sabato 30 marzo 2019

Recensione: La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, di Krystal Sutherland

| La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 412 |

Mi dico che non ho l'età. Per avere paura. Per leggere young adult. Ma ci sono fobie – il futuro, le altezze, fidarsi di qualcuno, lasciarsi andare – che colgono in contropiede anche me, tutt'altro che stoico in verità, ma salvatore di ragni, lucertole e chiocciole dallo scalpiccio degli ospiti che calpestano il mio vialetto. E ci sono romanzi per ragazzi, soprattutto, che non hanno limiti: li si valuta con il cuore, così, organo notoriamente di manica larga, e nel mentre li si consiglia in lungo e in largo a lettori senza pregiudizio. Già colpito dalla bellezza dei Nostri cuori chimici, esordio brioso e struggente insieme, riscopro a due anni di distanza le magie di Krystal Sutherland. Pensavo fosse una meteora, lo ammetto, invece era la figlia segreta di Rainbow Rowell e John Green. Dalla sua: un'immaginazione sconfinata, temi difficilissimi sospesi fra favola e psicologia, un gruppo di personaggi memorabili sbucati da un romanzo gotico di Shirley Jackson. Ogni adolescenza, infatti, è una casa infestata: una storia di fantasmi. Esther, diciassette anni, non li teme. Come potrebbe, se a giorni alterni si abbiglia come Mercoledì Addams, ha amuleti appesi agli alberi in giardino e un piano della sua villa è chiuso al transito come l'ala di un fantomatico ospedale psichiatrico?

«La paura ti protegge. Devi sentirti spaventata fin nelle ossa» le sfiorò la clavicola con la punta delle dita, «perché l'audacia abbia un senso.»
Esther lo osservò. «E se muoio?»
«E se vivi?»

Casa Solar è un po' un castello degli orrori, un po' un bunker post-apocalittico: sui pavimenti scorrazzano liberamente galli e conigli (mamma, giocatrice d'azzardo, è convinta portino fortuna), gli interruttori della luce sono fissati con il nastro adesivo (il fratello gemello, Eugene, ha paura del buio e di sé stesso), in cantina è Natale in qualsiasi stagione (sei anni prima ci si è rifugiato il padre, veterinario agorafobico, devastato dagli ictus frequenti e dall'incomunicabilità). La nostra protagonista, all'apparenza normalissima, sembrerebbe lo strappo alla regola se non fosse per un dettaglio: alla maledizione di famiglia crede anche lei. I Solar, si tramanda, saranno uccisi dalle loro paure. Esther alterna bizzarri travestimenti per non farsi scovare, spaccia dolcetti a ricreazione con il sogno di risparmiare abbastanza per scappare via da lì e, complice il ragazzo giusto o forse sbagliato, accarezza l'idea impavida di salvare i suoi parenti. Il nonno, ex detective ossessionato da un assassino di bambini mai acciuffato, giura di aver conosciuto il Mietitore in Vietnam: un ventenne anonimo e butterato, che brindava con un bicchiere di latte e desiderava ritirarsi a vita privata a Santorini. Ammesso che esista, perché non sfidarlo a revocare la loro misteriosa iettatura? Basta affrontare la lista delle proprie paure di petto, punto per punto, inseguendo l'ombra della morte – e con essa, dunque, anche la vita. Ma affrontare aragoste, falene, luoghi angusti, scogliere e tempeste di fulmini è più facile in teoria che in pratica per qualcuno con le inibizioni di Esther: una ragazza che ha visto troppi film horror, infatti, ha disperatamente bisogno di qualcuno con la sfacciataggine di Jonah. Un coetaneo artistico e cleptomane, che alle scuole elementari la proteggeva dai bulli e al liceo, dopo anni di silenzio, le ha rubato prima il portafogli alla fermata dell'autobus, poi una promessa. Che vivrà pazzamente, testimone una GoPro.

Esther capitava la prima legge della termodinamica, secondo cui nulla si creava o si distruggeva: tutti i frammenti e i pezzi che costituivano un essere umano sarebbero stati redistribuiti altrove alla sua morte, ma dove andava la memoria? La gioia? Il talento? La sofferenza? L'amore.
Se la risposta era “da nessuna parte”, allora perché diavolo ci diamo da fare? Qual è il senso di quei grumi carnosi di consapevolezza che mangiano, bevono, amano e nascono da frammenti rabberciati dell'universo?

La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi conta quattrocento pagine, quaranta capitoli e cinquanta appuntamenti fissi: ogni domenica per un anno si sale sul motorino di Jonah e, aggrappati a lui, si flirta con i pericoli grandi e piccoli che erigono barriere intorno al mondo. Leggera soltanto all'apparenza, la lettura – figuratevi pure un mondo a metà fra Wes Anderson e Tim Burton – mi ha fatto ridere e piangere impunemente. Accanto alla Sutherland, un pigmalione australiano tutta citazioni nerd e ordinate liste per punti, è bellissimo scoprirsi codardi e vulnerabili. A cosa serve farsi in quattro per gli altri se a lungo sfugge l'essenziale, ossia salvare sé stessi?
A ben vedere questi Tenenbaum in chiave noir hanno tagli rattoppati sui polsi, conti in sospeso con mamma e papà e, con la scusa di una maledizione, mascherano da eccentricità malesseri più profondi. Si parla fra le righe di disturbi ossessivi, ansia sociale, depressione, e la lettura ispira inevitabilmente gli esami di coscienza: perché negli immancabili giorni storti io non avrò paura di schiocchi di chele e saette minacciose, no, ma della compagnia di me stesso. Il mio peggior nemico, mentre il Mietitore se ne sta in disparte: nelle corsie di un ospedale sfoglia un giornale con Kim Kardashian, annoiato, e lucida la propria falce.

«Be', sbagli su così tante cose che non so decidere da dove iniziare per dimostrartelo. E su cosa vuoi poi che ti dimostri che stai sbagliando?»
«La morte, soprattutto. E l'amore.»

Ho quasi venticinque anni e ormai acquisto young adult con il contagocce. Qualche volta sono troppo triste perfino per piangere e mia mamma, al telefono, si prende le colpe: siamo parte di una famiglia a pezzi, malinconici per natura, e a un bivio preferiamo guardarci l'ombelico – il passato è doloroso, il futuro incerto: allora dove rivolgersi, e a chi?
La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi è un romanzo speciale, che ti riconcilia con il mondo: di quelli di cui leggi da cima a fondo – compresi, insomma, ringraziamenti, fonti e note dell'autore – in cerca di un'altra iniezione di energia per endovena, degli indiscreti pregi dell'umorismo nero. Mi ha insegnato senza peli sulla lingua che i disturbi mentali non sono peggiori di una gamba rotta, che la terapia è il gesso per rinsaldare menti frantumate. E che di un uomo, quando scompare, restano in eredità la polvere, le storie e un'orchidea viola appoggiata sul cuscino.
Le paure ci obbligano a scomporci in compartimenti stagni, ma le navi non sono creazioni inaffondabili: lo sa bene il Titanic, che in acque gelide pagò il fio della propria presunzione. Cosa può Esther contro l'attrazione per Jonah: l'incubo degli incubi? Cosa possiamo noi contro l'iceberg? Krystel Sutherland firma un brillante avviso ai naviganti, nella speranza che le stazioni radio e le librerie diffondano il messaggio fino in capo al mondo: certi amori, certi urti, certi romanzi per fortuna ti obbligano a imparare a nuotare.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Bjork – It's Oh So Quiet

mercoledì 27 marzo 2019

(Non solo) David | Euforia, Troppa grazia, Ride, Una storia senza nome, La prima pietra, Cosa fai a Capodanno?

