martedì 9 maggio 2023

Recensione: Uvaspina, di Monica Acito

| Uvaspina, di Monica Acito. Bompiani, € 20, pp. 416 |

Ho radici frastagliate, io. Un accento strano, difficile da indovinare. Ho rubato la parlata al luogo in cui sono nato, alle città in cui mi sono trasferito, ai miei genitori. Quando mi arrabbio, lo faccio come mamma e papà: in napoletano. La lingua delle parolacce. Del cuore e delle viscere. Si trovano la stessa istintività, la stessa musicalità scassata, nell'esordio di Monica Acito. Un'opera prima che, nel bene e nel male, somiglia alla sua città: Napoli. Generoso, barocco, saturo fino a scoppiare, racconta con stile funambolico la funambolica storia di una famiglia infelice a modo suo. Quando la Spaiata (che di mestiere si si strugge ai funerali degli sconosciuti nell'umile Forcella, abile a “chiagnere e fottere”) sposa Pasquale Riccio (figlio di un famoso notaio dei quartieri alti, pieno di debiti e smanie) dalla loro unione nascono due figli rissosi ma inseparabili.

C'era un punto di non ritorno, al di là dell'invidia, ma a quel punto nessuno ci voleva mai arrivare, perché sotto le crepe dell'invidia c'era una sorgente carsica di amore sconfitto.

Il primogenito, detto Uvaspina, ha una voglia a forma di chicco sul volto e la stessa pelle traslucida di un frutto: sospeso tra i sessi, bellissimo ed efebico, sembra essere della specie dei femminielli o dei semidei. Sua più spietata carnefice, sua boia e liberatrice, è la sorella Minuccia: una giovane dispettosa e imprevedibile, come le eruzioni del Vesuvio, difficile da accasare e da saziare; con la sua fame nervosa, bulimica, divorerebbe anche il sangue del suo sangue. Il destino di Uvaspina, strizzato costantemente come il frutto di cui porta il soprannome, è portare pazienza. Ma come può continuare a vivacchiare se la conoscenza di Antonio, pescatore dagli occhi bicolore desideroso di una scalata sociale per riscattare la mamma dalla miseria, gli fa venire l'improvvisa voglia di fare l'amore sulle scale di Palazzo Donn'Anna? Ogni personaggio ha una ricca vita intima. Ogni angolo della città racconta una storia d'amore infelice. Ogni pagina scoppia di dettagli, odori, suoni, colori. All'ombra del Vesuvio, sotto un'aura magica di miti e leggende, è possibile predire l'identità dell'anima gemella; gettare fatture mortali; innamorarsi al suon di aneddoti su regine e puttane.

Le mani di Antonio risvegliavano tutto, con una potenza dolorosa che faceva gemere Uvaspina come una giovenca: nel tocco di Antonio c'era la misura di tutto l'amore che negli anni lui aveva dovuto ingoiare e poi vommecare nel cesso che si affacciava sulla Marinella.

La lingua bellissima di Monica Acito, non contenta della tanta carne al fuoco, fa scintille e fuochi artificiali. C'è troppo, di tutto. E a lungo andare, prolisso, il romanzo perde l'umorismo e il senso del grottesco iniziali (l'incipit somiglia a “Filumena Marturano”); diventa una tragedia senza fondo, in cui perfino gli elementi del folklore locale assumono connotati luttuosi. Senza equilibrio, fuori scala, “Uvaspina” non si mette scuorno di niente: nemmeno delle sue mani unte d'olio evo; nemmeno della sua pelle che puzza di sigarette di contrabbando, sperma e sangue di polpo.
Come non uscire stanchi dopo un tale stordimento sensoriale? Come, tuttavia, non uscirne grati? L'ho letto in gita in Campania. Mancavo a Napoli da un po'. A modo mio, mi mancava. Ma sul treno del ritorno, a riparo dagli schiamazzi della mia scolaresca e dai clacson dei motorini a picco nei Quartieri Spagnoli, mi sono contraddetto ancora e mi sono detto: per fortuna torno a Torino.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Madame – Nimpha

