giovedì 27 febbraio 2020

Recensione: Insegnami la tempesta, di Emanuela Canepa

| Insegnami la tempesta, di Emanuela Canepa. Einaudi, € 17,50, pp. 240 |

Basta un esordio bellissimo per trasformare il ritorno in libreria di un autore in una festa grande. Dopo la folgorazione che fu L’animale femmina, opera prima ambigua e seducente con un punto di vista spiazzante sui ruoli di potere e le rivalse post metoo, di Emanuela Canepa avrei letto tutto e subito. A scatola chiusa. Attratto dal titolo e dalla copertina, ma soprattutto dal suo nome scritto in cima in grassetto, mi sono buttato su Insegnami la tempesta senza informarmi. Quella storia senz’altro più convenzionale – di madri e figlie, di amicizie tramontante, di amori e dissapori: con il senno di poi ho pensato a Simona Sparaco e Sara Rattaro – avrebbe avuto la mia attenzione altrimenti? Non credo. E onestamente non ne avrei sentito la mancanza, aspettandomi da questo ritorno attesissimo qualcos’altro; qualcosa di più. Diversa dal previsto, è una lettura che saprei bene a chi consigliare ma che personalmente non mi ha mai coinvolto. Si può parlare di delusione – la prima dell’anno –, o forse sono io in difetto, dal momento che in duecento pagine non mi sono abituato al cambiamento di tono dell’autrice?

Lo so che è un’adolescente, ma lo è anche per te, invece vi vedo sempre insieme. O l’adolescenza è una condanna che devono scontare solo le madri?
Le incandescenti atmosfere teatrali dell’esordio lasciano spazio alle incomprensioni di una casa medio-borghese al centro di Roma. Palcoscenico di litigi e musi lunghi, l’appartamento sembra all’improvviso troppo piccolo per una coppia consolidata e una figlia adolescente. Come ripararsi dall’ostilità di una diciottenne altera e indipendente, che già si sente troppo adulta per avere bisogno di mamma? Se lo chiede Emma, che per la figlia Matilde – avuta prima di finire l’università – ha rinunciato a tutto. Si tratta di piccoli screzi: un taglio di capelli fatto senza avvisare, un Capodanno passato in montagna con i compagni di scuola, l’annuncio di un viaggio in estate. Perché quell’irruenza nel volere abbandonare tanto presto il nido? Perché la preferenza verso il dolcissimo Fausto, che l’ha cresciuta con devozione ma in realtà non è neppure il padre biologico? Istitutrice dal pugno di ferro più che madre, Emma è un personaggio di rara antipatia. Sarà che sono figlio, non genitore. Sarà che ho ben compreso (in parte) il gesto di Matilde, che a un certo punto – in seguito a una rivelazione che non vi svelo – scappa a gambe levate e si rifugia nella pace di un convento. A fare da vice badessa, e da collante, in quell’ambiente fatto di mantelli candidi e litanie sommesse c’è Irene: vecchia conoscente di Emma, nota un tempo per il carattere ardimentoso, ha scelto il chiostro con sommo disappunto dell’amica. Una forma di libertà estrema, incomprensibile a molti, che somiglia a una forma di prigionia. A questo punto lo svolgimento sembra chiaro: attendere l’arrivo della protagonista in un ambiente quieto, in territorio neutrale, per confrontarsi, ricordare, e magari accettare la crescita e la sessualità di Matilde. L’amara constatazione che, volente o nolente, il prossimo anno andrà lontano.

Può esserci amore anche nella furia. Può esserci amore nella distanza.

Peccato che quella in convento sarà una tappa fugace e che le tre donne non interagiranno mai contemporaneamente. Giunta Emma, sua figlia prende un treno per Cesena per visitare il campus universitario. Perché allora rivolgersi brevemente a Irene, sconosciuta di cui ha sentito parlare solo in un’isolata occasione, pochi giorni prima? Perché ricercare le radici di un’amicizia interrotta – appena accennata per altro – per poi costringere la genitrice all’ansia e il lettore a un lungo andirivieni in treno? Perché fare di Irene una suora di clausura, e non un’insegnante, una sarta, un’elettricista? Se da un lato la donna è il motore della narrazione, a ben vedere un po’ forzato, dall’altro la vicenda avrebbe avuto tranquillamente lo stesso esito togliendola dal triangolo. A mio avviso, infatti, il miracolo dell’eventuale riconciliazione non dipende da lei. Emma, all’inizio così irritante, finisce allora per essere il personaggio più umano e coerente.
Raffinata e minimalista, l’autrice conferma ancora una volta la sua abilità: fa parlare più i gesti che i dialoghi; ama gli scandagliamenti psicologici a tappeto e i personaggi asprigni, in lotta con sé stessi. Il problema è stato fare i conti con la mancata tempesta del titolo, bellissimo e fuorviante. Con la bonaccia di una storia che altrove già miete approvazioni – e sono felice per Emanuela – ma che non mi ha affatto appassionato. In fondo sono atti di fede: la clausura, l’amicizia, il matrimonio, i figli, e perfino secondi romanzi da cui non si sa mai bene cosa aspettarsi. Evidentemente scettico, questa volta non ci ho creduto.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Arisa – Controvento 

lunedì 24 febbraio 2020

Recensione: I cariolanti, di Sacha Naspini

| I cariolanti, di Sacha Naspini. Edizioni E/O, € 16, pp. 170 |

Sangue freddo, pelo sullo stomaco, nervi d’acciaio. Pensavo di averne in quantità. Cresciuto a pane e Stephen King, infatti, ho scoperto sin da ragazzino il fascino dei personaggi borderline e delle storie disturbanti. La follia mi intriga. In un’altra vita studierei Psichiatria per comprendere meglio i meccanismi mentali, le relazioni di causa-effetto, le origini del disagio. A sorpresa, I cariolanti ha messo a dura prova le mie resistenze: inizialmente pubblicato da Elliot Edizioni, è tornato in libreria grazie al successo che si è meritato nel frattempo Sacha Naspini – autore che desideravo leggere da un po’. Non indorerò la pillola. In questa storia essenziale e feroce, che conta poco più di cento pagine complessive, in ordine sparso vengono inclusi: cannibalismo, incesto, infanticidio, necrofilia. Ma nel bel mezzo di una carestia, cos’è lecito e cosa no? Perfino la moralità non ci vede più dalla fame.

Io non lo so se ho mai provato la fame quella brutta, quella che neanche ti fa dormire e se per caso ci riesci non fai che sognare quello: di mangiare. La fame quella che ti fa impazzire, tanto che cominci a guardare il secchio dei bisogni, o scavi con un dito per terra, in mezzo a una fessura delle tavole, alle volte ti capitasse un baco tra le mani. Giuro che ti metteresti in bocca di tutto, se piangi non fai che leccarti le mani per sentire il salato. […] Io non lo so se ho mai provato quella fame lì. Quella che a un certo punto, una volta, ha fatto dire al mio babbo: «Ora mi levo dal mondo e mangiate me».
Come in Stanza, letto, armadio, specchio i protagonisti vivono estraniati, in un buco nel bosco. È il quarto Natale che il narratore, il piccolo Bastiano, passa sottoterra insieme al resto della famiglia. Dal soffitto malsicuro grondano pioggia, fango, urina, scoppi  e grida. Fuori si sta combattendo la Prima guerra mondiale e il padre, disertore, si nasconde. Con una lancia affilata, abbandonando di rado la sua postazione caccia animali e all’occorrenza anche uomini: la carne, gommosa, viene arrostita alla bell’e meglio stendendo una coperta contro l’imboccatura del bunker affinché il fumo non li smascheri. Segnato dai fatti dell’infanzia, Bastiano capisce che certi conflitti non finiscono mai per davvero: in palio c’è la sopravvivenza. Inquadrato tra i nove e i cinquantadue anni, somiglia a un Forrest Gump rosso di rabbia che ripercorre di corsa i peggiori anni della storia italiana. Dopo aver sperimentato una sepoltura in vita, questo selvaggio dagli ipnotici occhi verdi – incuriosito dall’altro sesso, migliore amico di cani randagi e cinghiali – racconta le sue rocambolesche disavventure ora a una scrofa da macellare, ora ai parenti defunti.  Emerge il ritratto di un Paese messo alla prova dalle difficoltà della ripresa economica, fatto di casupole di fortuna, prostitute senza scelta, streghe presunte. Dappertutto, lì, vige la legge del più forte. Cane mangia cane, cane mangia uomo, uomo mangia cane, uomo mangia uomo: in tutte le combinazioni possibili e immaginabili della sofferenza, del disgusto, della verità. Soldato in Grecia, a un certo punto, Bastiano sperimenterà anche forme di violenza istituzionalizzate e in compagnia di qualche donna si scoprirà “sincero, anomalo, immune alle calamità che affliggono la gente”; dunque degno d’amore.

