarsi? Quando scade e deperisce la voglia di fare? Holt, la stessa cittadina della Trilogia della Pianura, è popolata dalla poesia di uno scrittore che l'ha saputa cantare fino all'ultimo giorno. Le nostre anime di notte, più che un romanzo, è un racconto. Un capitolo, quasi, estrapolato dai romanzi corali dell'autore scomparso. 
Imperfetto ma bellissimo, avrebbe avuto forse bisogno di una seconda mano di pittura e di qualche pagina in più. Di linee di contorno meglio rimarcate. I capitoli si leggono così, a colpo d'occhio, e la vaga amarezza dell'epilogo sembra una sfida contro il tempo. L'autore aveva fretta di scriverlo e di morire. Oggi, nei tour in libreria, ne racconta la gestazione la vedova Haruf: leggi, sai che Le nostre anime di notte è il testamento della loro relazione, e ti commuovi. Il romanzo dura un'estate. Si svolge alla fine di una buona annata per i coltivatori locali: il tempo è stato clemente, le piogge rade ma indispensabili. La penuria, l'aridità del passato, sembrano un ricordo. In una di quelle sere quiete, Addie Moore si presenta alla porta di Louis Waters: gli fa una proposta indecente. Dal momento che sono entrambi insonni e abbandonati, perché non passare insieme la notte? Lui è un professore in pensione dall'indole poetica, con una figlia rancorosa e una moglie morta di cancro e di delusione. Dice subito di sì, perciò, a una coetanea che ha già seppellito una figlia e un marito. Hanno inizio le loro ronde notturne. L'intero vicinato spia dalle tende accostate quei viavai. Incuriosito, sospettoso, invidioso. Per il coraggio, la leggerezza e la naturalezza con cui ci si può volere bene quando tutto, eppure, sembrava perso.
I ruoli si invertono. I figli fanno scenate agli adulti, attenti ai pettegolezzi di quartiere. Ma ecco Louis, sbarbato e profumato, che attraversa la strada con un sacchetto di carta in mano: ci sono uno spazzolino di riserva e il pigiama buono. Bussa, e la donna lo apre: l'abat-jour si spegne al piano superiore. I due parlano, perlopiù, fino a prendere sonno. Di un'esistenza passata accanto a coniugi sconosciuti, dei reciproci rimpianti, dei sogni mancati. Di priorità e imprevisti. Volere qualcos'altro, qualcosa di più, significa forse peccare di ingratitudine? Si tengono per mano, pur rimanendo ognuno al suo posto. Si danno un bacio sulla bocca dopo cento pagine e passa. Provano a spingersi oltre, ma presumibilmente non riescono: lui, imbarazzato, accenna alla famosa pillola blu; lei sorride, dice che non ha importanza, e in fondo è vero. Si spacciano per moglie e marito. Giocano a fingersi genitori e nonni, quando Addie apre le porte a Jamie: il nipotino di sei anni in fuga dai genitori litigiosi, che sonnecchia tra i loro corpi malandati sentendosi finalmente al sicuro. L'ultimo Haruf parla dell'egoismo bestiale di noi figli; degli interminabili sacrifici dei genitori; della pazienza dei vecchi, che apprendano dai più piccoli lo spirito di adattamento e il compromesso. Gli anziani cercano un senso. Trovano hobby e passatempi, come la cura dell'orto o il fai da te. Si limitano a riempire le giornate. Aspettano la morte in veranda, ingannando il tempo a modo loro. I protagonisti di Le nostre anime di notte – campagnoli disincantati e stanchi – condensano la ricerca negli anni che restano, in duecento pagine scarse. Di giorno inanellano una serie di faccende da sbrigare con il pilota automatico e di notte si svelano, come fanno i vampiri. Non si spengono. Professano una vecchiaia che non è sinonimo di tristezza. E che la solitudine, a volte, può essere riempita fino all'orlo. Inseguendo il tempo, Dio e l'altro. 
Prima che il sorgere del sole, almeno, li strappi dalla ricerca e dalle lenzuola.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Passenger feat. Birdy – Beautiful Birds 

sabato 15 aprile 2017

Recensione: Open. La mia storia, di Andre Agassi

L'odio mi mette in ginocchio, l'amore mi fa alzare in piedi.