Per Lisa era un Dolan all'italiana, ma a malincuore lo avevo perso in sala. Le mie aspettative, alle stelle sapendolo nominatissimo, sono state disattese solo in parte. Vero: sui cieli di Roma si aggirano stormi coreografici, sui corpi nudi vengono proiettati ipnotici giochi di luce e i balli in corsia conciliano la commozione. A lungo, però, la seconda prova della consapevole Valeria Golino ha i pregi e i difetti delle nostre produzioni: Euforia sarà quindi un dramma fatto di personaggi sfaccettati, dei soliti attori bravissimi, con uno spunto talmente classico che poco di nuovo ha da sviscerare in due ore. I contro appartengono a un cinema d'autore che a volte gira a vuoto, strizzando furbescamente l'occhio all'indigesto Sorrentino, ma sa scoprirsi altresì capace di smorzare la malinconia e di sublimare, così, le peggiori difficoltà. La regista napoletana ama lasciare l'amaro in bocca, le scene sospese e, checché se ne dica, Riccardo Scamarcio: allo storico ex, infatti, la Golino regala un personaggio centrale nonché uno dei suoi ruoli migliori. Omosessuale gaudente e spendaccione, ospita in casa il fratello maggiore: un Mastandrea in fin di vita da proteggere dalla verità. Generoso ma prevaricatore, Scamarcio sbandiera le carte di credito e nasconde lo sporco sotto il tappeto. Allo stesso modo, con una studiata forma di egoismo, maschera la preoccupazione verso quel fratello burbero e dolente. Gli indora la pillola con i capricci e gli sperperi, con la fede, con l'amore ritrovato dell'amante Trinca. È tutto sotto controllo, o così si illude. Quanto è giusto pretendere una vita al massimo e togliere all'altro il diritto alla paura, al dolore? Euforia, filtrato dall'amato-odiato personaggio principale, si fa apprezzare più con la testa che con il cuore. Come accade a Scamarcio con Mastradrea, si dimostra onesto soltanto alla fine. Al malato, intanto, sfuggono l'equilibrio e le parole. Verbosissimo ma misurato, al contrario, il film sa come non rimanerne a corto. (7)

L'Italia, terra di miracoli e appalti truffaldini. A fare i conti con gli uni e con gli altri è una geometra fresca di separazione, con ingaggi ormai rarissimi e uno spiccato senso della giustizia. Se lei è la radiosa Rohrwacher, talento impareggiabile a cui si addicono l'ironia e la fisicità di un ruolo più solare dei soliti, non è una sorpresa scoprirla in contatto nientemeno che con la Madonna: a proprio agio con le questioni di fede, dopo Il miracolo e Lazzaro felice, l'attrice fa i conti con un'entità dai modi bruschi, disposta a strapparle i capelli e a prenderla a schiaffi pur di sbatterle in faccia l'evidenza. Commedia in odore di santità, troppo metaforica per risultare perfetta, Troppa grazia ha un ottimo incipit e un prosieguo vittima dell'astrattismo post-new age. Senza tralasciare gli alti e bassi della vita coniugale accanto a Germano e gli atti coraggiosi per sovvertire la corruzione dello status quo, il folle Gianni Zanasi mescola riflessioni sparse sulla salvaguardia del territorio, l'immigrazione e il femminismo. Troppi elementi, con il rischio che lo spettatore non sappia fino in fondo su quale concentrarsi in vista di una chiusa significativa e un po' irrisolta sulle note da lacrime dei Radiohead. Il titolo lo suggeriva: troppo in ballo, ma poco importa. Una scrittura brillante fatta di contraddizioni e paradossi e una Rohwacher da David bastano a credere nei miracoli di un certo cinema italiano; alle preghiere di una creatura bizzarra e amabile contro questo nostro mondo allo sbaraglio. (7)

Mastrandrea fa di nuovo i conti con la morte: questa volta, dietro la macchina da presa. Accolto tiepidamente, nonostante l'autorevolezza di un interprete capace anche di scrivere e dirigere, Ride è una dramedy nostrana che piace per struttura e piglio. Organizzato in lunghi quadri, il film studia le reazioni dei superstiti – si parla di un incidente sul lavoro finito in tragedia – e i loro meccanismi di difesa all'alba delle esequie. Mentre l'orfano pianifica un'intervista per conquistare la bella della classe e il padre del defunto si scontra con il secondogenito ripudiato, la vedova – la scommessa Chiara Martegiani, compagna del regista – lotta con quelle lacrime che non vogliono scendere. Perché non si strugge ma continua ad avere fame e sonno, a cantare a squarciagola la loro canzone d'amore anziché piangerci su? Non mancheranno i gesti di ribellione e i riavvicinamenti, i faccia a faccia e le abbuffate consolatorie. Non mancheranno la poesia del cinema indie: ricorderò a lungo un bambino che apre l'ombrello in casa per riparare la mamma da una pioggia torrenziale. Tutti hanno lacrime, storie, ricordi. Ma nella Marchegiani, gli occhi screziati di mascara e l'accento veneto, il giorno del funerale genera una strana ansia da prestazione. Grezzo ma già interessantissimo, Ride ha la colonna sonora giusta, dialoghi disarmanti e un espediente non da poco: conoscere la persona scomparsa non in fotografa, non nei flashback, ma attraverso chi le è stata accanto. Quali sono state le sue ultime parole? Cosa direbbe se sapesse che la moglie ha bisogno di imitare la fidanzatina del liceo per capire cosa sia il lutto? Proprio Mastandrea, parlava in Euforia del diritto a stare male. Qui, invece, di quello a star bene. Non c'è un unico modo per reagire. Non c'è un unico modo per trattarlo. Valerio, con la fortuna del principiante, individua quello vincente. (7+)

I lettori ricorderanno Vani, l'eroina dei romanzi di Alice Basso: ghost writer alle prese con i grattacapi del giallo. Di una simile disavventura si rende protagonista la goffa Ramazzotti: segretaria, di nascosto firma le migliori sceneggiature di Gassman, dongiovanni bugiardo che a piacimento le fa gli occhi dolci. Non era sua intenzione metterlo nei guai. L'amante giace in coma, adesso, perché la nuova sceneggiatura della protagonista ha fatto andare su tutte le furie le persone sbagliate: peccato non l'abbia scritta lei. Si è fidata della soffiata dell'enigmatico Carpentieri, e la storia della sua vita si è trasformata all'improvviso in un intrigo spionistico di arte, donne e mafia. Sullo sfondo della settima arte, Una storia senza nome è una commedia di grande maniera. Autoironica, densa, fatta di storie dentro storie e slittamenti frequenti. Ha tanto di buono, anche se non tutto funziona. La sceneggiatura, al contrario di quella scritta dalla Ramazzotti, ha qualche intoppo, passaggi frettolosi, e pur divertendo lascia amareggiati al ricordo della buona prima parte. Non si rivela, infatti, all'altezza dell'intelligenza dell'incipit, ma lo spettatore finisce per congedare Roberto Andò senza rimproveri. Intrattenuto da un caso di cronaca che l'immaginazione trasforma in un mystery. Stretto in un cast variegato, in cui spesso rubano la scena mamma Morante e un Gassman furfante anche in un letto d'ospedale. (6,5)

Prendete una scuola pubblica, il personale oberato e un atto di vandalismo che ha portato a convocare d'urgenza la famiglia del bambino. C'è una finestra infranta da sostituire, ci sono due bidelli che non si accontentano delle scuse. Aggiungete, poi, che il bambino incriminato è pure straniero e che Kasia Smutniak e Serra Yalmaz sono pronte a difenderlo con le unghie e con i denti scomodando razzismo e pregiudizio. I ruoli della recita di Natale, tuttavia, riflettono quelli sociali: come si difenderanno gli scoppiettanti Guzzanti e Mascino dall'accusa di avere assegnato agli alunni extracomunitari le parti degli animali? Gli esiti, dati da un coro di personaggi agli antipodi, sono di quelli conflittuali. A due giorni dalla festa che dovrebbe renderci tutti più buoni, volano botte da orbi, veleni e frustrazioni. Dotato di una struttura teatrale ormai meno pericolosa che in passato, cattivo fino all'ultimo, La prima pietra è scritto abbastanza bene da reggersi senza irritare ma non tanto da risultare memorabile. Inferiore ai suoi referenti, da Polanski a Genovese, resta comunque un gustoso anti-cinepanettone in giorni che ci vorrebbero tutti più buonisti, tutti più ipocriti. Gli stranieri ci rubano il lavoro? Il crocifisso in aula, sì o no? A farne le spese, mentre imperversa l'egoismo degli adulti, saranno i bambini. (6,5)