Sai, c’è il punto oltre il quale non si può andare. Forse, dopo aver pianto tante lacrime, un po’ ci stanchiamo del dolore. È come un’ombra che ormai ti ha gelato l’anima, ti accadono le cose e tu ne resti sempre un po’ fuori, le guardi da lontano, non sono più tue.
I cariolanti è la parabola di un uomo in cerca di vendetta e di magre forme di consolazione: a caccia di privilegiati, belle bambine e recriminatorie paurose. Ma è, ancora, la descrizione di colline trasformate realmente in un cimitero a cielo aperto. Un microcosmo popolato da creature da incubo, con lo sporco sin sotto le unghie; feccia di verghiana memoria che non abbaia, ma morde per ammazzare. Sconvolgente e destabilizzante, il romanzo di Naspini è una lezione di sopravvivenza – sull’imprevedibilità degli appetiti umani e delle traiettorie dei loro coltellacci – sconsigliata ai deboli di cuore. Al contrario, verrà amata da lettori a digiuno da un po’ di emozioni indelebili. Gli ho trovato un unico difetto: troppa carne al fuoco, poche pagine. All’horror puro della parte centrale, un calderone di brutture bruttissime, avrei preferito un andamento più verista; la lucidità del romanzo storico. D’altra parte, però, come non applaudire una scrittura fantasiosa, varia, straordinaria? Ogni capitolo racconta un’età di Bastiano, e ha uno scenario, un destinatario e spesso un punto di vista totalmente diverso dal precedente. Si susseguono monologhi ininterrotti, lettere mai imbucate, pagine di un diario adolescenziale. Espedienti narrativi incastonati con saggezza in una struttura ad ampio respiro, eppure singhiozzante, frammentaria e spigolosa al contempo: dove tutto torna, poi, in vista di un epilogo pieno di poesia e squallore che si rivela essere la chiusura simmetrica di un cerchio perfetto. Un cerchio nella terra, sì. Che sembra il canale attraverso il quale veniamo al mondo, o la bocca socchiusa dell’inferno.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Argentovivo – Daniele Silvestri feat. Rancore

sabato 22 febbraio 2020

Mr. Ciak: Yesterday, Blinded By the Light, Last Christmas e altri feel-good movies

Cosa succederebbe se in seguito a un blackout ci svegliassimo tutti in un mondo senza Beatles? Soltanto un cantante di belle speranze sembra tenere a mente le migliori canzoni del quartetto. Perché non spacciarle per proprie pur di ottenere la spasimata notorietà? Dirige Danny Boyle. Scrive Richard Curtis, di solito in equilibrio tra romanticismo e magia. L’idea alla base, semplice e brillante, purtroppo si rivela uno specchietto per le allodole: con uno spunto presto accantonato – pensate a quanti equivoci e alla portata del potenziale comico, se nel frattempo sono sparite anche le sigarette, gli Oasis, la saga di Harry Potter –, per parlare della solita scelta tra successo e amore; con uno sviluppo telefonato e un finale stucchevole. A sorprendere sono soltanto la regia, sottotono alle prese con la leggerezza del genere, e una cotta improvvisa per una Lily James splendida come non mai. Passato in sordina e al centro di slittamenti contini, Yesterday aveva tutto – la colonna sonora da cantare a squarciagola, la sceneggiatura di una firma amatissima – per diventare il film del cuore. Invece gli si vuol bene, per poi scordarlo l’indomani. (6)

Un altro ragazzo prigioniero della vita di provincia. Un altro straniero, questa volta pachistano. Altra musica: non i Beatles ma il Boss a salvare il nostro eroe da tempi amarissimi: una crisi economica che somiglia preoccupantemente alla nostra, da cui fuggire in maniera letterale e metaforica con le cuffiette del walkman premute nelle orecchie. Prendete l’ambientazione di Pride, aggiungete la musicalità di Sing Street. Il risultato, una tipica storia di conflitto generazionale e bullismo, con canzoni famose a far da collante, finisce più per somigliare a Un’avventura che ad Across the universe. Le colpe spettano a una scrittura e a un montaggio troppo televisivi. A toni incerti, sospesi tra il musical e la commedia adolescenziale. A una colonna sonora a puntino, che coinvolgerà soltanto i fan di Bruce Springsteen e annoierà i profani come il sottoscritto. Romanzo di formazione pretestuoso e un po’ smielato, somiglia all'invito a una festa in cui non siamo invitati. Nell’angolo, annoiati, ci limitiamo a battere il rimo con il piede. (5,5)

Siamo già nell’Inghilterra agrodolce della Brexit, diffidente verso il prossimo. La protagonista – altra aspirante cantante, altra straniera, altra fangirl: però del compianto George Michael – è una pasticciona con gravi problemi di salute e di autostima. Vittimista e disfattista, abile a rinnegare tanto origini etniche quanto sogni, sfoggia un sorriso forzato in un negozio di articoli natalizi. Fino all’arrivo di un ragazzo misterioso, che si muove a passo di danza e salta fuori sempre all’improvviso. Meno sbrilluccicante e brioso del previsto, per fortuna anche meno stucchevole, Last Christmas funziona come percorso di maturazione di una convincente Emilia Clarke e trampolino di lancio per il bel Henry Golden, già visto in Crazy Rich Asians, con tanto di colpo di scena a effetto – per quanto intuibile. La partecipazione amichevole di Michelle Yeoh ed Emma Thompson dà colore al tutto.  Commedia romantica nevosa e interraziale, con una novella Fleabag a bordo, è l’ennesima variazione sul tema del classico di Charles Dickens. Trasognata e romantica, magica il giusto, non è l’erede di Love Actually ma nemmeno un film da evitare nei pomeriggi di Canale Cinque. Odiando il Natale, sarebbe potuta andare peggio. (6,5)

Lei, annoiata da un matrimonio lungo quindici anni, desidera la maternità e divide la casa con un secondo uomo: l’idolo di un marito ossessivo e distratto, la cui fama è iniziata e finita negli anni Ottanta. Il cantante in questione, nel frattempo invecchiato, ha figli sparsi nei quattro angoli del mondo e risponde con curiosità all’email di lei: non una fan ma una detrattrice, che però tra le righe lo diverte e lo seduce. Si incontrano a Londra, durante una riunione di famiglia. Si innamoreranno mica? Da uno spunto fiabesco nasce una commedia tanto verosimile da sovvertire piani e cliché. All’apparenza, infatti, è tutto sbagliato. Il triangolo sentimentale si scioglie in fretta; tra Rose Byrne ed Ethan Hawke non c’è una canonica storia d’amore, con un bimbo che scombina pure le carte in tavola. Un po’ amicizia di penna, un po’ vendetta, Juliet Naked è un delizioso colpo di fulmine con un cast di bravissimi e ritmi invidiabili. Abbondano le riflessioni sui postumi della fama, sulla genitorialità, su un passato che imprigiona. E, a sorpresa, trionfa una morale femminista, con una donna che all’occorrenza ha il coraggio di scegliere. Garantisce Nick Hornby. (7)

Fissati per quel giorno hanno entrambi appuntamenti importanti. Lui ha un colloquio presso un’università prestigiosa, lei con l’ufficio immigrazione. A farli conoscere, coincidenze o il destino? Prima la metropolitana in ritardo, poi i reciproci incontri slittati, infine una scritta sulla giacca di lei che casualmente riporta il titolo dell’ultima poesia di lui. Da un lato abbiamo un ragazzo asiatico con l’animo poetico. Dall’altro, una ragazza giamaicana affezionata alla razionalità scientifica. Belli in modo imbarazzante, passeggiano verso un amore maledetto dalle stelle – lei sarà rimpatriata il giorno successivo. Boy meets girl di quelli che piacciono a me, freschi e puliti, con la parlantina fluente e gli hobby peculiari, è stato un successo inferiore rispetto a Noi siamo tutto, sempre della stessa autrice. Più lineare del romanzo, la trasposizione perde la sua coralità per concentrarsi sui problemi della coppia, ma non la serendipità di fondo. Melodramma metropolitano dai toni agrodolci, è un inno agli instant-love e alla città di New York; un Prima dell’alba al tempo di Donald Trump. Forse il vero antagonista nelle relazioni a distanza nei film sentimentali di oggi. L’anima gemella si fermerà davanti alle sue leggi, ai suoi muri? (7)

È una fiaba a lieto fine. Una commedia romantica a ruoli invertiti, che nella trama somiglia vagamente a una stagione di Scandal in salsa scollacciata. Nonostante la durata eccessiva e qualche inutile volgarità di troppo, Non succede ma se succede sta discretamente al passo fra femminismo, scandali sessuali, battute sui multiversi Marvel e le serie HBO da guardare in binge watching. L’intreccio, consolidatissimo, parla di opposti che si attraggono e di una strana coppia di innamorati: in realtà, la sola ragion d'essere di una pellicola godibile ma poco memorabile. Seth Rogen e Charlize Theron sono infatti ottimi e affiatati. A ben vedere, neanche troppo male assortiti: lui fa la sua bella figura in smoking; lei rinuncia all’aura da diva per un ruolo leggerissimo, che a sorpresa ne mette in risalto gli sconosciuti tempi comici. Avrebbero comunque il mio voto. Questa è la politica che piace a noi profani. È la favola che noi maschietti sogniamo. È un’altra stupida commedia americana, sì, ma con un duo che fa straordinariamente sul serio. (6,5)