mercoledì 3 maggio 2023

Recensione: Lapvona, di Ottessa Moshfegh

| Lapvona, di Ottessa Moshfegh. Feltrinelli, € 18, pp. 270 |

È il romanzo che non ti aspetteresti da qualcuno come lei. Un'autrice un po' radical chic; una da salotti raffinati e sbadigli nei caffè lunghi di Starbucks. Questa volta si sporca le mani e retrocede in un terrificante Medioevo, ma con sé porta pur sempre una curiosa ventata pop. In esergo c'è una canzone di un'ex stellina Disney, Demi Lovato, e subito dopo la descrizione meticolosa dei contorcimenti di un efferato bandito condannato al patibolo. Siamo in un villaggio di un Paese indefinito: la bellezza è una colpa incancellabile, la morte una compagna costante, il dolore un ponte verso Dio. In cima alla collina svettano i cancelli, guai a oltrepassarli, del feudatario. Da lì l'esilarante Villiam guarda il mondo dei villici come se fosse una messinscena: per sfuggire alla noia che lo attanaglia, il sovrano costringe la servitù a ridicole danze e organizza piccoli attentati con cui si sollazza alla stregua di spettacoli. 

Era una ragazza forte, ma aveva la morte dentro. La morte è così. Come un mendicante che ti segue lungo la strada. E ti ammazza.

Tra i suoi sudditi c'è Marek, tredici anni e gravemente deforme: un novello Quasimodo, quasi, figlio del gelido pastore Jude e di una madre dai capelli rosso fuoco, di cui non resta che una misteriosa tomba vuota. A salvarlo dalla miseria potrebbero essere Ina, strega centenaria dai seni copiosi di latte, e una impensata ascesa sociale. Ma tra parenti redivivi, scenografiche nozze in rosso e banchetti luculliani a Natale, nessuno è al sicuro; soprattutto se ci si appresta alla nascita di un nuovo Messia e se ci si allontana dall'innocenza primigenia degli umili. Ne ucciderà più l'ignoranza che la spada. Insomma: prendete le ambientazioni cupissime del Trono di spade e mescolatele all'umorismo caustico, al senso del ridicolo, del cinema del greco Lanthimos. Otterrete un soggiorno a Lapvona: una satira sui (nostri?) tempi bui che, a dispetto dei toni parodistici, si fa prendere tremendamente sul serio.

Certe volte qualcosa di nuovo può ricordarti quello che hai perduto.

È un piacere smarrirsi nella sua gustosissima (ma irrisolta) galleria di personaggi borderline, prostrati da pestilenze, ansie e avidità. È un orrore soffermarsi sulle descrizioni più truculente (sadomasochismo, squartamenti, stupri, cannibalismo), rese però irresistibili dalla bellezza sublime delle scrittura. A una prima parte da incorniciare, morbosa e fiabesca com'è, ne segue una seconda sfilacciata e inconcludente: ho avuto l'impressione che la narratrice, onnisciente ma troppo indolente per tirare le briglie delle numerose sottotrame, a un certo punto non sapesse più cos'altro aggiungere, chiuso il suo carosello di ammiccamenti e nefandezze. Come la pesca addentata da Marek nel romanzo, Lapvona nasconde difetti sotto la sua buccia succulenta: un verme. È una natura morta. L'apprezzamento della lettura, e del lauto pasto, dipenderanno dalla suscettibilità del nostro palato.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – King

venerdì 21 aprile 2023

Recensione: Un giorno di festa, di Joyce Maynard

| Un giorno di festa, di Joyce Maynard. NN Editore, € 19, pp. 240 |

Lei, Adele, è una mamma single che ha chiuso con il mondo: improvvisamente sembra essere diventato troppo per lei. Ex ballerina, ha riposto le scarpette e il cuore in un cassetto a seguito di un divorzio dolorosissimo. Chiusa in una casa ai margini della provincia, accumula provviste per limitare gli andirivieni al supermercato e si lecca amaramente le ferite in compagnia di Henry, l'unico figlio. Lui, Frank, è un galeotto braccato dalla tragedia: sull'uomo, reduce di guerra evaso dopo diciotto anni di carcere, pendono una taglia di diecimila dollari e l'accusa di omicidio colposo. In fuga dalla polizia, si rintana a casa dei protagonisti. Li prende in ostaggio, o forse, presso di loro, trova semplicemente e finalmente rifugio. In un film di un decennio fa – trasposizione cinematografica felicissima – i due erano interpretati dagli splendidi Kate Winslet e Josh Brolin. Dalla loro convivenza forzata nascerà una struggente storia d'amore lunga sei giorni appena.

Ovunque tu scelga di vivere, c'è sempre un'altra casa, un'altra persona che ti chiama. Vieni da me. Torna qui.