Prendete uno chalet, un manipolo di scambisti, fraintendimenti in quantità. Ci sono due ladri che si spacciano per i padroni di casa. Ci sono ospiti vogliosissimi, che non si accontentano però del benservito. Aggiungete poi che in radio si parla di una probabile fine del mondo. Come ingannare l'attesa se non con l'ammucchiata? Un'altra battaglia dei sessi. Un altro conflitto generazionale. Un'altra commedia satirica che gioca con gli ambienti circoscritti, le apostrofi satiriche, pur mancando di personaggi che non risultino sempre macchiette. Le assurdità degne del primo Ammaniti spiazzano e divertono: funghetti allucinogeni, dita mozzate, aragoste in fuga e cani assassini. Quelle inspiegabili, purtroppo, altrettanto: quale utilità trovare ai personaggi della coppia Scamarcio-Lodovini, agli addetti del catering bloccati nella tormenta? I riferimenti sono ambiziosi, da Tarantino ai Cohen, e qualcuno potrebbe perfino dirsi sorpreso del risultato: un sofisticato film d'interni, volutamente sopra le righe, in cui trionfano l'umorismo nero e i preliminari. C'è lo spunto, c'è la gente giusta e a colpo d'occhio non dispiacciono neppure le atmosfere asfissianti: peccato che, a proposito di sesso, non si arrivi mai al sodo. Sebbene il fascino delle interpreti femminili regali qualche nota piccante – la sexy gallerista Ferrari, la Lisbeth Salander di una Puccini fuori parte, la cafona di buoni sentimenti della solita Pasotrelli –, il risultato è maldestro. Non aspettatevi i fuochi d'artificio. (5,5)

lunedì 25 marzo 2019

Recensione: Non sono stato io, di Daniele Derossi

| Non sono stato io, di Daniele Derossi. Marsilio, € 16, pp. 231 |

Ottocento abitanti, un orizzonte suggestivo di montagne e vallate, la notte che cala prestissimo e ti invoglia a rifugiarti nella sicurezza di casa tua durante il rigore dell'inverno. Il soggiorno a Serana, villaggio immaginario dell'Alta Val di Susa, si prospetta un paradiso o forse un inferno? Se da un lato affascinano gli sfondi innevati e la promessa di tranquillità, soprattutto se in fuga da un terribile dramma familiare, dall'altro insospettiscono i bisbigli diffusi e le credenze popolari: anni e anni di Twin Peaks o Silent Hill, gialli d'atmosfera in stile La ragazza della nebbia, ci hanno infatti invogliato a diffidare dalle false regole di buon vicinato e dalle insidie meteorologiche delle città dell'estremo nord. Prevedibilmente, la protagonista Ada non troverà pace accanto al figlio Giacomo. Sono tornati da Londra con la coda fra le gambe. Un trasferimento che è un'autentica retrocessione, pur di fuggire a malori che tutti reputano ormai psicosomatici. Bella e snob, giudicata non a torto un pericolo per le donne sposate, Ada all'inizio appare libera come il vento: le pillole sotto prescrizione del terapeuta al mattino, una telefonata alla mamma se c'è bisogno di andare a prendere il bambino a scuola dalle suore, ed eccola che può finalmente staccare la spina. Riprendere i contatti con i vecchi amici e gli ex fidanzati coi quali ha sperimentato il brivido proibito delle prime volte, seguire le lezioni di ceramica a dispetto delle mani un po' tremanti, considerare il sesso riparatore il miglior oppiaceo. In ordine sparso si intrometteranno: le irruzioni di un animale notturno, forse una volpe, responsabile del giardino a soqquadro; la sparizione a Halloween della piccola Jennifer, uno scricciolo vestito da Sposa cadavere che riapre ferite mai del tutto rimarginate; le crescenti stranezze di Giacomo.

Quando eri piccola tuo padre si divertiva a cambiare ogni volta qualche particolare alle storie che leggeva. Cappuccetto rosso baciava il lupo che si trasformava nel principe azzurro, la carrozza non trasportava Cenerentola al castello ma in un reame incantato, dove diventava la regina delle fate. Non sapevi mai che cosa sarebbe successo e a ogni passaggio inatteso ti brillavano gli occhi per l'eccitazione. Adesso, invece, ti piacciono solo i film che hai già visto, o le storie che conosci a memoria. Ora sai che le sorprese sono quasi sempre cattive.

Come spiegarsi gli occhi rossi e i vaneggiamenti del figlio? Il primo pensiero va all'abuso di televisione e PlayStation, ma è dettato dal pressappochismo di genitori che al giorno d'oggi vedono soltanto quello che vogliono vedere. I luoghi comuni sull'infanzia, e non quelli oscuri. Il bambino ha una vita segreta che neanche immagina: fa scherzi alle amiche antipatiche, distrugge trenini e Barbie, simula tempeste di sabbia inalando cannella in polvere e funerali attraverso la sepoltura di bestiole mutilate. Si spinge, soprattutto, in cima a quel castello inaccessibile: nel Cinquecento, la prigione di un negromante che scherzava con le rune e il fuoco. A guidare quel bambino introverso, bilingue, dall'incarnato più scuro degli altri – il padre, Bashir, è un chirurgo pakistano –, è un Lucignolo che sfida l'altezza delle grondaie e apostrofa Giacomo con nomignoli femminili quando si tira indietro. Ha i capelli rossi, si chiama Robi: peccato che a scuola dicano di non conoscerlo. Sulla splendida copertina citano Durrenmatt e Ammaniti, paragoni certamente calzanti, ma Non sono sono stato io mi ha ricordato più The Babadook e Goodnight Mommy: horror su genitrici imperfette e bambini incorreggibili, dove ogni cosa è intuibile, molto è lasciato alla libera interpretazione del fruitore e, finale frettoloso a parte, le singole sequenze si fanno divorare in una spirale crescente d'angoscia.

I bambini non sanno di essere crudeli.

Erano anni che non mi capitava di leggere un romanzo tutto d'un fiato. Il merito spetta alla bravura di Daniele Derossi – l'omonimia con il calciatore è puramente casuale –, che riesce a incastonare una storia di per sé poco originale su pagine, su fondali, che fanno la netta differenza. Non s'inventa niente dal niente, Non sono stato io. Importano più il come del perché. I colpi di scena a volte tali non sono: lettori e personaggi, a lungo, hanno quasi un diverso grado di conoscenza sui fatti, e le svolte shock scuotono più loro che noi all'alba di nuove consapevolezze. Nella scrittura di Derossi, guizzante come la coda della sanguinaria gatta Messalina, si alternano capitoli in seconda persona, botta e risposta degni di una sceneggiatura cinematografica, sbobinature di interviste giornalistiche.
Nella sua Serana fondamentalmente intollerante nei confronti dello straniero le paure ancestrali oscillano dai lupi alle streghe arse vive ai tempi dell'Inquisizione, fino alle carovane di zingari e giostrai: perfino il macellaio, nel retrobottega, farnetica di alchimisti, ufo e altre leggende urbane. L'autore, senz'altro accattivante, ha l'arma a doppio taglio della brevità e scarsa fantasia con i nomi di battesimo – in duecento pagine, ho notato sorridendo sotto i baffi, incrociamo ben due Davide e gli interessi amorosi di Ada si chiamano Sergio e Giorgio a rischio di creare una certa confusione. La sua indagine poliziesca, sociologica, antropologica tiene mirabilmente in considerazione, tuttavia, gli stati d'animo, le coloriture dialettali, la percezione del diverso presso regioni in maggioranza leghiste, e il prodotto finale è una di quelle fiabe gotiche che tengono per sé il discrimine fra disturbi mentali e fenomeni paranormali, thriller psicologico e horror puro. Una lettura di confine, a confine: fra generi d'intrattenimento e, nel congedo, fra disperazione profonda e speranza.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Lucio Dalla - Attenti al lupo