Potrebbe fare da anonima spalla comica alla protagonista carina di un film qualsiasi: felicemente in sovrappeso, sopra le righe. Ma Brittany beve, fa sesso occasionale, si trascura con amicizie e lavori non all’altezza. Bisogna perdere venti chili per trovare la giusta leggerezza. Non ne va soltanto del look, ma della salute. Ispirato a una storia vera, Brittany non si ferma più è una commedia sulla forza dell’ostinazione. Jillian Bell, all’apparenza novella Rebel Wilson, regala infatti un’interpretazione bellissima in una fiaba energica e propositiva, sbucata a tratti da un episodio di Modern Love. A fare la differenza è proprio la caratterizzazione di una protagonista non sempre amabile, ma per questo profondamente umana, che ha paura dei chili che tornano; dell’ansia da prestazione; del confronto con il prossimo; dei traguardi che slittano. Ora esilarante, ora patetica, ma sempre emozionante, la sua vicenda è una seduta di cardiofitness. Fa bene alle arterie intasate, e al cuore. (7)

È la storia vera della wrestler Paige, ma sembra una fiaba scritta a tavolina. Ecco una Cenerentola sul ring, mai messa al tappeto. Da sfigatella a campionessa: senza vie intermedie, senza allenamenti, senza muscoli o fatica. La lanciatissima Florence Pugh, somigliante all’originale ma sprovvista del fisico adatto al ruolo, è qui al centro di fatiche unicamente psicologiche: l’acredine con il fratello maggiore, suo beniamino tagliato fuori dalla competizione all'ultimo; le aspettative dei genitori; la competizione con le altre campionesse, al contrario di Paige sbucate da una rivista di moda. Non mancano i figuranti graditi – Headey e Frost –, né i cameo che mi hanno fatto tornare all’epoca in cui il wrestling lo seguivo. Oltre al look rock ‘n’ roll, nella biografia di Paige, c’era ben più da indagare: uno scandalo sessuale a cui si allude soltanto in una battuta; l’infortunio che brucerà prestissimo la sua carriera. Gli si preferisce il lieto fine. Con un bel cast, un bell’umorismo nella prima parte e una trasferta, a metà, dove si perdono la grinta e l’interesse. Colpa della fama, che dà alla testa. Colpa della banalizzazione dell’orgoglio femminile, al tempo dell’intrattenimento per famiglie. (6)

giovedì 20 febbraio 2020

Recensione: Le confessioni di Frannie Langton, di Sara Collins

| Le confessioni di Frannie Langton, di Sara Collins. Einaudi, € 22, pp. 425 |

Puttana, negra, omicida. Il cielo inglese si è spalancato per riversare insulti e pioggia sporca sul capo di Frannie Langton. In un raptus delirate, la giovane avrebbe ucciso i suoi padroni. Perciò venghino, signori, venghino! Se tutto va male, la sua impiccagione sarà un irresistibile spettacolo di morte! In attesa che l'ingiustizia faccia il proprio corso, l’imputata si racconta. Una confessione fluviale, laica, che ripercorre le tribolazioni della sua esistenza dall’inizio alla fine. Si rivolge a un tu specifico, l’avvocato d’ufficio, ma è soprattutto il lettore a prestarle attenzione durante una lettura bellissima e tormentata, rocambolesca come un classico del genere gotico, al termine della quale saremmo disposti a controbattere a spada tratta alle accuse. Giurando sul buon cuore di Frannie, certo… Ma sulla sua innocenza? 
La protagonista, agli occhi del giudice, ha commesso un triplice crimine: è femmina, è di colore, è omosessuale. L’omicidio, nella Londra del tardo Ottocento, sembra essere insomma una macchia incidentale su un curriculum già sporco. E Frannie – sfrontata, moderna, con le mani insanguinate e un’accentuata vena sadomasochistica – non fa nulla per smentire le malelingue.

Sono un enigma. Si aspettavano tutti una sorniona africana. O un’umile domestica. Una puttana mulatta. La Negra Assassina. Quale di queste incarnazioni mi salverà?
Con lucida coerenza, racconta che ci sono crimini e crimine; gabbie e gabbie. Giovanissima, è passata da una prigione di ferro a una dorata. Nata in una colonia giamaicana, è stata ceduta da un padrone all’altro in un braccio di ferro tra nobiluomini noti per ingegno e crudeltà: tanto il signor Langton quanto Benham, infatti, sono naturalisti al centro di esperimenti disumani. Nei loro libri si interrogano sull’origine delle differenze etniche, su ruoli di potere connaturati nel DNA, sulla necessità della schiavitù – e ottengono risposte ora con i servigi dei cacciatori di teschi, ora con la vivisezione, ora con accoppiamenti programmati. Frannie, suo malgrado, è testimone dei misfatti di entrambi. Dotata di un’abilità rara per l’epoca – sa leggere e scrivere –, fa la scrivana prima di essere condotta a Londra come dama di compagnia della moglie di Benham. Annoiata, eccentrica e affascinante, Marguerite ha molto in comune con la protagonista: anche lei straniera, anche lei prigioniera di una relazione di facciata, si mescola volentieri ai dipendenti; balla e canta nelle cucine; ma è vittima di una malinconia che la spinge a imbottirsi di laudano per trovare pace. Perché Frannie avrebbe dovuta ucciderla, se si sono amate segretamente e appassionatamente? Gli indizi la inchiodano: una lite accesa, una boccetta di arsenico, un misterioso barattolo di formalina. 
Alla luce di una candela, come una novella Moll Flanders, la giovane svela gli antefatti della vicenda. A metà tra il thriller giudiziario e il romanzo storico, la sua divulgazione ne ribadisce l’indole ferina; gli incarichi singolari, in una casa in cui c’erano disparità anche fra i membri della servitù; l’ignoranza di una Londra dickensiana, malsicura come un cantiere a cielo aperto, dove il circo in città faceva meno notizia dello sbarco di una giamaicana troppo sveglia.

Gli altri mi fanno sempre la stessa domanda, chiedendosi come potevo essere tanto affascinata dai romanzi in simili circostanze. Mi biasimano per ciò che ho letto, credo, più di quanto mi compatiscano per ciò che ho sofferto. Dal loro punto di vista, un romanzo è un’eresia: un uomo che crea altri uomini senza bisogno di Dio. Ma come facevo a non leggere? Ho sempre voglia di ribattere. Come sarei riuscita a sopravvivere altrimenti? Tu cos’avresti fatto, seduto in una stanza buia e chiusa a chiave, se qualcuno ti avesse portato una candela accesa?
Forte di un impatto emotivo garantito, il mirabolante esordio di Sara Collins non si adagia sui pregi di una storia innegabilmente potente, ma mette al centro della narrazione un’eroina indimenticabile, resa sin nelle pieghe più oscure grazie a una scrittura che brilla di luce propria, ornata parimenti del rosso delle rose e del sangue. Sontuoso e incalzante, in Le confessioni di Frannie Langton si avvicendano pagine liriche e atti processuali in piena regola, scene saffiche e particolari scabrosi; stralci di trattati, perfino, in cui la voce narrante si scaglia contro schiavisti e abolizionisti. Frannie non vuole né essere abusata, né compatita. Preferisce salvarsi da sola, davanti all’inadeguatezza delle scienze investigative. C’è una sottile differenza tra essere innocenti e essere incolpevoli. Frannie potrebbe avere l’assoluzione, o soltanto la nostra indulgenza? Il verdetto, fino all’ultimo, sguiscia via dalle dita come pelle di serpente. Eccola sollevarsi dal banco degli imputati, infine. Tutta orecchi. Né nera né bianca: la sua pelle, così come la sua verità.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tosca – Ho amato tutto