Titolo: Open – La mia storia
Autore: Andre Agassi
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 502
Prezzo: € 14,00
Sinossi: Costretto ad allenarsi sin da quando aveva quattro anni da un padre dispotico ma determinato a farne un campione a qualunque costo, Andre Agassi cresce con un sentimento fortissimo: l'odio smisurato per il tennis. Contemporaneamente però prende piede in lui anche la consapevolezza di possedere un talento eccezionale. Ed è proprio in bilico tra una pulsione verso l'autodistruzione e la ricerca della perfezione che si svolgerà la sua incredibile carriera sportiva. Con i capelli ossigenati, l'orecchino e una tenuta più da musicista punk che da tennista, Agassi ha sconvolto l'austero mondo del tennis, raggiungendo una serie di successi mai vista prima.

                    La recensione
Lo sport non m'interessa. Mi tengo in forma con il mio passo veloce, limitando gli spostamenti in auto e affrontando la routine sempre di fretta. Sono pigro e poco portato. Trovo sempre di meglio da fare: leggere, ad esempio. E in televisione, tranne in periodo di Mondiali, sempre di meglio da guardare: anche quelli, però, li seguo più per dovere che per patriottismo. Sono un orecchiante del calcio, lo sport nazionale, quindi immaginate quanto poco ne sappia di tennis: le regole base, la rivalità tra Federer e Nadal, i gemiti equivoci delle Williams quando sono in un'altra stanza e ridendo mi domando cosa stia andando in onda, nel frattempo, su Studio Sport. Andre Agassi è un nome sentito non ricordo dove in tempi recenti. All'epoca di questa autobiografia apprezzatissima, non soltanto dai sostenitori del campione, con l'inequivocabile impronta di un autore premio Pulitzer – il tennista si confessa senza filtri, ma a prenderne nota è lo straordinario J.R. Moehringer, debitamente ringraziato in chiusura. Mi dicevano tante cose, ma ci è voluto l'incentivo del solito Libraccio. Il momento migliore per vincere la mia ritrosia. Open come il quarto torneo del Grande Slam. Open come cuore aperto, messo su una bilancia: succeda quel che succeda. Si parte dall'ultima sfida prima dell'abbandono, nell'estate del 2006. Se il tennis è la vita, infatti, il ritiro a cosa somiglia? L'incipit gioca sporco. Il campione ci confessa fuori dai denti che il tennis l'ha odiato con tutte le sue forze sin dall'infanzia. A trentasei anni, a un passo dal pensionamento, si accorge però di non poterne fare a meno. Senza sarebbe perso. Questo Agassi si muove come un vecchio: è un relitto umano, è tutto un dolore. Di notte scivola sul pavimento per raddrizzare le vertebre, e lì trova pace. Lo tengono insieme la famiglia, l'adrenalina, il cortisone in circolo. 