sabato 23 marzo 2019

Pillole di recensioni: Le streghe | Tutta colpa del bosco

Le streghe, Roald Dahl. 
Salani, € 9,00, pp. 200 
Che infanzia hai avuto se non hai mai letto Dahl? Alla ricerca dell'incanto perduto, io che del leggendario autore britannico avevo in libreria giusto La fabbrica di cioccolato, ho scelto di concedermi un pomeriggio in compagnia delle sue fattucchiere. Per me, che identifico le streghe dei miei primi incubi con le indimenticabili sorelle di Hocus Pocus – le ricordate anche voi? –, è stato comunque spiazzante rapportarsi con queste. Le riconosci dalle narici dilatate, le parrucche che prudono, i guanti a cui rinunciano in privato. Calve e con artigli al posto delle unghie delle mani, vivono sotto falsa identità e di tanto in tanto si riuniscono per i loro piani infernali attorno alla figura della Suprema – a proposito della leader carismatica che nel film degli anni Novanta è stata interpretata da Angelica Houston e che nel futuro remake avrà il volto di Anne Hathaway, ci si aspettava onestamente qualche pagina in più. Nella sala conferenze dell'Hotel Magnificent, a Londra, tramano per spazzare via i bambini dal pianeta. Ed è un bambino, rifugiato dietro un paravento, che suo malgrado presta ascolto: come si è trovato lì, affidato alla nonna norvegese, con il rischio di essere trasformato in un roditore in quattro e quattr'otto e di dover sabotare l'infanticidio imminente? Dopo la morte dei genitori, il narratore è affidato alle cure dell'anziana parente: una nonna atipica, che fuma il sigaro, non ha un pollice e gli racconta storie inquietanti. Nessuno poteva immaginare che ci fosse un fondo di verità dietro. E che negli anni in cui Dahl scriveva fossero visti di buon occhio l'umorismo nero, i finali sospesi e poco consolatori. Quale editore oggi sponsorizzerebbe a cuor leggero un romanzo per l'infanzia con gente felice nei panni di un topo, bambini che si vocifera puzzino di cacca di cane, antagoniste di una bruttezza rivoltate e una tutrice non proprio dal polso di ferro? Le parti che ho preferito, piene di sagacia e inventiva, sono la prima e l'ultima. Quella centrale, uscita quasi da una sequenza di Ratatouille, è esile e concentrata, con quelle streghe purtroppo meno protagoniste del previsto e gli stessi salti, le stesse fughe di un cartone animato. Oggi, si diceva, il politicamente corretto – un male tutto dei nostri tempi – condannerebbe la pubblicazione di una fiaba caustica ed efferata, che per questo stesso motivo devo aver trovato divertentissima anche da adulto. Oggi, scommetto, c'è chi invano aspetta ancora un impossibile secondo capitolo. Non è mai troppo tardi, infatti, per scoprirsi ammaliati e spaventati.

Tutta colpa del bosco, Laura Bonalumi. 
San Paolo, € 14, 50, pp. 128  
Dopo Voce di lupo e Ogni stella lo stesso desiderio, l'amica del blog Laura Bonalumi è tornata in libreria con una nuova storia sull'adolescenza che concilia due suoi temi cari: la bellezza della natura e i batticuori giovanili. Non mi aspettavo di leggerla tanto presto e, lo confesso, ero piacevolmente impreparato alla particolarità del suo ultimo romanzo. I protagonisti sono due ragazzi di cui non conosceremo mai il nome, soltanto i sentimenti: lui, popolare e con i capelli indomabili, custodisce fra sé e sé un mondo segreto e romantico; lei, ben più timida e barricata dietro sciarpe lunghissime, lo osserva in silenzio. Sono insoliti figli delle nuove generazioni, e piace constatare la scarsa attenzione che prestano ai social, il candore delle loro parole, una timidezza che a lungo fa sì che si limitino soltanto a fantasticare. Si guardano, infatti, e non sanno fare un passo avanti; non sanno dichiararsi. Fra la biblioteca e la macchinetta del caffè, mentre fuori nevica, si regalano segnalibri a tema, disegnano sulla lavagna indizi che parlino al posto loro, si scambiano segni su Instagram. Dietro le cuffiette dell'iPod, oltre la timidezza, permettono che a raccontarli siano dei narratori d'eccezione: Laura e il bosco. L'impaccio dei protagonisti è un incanto. Parlano direttamente i loro pensieri, e fra queste pagine sanno farsi poesia. Autentico romanzo in versi, Tutta colpa del bosco è una storia d'amore istantanea, costruttiva e innocente, con un messaggio pudico, un linguaggio fresco e uno spirito all'antica, si spera, mai fuori moda. L'autrice libera la poesia – una cosa da vecchi, direbbero i Millennials – dalla sua presunta patina di polvere. E ha il coraggio da leoni di parlare di sentimenti, di sentimenti e basta, in un mondo solitamente votato al cinismo. L'esperimento è una piccola educazione al bello, con il difetto di essere forse un po' troppo breve per essere metabolizzata appieno, i cui risultati sono senz'altro notevoli grazie a un binomio vincente. Qualsiasi sia la vostra età, seguite le orme impresse nel bianco della coltre di neve. Portano a una natura dannunziana. A casa. Fino a un abbraccio che parli, ben più di versi formulati a mezz'aria senza poi l'audacia di recitarseli.

mercoledì 20 marzo 2019

Recensione: Tutto chiuso tranne il cielo, di Eleonora C. Caruso

Tutto chiuso tranne il cielo, di Eleonora C. Caruso. Mondadori, € 17, pp. 155 |

Alcune ferite non guariscono mai, lasciano cicatrici nella carne viva: non basta la chirurgia plastica. Non si guarisce mai da alcuni personaggi, lasciano tracce incancellabili in chi li incrocia: non basta voltare pagina, se l'incontro è stato un tamponamento a catena di cui autostrade e librerie serbano ancora il ricordo traumatico.
La visione di Christian Negri, infatti, è uno shock: che tu sia uomo o donna, un amante o un parente di sangue, non puoi fare a meno di cadere vittima della sua pessima influenza. Così è stato anche per la sempre bravissima Eleonora C. Caruso, l'unica a saperlo tenere sotto controllo: una prosa conciliante come il litio e un insperato lieto fine per quella mina vagante bipolare, bisessuale, la cui bellezza esagerata attira puntualmente maledizioni. A diciassette anni, nell'impossibilità di combattere ancora buchi neri e mulini a vento, Julian – il fratello minore che Christian ha tentato di proteggere e traviare a sbalzi d'umore alterni – ha spiccato il volo. Abbiamo letto di loro in Le ferite originali, ma questa è un'altra storia: spazio ai personaggi marginali, una rivoluzione totale nei toni e nei colori. 
Meno cupo ma non per questo indolore, Tutto chiuso tranne il cielo ha inizio lì dove le fughe si concludono: da un ritorno. Sono passati due anni dagli eventi raccontati in precedenza: che li conosciate oppure no, non importa. Dall'aereo è sceso un diciannovenne con i capelli da cartone animato, che ha tolto l'apparecchio da poco ma non per questo ha voglia di sorridere al mondo. Anzi: si dice che la lingua batta dove il dente duole. Lui, così, fa fatica a entrare nell'appartamento signorile con in giro inequivocabili ciocche di capelli biondi e il disordine dell'amato-odiato Christian, atteso a giorni da un viaggio in Svizzera.

Julian ha di nuovo diciassette anni e suo fratello accelera. Diventa una stella cadente, un buco nero, una macchia solare. Lui lo guarda con tutti gli sguardi che ha, e non capisce. Sei già la fine del mondo. Perché vuoi finire di nuovo?