martedì 18 febbraio 2020

I ♥ Telefilm: The New Pope | BoJack Horseman S06

Morto un papa se ne fa un altro? E se finisce in coma, invece? All’indomani dell’infarto del più bello dei pontefici, i fedeli sono riuniti in preghiera. Risorgerà, si domandano, mentre il fanatismo raggiunge picchi pericolosi e gli altoparlanti trasmettono i respiri del dormiente? Le novizie, tutt’intorno, improvvisano danze ammiccanti nella sigla già cult. Tocca correre ai ripari, e nel giro di poco si succedono due sostituti: il primo, troppo ribelle, ha vita breve; l’atro, abbastanza fragile da risultare manipolabile, sembra essere perfetto. Il nuovo pontefice, affascinante e glorioso come John Malkovich, ha un passato da punk, gli occhi bistrati di mascara e contatti telefonici d’eccezione: Meghan gli chiede consigli di moda alla cornetta; Manson e la Stone, in cameo esilaranti, sono protagonisti di udienze con tutti i sacri crismi. Nonostante intrighi e pericoli sparsi – lo sciopero delle suore, lo scandalo pedofilia, i matrimoni omosessuali, il terrorismo e l’immigrazione –, le attese erano per il ritorno di Lennie. Ci vorrà più del previsto, però, per vederlo avanzare dalle acque con un Speedo bianco a metà tra un modello d’intimo e una divinità marina. Non aspettatevi una lotta all’ultimo sangue. Non aspettatevi un Law protagonista: fino al sesto episodio giace in un letto immacolato, nella venerazione delle masse, e per via del carisma del collega non se ne sente nemmeno grande mancanza. Sempre d’altissimo livello, ma più pasticciata del previsto, la serie di Sorrentino ha questa volta intenti meno a fuoco. E affastella sottotrame, argomenti, scene madri – spiegatemi il senso, per favore, del personaggio della Sagnier – per poi tirare rapidamente le fila nei titoli di coda del nono episodio. The New Pope si prende i suoi tempi, si concede sequenze folli e ritmi lenti, ma gli episodi – il primo e il settimo sono i migliori –, con il senno di poi, sembrano soltanto un lungo preambolo per un epilogo piuttosto insoddisfacente. Con il rischio che il papa del titolo, purtroppo, appaia un semplice tappabuchi. A spadroneggiare, allora, è l’irresistibile Silvio Orlando: burattinaio scaltro e manipolatore, che a sorpresa commuove in uno struggente elogio funebre. Che fumata bianca sia, grazie allo splendore della fotografia di Bigazzi; grazie a una regia al solito funambolica. Ma, nel paragone, gli si preferisce l’alchimia dei Due papi di Netflix – a colloquio, in lotta, in equilibrio. (7)

La depressione è una malattia. Quando si guarisce, quanto dura? Se lo domanda BoJack, ex attore di successo, da sei anni a questa parte. Cavallo con fattezze da uomo, in un mondo dello spettacolo popolato da animali antropomorfi, il protagonista non vede la proverbiale luce in fondo al tunnel. E noi insieme a lui, nella bellissima e dolente serie animata che ha sdoganato nel tempo una tematica tabù. Tra alti e bassi, svolte e ricadute, l’incorreggibile BoJack ci prova e poi ci ricasca. Anche a costo di venire un po’ a noia, nel tempo, con il suo piangersi addosso; con il suo rifugiarsi presso gli alcolisti anonimi, nell’alcol, in un passato idealizzato. Insegnante di recitazione all’università, adesso, ha l’ennesimo ostacolo tra sé e la stabilità: una coppia di reporter sulle tracce dei suoi scandali, in particolare sugli scomodi retroscena dell’ultima notte della sfortunata Sarah Lynn. Come accaduto a Bill Cosby dopo lo scandalo, il protagonista perde perfino i diritti sullo show che l’ha lanciato: vogliono tagliarlo fuori, vogliono cancellarlo. Altrove, lontani ma vicini, Diane ingrassa, si trasferisce e realizza che non serve essere tristi per vendere copie; Peanutbutter, sfortunato in amore, inaugura un ristorante chiacchierato; Todd si riavvicina ai genitori, galeotta Margo Martindale; Princess Carolyn, addolcita dalla maternità, si gode finalmente la compagnia di un uomo fedele. Il lieto fine sembra essere possibile per tutti tranne per BoJack. Che ha paura di scomparire per sempre oltre una porta buia. Che, nella vita vera, farebbe la fine sciagurata di quegli artisti morti in una pozza di rimpianti. Gli sceneggiatori gli regaleranno un briciolo di speranza dopo l’ennesima sbandata? Ottima ma a corto di genialità, la sesta stagione trova smalto negli ultimi due episodi e in una decisione coraggiosa: chiuderla qui, prima di annoiare, dal momento che erano stati esauriti gli argomenti. Giusto così, inutile trascinarsi ulteriormente, anche se comunque dispiace di vero cuore. La stagione si conclude nel migliore dei modi, in cima al tetto sul quale tutto ha avuto inizio, con un dialogo intimo e perfetto che emozionerà i fan di lunga data. Sulle influenze, positive e negative, che ci rendono quello che siamo. Sul fatto che nessuno si salvi da solo e la felicità, a volte, spaventi. Sulla necessità di abituarsi pian piano a una nuova normalità. In un mondo senza BoJack Horseman, ma con tutto – quasi – al proprio posto: compresa l’ultima lettera della parola “Holliwoo”. (7,5)

venerdì 14 febbraio 2020

Recensione: Il silenzio dell'acciuga, di Lorena Spampinato

| Il silenzio dell’acciuga, di Lorena Spampinato. Nutrimenti, € 18, pp. 240 |

Crescere è un’avventura pericolosa. Lo abbiamo sperimentato tutti, abbandonando il porto sicuro dell’infanzia per i misteri dell’adolescenza: la fase della vita in cui diventiamo oscuri agli occhi degli altri, ma soprattutto ai nostri. Trasformarsi dall’oggi al domani in uomini, lo so per esperienza personale, è piuttosto semplice. Con un’ombra di barba sul mento, infatti, si viene presi finalmente sul serio. Per le donne è diverso. E il passaggio non dev’è altrettanto indolore, né tanto meno silenzioso. Lo annuncia uno squarcio profondo nel mantello dell’invisibilità: nuovi occhi addosso, manacce dappertutto, i fischi per strada. All’improvviso, non più bambine, si diventa animali braccati durante una battuta di caccia. Prima o poi ci si fa il callo? Ci si abitua al destino di gazzelle nella fossa dei leoni? 
Se lo domanda Tresa, la giovane protagonista, che a lungo ha sofferto del paragone con un altro animale: l’acciuga. Magra e taciturna, oggetto degli sfottò dei compagni di scuola, la bambina – inquadrata tra i dieci e i dodici anni, tra le elementari e le medie – è al centro di cambiamenti grandi e piccoli. E si rifiuta di esserne vittima.

Mi aveva spiegato che essere femmina non aveva niente a che fare coi capelli, con i vestiti, con le cianfrusaglie che mio padre mi aveva vietato persino di desiderare. Non c’entravano – diceva – i modi di fare e di atteggiarsi, i lineamenti dolci, la prudenza dei gesti. Solo una cosa c’entrava, e mentre lo diceva Rosa stringeva entrambi i pugni per darsi più tono, solo una cosa: la libertà. La libertà di essere quello che volevo essere, quando volevo. Ne fui sollevata.
In ordine cronologico sono arrivati prima il trasferimento a casa di zia Rosa e poi il corpo in trasformazione. Legata da un rapporto di amore-odio al gemello Gero, Tresa lo ha sempre emulato nel vestiario rigoroso e nei capelli tagliati corti: così ordinava il padre, forse per convenienza, forse per istinto di protezione.
Quando il genitore parte per la Francia a tempo indeterminato, però, entrambi i bambini si trasferiscono nell’entroterra a casa di una parente: benché lontana dall’ombra familiare dell’Etna, la sistemazione alternativa rende felici comunque. Zia Rosa, bella come la cantante Sylvie Vartan e chiacchierata in paese perché ancora nubile, sprizza femminilità da ogni poro: modesta proprietaria terriera, a volte severa, altra accomodante, inizia Tresa alla letteratura, al lavoro fisico, alla vanità. Ma non tutte le rivoluzioni sono positive. Suo malgrado, la narratrice se ne accorge durante la strana degenza della tutrice. Gero eredita i tratti peggiori del padre, bizzoso e prepotente; il migliore amico Sasà, sognandosi magari qualcosa di più, pretende da lei un rapporto tanto esclusivo quanto asfissiante; infine spunta Giuseppe, fattore sui trent’anni, che prende la protagonista per sfinimento e la spinge a concedersi. Una bambina può conoscere davvero l’amore? Non può scambiare, a torto, la violenza per romanticismo? In casa, insieme all’adolescenza, arriva aria di tempesta. E una promessa, quella di non tradirsi mai, s’infrange rovinostamente. 