Il tennis è guerra di logoramento, uno sport solitario. Dagli spogliatoi agli spalti, passando per un sottopasso che nei giorni peggiori sembra interminabile, il narratore vede scorrere davanti a sé tutti i momenti – e tutte le preziose comparse – della sua vita al massimo. Un'infanza di sacrifici e privazioni a Las Vegas, condivisa con un padre iraniano a cui deve il successo e i complessi di inferiorità. Un imprinting obbligatorio, forzato, che l'ha presto messo faccia a faccia con il “drago” – un marchingegno sputapalle, assemblato nel cortile dietro casa – e con l'impossibilità di scegliere strade alternative all'oro. Il trasferimento presso una rigorosa accademia in Florida e, da lì, i primi trionfi in giovane età. Agassi cresce sul campo. Combattutto tra flirt dati in pasto ai rotocalchi e grandi amori – il galante corteggiamento via fax alla Shields e le scenate di gelosia sul set di Friends, il ben più fortunato matrimonio con la collega Steffi Graf –, essere e apparire. L'enfant terrible dal look punk è un Sansone irrequieto, in crisi di identità. Gioca in jeans e, cosa assurda, senza mutande. Mangia e beve troppo, e la metanfetamina lo tenta per qualche tempo. Si tinge i capelli, li taglia alla mohicana e, prima di gettare maschere e parrucche, nasconde la stempiatura con un toupè che gli dà da penare. 
In Open, abbandonato il machismo che ci si aspetterebbe, appare come un atleta che ha più da perdere che da guadagnare. Lo si capisce da quel primo piano che non lascia scampo. Le rughe, il pizzetto ingrigito, la calvizie tanto vituperata. Gli occhi umidi, soprattutto, di un uomo dolce, vulnerabile e profondamente buono. Il solitario che degli altri aveva un bisogno matto e disperato. Il ribelle filantropo, diplomatosi per grazia di Dio, che sceglie di investire nell'istruzione. Il campione che il tennis, le medaglie, le detestava. Leggere di lui è stato come viaggiare accanto a una persona che non vedrai mai più in vita tua. Il fatto di essere sconosciuti favorisce l'onestà. Andre Agassi era per me una faccia nota a malapena, con un borsone di palestra sulle ginocchia e una storia lunga vent'anni da snocciolare. Attacca bottone, un po' per noia e un po' per necessità, e tu non sei propriamente l'interlocutore ideale. Ti danno fastidio gli estranei amichevoli sui mezzi pubblici. Se tutti ti credono a torto un grande ascoltatore, in realtà, è perché parli poco di tuo. Figuriamoci se ti si siede accanto uno che del contatto fisico, del dialogo, ha sempre avuto un bisogno viscerale. Figuriamoci se è uno sportivo di cui non hai quasi sentito parlare e, per presunzione, ritieni ignorante e strapagata l'intera categoria. All'inizio ti domandi: ma quando si arriva, ma quando scendo da qui sopra. Non presti ascolto, ma poi ti ci appassioni. Ogni tanto ti perdi - nelle meticolose dinamiche di match che capisci nelle linee generali, nella conta delle sconfitte colossali e delle rimonte clamorose -, ma ti ritrovi commosso dagli squarci di vita vissuta che ti lascia cogliere. Tu non sei tipo da tennis. Da abbracci, probabilmente, meno ancora. Ma prima di scendere ricambi la stretta di Andre, ci metti tutto il calore e la forza che possiedi. Ringrazi per l'onestà spassionata, non dovuta. 
E dici tra te e te: che storia, che partita, che vita. 
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Imagine Dragons – Believer