Sparpagliati qui e lì ci sono vestiti più grandi in cui al ragazzo piace scivolare di nascosto, nell'illusione di annullarsi con quel parente che l'ha amato a lungo di un bene sbagliato, e proprio fuori si affaccia una Milano fantasma già pronta ad andare in ferie. 
Il protagonista è un otaku: uno di quei Millennials con il sogno del Giappone, non dell'America, che riporta dal soggiorno a Tokyo trolley pieni di anime e dolciumi, sigarette alla ciliegia e lecca-lecca da intingere nel caffè. A colpo d'occhio sembra un tenero extraterrestre – soprattutto a me che non ho mai visitato né l'Expo né l'Oriente, di giapponese conosco a malapena l'all you can eat all'angolo e il bubble tea non so cosa sia –, ma ci è voluto un istante affinché mi affezionassi a un ragazzo sperduto con la bocca sporca di cioccolato e le ossa a vista sotto le magliette fantasiose. Non meno sui generis e irresistibili, allora, vi appariranno le figure con cui Julian cerca di compensare ai propri vuoti: il logorroico Leo, che a trent'anni fa i turni di notte al Carrefour, si prodiga in gentilezze adorabili e non ficca il naso nell'illecito; la coetanea An, innamorata non corrisposta, con una famiglia cinese che la vorrebbe già moglie e la proposta di andare a saltare sui gonfiabili in piazza all'indomani di una confessione struggente; la youtuber Cloro, compagna di stanza durante l'esperienza in Giappone, con un privato sotto gli occhi di milioni di followers e i ricordi di un'infanzia alla mercé della madre approfittatrice. 
Il protagonista padroneggia molte lingue ma non ne fa uso: taciturno ai limiti del mutismo, vive una sfuggente esistenza interiore che lo conduce alle soglie dell'anoressia e nell'arco dell'intero romanzo aspetta una notifica di Christian, che nel frattempo si è rimboccato le maniche, rattoppato le ferite con l'inchiostro dei tatuaggi e sui social va scrivendo che la sofferenza fa pendant con l'essere fotogenici. Julian ha il suo identico naso, la stessa sindrome d'abbandono, ma è una persona ben diversa. Non per questo sano, non per questo l'adolescente responsabile che tutti danno per scontato.

Si ritira in se stesso uno strato alla volta, un odore alla volta, un timore alla volta, un sentore alla volta, finché non può dire: il mio corpo è vuoto.
Non si è rotto, se non si vedono i pezzi.
Non è nemmeno caduto, se non ha fatto rumore.

Grazie a un'autrice che qui cambia pelle e presta straordinaria attenzione alla sua, pallida e fragilissima, in Tutto chiuso tranne il cielo Julian riprende lentamente possesso della sua giovinezza, della sua rabbia, anche se parla a stento e non sbraita affatto, in un miscuglio di idiomi e onomatopee che rinfrescano la narrativa italiana. Mentre Le ferite originali intrigava al suon di pulsioni disturbanti, in questo ho creduto a torto di non poter entrare: se amore e sofferenza restano sentimenti universali, cosa mi accomunava al contrario con questo giovane con la tinta colorata, i problemi di peso, qualche questione pregressa con mamma – morta suicida – e papà? Tutto e niente, eppure all'inizio leggevo divertito dialoghi di cui coglievo forse la metà delle citazioni; e alla fine, invece, scoprivo di volergli un bene profondo. Verso Julian, che vorrebbe farsi bagnare dalla poggia fino ad annegare – a Tokyo hanno cinquanta sostantivi per definirla –, scatta infatti un rarissimo e asessuato senso di protezione: non sorprende che perfino il famelico Dante Beltrami, dongiovanni senza scrupoli con un ruolo risolutivo un romanzo fa, abbia per lui le premure di un padre e lo culli sulle note di David Bowie nel salotto che fece da sfondo a una tragedia mancata.

«Julian, perché mi hai cercato?»
Tira su col naso. Cercavo una parte di me.
«No, questo lo cerchi negli altri. In me cerchi una parte di Christian e non ne hai bisogno.»
«Di cos'ho bisogno, allora?»
«Di iniziare a guarire la ferita.»

A Julian conti le costole, strappi gli abbracci e le parole non dette, tendi un ombrello trasparente per evitargli la deriva. In un'estate che non finisce mai, sulle scene del crimine di vecchi rancori, Eleonora ci regala un romanzo di formazione lieve e psichedelico, dotato di una galleria di personaggi sopra le righe e di una profondità d'animo tale da scandagliarli uno a uno fin sotto la superficie. Una boccata d'ossigeno per un augurio di pronta guarigione – dagli incisivi scheggiati, dalle ferite finalmente in via di risanamento –, che ti lascia uno strascico blu attorno allo scarico della vasca, la voglia di riscoprire da capo quella canzone di Marco Masini che nelle gite al mare aveva il merito di ammortizzare le liti dei tuoi genitori, il desiderio di riprendere a cucinare torte e soprattutto di mangiarle a cuor leggero.
Si apre il cielo su una Milano con la testa altrove.
E, da chiuse che erano, si aprono le docce – dalla chioma, allora, via un turchino senza ombre di fate prodigiose – e le bocche – per il canto, per la fame, per l'esigenza di dirsi –, con il sospiro di sollievo delle rischiarite.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mahmood – Asia Occidente

lunedì 18 marzo 2019

Recensione: Le janare, di Gaetano Lamberti

| Le janare, di Gaetano Lamberti. Il Seme Bianco, € 14,90, pp. 147 |

Dai nonni non ci voglio andare. Quante volte, durante l'adolescenza, lo abbiamo affermato mio fratello e io, scoraggiati all'idea di affrontare due ore di macchina, le bizze del wi-fi e le domande inquisitorie – a chi appartieni, di chi sei figlio – di un paese nell'entroterra casertano dove, nonostante le visite di cortesia appena una volta al mese, cominciavamo a sentirci a disagio. I genitori di mia madre hanno una casa a piani ai piedi di una salita un po' angusta, l'accento strettissimo e una sola camera da letto per gli ospiti: nel letto matrimoniale, finché è durata, ci siamo stretti assieme a mio padre, mentre mamma dormiva nella cameretta di quand'era ragazza. Da bambini, eppure, ci passavamo intere estati. Giocavamo a nascondino lungo i vicoli, non pativamo ancora la schiavitù dei cellulari che non prendono bene, leggevamo all'aperto: aprendo Google Maps, l'altro giorno, ho saputo indicare precisamente i gradini su cui avevo divorato Harry Potter e il calice di fuoco, incurante di che ora si fosse fatta, dei vecchi a passeggio che mi interrompevano ogni tre per due. Ma leggi sempre, non lo sai che non è normale? Sei il nipote di Vincenzo e Luisa, e quello biondo laggiù è il tuo fratellino? Come stanno i vostri genitori? I compaesani ficcavano il naso, spettegolavano, puntavano il dito: contro i miei occhiali spessi e le gambe troppo pesanti, i tratti normanni di Diego, due genitori che in realtà si sarebbero separati soltanto vent'anni dopo. Nonna, burbera, si sollevava a fatica alla finestra e li scacciava tutti: salite sopra, ordinava, perché non le piaceva che chi aveva un'opinione per tutto sparasse sentenze pure verso quei nipoti forestieri – vivevamo ancora in Sicilia –, intaccandone la serenità. In quella casa senza ventilatori né possibilità di refrigerio, le pettegole si tramutavano in mostri: brutte dentro e brutte fuori, specificava nonna, erano janare malfidate.

Ma sei cretino? Chi è che non ha mai sentito raccontare almeno una volta dalle proprie nonne storie terrificanti sulle janare? Le fattucchiere, le figlie del diavolo. Sono vecchie donne, cattive e solitarie. Escono al calar del sole, nude, e si intrufolano nelle case per far del male. Per non farle entrare bisogna mettere, davanti alle porte, una scopa o un sacco pieno di sale. Le janare per entrare devono contare i fili della scopa o i granelli di sale. Se perdono il conto devono ricominciare da capo. Al sorgere del sole sono costrette a fuggire. La luce gli è mortale nemica.

Partivano così racconti fra rotocalco e mito, nei quali la sgarbatezza e il pregiudizio si incarnavano nella figura diabolica di queste streghe partenopee: nude come vermi, i capelli grigi lunghi fino al sedere, facevano dispetti e gettavano fatture sui malcapitati. La notte si intrufolavano dentro per toglierti il respiro: accovacciate sul petto, con i seni penzoloni e le peggiori intenzioni. Il romanzo d'esordio del giovane Gaetano Lamberti – amico di Instagram dei cui gusti ci si fidava a prescindere – è stato un viaggio a senso unico a quelle estati, a quell'età in cui ogni cosa era possibile. Castel di Sopra, borgo fittizio in provincia di Salerno, somiglia moltissimo al paese dei miei nonni (che si chiama, guarda caso, Castel Campagnano): abitanti sparuti, sistemazioni scomode e passeggere, saluti di buona creanza a perfetti sconosciuti, pensionate che sbucciano fave e piselli sedute davanti al tabacchi. Per rispetto, ci si rivolge agli adulti con il voi. E i panni sporchi si lavano rigorosamente in famiglia.