A raccontarla è Henry, tredicenne precoce e in piena tempesta ormonale, abituato sin dall'infanzia a osservare senza pregiudizi i punti di rottura degli adulti. Rievocata da un altro narratore, probabilmente, questa stessa storia si sarebbe prestata alla doppiezza; alla morbosità. Adele è vittima della sindrome di Stoccolma? Frank è il suo carceriere? Henry, che durante la notte sente spesso la testiera del letto picchiare contro il muro della camera matrimoniale, è il testimone di un abuso? Prevalgono le ragioni del cuore, non quelle della ragione; una scrittura delicata, eppure tesissima insieme, in grado di creare un erotismo avvolgente e un'atmosfera sospesa nella sonnacchiosa canicola estiva. L'arrivo del galeotto è vissuto dall'adolescente con un misto di spavento ed eccitazione. Come il resto dei suoi coetanei, pensa al sesso in continuazione e vede il suo corpo cambiare. Presto cambia qualcosa anche in quella madre che a volte beve un po' troppo e, spenta, è abituata ad avere Henry come unico confidente. Lo sviluppo della sessualità del ragazzino è parallelo al risveglio sessuale della madre. Frank è un uomo con spalle larghe e mani grandi. Frank cambia le lampadine guaste, prepara la moka al mattino, cucina un ottimo chili. Frank, con gesti lenti e morbidissimi, è capace tanto di legare i polsi degli ostaggi con foulard di seta quanto di mulinare in aria una mazza da baseball.

Mia madre e Frank erano come due naufraghi su un'isola tanto sperduta che nessuno li avrebbe mai trovati, ciascuno con nient'altro a cui aggrapparsi eccetto la pelle dell'altro, il corpo dell'altro. O forse non era nemmeno un'isola, solo una scialuppa di salvataggio in mezzo all'oceano, anche quella in procinto di sfaldarsi.

È troppo tardi per essere una famiglia? Soprattutto, si è troppo mal assortiti per immaginare un futuro insieme – magari oltre il confine? In certi weekend festivi, in certi romanzi, sembra tutto possibile. Anche vincere l'inevitabile gelosia che si avverte quando un genitore s'innamora e, per un attimo, si ha la sensazione di essere lasciati indietro. Mosso da una spasimata voglia di contatto umano, Un giorno di festa è un gioiello di tensione emotiva imprevedibile fino all'ultimo, così com'è imprevedibile l'animo adolescente. Joyce Maynard, annullatasi per magia dietro il punto di vista maschile, ci invita a camminare in punta di piedi, a trattenere il respiro, a far piano: potremmo disturbare il filosofeggiare di Frank, che attraverso i segreti per una perfetta pasta frolla sembra raccontare quelli della felicità, o spezzare il fragile incanto di questo melodramma degno di I ponti di Madison County, non pensato per la voracità di occhi indiscreti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Joni Mitchell – A Case of You

venerdì 14 aprile 2023

Recensione: Daisy Jones and The Six, di Taylor Jenkins Reid

| Daisy Jones & The Six, di Taylor Jenkins Reid. Sperling & Kupfer, € 16,90, pp. 352 |

È la band sulla bocca di tutti. Passata dalle biografie di carta e inchiostro al menu delle novità di Amazon Prime Video, appassiona e fidelizza generazioni lontane. Impossibile che le ragazze non traggano ispirazione da Daisy: bellissima, volitiva e appassionata, sfoggia una voce roca alla Janis Joplin e cerchi dorati alle orecchie subito iconici; peccato che i suoi pessimi vizi, tra alcol e amfetamine, la rendano imprevedibile. Impossibile che i ragazzi non confidino di intraprendere la stessa scalata sociale di Billy Dunne: venuto dalla monotona Pennsylvania con l'amata compagna Camila al seguito, si infiamma quando canta la vergogna delle dipendenza e le gioie della recente paternità. All'apparenza inconciliabili, Daisy e Billy (insieme agli altri cinque membri della band di lui) sono stati accoppiati per una trovata di marketing come tante. Ma una collaborazione occasionale li ha resi presto squadra, all'indomani dello straordinario successo radiofonico del loro primo feauting. In quell'occasione hanno condiviso lo stesso microfono e, pare, occhiate infraintendibili. Correvano gli anni Settanta. Ci voleva poco a diventare icone; meno ancora meteore. Che fine hanno fatto ora Daisy Jones e i Six, scomparsi poco dopo il successo? Hanno minato al loro equilibrio i complessi di inferiorità degli altri musicisti, confinati nell'ombra da un leader tanto carismatico quanto prepotente? È stata colpa di Karen, la tastierista, che in nome degli ideali femministi rinunciò all'amore? O la passione platonica tra Daisy e Billy, fiutata dalla moglie di quest'ultimo, avrebbe infine portato le due primedonne allo scontro?