La prima volta gli chiesi di ripetere, non perché non avesse sentito, ma perché mi trovavo colta alla sprovvista. E lui ripeté le stesse parole aggiungendo per favore alla fine. Da lì non smise mai di dire per favore. Quando mesi dopo mi chiese se poteva baciarmi mi disse per favore, ma non aspettò la risposta.
L’autrice catanese Lorena Spampinato, già nota per una serie di romanzi Young Adult edita da Fanucci, torna in libreria con la prova della maturità. A livello teorico, la supera a pieni voti. Preceduto da parere entusiastici e da un sorprendente passaparola, Il silenzio dell’acciuga ha una scrittura bellissima e – a dispetto del titolo – una voce preziosa. Tra le pagine si parla dei pro e i contro dei legami familiari; di un sesso a confine con lo stupro, consumato con brutale segretezza; delle infinite valenze della parola silenzio
Chi tace acconsente: si dice così? Ma nello sfuggente microcosmo della Spampinato ci sono silenzi e silenzi. Alcuni da custodire, altri da evitare. In molti casi, ad esempio, somigliano ad atti di ribellione; a gesti politici. Cosa significavano quelli della madre di Tresa, morta nel clou della festa patronale? Cosa, invece, quelli di Rosa, costretta a letto da un segreto tenuto in gran riserbo? Nonostante lo stile e l’attualità delle riflessioni, qualcosa non funziona: ci ho pensato bene all’indomani di un colpo di scena non così inatteso e di un epilogo frettolosissimo, che si libera di problematiche e fardelli come può, nelle ultime trenta pagine. Il pensiero, allora, è corso inevitabilmente a romanzi sul tema che mi avevano convinto senza riserve: La figlia femmina, L’arminuta, La vita bugiarda degli adulti.  Storie simili e tutte al femminile, di attrazioni malsane e famiglie allargate, dove i flirt di ragazzine innocenti sconfinavano parimenti in un immotivato senso di colpa e modalità già note risultavano meglio sviluppate. I paragoni con autrici amatissime – evitabili, ma abbiate pazienza: sono umano anch’io, e sono spontaneo – hanno finito per togliere alla vicenda di Tresa l’unicità iniziale. L’acciuga di Lorena Spampinato scalpita per sfuggire alle maglie dell’adolescenza. Ma nella sua rete, purtroppo, ci cattura a metà.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – La voce del silenzio

martedì 11 febbraio 2020

Recensione: Le peggiori paure, di Fay Weldon

Le peggiori paure, di Fay Weldon. Fazi, € 16, pp. 270 |

Siamo immersi nella tranquillità della campagna, dove vigono le regole di buon vicinato, le porte sono sempre aperte e i giardini, al centro di feste per pochi eletti, sfoggiano fitti cespugli di rose rosse. Dal momento che si parla di bugie, tradimenti e segreti da svelare, potrebbe sembrare il set perfetto per una stagione di Desperate Housewives o Big Little Lies. Ma siamo negli anni Novanta – ben prima del binge watching, ben prima del #metoo – e l’umorismo dell’autrice, tipicamente britannico, ne chiarisce in fretta la provenienza. Le peggiori paure cos’altro è se non l’antenato delle casalinghe di Wisteria Lane o delle mamme sull’orlo di una crisi di nervi in quel di Monterey?

Il matrimonio è un intreccio terribile, un’osmosi spaventosa. 
Dovrò imparare di nuovo chi sono.

Si parte come in un giallo all’inglese: abbiamo una casa piena di scricchiolii sinistri, un coro di potenziali colpevoli, un cadavere riverso sul pavimento. Ned Ludd, critico in procinto di scrivere un’opera tutta sua, è davvero morto per un infarto fulminante? Se lo domanda la moglie, Alexandra, tornata di corsa dalla tournée di Casa di bambole per presiedere alle esequie. Mentre l’attrice, corteggiata dai piani alti di Hollywood, si abitua al nuovo ruolo di vedova, si accorge che qualcosa non va. Tutti sembrano negarle la vista della salma, lo spazzolino del defunto è sparito dal bicchiere sul bordo del lavandino, la stanza da letto è stata ripulita da cima a fondo. Le amiche Abbie e Vilna vogliono assisterla nel dolore oppure nasconderle qualcosa? L’improbabile Lucy, costumista pressante e bruttina, era forse l’amante di Ned? E cosa pretende Hamish, fratello del defunto, che indisturbato già si atteggia a padrone? Esausta e ossessionata, assediata da ospiti molesti, Alexandra nota che perfino il cane di casa le si ritorce contro. Fra arpie e avvoltoi, così, si scopre parte di una scalmanata festa di morte a cui non è stata invitata. Al centro di una bizzarra congiura. Alle sue spalle, per di più, la gente mormora: come ha ottenuto il successo, e chi può biasimare il marito per un’eventuale relazione extraconiugale? La vendetta, puntuale e piuttosto scontata, darà comunque qualche soddisfazione.

La vendetta risucchia il dolore, lo consuma. La natura riceve soddisfazione. Gli dèi esigono il sacrificio umano, da sempre; le orrende fauci divine risucchiano i vivi, masticano avidamente la carne calda, uccidono, divorano. Dopodiché, la terapeutica natura spalanca la bocca e ne sgorga nuova vita, grezza e pulsante, un flusso infinito e in continua riproduzione. Un giorno soffocherà per la semplice mole della propria produzione: non ha scampo.
Capitanato da un ricco cast di personaggi femminili, Le peggiori paure è un po’ thriller, un po’ soap opera. Un mix tanto irresistibile quanto collaudato, a dispetto della prevedibilità degli esiti testamentari, con una scrittura non sempre all’altezza e l’arma a doppio taglio di un’ironia non per tutti i palati. Il dichiarato gusto per l’eccesso, a volte, ne cela i difetti di fabbrica. Ma quando il troppo è voluto, ci si domanda nel corso della lettura, e quando no? Quando i personaggi sono paradoci, quando sciocchi e basta? Divertente e farsesca, Fay Weldon ha i suoi contro in problemi stilistici sparsi – i refusi della traduzione di Maurizio Bartocci non aiutano una struttura già frustrante e frammentaria, fatta di frequenti dialoghi telefonici e ronde inopportune – e in figure costantemente sopra le righe, spesso frivole nel loro tentativo di proporre in chiave tragicomica i tipi umani. Il romanzo, ristampato più volte negli ultimi decenni e riproposto da Fazi in una bellissima veste grafica, è una faro acceso sui lati oscuri del mondo dello spettacolo e del talamo nuziale. Ma risulta una baraonda di pettegolezzi che non fanno più gran notizia, in cui tutti vanno a letto con tutti e il dubbio serpeggia come una malattia venerea.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Grace – You Don’t Own Me ft. G-Eazy

venerdì 7 febbraio 2020

And the Oscar goes to Mr. Ciak: 1917 | Jojo Rabbit | Piccole donne | Le Mans '66

Ogni anno tra i registi in lizza si disputa una gara alternativa: chi ce l’ha più lungo, il piano sequenza? Dopo i recenti vincitori Chezelle e Cuaròn, Mendes alza ulteriormente l’asticella girando un intero film in piano sequenza – anche se, per essere precisi, due stacchi di montaggio dichiarati ci sarebbero. La trama è presto detta. Una coppia di soldati inglesi, di stanza in una bellissima Francia assediata, sono incaricati di portare una lettera a un superiore per scongiurare un attacco già pianificato: il nemico, infatti, ha un segreto asso nella manica. Sempre di corsa, i giovani tagliano in due una terra di nessuno: tra cadavere rosicchiati dai ratti, aerei a picco e ruderi invasi dai fiori di ciliegio, la macchina da presa non li perderà d’occhio. L’Oscar alla regia è presto servito. E meritano lo stesso trattamento fotografia e scenografie, che soprattutto nella fuga notturna del protagonista ci regalano un incubo di fuoco degno di un dipinto espressionista. Ma se visivamente il film si conferma una delle cose più splendide e pirotecniche del cinema contemporaneo, dal punto di vista narrativo non aggiunge niente di nuovo al filone. L’emozione scarseggia. Godibile e appassionate, ha più tecnica che cuore, e dal regista di American Beauty e Revolutionary Road sarebbe stato lecito aspettarsi un’impronta maggiormente autoriale. Troppo esile nella scrittura, la guerra di trincea secondo Mendes è una parentesi piena di orrore e meraviglia, ma lo spettatore è così occupato ad ammirare i volteggi della macchina da presa da non importarsene del resto. Baciato dalla fortuna, tuttavia, il film riesce a non inciampare, a non affannarsi né ad affannare, grazie a figuranti d’eccezione e a una magnificenza che distrae dai vizi di forma sparsi. L’effetto videogioco, per quanto esaltante, è dietro l’angolo come una mina antiuomo. (6,5)