La nonna mi prese il mento e mi alzò la testa, costringendomi a guardarla senza potermi distrarre.
«E tu aprila Martino. Apri la porta alla felicità.»
«Certo che la aprirò, perché non dovrei?».
«Perché è la più difficile da aprire?».

Cosa succede quando tutti sembrano conoscere a menadito le tue sfortune e, per di più, compiacersene? Le tendine si scostano per spiare gesti grandi e piccoli, le corna e gli scongiuri abbondano, in un attimo si è bollati al pari di lebbrosi. Fa più danni la magia nera, infatti, o il bigottismo? A raccontarci dei drammi della sua stirpe è il timido Martino: cresciuto all'oscuro, insieme alla sfacciata sorella Marisa, dei difetti nocivi della superstizione, all'improvviso fa i conti con una casa a soqquadro. Su loro gravano gli effetti del malocchio. Per questo la nonna ha l'affanno, papà è sempre assente, l'irascibile zia Vincenza starnazza al complotto, Vilma è affetta da una deformità non troppo congenita? Si rinvengono cavalli stremati fino alla morte in cortile, la criniera intrecciata da mani di strega. Si portano prosciutti e un caprone al guinzaglio per farsi leggere il futuro da chi di dovere. Sull'uscio, ecco piazzate strategicamente le scope di saggina: un divieto a prova d'invasore. In attesa di avere denaro a sufficienza per avere una casa tutta loro e di fuggire via da lì, dove si dorme accatastati tutti in una stanza, le liti sono insopportabili e, ultima ma non ultima, si è aggiunta infine anche la malasorte, i genitori Sandro e Lulù tentano invano di proteggere l'innocenza del protagonista.

«Non agitarti, resta fermo e se puoi trattieni il respiro».
Strinsi più forte il suo maglione, per fargli capire che stavo ascoltando e recependo tutto.
«Manca poco alle tre».

Non bastano i sacchetti di sale o le spille da balia. Non basta una mano di vernice sulle scritte infamanti. L'alta tensione entra in punta di piedi anche con le scope alle porte, e tira fuori il peggio: gli odi sopiti, i segreti insospettabili, gli amori mai risanati. A metà fra il realismo magico e il giallo, con una struttura teatrale alla Eduardo De Filippo e le inquietudini del Pupi Avati horror, Le Janare si è rivelata una lettura perfino al di sopra delle aspettative. Una faida senza esclusioni di colpi di scena – sul desiderio, sui desideri –, con un finale amarissimo e uno stile senza né guizzi né sbavature, che fa da perfetta cassa di risonanza ai risvolti feroci e ai passaggi più provanti. Gli uomini se ne stanno in silenzio, i bambini si mettono spesso nei guai, le donne intanto fanno e disfano a piacimento. Su una fiaba gotica nata sotto una buona stella, stranamente volteggia una civetta: anche se fuori è pieno giorno, anche se il pendolo in corridoio dovrebbe battere le tre per inaugurare l'ora delle streghe nel cuore della notte. A Castel di Sopra si è condannati ai letti disfatti, a un eterno dormiveglia. Ad avere paura a scoppio ritardato del buio e delle vacanze lì, in zone cieche che altro non sono che la copia carbone del nostro DNA. Per sentirsi piccoli e suggestionabili in 145 pagine appena. Per questo, forse, anche sotto incantesimo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Pierdavide Carone, Dear Jack – Caramelle

venerdì 15 marzo 2019

Recensione: Cat Person, di Kristen Roupenian

| Cat Person, di Kristen Roupenian. Einaudi, € 17,50, pp. 250 |

Come affrontare un caso editoriale? Cercare di metterci le mani sopra all'istante, prima che il gran parlarne – bene e male, purché se ne parli – te lo faccia perdere di vista fino a lettura da destinarsi. La fama precedeva Cat Person. All'indomani del successo straordinario del racconto eponimo, uno dei più cliccati e condivisi nell'intera storia del New Yorker, si attendeva con un misto di scetticismo e trepidazione l'esordio ufficiale della trentottenne Kristen Roupenian: in una raccolta che comprendeva dodici storie – compresa, appunto, quella con il merito di averla portata alla ribalta nella generazione di Twitter e del #metoo –, avrebbe saputo tenerci tutti sul filo del rasoio?
Uso quest'espressione, presa in prestito dalla narrativa d'azione, non a caso: l'ultimo successo Einaudi non appartiene al genere thriller né tanto meno alla mia comfort zone – come saprete, con risultati altalenanti sto acquisendo familiarità con il formato del racconto soltanto dallo scorso anno –, eppure ti obbliga a divorarlo implacabilmente. Un'abbuffata da fame chimica che lascia satolli fino alla repulsione, straniti, affascinatissimi. Per fortuna sapevo giusto a grandi linee a cosa sarei andato incontro: alla cieca ho scoperto una scrittrice che presto qualcuno giurerà d'amare e qualcun altro d'odiare – la norma quando, sulla scia degli autori cannibali, si gioca a destabilizzare –, con uno stile da porto d'armi e il misterioso sesto senso dei nostri amici felini. Immaginate l'umorismo nero di una Diablo Cody in pieno spolvero, le vergini suicide di Sofia Coppola, i body horror di David Cronenberg. Aggiungete sullo sfondo gli appuntamenti su Tinder, le scorpacciate in compagnia di Netflix con un calice di Merlot ai piedi del divano, le molestie in ufficio post caso Weinstein, la guerra dei sessi all'alba di un'ondata avanguardista che ha resto le donne battagliere e gli uomini insicuri. I temi: eros e thanatos, qui fusi insieme in un'unica catena da sadomaso spinto.

A volte, quando nelle storie s'imbatte nel paranormale, la gente inorridisce come se il tessuto della realtà si lacerasse mettendola di fronte al fatto compiuto che tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento era una menzogna. Abbassando gli occhi sul telefono ho provato esattamente la stessa cosa, ma al contrario: non orrore, bensì un vertiginoso, crescente senso di gioia. Quello era quanto tutti quei libri promettevano. Lo sapevo, ho pensato. Sapevo che il mondo è più interessante di quello che finge di essere.

Come aiutare un amico fresco di rottura? Se parte di una coppia impigrita, mettere a disposizione del terzo incomodo il divano in soggiorno e, a furia di sguardi ammiccanti, provocarlo per aprirgli le porte di camera da letto e galera in uno sconsiderato ménage à trois.
Quando fuori corrono gli anni Novanta, hai dodici anni e in cuffia non passano altro che gli strilli dei Guns N' Roses, meglio non accettare mangianastri in regalo dagli sconosciuti: soprattutto se inneggiano a Charles Manson e ti propongono appuntamenti nel parco a mezzanotte.
Tu che il compleanno stai invece per compierlo, stai bene attenta a cosa desideri: la rabbia verso un padre fedifrago e la disperazione di una mamma brilla per dimenticare potrebbero farti confidare in un intrattenimento più vicino alle visioni di The Human Centipede che alle feste a tema.
Come se la cava un maestro pieno di buona volontà con le turbolente allieve di prima media, per di più in Kenya: terra di leggende metropolitane, di stranieri in terra straniera, dove gli effetti di una buona istruzione e le notti tranquille sono un lontano miraggio?

L'unico che ho mai amato al mondo è un grottesco fantoccio composto da uno specchio incrinato, un secchio ammaccato e un vecchio femore. La notte che abbiamo passato nel mio letto è stata l'unica in cui ho conosciuto la felicità. E pur sapendo di cosa si tratta, soffro, la desidero, l'amo ancora. Che altro può voler dire, se non che sono viziata, egoista e arrogante e capace di amare solo un riflesso deforme del mio animo contorto?