Essere la musa di qualcuno non mi interessava. Io non sono una musa. Io sono quel qualcuno. Fine della storia.

Investiga Taylor Jenkins Reid, già fortunatissima autrice dei Sette mariti di Evelyn Hugo. Dopo averci svelato i segreti della Golden Age hollywoodiana attraverso le relazioni di un'intramontabile diva del muto, questa volta passa dal cinema ai concerti rock; dagli anni Venti all'era di Woodstock. Ah, sì: Daisy e gli altri, al pari di Evelyn, sono personaggi di finzione. Falsa biografia, raccontata sotto forma di interviste ai membri della band, il romanzo rinuncia a una narrazione classica: ne guadagna in credibilità, ma ne perde in ritmo. È una canzone senza il groove. Un ritornello che inizialmente cattura, poi annoia. La colpa è principalmente del taglio narrativo, a lungo andare stancante, e della caratterizzazione stereotipata di luoghi e personaggi. L'autrice mette in un frullatore tutti gli aneddoti e le sciagure delle star amatissime, i costumi e le scenografie occhieggiate su Pinterest; immagina per le sua band perfino un repertorio (leggere le canzoni, forse, è la parte più sorprendente). Ma il tutto, laccatissimo, ha una patina di finzione che non convince. Manca il sesso; di droga ce n'è quanto basta; il rock 'n roll, ingentilito, farà storcere il naso agli appassionati. Venuta meno le credibilità, lo si finisce di leggere soltanto per la curiosità salottiera con cui si seguono alcuni servizi di Verissimo alla TV. E il perché dello scioglimento dell'iconica band, francamente, non è poi questo gran mistero. Domandatelo ai Beatles.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Daisy Jones & The Six - Aurora

venerdì 31 marzo 2023

Recensione: Cieli in fiamme, di Mattia Insolia

|Cieli in fiamme, di Mattia Insolia. Mondadori, € 18,50, pp. 256 |

Quando passa la fame? I protagonisti dell'esordio di Mattia Insolia seguivano lo stomaco e l'istinto animale. In una provincia cannibale, non vivevano: sopravvivevano. Cresciuto, ma per fortuna non troppo, l'autore catanese torna in libreria a tre anni di distanza. E la fame, di vita e di morte, di tutto e subito, chimica e soverchiante com'è, resta la stessa. Teresa, Riccardo e Niccolò hanno lo stesso metabolismo assassino dei passati protagonisti. Al tempo si era parlato di fratelli. Ora, in una polveriera sanguinaria di non detti e oscenità, al centro ci sono i genitori e i figli. Ogni parola di Insolia, indelicato e proprio per questo coraggiosissimo, è una detonazione.

Il dolore è il più rigido dei capifamiglia.

A esplodere per prima è la pubertà in Teresa: siamo al principio del nuovo millennio e lei, in vacanza al Sud, è una sedicenne succube di un padre inerme e di una madre spietata. Irrequieta, vorrebbe bruciare le tappe al pari delle altre adolescenti, ma si sente indesiderata perfino nella sua stessa famiglia. Chi potrebbe amarla, con i suoi vestiti da bambina e un seno abbondante che porta alla stregua di un'onta? Non Riccardo, bello e cattivo, che illuminato dalla luce del tramonto le sembra il capo di una tribù selvaggia: il re del mondo. È un peccato mangiare la carne di venerdì, lasciarsi iniziare al mondo degli adulti, sentirsi "scopabile" agli occhi rapaci di un maschio? Tra loro non nascerà un amore struggente, bensì un odio viscerale lungo vent'anni. E un figlio non previsto, Niccolò: in viaggio con il padre derelitto, diretto lì dove tutto ha avuto inizio, il terzo protagonista interrogherà ad alta voce le proprie paure inconsce. È forse uguale a quel suo genitore scellerato, che sulla soglia dei quaranta filosofeggia e fa a botte come se la giovinezza non fosse mai finita? Arrabbiato, vizioso e narcisista, Niccolò fatica a comprendere Riccardo - sono due paesi in guerra, con due lingue diverse -, ma nei passaggi più felici del romanzo, tra palloncini legati al polso e trip allucinogeni condivisi fianco a fianco, ispirano commozione.