L’antisemitismo raccontato come in una fiaba: vent’anni fa, con risultati indimenticabili, lo aveva fatto il nostro Benigni. Il vulcanico Taika Waititi, reduce dai successi dell’ultimo blockbuster, punta a un target simile: i toni restano leggeri e trasognati, ma il cambiamento avviene nel punto di vista. La voce narrante, infatti, appartiene a un aspirante nazista. Al centro di una prova da applausi, che ne fanno presto il migliore di un cast di stelle, il piccolo protagonista è una contraddizione: un condensato di rabbia e dolcezza, che studia la morte ma cerca un amore da farfalle allo stomaco. Semplicemente adorabile, fantasticherie prive di logica a parte, si scopre confuso e perduto in un mondo in cui il Fuhrer non è il migliore degli amici. La maturazione passa dalle parole di una mamma coraggiosa, che sfoggia le scarpine da ballo e i lineamenti incantevoli della Johansson, e attraverso l’apertura verso il diverso – un’ebrea da nascondere –. I temi: l’insensatezza dell’odio, il candore degli innocenti, la forza dei pavidi. Più che a Benigni, ci si ispira allora ai mondi di Chaplin e dei Monthy Pyton. La commistione di sorrisi e barbarie regalerà risvolti shock nel finale. Ma dov’è l’innovazione di cui si legge, se i colori appartengono ad Anderson e la colonna sonora comprenderà la solita Heroes? Checché se ne dica, Jojo Rabbit è proprio la favola satirica che immaginavamo a scatola chiusa, arrivata in tempo per gli Oscar e la Giornata della memoria. Ma è un difetto non risultare né inferiore né superiore alle attese? Essere più grazioso che bello? In ogni caso gli si vuol bene, anche se come l’altrettanto edificante Green Book dovesse spuntarla ai premi. (7)

È una storia che conosco in tutte le salse, sarà che a casa mia le sorelle March sono state un’istituzione. In particolare di Jo, scrittrice indomita e ribelle, ho sentito parlare abbastanza da considerarla una di famiglia. Giunta all’ennesima trasposizione non richiesta, la storia di formazione firmata dalla Alcott non aveva segreti per me. E  qualcos’altro da dirmi? Rifacimento guardato all’inizio con scetticismo, dal momento che il sopravvalutato esordio della Gerwig non mi aveva convinto, Piccole donne avrebbe potuto farmi storcere il naso o annoiarmi, ma non me ne ha dato il tempo. Travolgente e gioioso, sempre scapigliato e di corsa, ha la stessa indole della sua eroina: è rumoroso, caotico e logorroico, e nella fretta si mangia purtroppo situazioni (l’attrazione verso per Garrel), personaggi (la cagionevole Beth), scene madri (il lieto fine sotto l’ombrello, qui rimaneggiato con intelligenza). Insomma: non è il period drama perfettino che ci si aspetterebbe. Rimodernato a dovere senza però mai tradirsi, il film accentua la vena femminista del romanzo. Indipendenza e amore sono inconciliabili? Se lo domanda una superba Ronan, e durante la visione le fa da controcanto la Pugh: sorella minore non così capricciosa, non così sciocca, che si rende protagonista di una maturazione inattesa. Se il cast è inappuntabile, il difetto è il montaggio frammentario. Lungo e un po’ raffazzonato, il secondo lungometraggio di Greta si muove su due piani temporali che confonderanno gli spettatori neofiti e anticiperanno le relazioni tra i personaggi – soprattutto il due di picche dato a Chalamet, con un ruolo che gli calza a pennello –, rischiando di far perdere interesse strada facendo. I difetti potrebbero battere i pregi. La trasposizione non è né la più fedele né la più coerente. Eppure, complice la bella atmosfera, è la più passionale, disordinata e sincera. Come solo certi rapporti di sangue, tra donne soprattutto, sanno essere. (6,5)

Il titolo originale, al solito, dice tutto con poco. Si parla di una storia vera, di una sfida all’ultima accelerata. Da un lato abbiamo la Ferrari, che colleziona vittorie innumerevoli sulle piste da corsa. Dall’altro la Ford, marchio che fa ancora fatica a imporsi nell’ambiente dei circuiti. Fino a quando la casa automobilistica, spinta dal desiderio di stare al passo, non ingaggia la strana coppia composta da Damon e Bale: amici-nemici, i due lavoreranno a un’auto da portare in Francia. Se il primo è misurato e perbene, il secondo è un meccanico attaccabrighe che non conosce freni: soprattutto al volante. Si punta a Le Mans; a una gara lunga ben ventiquattr'ore, in cui si battono gli avversi per sfinimento. Guida Bale, sempre camaleontico a dispetto di un copione che questa volta lo vorrebbe più naturale che altrove, ma dirige James Mangold: regista di pellicole solidissime e fortemente americane – l’ultima fu Logan –, qui è purtroppo lontano dal mio genere. Annoiato dalle gare automobilistiche e dai film d’azione, spossato da lunghezze che si aggirano intorno alle due ore e trenta, non sono andato d’accordo con la sua ultima fatica. Tralasciando la mia ignoranza in materia, però, non posso fare a meno di domandarmi cosa ci faccia nella lista dei Miglior film la versione politicamente corretta di Fast and Furious. Furbetto, lungo e disneyano, Le Mans '66 è un intrattenimento inferiore ad aspettative già scarse di per sé. Mediocre, nel senso di tremendamente nella norma, ha antagonisti da cartone animato – vedasi il pessimo Girone – e scarsa presa emotiva, a differenza dell’incredibile tour de force che fu Rush. Da spettatore italiano, per altro, per tutto il tempo ho tifato invano per una rimonta della Ferrari. Qual è il colmo per un film sulla velocità? Non schiacciare sull’acceleratore. Non uscire mai dal tracciato, seguendo le mosse di una guida tutt’altro che sportiva. (5,5)

mercoledì 5 febbraio 2020

Recensione: Uomini di poca fede, di Nickolas Butler

Uomini di poca fede, di Nickolas Butler. Marsilio, € 17, pp. 271 |

Ho scoperto che leggerlo è uno dei piaceri della vita. Quando termino una sua storia, ho sempre il desiderio di chiacchierarne con lui davanti a una birra. Di romanzo in romanzo, infatti, è difficile non affezionarsi al suo tono di voce e alla sua compagnia. Ci sono quegli autori a cui, se si potesse, ruberesti a man bassa il segreto dell’ispirazione perpetua. E ci sono altri come Nickolas Butler, più rari ma non per questo meno preziosi, che vorresti avere la fortuna di considerare amici. In un mondo perfetto, saremmo abbastanza in confidenza da scambiarci le esistenze durante le vacanze: lui in Italia, io negli Stati Uniti, per realizzare così il pensiero che ogni volta mi attanaglia a fine lettura. Posso trasferirmi in Wisconsin?
Per favore, faccio sul serio: metto poche cose in valigia, prendo e parto. All’arrivo, in fondo, troverei tutto quello di cui ho bisogno. Ecco le villette degli anni Cinquanta, ecco il profumo di hamburger e crostate fragranti, ecco i cieli immensi. Sui rami ci sono fili di lucine natalizie, anche a festività finite, e nelle grigliate si brinda con una lattina ghiacciata stretta nel pugno. Ma badate bene, non è tutto oro quel che luccica, non siamo in un episodio della Casa nella prateria: si inizia a fumare prestissimo, all’età di nove anni; la noia esistenziale spinge tra le braccia del vizio o in poltrona, a sorbirsi svogliatamente soap opera su soap opera; i giovani tagliano la corta quanto prima, e lo testimoniano le strade spopolate, i negozi sfitti, i banchi vuoti. Il passaggio dei treni, metronomi per eccellenza della vita notturna, inoltre fa vibrare un po’ i letti e le chincaglierie nelle cristalliere. Seppure tra alti e bassi, i personaggi di Butler non saprebbero mai rinunciare al fascino di queste atmosfere malinconiche. E io con loro.

Sempre più spesso, Lyle scopriva di trovarsi a proprio agio nel silenzio, accanto ai suoi cari, senza cercare di risolvere problemi o rispondere a domande, limitandosi piuttosto a imparare a vivere in maniera più leggera, ad amare più intensamente, a mangiare meglio e, di sera, prima di andare a dormire, a leggere gli scaffali e scaffali di libri che, gli era tristemente chiaro, non sarebbe mai vissuto a lungo da aprire, quegli uccelli dalle ali bianche appollaiati sul suo petto alla pallida luce dell’abat-jour, in attesa che un polpastrello inumidito ne scorresse con delicatezza le pagine sottili, le voltasse liberando storie e poesie e miti in esse contenute.
Si parte in medias res, con una scena da film: Lyle – sessantacinque anni, quaranta dei quali passati accanto alla moglie Peg – gioca a nascondino in un cimitero. Conta sulla tomba del primo figlio, morto a nove mesi, mentre il piccolo Isaac corre a nascondersi. L’anziano segue il nipotino fra le lapidi di concittadini un tempo conosciuti e stimati, e inevitabilmente pensa alla vita, alla morte e al mistero che c’è nel mezzo. 
Il protagonista sembra l’eroe della porta accanto di un film di Clint Eastwood. Temprato dal lavoro fisico, è un tuttofare in pensione che non rinuncia comunque a rendersi utile: è un padre e un nonno amorevole – il legame con la figlia Shiloh, adottata in tenera età, non ha nulla da invidiare ai rapporti di sangue –, un amico presente – da quando a Hoot è stato diagnosticato un cancro, le visite di cortesia sono diventate innumerevoli –, un lavoratore instancabile – raccoglie in nero mele in un frutteto, soprattutto per il piacere di mangiare i frutti direttamente dall’albero. Benché alla religione organizzata preferisca i rapporti di buon vicinato, non rinuncia comunque alla routine della messa domenicale: ama il canto corale, la volta dipinta sotto cui ha conosciuto Peg, i sermoni di un prete che prima della conversione era un pescatore in Alaska. Ma l’incostante, detestabile Shiloh, a un certo punto, decide che il credo del padre non è abbastanza: membro di una chiesa aconfessionale e legata a Steven, leader con smanie da rockstar, la ragazza trascinerà i parenti nell’incubo del fanatismo religioso. Il cagionevole Isaac, portato in giro come un fenomeno da baraccone, è davvero un guaritore? La preghiera cura più della medicina? Si può amare una persona pur disapprovandone le scelte? Ha inizio un braccio di ferro straziante, dove credenze diverse diventano motivo di dissidio.