Una principessa in età da marito ama più un fantoccio, metafora lampante della propria autonomia, che il principe azzurro; per sempre felice e scontenta appare anche la cassiera di un cinema d'essai, che si concede a malincuore una serata di brutte conversazioni, brutti preliminari, brutto sesso, con un goffo boscaiolo che sembrava più brillante per messaggio; stessi rimpianti spettano anche alle conquiste sedotte e abbandonate da un ex sfigatello che, non abbastanza equilibrato per tenere i piedi in due scarpe, fa i conti con la testa rotta e il cuore in subbuglio nella versione infernale di un capolavoro di Federico Fellini. Chi non vorrebbe che l'ospite speciale all'addio al nubilato fosse l'adone in slip attillati che faceva arrossire le adolescenti ai pigiama party? Galeotto un libro d'incantesimi, preferireste intrappolare in cantina l'uomo perfetto o il genio della lampada, se alcuni desideri – denaro, forza, bellezza – oggi hanno la meglio sull'amore? Grattarsi a sangue, farsi prendere a pugni, mordere: le tentazioni irrinunciabili che rispettivamente riguardano una giovane sposa tormentata da tarme invisibili; il piacere erotico di una ragazza da motel, che gli amanti giura di bramarli disperati e violenti; una mite impiegata che cerca scuse e predatori sessuali per unire il piacere carnale alla vendetta di genere.

La sua intera esistenza, le pareva ogni tanto, si fondeva sull'idea che perseguire il piacere fosse meno importante che evitare il dolore. Forse il problema dell'età adulta era che valutavi troppo attentamente le conseguenze delle tue azioni, tanto da ritrovarti con una vita che ti disgustava. E se Ellie avesse morso Corey Allen? E se l'avesse fatto? Cosa sarebbe successo?

Non aspettatevi una morale. Allegorici, malati ed esilaranti, i racconti di Cat Person offrono al lettore più smaliziato un impensato viaggio nel lato oscuro, nel torbido di relazioni interpersonali e pulsioni profonde, che spiazza dal principio alla fine e spazia dalla commedia grottesca alla fiaba gotica, dall'orrore inspiegato all'erotismo scabroso. Senza generi prestabiliti né freni, senza peli sulla lingua. Fragili solo all'apparenza, le donne della Roupenian hanno infatti luci e ombre, il coltello dalla parte del manico. Non esitano a mostrarsi tiranniche e manipolatrici. Non tentennano davanti all'evenienza di piantarti una lama nel petto fino al manico sanguinante. La ricerca della parità è soprattutto coerenza. Ammettere fuori dai denti di non voler essere né un angelo del focolare, né una suffragetta arrabbiata contro il mondo, bensì una regnante narcisista, una vampira sanguinaria, una piccola festeggiata dai desideri mostruosi. Spezzare cuori, soprassedere a riti magici e ad accoppiamenti volutamente ambigui. Riconoscere, se c'è, anche il buono nel sesso falsamente dominante: si simpatizza, quindi, per i volontari vessati, i cicisbei vittima della regola dell'amico, i mariti prostrati che restano nonostante tutto. Con totale sprezzo del politicamente corretto e delle velleità del novello femminismo, l'autrice parla delle debolezze degli uomini e dell'onnipotenza delle donne; dei diritti e dei doveri di denunciare, concedersi o tirarsi indietro all'ultimo minuto, scioccare fino al disgusto con l'inimmaginabile qui debitamente messo al vaglio. I dodici racconti non contano gatti fra i figuranti, no, eppure soffiano, mordono, graffiano. Si nascondo, sornioni, e infine tendono agguati. Sullo zerbino del radical chic, così, l'autrice depone i corpi già tesi delle vittime: personaggi come topi da laboratorio, che ora catturano e ora vengono catturati. Irresistibile e malfidata, Kristen Roupenian è troppo scaltra per lasciarci lo zampino.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Janis Joplin – Cry Baby

mercoledì 13 marzo 2019

Recensione: Elevation, di Stephen King

| Elevation, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 15, pp. 194 |

Castle Rock, Maine, non è nuova alle stranezze. La sparuta popolazione comprende infatti bottegai mefistofelici, scrittori affetti da personalità multiple, cani rabbiosi e bambini irrequieti che, a passeggio sulle rotaie, un'estate si imbattono in un misterioso cadavere. Ne abbiamo avuto un assaggio anche nell'omonima serie televisiva prodotta da Hulu, ancora in attesa di distribuzione in Italia, e proprio lo scorso anno abbiamo fatto tappa presso le contraddizioni del New England con La scatola di bottoni di Gwendy. Se il paranormale è di casa, non può dirsi lo stesso del progresso. Tre quarti della repubblicana e immaginaria Castle Rock, alle scorse elezioni, avrebbe votato Trump e in mancanza di mostri e diavoli, a un passo dal giorno del Ringraziamento, stavolta i cittadini mormorano a mezzavoce dell'ultima novità giunta in paese. Una sfacciata coppia omosessuale con la fede all'anulare, un'attività in centro e quasi l'intera comunità contro. Ci racconta dell'arrivo delle donne Scott, web designer di quarantadue anni, che lavora dal salotto di casa sua per una catena di grandi magazzini e, fresco di divorzio, si gode del cibo di consolazione e le fusa dell'irresistibile gatto Bill. È un informatico di mezza età, ma figuratevelo più come un boscaiolo di buona forchetta: centodieci chili, un morbido salvagente di ciccia attorno ai fianchi, un omaccione discretamente in salute ma non senza affanni. Finché la bilancia elettronica non inizia a mandargli inspiegabili avvisaglie: sta perdendo mezzo chilo al giorno. Ha forse un male incurabile? L'ipotesi è da escludere, perché il suo corpo si alleggerisce mentre la massa resta immutata. La forza di gravità ha perso il controllo su di lui.

Il tempo è invisibile. A differenza del peso.
Ah, forse anche questo non era vero. Il peso lo potevi sentire, certo – quando avevi troppi chili addosso, era come se fossi arrancoso – ma in fondo non era, proprio come il tempo, solamente un costrutto umano? Le lancette dell'orologio, i numeri sulla bilancia non erano solo dei modi per tentare di misurare forze invisibili che sortivano effetti visibili? Un debole sforzo per ingabbiare una realtà più grande, che andava oltre ciò che gli umani consideravano realtà?

Aiutato dall'amico Bob, medico in pensione, sceglie di tenersi quella stranezza per sé e di dare il via a un implacabile giorno alla rovescia da attendere fra curiosità e paura. Cosa comporterà l'arrivo del fatidico Giorno Zero? Scott si gode la situazione nella totale inconsapevolezza: può correre, spiccare balzi altissimi, ballare Stevie Wonder in cucina e, soprattutto, tendere un ramoscello d'ulivo a quelle vicine che fanno sparlare. 
Deirdre e Missy, passate dall'agonismo della maratona di New York ai dodici chilometri scarsi di quella indetta a Castle Rock per beneficenza, hanno due boxer che fanno puntualmente i bisogni nel giardino del protagonista e l'Holy Frijole, un ristorante vegetariano sabotato dai concittadini ma apprezzato dai turisti. Con la stagione estiva finita da un pezzo, come far quadrare i conti? Neanche i bambini, messi in allerta da genitori bigotti, passano da loro per chiedere dolcetto o scherzetto: come se lesbica e strega fossero sinonimi, in alcuni angoli ciechi a corto di buona educazione. 
Quando ogni argomento è polemica, tutti hanno un'opinione per tutto, l'esistenza si scopre tanto vana quanto vanitosa, Stephen King preferisce eccezionalmente rispondere non a tono bensì con una storia come Elevation. Una miracolosa fiaba laica con i piedi ben piantati nell'attualità, le classiche strizzate d'occhio ai suoi mondi confinanti – la band scolastica si chiama, ad esempio, Pennywise and the clowns – e i segreti di una vita lunga, tollerante, straordinariamente produttiva.

Tutti dovrebbero poter vivere un'esperienza come questa, pensò, e forse, quando arriva la fine, era proprio ciò che accadeva. Forse, al momento di morire, tutti salgono verso l'alto.