giovedì 13 aprile 2017

I ♥ Telefilm: Tredici | New Girl VI | How to get away with murder III

La morte tocca, soprattutto quando quel mazzolino di fiori a bordo della strada, quell'articolo triste sul giornale locale, ci ricorda che a venir meno è stato qualcuno della nostra età. Facevo i primi anni di liceo quando una mia coetanea, Carla, fu trovata senza vita nella sua stanza. Non la conoscevo, ma ricordo un sabato mattina passato in classe a parlare di lei, e di come la sua scomparsa ci facesse sentire. Tredici, prodotta da Selena Gomez e tratta dal best-seller di Jay Asher, è una serie importante. Non il solito teen drama vuoto, alla moda, a cui una CW ci ha abituato. Ha come spunto una morte tra i banchi, e dalla tragedia non prende le distanze. Racconta in disordine la storia di Hannah, una diciassettenne che un giorno l'ha fatta finita. La sua lettera d'addio, la sua vendetta, supera i confini della carta e dell'aldilà. La verità di una ragazza morta troppo presto, nell'indifferenza, si diffonde negli auricolari di Clay: un compagno innamorato, che elabora la perdita e cerca indizi. Coloro che nel frattempo hanno già ricevuto le cassette, accusati di averla trascinata a fondo, hanno paura che il più candido tra loro li smascheri. I cattivi hanno punti di rottura, sprazzi di umanità. I buoni, non così immacolati, hanno scatti isterici che ti mettono sul chi va là. I personaggi, più che approfonditi, sono scavati. Possiedono case e famiglie modeste, spesso. Un'aria comune, familiare, non da fotoromanzo patinato – Katherine Langord è bellissima proprio in virtù di qualche curva in più, Dylan Minette è uno di quegli adorabili sfigatelli alla Seth Cohen che faranno strage di cuori. Ci sono tredici episodi per tredici nastri. Una playlist da ascoltare e riascoltare, un cast di esordienti piuttosto in parte, ritmi dilatati. Nel decantato Tredici, purtroppo, ne succedono così tante, ma così tante, che a un certo punto ho smesso di crederci. Più che l'emozione, allora, affiora il fastidio. Verso un dramma così esagerato da risultare inverisimile. Verso una scrittura a tavolino, che vorrebbe compiare gli adulti – guardate che età difficile, guardate il liceo che mondo selvaggio che è – più che raccontare gli adolescenti. Alcol e droghe. Stupro. Guida in stato di ebbrezza. Bullismo. Troppi temi che rimestano a fin di bene nella cronaca nera. Molte minoranze rappresentate in nome del politicamente corretto, fino a sfiorare il parossismo (una coprotagonista cinese, omosessuale, adottata da una coppia di papà gay). Tredici non pecca di superficialità, ma di un un po' di pietismo sì. Di un certo pressappochismo, ma sempre a fin di bene. Fa la voce grossa, dice le parolacce. In realtà, nonostante le arie indie, è un prodotto ben più furbo di quanto sembri. Di quelli così accomodanti e impegnati, però, che criticarlo fuori dai denti significherebbe peccare di insensibilità. Di quelli paraculi, chiamiamoli col loro nome, che ti imboccano con il cucchiaino fino alla fine. Voce fuori dal coro, dico che ne ho capito le intenzioni ma che non mi ha scosso. Allena l'empatia, questo sì. Ci ricorda che ognuno ha i suoi fardelli e i suoi fantasmi. Che essere gentili con qualcuno – che magari, in testa, sta combattendo una guerra segreta – è questione di un attimo. Purché vivere l'adolescenza non diventi camminare sul filo, sulle uova, per paura di mettere un piede in fallo e sbagliare costantemente. (6)

Visto quando capitava ai tempi del debutto televisivo e rivalutato anni dopo, New Girl è la sitcom giusta al momento giusto. Merito di una squadra affiatatissima, di una casa a Brooklyn in cui ogni cosa scoppia in risata, che sopravvive alle coppie scoppiate, ai cali di ritmo, a cambiamenti belli e brutti. Cosa combina, quest'anno, la frizzantissima coinquilina dai vestiti pastello? Come reagisce Jessica Day alle novità? Schmidt e Cece, convolati a nozze nella stagione precedente, vanno a vivere insieme. Winston e la sua collega poliziotta, usciti allo scoperto, seguono le orme dell'altra coppia: radunate le brutte camicie a fantasia e il mitico gatto Ferguson, un'altra parte del quartetto è perciò pronta a spiccare il volo. Nick Miller, alias la mia anima gemella, ha pubblicato il suo primo romanzo e vive una relazione complicata con una certa Megan Fox. Il loft, piano piano, si svuota. Jess ha paura di rimanere sola, e noi assieme a lei. Sarà che nessuno, sotto sotto, ha smesso di fare il tifo per lei e per il burbero Nick, distratto dalle grazie della bella di Transformers. Come si scopriranno cambiati alla fine di questi traslochi, di inevitabili viavai che hanno il sentore triste degli addii? Lo scopriamo al ventiduesimo episodio. Forse, l'ultimo di sempre. La Fox non si esprime sul rinnovo e l'epilogo, perfetto, è un cerchio che si chiude. Di perfetto, purtroppo, c'è quello e poco altro. Un finale che giunge inatteso, annunciato senza il necessario preavviso, che emoziona ma non troppo. A chiosa di un ciclo di episodi piuttosto piatto, sprovvisto della classica verve, a cui onestamente non ho prestato grande attenzione. Non sapevo di assistere all'ultima stagione – sempre, appunto, che di un'ultima stagione si tratti. L'ho guardata in maniera distratta, a tempo perso, alla fine di giornate lunghissime. Non avevo gli occhi dell'amore, insomma. Lo sguardo da pesce lesso che mette tutto in prospettiva. Se dovessimo fermarci qui, mi dispiacerebbe. Né io né questo New Girl – brodo allungato in cerca di un'occasione per riscattarsi eravamo al nostro meglio. Ma, come vecchi amici, ci siamo fatti compagnia sul divano. Senza sentire il bisogno di giudicarci. (6)