Ci si abitua a tutto: alla bellezza e alla mostruosità. Perché succeda non serve né odiare né dimenticare chi ci ha fatto del bene ed è andato via, non serve né perdonare né uccidere chi ci ha fatto del male ed è rimasto. Si diventa indifferenti, si offusca la vista. E un pezzetto di noi muore.

Sono animali teneri e amorali, sono l'uno lo specchio dell'altro. Ma somigliarsi, a volte, è una maledizione. Lo scopriranno protagonisti e lettori, in una storia senza luce né perdono. Sulle vacanze di Teresa, sulla macchina di Riccardo e Niccolò lanciata a velocità folle sull'autostrada, incombe per tutto il tempo un cielo grigio asfalto: minaccia apocalisse. I loro mondi distanti sembrano in rotta di collisione. C'è chi scalpita per non farsi ingabbiare in una forma, per lasciarsi accadere. E chi, dietro una maschera di trucco, trova finalmente conforto: una specie di senso d'appartenenza. L'irrequietezza è ereditaria? E la violenza? Esiste una cura contro gli inciampi del DNA e gli errori dei genitori? Mettere al mondo un figlio è un atto di egoismo. A pugni stretti contro l'incertezza contemporanea, siamo costretti, a parte inverse, a prenderci cura anche della fallibilità dei nostri genitori.

I figli sono coacervi di rimorsi e rimpianti, dolori e piccole felicità mai dimenticate o vissute che i genitori, poveri diavoli che lottano per preservarsi dall'annientamento, costruiscono nel tentativo di ricostruirsi. Mescolandoli a quell'amore che sono convinti, e felici, di riversare nei propri figli, infilano nel risultato della loro unione pure tutti i materiali di scarto accumulati fino a quel momento. Per alleggerirsi, discolparsi e, infine, amarsi.

Chi ci protegge, ora che gli adulti responsabili di turno siamo solo e soltanto noi - eredi della disfatta dei padri? Se lo chiede Niccolò. Se lo chiede Insolia. E, senza sforzi, accomunato dalla stessa stanchezza, gli ho fatto eco io. Cieli in fiamme è un viaggio al termine della notte da compiere in solitaria. Mosso da sentimenti ancestrali, amarissimo e amatissimo, abbandona le sue creature al buio. Ma, su una spiaggia, di notte, eccole sollevare per la prima volta le teste dai loro mostri e cercare con gli occhi la benevolenza celeste. Sarà così che torneranno “a riveder le stelle”. E vorranno divorarle.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gianmaria – Mostro

martedì 28 marzo 2023

Recensione: Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland

 
| Le sorelle Hollow, di Krystal Sutherland. Rizzoli, € 17, pp. 360 |

A prima vista sembrano “le vergini suicide” del film di Sofia Coppola. Pallide, bellissime, inquietanti: senza paura. Hanno nomi di quattro lettere ciascuno e un legame viscerale, che misteriosamente va al di là del sangue. Le hanno unite il bosco e il trauma. Sparite durante la notte di Capodanno quando erano bambine, furono trovate un mese dopo nello stesso luogo in cui erano scomparse: nude, con una cicatrice a mezzaluna alla base del collo. Sane, non salve. Crescendo si sono allontanate. Grey, bellissima e spregiudicata, posa sulle copertine di Vogue e mescola l'alta sartoria con l'imbalsamazione; Vivi, bassista in un gruppo rock, sciupa la sua avvenenza con piercing e tatuaggi e provoca continuamente; infine c'è Iris, la minore, che vorrebbe passare disperatamente inosservata ma deve convivere con i non detti della madre e l'eredità ingombrante delle sorelle. Di loro si dice che siano sirene, streghe, alieni. Esercitano una misteriosa fascinazione su uomini e donne. Hanno una fame vorace, insaziabile. Vengono realmente da mondo ultraterreni, o hanno forse ereditato la follia del padre, morto suicida?

Eravamo sorelle. Sentivamo il dolore delle altre. Provocavamo dolore alle altre. […] Ci difendevamo. Ci mentivamo. Fingevamo di essere più grandi, diverse: travestirci era un gioco per noi. Ci spiavamo. Ci possedevamo come oggetti luccicanti. Ci amavamo con furia ardente e intensa. Furia animale. Furia mostruosa. Le mie sorelle. Il mio sangue. La mia pelle. Che legame raccapricciante condividevamo.