«Mi pare di non riuscire a tenermi strette le cose. Mi pare di non riuscire a farle andare più piano». 
«Ti terrò stretto io» affermò Peg. 
Continuarono a dondolare nella notte estiva, con il cemento sotto i piedi caldi e umidi […] Lyle voleva dire: Sentirò la sua mancanza, ma temeva che se avesse pronunciato quelle parole ad alta voce si sarebbe messo a piangere. Così le trattenne fra le labbra, dove si gonfiarono e si espansero; gli parve di avere il cranio appesantito e il cuore fragile, allora chiuse gli occhi e avvertì le braccia della moglie che lo avvolgevano nella maniera in cui un bambino potrebbe abbracciare un albero, e la strinse ancora di più a sé.
Già paragonato spesso al compianto Kent Haruf, Butler trova casualmente lo stesso traduttore dell’amato scrittore del Colorado – Fabio Cremonesi, calzantissimo – e la tematica spirituale già presente in Benedizione. Dopo Shotgun Lovesongs e Il cuore degli uomini, conferma qui il suo dono più grande: l’emozione. Dalla resa vivida dei paesaggi campestri alla quotidianità dei protagonisti, dal filosofeggiare sulle gioie del sonnellino alle riflessione sul divenire della natura, ogni dettaglio vibra di sentimento. E spinge di conseguenza le schiene a vibrare, a palpitare, sotto le scosse di sospiri profondi che nell’epilogo diventano pianti. Questa volta a fare da cassa di risonanza c’è l’aggiunta di un protagonista speciale – uno di quegli anziani da adorare, dolci ma agguerriti –, che alla bellezza dell’elemento rurale affianca un altro tema che su di me ha presa facile:  la senilità. Lyle non si arrende all’inazione della vecchiaia. Il suo cuore non vuole saperne di smettersi di angustiarsi o battere. Lasciarsi andare alla preghiera significa forse tradire il suo senso pratico? Appassiona, allora, il suo tentativo di salvare un bambino dall’ignoranza dei tutori. E commuove oltre il dicibile il tentativo di salvare il meleto dal gelo, alimentando improbabili falò. Nel Wisconsin, all’improvviso, le temperature primaverili possono cedere il passo a una violenta tormenta. Come prodigarsi per salvare il salvabile?
Qualunque sia il vostro rapporto con la chiesa – il mio è pressoché nullo –, non lasciatevi scoraggiare dall’argomento. Uomini di poca fede incoraggia a credere nel prossimo, non nel divino, e ad arrendersi al fatto che – non importa se lo si chiami karma o speranza – il bene che facciamo, alla fine, ci ripagherà con la stessa moneta. Sul solito sfondo irrinunciabile, pur ispirandosi a una brutta vicenda realmente accaduta, Butler sa confezionare il solito romanzo bellissimo. Sulle diverse accezioni della parola gregge. Sui pacifici ma struggenti gesti di opposizione della gente qualunque. Su momenti semplici e perfetti, in cui sarebbe splendido stabilirsi vita natural durante. Aspetterò il suo ritorno in libreria come si aspettano i miracoli.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Johnny Cash – You Are My Sunshine

lunedì 3 febbraio 2020

Recensione: La gatta, Shozo e le due donne, di Jun'ichiro Tanizaki

| La gatta, Shozo e le due donne, di Jun’ichiro Tanizaki. Neri Pozza, € 17, pp. 125 |

Il triangolo no, non l’avevan considerato. Dalle borgate di Zero al Giappone degli anni Trenta, il ritornello non cambia. Anche se a far scoppiare la coppia, in una commedia di vendette e tradimenti apparentemente scaturita dalla penna di Woody Allen o Pedro Almodovar – figuratevela, infatti, ciarliera e coloratissima –, è una guastafeste d’eccezione: non una donna di troppo, bensì la gatta Lily. Servita e riverita, salutata con bacetti e vezzeggiativi, l’irresistibile felino tartarugato è la prediletta di Shozo. Un uomo per il resto anaffettivo e indolente, che soltanto davanti all’animale domestico si prodiga in mille cerimonie. Ogni giorno le dà sottobanco pescetti marinati con soia e aceto; acconsente a morsi e graffi dalla connotazione quasi erotica; si bea dei suoi modi candidi e carezzevoli, tipicamente femminili, acconsentendo che faccia le fusa perfino nel futon. Sempre ghiotta di prelibatezze e baruffe, Lily desidera essere contemplata e contesa come una nobildonna. È così assurdo che la seconda moglie di Shozo, Fukuko, legata all’uomo da un matrimonio di convenienza ordito dalla suocera diabolica, s’ingelosisca fino a meditare un piccolo colpo di stato? Il menu a cena dipende dai capricci dell’animale, da dieci anni accanto al padrone di casa. Il talamo nuziale, senza più alcuna intimità, va spartito per tre. Snervata dalla convivenza, Fukuko caldeggia perché la gatta sia ceduta alla donna venuta prima di lei, Shinako: la ex moglie di Shozo, nel frattempo caduta in disgrazia, brama un pezzetto di quel matrimonio finito all’improvviso. Perché, allora, non l’indigesta Lily?

È così difficile guardagnarsi la fiducia di un gatto? O è Lily a essere particolarmente cocciuta?, si domandò esasperata Shinako. Il problema era che si trattava di una gatta anziana, molto simile a una nonnina avanti con gli anni; se fosse stata giovane o ingenua si sarebbe adattata senza problemi al nuovo ambiente. Il trasferimento forzato in un posto tanto diverso da quello abituale doveva essere stato uno shock tremendo. […] Poi, ripensando al misterioso destino che la legava alla gatta, sentì che in fondo non le portava rancore. Anzi, per un momento provò addirittura una sorta di compatimento per lei e per se stessa.

Schiacciato tra l’incudine e il martello, dotato di una vena segretamente subdola ma altresì di momenti di profonda dolcezza, il protagonista maschile – eterno bambinone a capo di un negozio di casalinghi – rivedrebbe a cuor leggero la ex pur di passare a trovare l’adorata Lily? Come la preferirebbe: selvatica e infelice, perfino maltrattata fisicamente, oppure a proprio agio anche altrove?
Tra dilemmi morali e sentimentali, appostamenti notturni e nostalgia, il racconto lungo del divertito Tanizaki – cantore per eccellenza di eros e thanatos, nel novero dei classici della narrativa orientale: La chiave di Tinto Brass, pensate, è tratta proprio da un suo romanzo – è in primis una storia di solidarietà femminile: entrambe sole e abbandonate, all’inizio ostili l’una verso l’altra ma pian piano complici, la gatta e la sua nuova padrona si confortano reciprocamente per riprendersi quello che pensano spetti loro di diritto. Ma in secondo luogo, vedasi le descrizioni particolareggiate del manto tatuato e della routine, è anche una storia che incanterà ogni gattaro degno di questo titolo.

Non aveva neanche l'ombra di un vero amico col quale confidarsi e si sentiva sempre solo, afflitto e insicuro. Quel senso di solitudine era forse all'origine del suo profondo attaccamento nei confronti di Lily. Difatti aveva l'impressione che soltanto lei, con quegli occhi pieni di malinconia, fosse capace di indovinare i suoi pensieri tristi e consolarlo, mentre né Shinako né Funuko, e ancor meno sua madre, lo avevano mai capito. Tra l'altro, era convinto di essere il solo in grado di cogliere quella peculiare tristezza animale che la gatta serbava dentro di sé senza aver modo di comunicarla agli esseri umani.