In una sessione invernale che mi aveva messo a dura prova, avevo scoperto per la prima volta How to get away with murder e una Shonda Rhimes che, a lungo andare, ti dà i guilty pleasure perfetti e una totale assuefazione. Dopo un'accattivante stagione introduttiva, il legal thriller con qualcosa in più aveva rischiato di perdermi con un secondo appuntamento in cui la protagonista spadroneggiava un po' troppo. In autunno, mi sono puntualmente presentato a lezione da Annalise. Ai primi banchi, i suoi pupilli. Nei flashback, un incendio e un cadavere carbonizzato in cantina. Ci sarà un morto, giusto per il midseason finale. Chi sarà? How to get away with murder, per il terzo anno, ripropone la tipica struttura a incastro e sembra avere imparato dagli errori di percorso. I coprotagonisti hanno spazio per una vita sentimentale al di fuori del salotto esclusivo della loro insegnante. Si formano strane coppie e quelle più affiatate scoppiano per poi rinsaldarsi – bandita l'ambiguità dei primi tempi, quanto sono sono diventati noiosi Connor e Oliver? Il sicario Frank è in fuga e il preferito di Annalise, Wes, fa i conti con le sue origini e un omicidio a cui ha assisitito un finale di stagione fa. Quest'anno il mistero c'è e, a metà, il colpo di scena non manca. Sul tavolo autoptico giace un personaggio chiave, che ha portato con sé i dubbi di una protagonista incriminata. Un incendio doloso, i personaggi in lutto, la verità che salta fuori, e l'opportunismo, in un epilogo calmo ma amarissimo, prende il sopravvento. How to get away with murder, imperfetto ma intrigante, ha al solito qualche sottotrama che funziona e qualche sottotrama che avremmo volentieri evitato; personaggi numerosi, che trovano compattezza attorno a un cadavere caldo; una protagonista rara, che scende a patti e scambia il giusto con l'utile. Insuperati professionisti nell'arte dell'elusione, gli indisciplinati e disorganici membri della classe della Keating la sfangano anche quest'anno. Li mette in riga la Davis, fresca di Oscar, che ha forse bisogno di loro più del solito. Per salvarsi la pelle in carcere. Per distrarsi dal posto vuoto a lezione. (6,5)

martedì 11 aprile 2017

Recensione: Voce di lupo, di Laura Bonalumi

Tutte le partenze lasciano un vuoto enorme e, se parti anche tu, il vuoto sfiorerà l'immensità.