Dopo due bellissimi romanzi sulle fragilità del cuore adolescente, una irricoscibile Krystal Sutherland sposa l'horror a sfondo esoterico e le atmosfere crepuscolari di Shirley Jackson. Il suo ritorno in libreria è mellifluo e respingente, bello e spaventoso: un intreccio di ghirlande e incubi, fanciulle incantevoli e uomini-bestie, che diventa un'ossessione irrinunciabile una pagina dopo l'altra. Ambientato tra l'Inghilterra e la Scozia, prende avvio dalla scomparsa della sorella maggiore alla stregua di un giallo e si snoda, poi, in una caccia al tesoro senza esclusione di svolte spiazzanti. A tratti, mette una paura matta. Cosa finisce nella fessura del divano, dove si annidano monetine e briciole di popcorn? Cosa si nasconde nelle intercapedini della nostra realtà? È stata una lettura lontana dalla mia comfort zone soltanto all'apparenza. Le sorelle Hollow è un ritorno alle coccole e agli orrori della mia adolescenza. A quando vivevo per storie così e, in segreto, ne scrivevo di mio pugno (una l'ho perfino pubblicata).

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey - Gods & Monsters

venerdì 17 marzo 2023

Recensione: La vita intima, di Niccolò Ammaniti

| La vita intima, di Niccolò Ammaniti. Einaudi, € 19, pp. 302 |

Niccolò Ammaniti mi ha cresciuto. Per anni è stato casa, scuola. Quando sono diventato insegnante, ho portato le sue storie nelle mie classi. Una volta a settimana, anche col raffreddore, il venerdì le leggo a voce alta ai miei studenti. Con le sue avventure e i suoi crimini, con i suoi incantesimi e le sue parolacce, si diventa magicamente adulti fra i campi di grano e le cantine polverose. “Questo non è un romanzo che avrei il piacere di condividere con qualcun altro”, ho pensato al termine della Vita intima. Un ritorno (purtroppo non di fiamma) nel segno della delusione. Dove sono l'umorismo caustico, le trovate strampalate, il piglio cinematografico? Niccolò, dove sei?

Le storie, quelle importanti, quelle che cambiano la vita, sono fiumi impietosi, difficili da imbrigliare. Tu gli metti un ostacolo e loro deviano, trovano un'altra via per fluire. E a me piace che questa storia inizi così, con un urlo di dolore.

È stato senz'altro bravo a farsi da parte per scomparire nei vestiti di una protagonista eccezionalmente femminile. Si chiama Maria Cristina, è la moglie trofeo del premier in carica e per gli algoritmi, anche con qualche ritocchino estetico di troppo, resta la donna più bella del mondo. È Maria Tristina per coloro che la immaginano vuota e infelice: un inanimato feticcio da copertina. È Maria Pompina per un ex fidanzato che potrebbe rovinarle di colpo la reputazione attraverso la diffusione di un sex tape di gioventù. Ma chi è davvero questa novella Emma Bovary una volta spente le luci dei riflettori? Piccola storia di una piccola rivoluzione femminista (passa da un nuovo colore di capelli agli accordi per un'intervista esclusiva), La vita intima è una dimenticabile commedia umana su una donna in preda al disagio di esistere: sarà abbastanza coraggiosa per non soccombere al peso della sua stessa bellezza? Ci sono le paranoie, le ansie, le ossessioni, i dolori fisici e spirituali. Ci sono, sparsi, i soliti comprimari sopra le righe: il mitico Bruco – un po' social media manager, un po' deus ex machina – avrebbe meritato, ad esempio, un romanzo per sé. Manca, purtroppo, tutto il resto.

La bellezza, senza coraggio, è un guaio.

Godibilissimo e nulla più, il romanzo rinuncia alla crudeltà strada facendo e appare la versione meno perturbante del bell'esordio di Nicoletta Verna. L'autore premio Strega, nonostante tutto, è un sommozzatore coraggioso. Scandaglia i fondali della sua eroina senza perdere mai l'orientamento né la credibilità. La guarda da fuori, onnisciente e sfrontato quanto basta, ma ne ricostruisce meticolosamente la psicologia. Restituendole, infine, ciò che reclamava sin dal titolo: il diritto, fiero e gioioso, forse anche un po' banale, a una propria sfera interiore. Ma nel guado, inevitabilmente, si bagna. Si annacqua. E, nella corrente, perde così l'attenzione di qualche affezionato della prima ora come il sottoscritto. Allora benvenuta, cara Maria Cristina, finalmente uguale a te stessa e a nessun'altra; ma, non senza timore, arrivederci Niccolò. Chiusa questa parentesi, spero non sia un addio.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Miley Cyrus – Flowers