Senza il bisogno di pagine in eccesso, ma con troppa melassa qui e lì, il Re del brivido mette da parte l'orrore a cui ci ha abituato e con lo stile di sempre, con la puntualità di sempre, firma un racconto dolce e metaforico che invita a vivere con levità. Con gentilezza. Certo che sì, ci ha abituato a meglio e a peggio negli anni, eppure c'è una certa urgenza nelle parole di Elevation, un desiderio di ascesi e di candore che tocca il cuore, nonostante la morale retorica da buontempone sia spesso in agguato. Aggiungono valore, tuttavia, la sua maturità artistica e anagrafica; la saggezza di un instancabile settantenne che non smette di imparare lezioni importanti. Il suo protagonista è sano oppure malato? Sta per morire, o finalmente per vivere? Staffe e zavorre lo tengono a terra, ma di staffe e zavorre deve liberarsi. Per volare, così, sopra le asperità e i livori, godendosi le conseguenze benefiche del porgere l'altra guancia, i rapporti di buon vicinato e la compagnia degli amici a quattro zampe. La morale è che dovremmo lasciarci andare, librarci come fossimo Mary Poppins o la casa fluttuante del cartone Up, pur di osservare la società da una diversa prospettiva. Complice lo spettacolo dei fuochi d'artificio fuori stagione, dall'alto niente è abbastanza grande da non poter essere aggiustato. Piccolo nel formato, affatto nelle intenzioni, Elevation è un bignami sull'insostenibile leggerezza dell'essere Stephen King.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Elton John – Rocket Man

lunedì 11 marzo 2019

Recensione: Vita segreta della bambola solitaria, di Jean Nathan

| Vita segreta della bambola solitaria, di Jean Nathan. E/O, € 19, pp. 368 |

Come scindere contenuto e forma? Come potersi dire conquistati da una storia, sulla carta affascinante e torbida al pari di un romanzo gotico, se scritta con un piglio poco accattivante? Come venire a patti con biografie che fino all'ultimo tali scelgono di restare, cronache puntuali e distaccate di vite al limite, che rinunciano con l'amaro in bocca allo slancio vitale della narrativa? Queste stesse incertezze, sotto forma di domande fitte e ondivaghe, mi hanno accompagnato dalla seconda metà di Vita segreta della bambola solitaria in poi. Una lettura iniziata in anteprima e sotto i migliori auspici, che al pari del memoir Boy Erased purtroppo mi ha convinto più in teoria che in pratica. Se il lato di me che ama indistintamente le vicende morbose è stato accontentato, ho trovato purtroppo che la piacevolezza della lettura non fosse assicurata. Tutto prende avvio nei primi anni Duemila: la giornalista Jean Nathan, in nome della nostalgia, si mette in cerca della scrittrice che ha segnato la sua infanzia. Che fine ha fatto Dare Wright, autrice di storie giudicate freudiane con il senno di poi e di scatti, soprattutto, in cui inconsapevolmente si mescolavano candore e sadomasochismo?

Ogni biografia è in qualche modo un'operazione di salvataggio, anche se non sempre disinteressata. A volte, nei miei tentativi di catturare la storia di Dare prima che andasse perduta, ero convinta che sarei riuscita in qualche modo a liberare la sua protagonista. Non avrei mai pensato che scriverla potesse essere un modo per liberare anche me.

In Italia, forse, pochi la ricorderanno. Di certo non io, nato un paio di generazioni successive e non a conoscenza prima d'ora delle avventure tenere e terribili della bambola Edith: una figura inconsolabile e un po' ammiccante, la cui solitudine è salvata dall'arrivo di due orsetti di peluche. Guai a disobbedire, però, se a ogni malefatta minacciano di abbandonarla. Cinquant'anni dopo di Dare – attrice, modella, fotografa e icona della narrativa per l'infanzia – resta un corpo sfiorito in un letto d'ospedale. È in coma, con due grotteschi pupazzi sottobraccio e una stanza che ricorda una scenografa teatrale dismessa. Non può più svelarsi, confessarsi, né far luce su una vita fuori dagli schemi. La ricerca dell'instancabile Jean Nathan parte da lontano: difficilissima per l'atteggiamento laconico di Dare e per voci di corridoio in cui la verità si confonde spesso con l'invenzione, fra viaggi, cocktail party, frequentazioni illustri e matrimoni sabotati a un passo dall'altare. Quand'è che l'autrice è arrivata a somigliare alle sue bambole tutte imbellettate? Si comincia dalla relazione burrascosa vissuta dai genitori – Ivan, critico teatrale con un passato inglorioso nel cinema, e Edie, ritrattista di grido responsabile del sostentamento dell'intera famiglia –, e presto si individuano i traumi e le mancanze di Dare in una fanciullezza spesa in un folle andirivieni a opera di genitori velleitari che trattavano i figli come bagagli. La protagonista viene separata dal fratello Blaine, che incontrerà soltanto venticinque anni dopo, e crescerà all'ombra della tirannica Edie: una mamma da compiacere, imitare, accudire, diventando la sua eterna bambina. I capelli bruni tinti dello stesso biondo delle Barbie, il sopraggiungere della bulimia per non crescere né ingrassare ulteriormente, bugie e travestimenti in quantità per fingersi altre persone – persone migliori? – nella grigia e industriale Cleveland. 

In quanto ritrattista Edie “creava” le persone, lo stesso campo d'azione, amava sottolineare, di Dio. In questo c'era una forma di potere, anche se le creature di Edie erano inanimate. Era meglio così. Le persone inanimate non potevano ferirti. E potevano essere controllate.

In cerca di una sua identità, Dare punterà invano all'indipendenza di New York e farà mormorare qualcuno per i nudi integrali in spiaggia, l'attaccamento quasi incestuoso verso Edie, il desiderio non di un uomo bensì di un compagno di giochi. 
Nelle bellissime foto in bianco e nero che corredano il volume la vediamo discinta e appariscente, un'autentica vamp con sprezzo del tabù, eppure arriverà illibata alla terza età. A metà fra l'eroina di un dramma teatrale di Ibsen e la stella cadente di una puntata di Feud, Dare Wright era la firma di una versione politicamente scorretta e inquietante del caposaldo di un'altra generazione, Toy Story. Una Alice lontana dalla tana del Bianconiglio, un'infiltrata fra i i bambini perduti di Peter Pan. 
Inadatta al mondo, ormai allo sbando, negli ultimi anni della sua carriera avrebbe fatto i conti con i morsi della solitudine: le bottiglie vuote dappertutto, la compagnia delle domestiche e dei clochard pescati a Central Park. Quanto è terribile l'incanto al tempo della disillusione? 

Lo sai, il mondo è diventato troppo reale per me. Non appartengo a questo posto. 

Scoprirlo seduce e disturba, in una biografia altrimenti sin troppo densa e rigorosa. Una dettagliata ricerca sul campo con in appendice dieci pagine per i riferimenti bibliografici, un'infinità di nomi luoghi e date, le stesse note a pie' di pagina della mia tesi specialistica, dove la scrittura scorre ma non dà valore aggiunto alla storia. Le parole della Nathan interessano molto meno di Dare, e finiscono per appiattire personaggi dall'incredibile appeal – si vociferava di un film con Naomi Watts e Jessica Lange nel cast –, che avrei preferito immortalate con un piglio diverso da quello cronachistico. 
I processi di ricostruzioni a ritroso non sono sempre disinteressati: quanto è servito questo testo alla memoria di Dare Wright, quanto al lettore, quanto all'autrice? 
La biografa ha conosciuto la vera Bambola solitaria quando era già spacciata. È stata un po' un'infermiera improvvisata, un po' un'amica spirituale da chiamare in caso di emergenza. Sorella di un ragazzo affetto da un grave disturbo cognitivo, la Nathan si è rifugia nelle storie per mestiere e per legittima difesa. E si è rifugiata, un giorno, in quella di Dare. Una casa di bambole a opera di artigiani finissimi – che stoffe pregiate, che infissi, che deliziose porte in ciliegio, che colori pastello! – dove, a dispetto delle accoglienti abitatrici, qualche lettore si sentirà stretto.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Patty Pravo – La bambola