Titolo: Voce di lupo
Autrice: Laura Bonalumi
Editore: Piemme – Vortici
Numero di pagine: 189
Prezzo: € 12,00
Sinossi: Se il bosco potesse parlare, racconterebbe di due ragazzi che amavano respirare il profumo della resina. Se le montagne e i sassi avessero voce, direbbero che lassù, dove le cime graffiano il cielo, a volte il respiro si ferma. Come quello di Giacomo, bloccato dalla terra che all'improvviso frana; come quello del suo più caro amico, che preferisce non ricordare il proprio nome, perché da quando la montagna si è sgretolata niente ha più senso. E parlerebbero anche del respiro di Chiara, amica preziosa che ama i boschi solo in cartolina. Non bastano le parole di genitori, professori o amici per riempire un vuoto che sembra incolmabile: Giacomo se n'è andato e ha portato via il sole. Vivere ancora sembra impossibile, se non passando attraverso ciò che è accaduto. Passando di nuovo attraverso il bosco.
                                           La recensione
A tredici anni ci sono cose che non dovresti conoscere. D'altronde, vivi quell'età in cui specifichi ancora che di anni, in realtà, ne hai tredici e mezzo. Credi ciecamente nel prossimo, nel domani, nelle mezze misure. Stai per finire le medie, e la scelta del liceo dovrebbe essere la tua sola preoccupazione. Speri, magari, di trovarci i tuoi migliori amici. Quelli di sempre. Anche se, crescendo, il rischio di allontanarsi c'è. Anche se siete due ragazzi e una ragazza, e gli ormoni, gli amori, rischiano di mettere tutto sottosopra. Tu e lui, in segreto, amate entrambi lei. Alla faccia della regola dell'amico. Si chiama Chiara, profuma di torta alla vaniglia, preferisce le passeggiate romantiche alle cime tempestose. Ama qualcuno anche lei e, guarda un po', sei proprio tu. Brufoloso, noiosamente normale, reso anonimo e tremante da un dolore che cambia d'un tratto l'adolescenza. Ti ha preferito chissà perché a Giacomo, il carismatico leader del trio: intraprendente, avventuroso, poetico. Un animo nomade che ha amato l'alta quota, il brivido dell'arrampicata, fino a morirne. Quella passione pericolosa e irrinunciabile, infatti, è stata la sua fine. Tu eri accanto a lui quando la montagna l'ha ingoiato. 
Ti è rimasto il suo braccialetto di pelle tra le mani, e da allora quelle mani le nascondi con i guanti pesanti, anche d'estate. Tremano perché non sono riuscite a trarlo in salvo. Voce di lupo è la storia di un dolore difficile da immaginare se per fortuna non l'hai mai provato. Se a descrivertelo, soprattutto, trovi una prosa incapace della giusta intensità. Non è il caso di Laura Bonalumi: autrice per i più giovani, cuore e mente di un libricino denso, personale, potente. Il suo nuovo romanzo è uno dei titoli Vortici: branca della collana Il Battello a vapore, che debutta con storie indirizzate a un pubblico in bilico. A metà tra l'infanzia e l'adolescenza (ma non solo). Quando non sei piccolo e non sei grande, e allora sì che avresti bisogno delle letture giuste, di una guida esperta. Senza troppa sorpresa vi dico che Voce di lupo è una di quelle chicche nascoste in scaffali in cui, specialmente se sei di molto fuori dal target, non curioseresti. Mi ci ha indirizzato la Libridinosa. La storia, semplicissima, inizia con la fuga del narratore. Perché è sopravvissuto a Giacomo? Perché Chiara, che intanto si strugge in privato, ha scelto lui e non il suo migliore amico? 
Il senso di colpa, l'idea di averlo tradito due volte, lo conducono in fondo al bosco. Ha le scarpe pesanti ai piedi, un coltellino multi-uso, uno zaino con l'occorrente. I carabinieri lo cercano. I genitori lo piangono già, temendo un gesto avventato. Nell'abbraccio degli alberi, sotto il tetto dei rami, il protagonista è una ragione per vivere che cerca, non una per morire. Scruta quella natura tanto familiare, legge i segni in cerca del ricordo di Giacomo. Lo chiama invano, e l'eco risponde. Parla con il suo spettro e, tra sé e sé, trova giovamento. Conoscerà il meglio e il peggio della vita di montagna. Si imbatterà negli occhi di un lupo buono. Come lui, in un esilio volontario e terapeutico, si è allontanato dal branco. Può darsi che nei suoi occhi gialli ci sia davvero traccia di Giacomo? Ingannato dalla copertina, all'inizio immaginavo una storia alla Jack London. Ho il pollice nero, non sono tipo da escursioni all'aria aperta o da alta montagna, però quest'anno ho amato moltissimo Le otto montagne di Paolo Cognetti: una storia vera, d'amicizia profonda, in cui gli stati d'animo combaciavano con i bolletti metereologici e i sentimenti, trattenuti come per pudicizia, scaldavano il cuore. Qualcosa di simile l'ho trovata anche qui. In una lettura leggera ma mica tanto, in cui ho avvertito la pena di personaggi troppo giovani e fragili per farsene carico. Mi ha emozionato, moltissimo. L'ho chiuso con un luccichio negli occhi, tanta speranza e la voglia di prendere e andare. Di camminare fino a stare meglio, e poi ricominciare. Perché aveva ragione Seneca: puoi cambiare di cielo, non d'animo. Ma dentro certe storie, in certi cieli, i piedi si stancano e l'anima dimentica. Magari, vola.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Marco Mengoni – Ti ho voluto bene veramente