Quanta attenzione e passione ci sono nella resa del mondo felino? Quanto emozionano gli occhi malinconici di Lily, la cronaca delle sue gravidanze sfortunate e dei suoi viavai, il pelo che va ingrigendosi per via della vecchiaia? Shozo ha per gli animali un amore superiore di quello che dimostra agli esseri umani. Oltre che del protagonista, lo stesso potrebbe dirsi anche dell’autore. Sarcastico e indagatore, Tanizaki dipinge negativamente le contraddizioni e i vizi dei suoi protagonisti, ma ha parole belle e poetiche per la gatta: il filo conduttore delle loro vite, e il cuore pulsante del racconto. Si sofferma, così, perfino sulla sua dieta alimentare o sui suoi odori. E attraverso di lei lascia emergere un originalissimo ritratto familiare, a tratti dolce e a tratti crudele, che fa le fusa e graffia insieme. Deliziosa variazione sul tema della gelosia, semplice e senz’altro non indimenticabile, il testo precedentemente edito da Bompiani è un assaggio dell’inventiva dello scrittore. Un racconto incisivo e soprattutto scritto divinamente, sulle follie e le privazioni che vivremmo per il bene dei nostri amici animali. Tra moglie e marito non mettere il dito. E la zampa?
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Gino Paoli – La gatta

sabato 1 febbraio 2020

And the Oscar goes to Mr. Ciak: Judy | Richard Jewell | I due papi | Un amico straordinario

[Attrice protagonista, Trucco e acconciatura] Anno che vai, biopic che trovi. Cambia l’artista, sì, ma restano drammi e problematiche. Un’infanzia oscura, i matrimoni fallimentari, gli schiaffi e le carezze di un pubblico ingrato. Senza grandi variazioni sul tema, vale anche per Judy Garland: cantante e attrice che poco prima di spegnersi fu protagonista di un’ultima vampa di furore nei teatri londinesi. Sul viale del tramonto, lottava contro le dipendenze e l’ex marito. Ma nella sceneggiatura, questa volta, accanto ad aneddoti e dietro le quinte non manca una critica feroce allo star system: quant’è amara la vita dei bambini prodigio e quanto sono spregevoli, invece, i produttori che ne rubano i sogni? Di dichiarato impianto teatrale, il film non brilla soltanto per bravura della Zellweger, ma per la domanda che pone: dove finisce l’arcobaleno? Al centro di un inatteso canto del cigno, Renée guida la visione grazie ai suoi sorrisi, alle sue lacrime e ai suoi sguardi parlanti, attraverso un’interpretazione dolorosa che va oltre il manierismo e arriva al cuore. All’inizio scettico – mi distraevano infatti i suoi occhi sgranati, la bocca a papera, il mascherone di make-up –, sono diventato un suo fan strada facendo: dotata di una forte ironia e di una vocalità splendida, già sfoggiata in Chicago, soltanto lei avrebbe potuto interpretarla. Hanno aiutato una regia raffinata, che incornicia i personaggi in piccoli e grandi quadri di solitudine; le canzoni intramontabili, su tutte una struggente Somewhere over the rainbow; costumi meritevoli di un plauso ben più del trucco, capaci di cogliere appieno lo scintillio dei fragili anni Sessanta. Più interessante nella prima parte a cavallo tra passato e presente, il film si perde poi nella ricerca della scena a effetto o dietro l’ennesima relazione sbagliata. Quando imbocca il sentiero di mattoni giallo, però, crescono la commozione e la magia. Piove a lungo su queste due ore di visione, ma il famoso arcobaleno non le si nega poco prima dei titoli di coda. Judy morirà sei mesi dopo, ma qui ha il suo lieto fine: è tornata in Kansas. (7)

[Attrice non protagonista] Continua l’indagine dell’ottantanovenne Clint Eastwood nell’epica che più gli sta a cuore: quella degli eroi americani della porta accanto. Dopo American Sniper e Sully, storie vere con protagonisti troppo ingombranti e un rigore per me eccessivo, il regista torna a convincere benché in sordina. Richard, dolcissimo trentenne appesantito dai chili e dalle preoccupazioni di troppo, è un cocco di mamma goffo e fanfarone, genuinamente candido e fiducioso, i cui sogni di gloria diventano purtroppo incubi. Poliziotto mancato, si è accontentato dell’impiego di guardia di sicurezza: durante un concerto negli anni Novanta, intercetta  una bomba e salva innumerevoli vite. Dipinto negativamente dai giornalisti, torchiato a tappeto dall’FBI, il protagonista – all’inizio eroe nazionale – diventa un nemico pubblico sotto sospetto. Gli agenti federali frugano nell’immondizia, nei cassetti della biancheria, nei Tupperware, tra i vizi privati e le pubbliche virtù. La gogna mediatica, frustrante, sarà alleggerita dalla presenza dello scoppiettante e agguerrito avvocato di Sam Rockwell e dalla mamma chioccia Kathy Bates, a pezzi davanti all’impossibilità di proteggere l’unico figlio dall’assalto mediatico. A dispetto del mio disamore per i drammi d’inchiesta, Richard Jewell si rivela più che semplice cronaca, ma una parabola accorata e toccante, con un interprete così sincero – Paul Walter Hauser, che rivelazione – da sembrare capitato nella pagina sbagliata del giornale. Goffo e imperfetto, dotato di senso dell’umorismo e pacatezza grandi, è una figura umana e imperfetta verso cui scatta immediatamente un’empatia che porta il film a emozionare informando. Ha vissuto, però, l’ennesima ingiustizia: quella di essere misteriosamente sottovalutato dall'Academy. (7+)

[Attori, Sceneggiatura non originale] Il primo è severo e contestatissimo: amante del pianoforte e della solitudine, sta perdendo l’ispirazione. Il secondo, popolare e benvoluto, apprezza il tango, il calcio e le belle donne: ha un passato da viveur e in patria, ai tempi della dittatura, era una figura tutt’altro che semplice. Sembrano due amici al bar – la colonna sonora, per altro, passa gli Abba, i Beatles, Bella ciao e Besame mucho –, ma li tradiscono l’abbigliamento e il tenore della conversazione. Indossano la tonaca immacolata, infatti. Parlano di aborto, omosessualità, celibato e pedofilia. Sono Benedetto XVI e Francesco, il vecchio e il nuovo, all’alba di un avvenimento epocale: la rinuncia di Ratzinger, travolto dall'ennesimo scandalo. Amici-nemici, gli anziani si confrontano anche sugli acciacchi e i dilemmi morali: il dialogo diventerà una lunga confessione. E lo spettatore, incantato da cotanta bravura, presterà gelosamente ascolto nonostante i flashback superflui sulla giovinezza di Bergoglio che tradiscono qui e lì la provenienza argentina del regista. Come sopperire a una fede che dà conforto, non risate, se non grazie a un buddy movie lieve come una sitcom? Sincero e disinformale, per questo bellissimo, I due papi ha il pregio immenso di risultare leggerissimo pur ragionando di massimi sistemi. Lo stesso potrei dire in fondo dei suoi protagonisti, Hopkins e Pryce: quando c’è il talento, il trucco c’è ma non si vede. E neanche la fatica. Lo dimostra Paolo Sorrentino, lo ribadisce Fernando Meirelles: i papi portano bene a televisione e cinema. Mentre in questi giorni The New Pope è ancora in onda su Sky, qui si brinda alla comparsa di un’altra fumata bianca. (7,5)

[Attore non protagonista] Quello di Fred Rogers è un nome che non dirà niente agli spettatori italiani. Idolo generazionale in odore di santità, con addosso un golfino rosso rimasto nell’immaginario collettivo, era l’anima – presentatore, burattinaio, confidente – di un programma in cui parlare tra un siparietto e l’altro anche di morte, divorzio e guerra. Il cantastorie si fa eccezionalmente da parte qui, per raccontare la vicenda di un giornalista:  Lloyd Vogel, un uomo perseguitato da un’ombra scura – suo padre – e dalla convinzione di essere un genitore fallimentare. Tra intervistatore e intervistato, a telecamere spente, nascerà un’amicizia poco canonica che influenzerà entrambi. Matthew Rhys, pensoso e amareggiato, lavora per sottrazione nel suo dialogo con Tom Hanks: pacato e dal sorriso sempre pronto, gioviale ma mai esagerato, l’attore candidato ha un fare così gentile e accondiscendente da risultare perfino irritante. Quali pesi porta però? Come sfoga la frustrazione? Che padre è stato per i suoi figli? Con un ruolo cucito su misura, che soltanto lui o Robin Williams avrebbero potuto interpretare con la stessa naturalezza, Hanks è il (non) protagonista di una commedia intergenerazionale meno convenzionale del previsto: vedasi lo skyline di plastilina, i frequenti sguardi in camera, i viaggi del protagonista in parentesi surreali alla Kidding. Peccato per l’ultima mezz’ora all’insegna della riconciliazione immancabile, molto più didascalica del resto, dove la narrazione si fa tradizionale e le atmosfere, purtroppo, spiccatamente natalizie. Restano la malinconia delle luci che si spengono e una nota stridente al pianoforte, nella chiusura di una sigla tivù; un personaggio criptico e aggraziato, che resta volutamente un mistero. Pur presentando un programma per bambini. (6,5)