sabato 30 ottobre 2021

Halloween ai tempi di Netflix: Squid Game | Midnight Mass | You S03

È la serie del momento. La amano. La odiano. Amano odiarla. Io stesso l'ho affrontata con scetticismo, al pari di un tormentone estivo venuto a noia prima del tempo per via degli schiamazzi dei vicini. I primi episodi non mi davano torto: a causa dei meme spammati dappertutto, avevo l'impressione di averli già visti. E in una serie in cui l'originalità non è di casa – ricorda The Running Man, Battle Royale e Hunger Games, ma anche gli intrecci kitsch delle spagnole La casa di carta e Vis a vis – gli spoiler sparsi rovinavano le rare sorprese rimaste. Qualcosa è cambiato negli ultimi: quando questo gioco al massacro, eccezionalmente made in Corea, lancia guanti di sfida più sadici e imprevedibili; quando le uscite di scena cominciano realmente a spezzare il cuore. È un'arena in cui dei giocatori pronti a tutti si sfidano per un ricco montepremi: ne uscirà soltanto uno. Chi? Tra partite a un due tre stella, tiri alla fune e lanci d biglie, si procede in maniera implacabile sfida dopo sfida. Ci si affeziona ai più fragili, si detestano carcerieri e prepotenti, ma si sente spesso la mancanza di una satira sociale più spiccata – no, non siamo al cospetto di un nuovo Parasite –, così come si sorride delle imprese assurde di un poliziotto sotto copertura. Nonostante si tifi soprattutto per un papà povero in canna, il suo vicino di casa caduto in disgrazia e un'adolescente con un fratellino da salvare dall'orfanotrofio, le protagoniste assolute sono loro: le straordinarie scenografie dai colori pastello, capaci di coniugare stile e inquietudine. Tutt'altro che perfetta, Squid Game non è né un capolavoro né un flop, ma una soddisfacente via di mezzo: un intrattenimento solido, ma dal successo forse immotivato, che spero avvicinerà il pubblico medio alle visioni in lingua originale e alle chicche del cinema asiatico. (7,5)

Il talento narrativo e stilistico di Mike Flanagan è pressoché indiscutibile. Nato a Salem, cresciuto a pane e Stephen King, unisce l'horror al melodramma con un equilibrio che lascia ogni volta commessi. Anche quando, come questa volta, non tutto torna. Anche quando, come questa volta, non tutto appare funzionale: soprattutto i dialoghi fiume, destinati a sfociare gratuitamente in un epilogo di sangue e fiamme. Su un'isola dal fanatismo religioso totalizzante, l'arrivo di un nuovo parroco genera miracoli e misteri. La buona novella è un contagio. La comunione, cannibalismo vampiresco. Midnight Mass ha soltanto sette episodi, ma si prende il suo tempo. Lenta, corale e verbosa, intavola lunghe conversazioni sulla fede, la morte, il senso di colpa, la diversità culturale e religiosa. Gli elementi horror sono sparpagliati cautamente in ogni episodio e, quando il soprannaturale si manifesta, semina un po' di disappunto per quella computer grafica imperdonabilmente anni Novanta. La violenza e le lacrime, immancabili davanti a monologhi degni dei fasti di The Haunting of Hill House, giungono in ritardo e tutte insieme. Finendo per sconfessare, in parte, l'approccio un po' pretenzioso del resto. Perché tanto esistenzialismo per un caos che non lascia niente all'immaginazione? Accolta da molti come il capolavoro del regista, la serie mette tanta, troppa carne al fuoco. Discontinua ma generosa, punta su una sceneggiatura zeppa di scene madri e su un buon cast d'insieme: l'intensa e bella Katy Siegel, un Hamish Linklater finalmente in una performance da ricordare e Samantha Sloyan, più spaventosa di qualsiasi demone. Quanto è cieco il fanatismo? Quanto è fragile, quanto è disperata, la fede nell'impossibile? Ce lo spiega Flanagan, tra ambizione e kitsch,  prodigi e mostruosità, sacro e profano. (7)

Dopo aver sepolto la prima innamorata, lo stalker Joe ha finalmente trovato la sua anima gemella: Love, conosciuta nel corso della seconda stagione, a sorpresa era perfino più matta e sanguinaria di lui. All'improvviso neogenitori, prendono a seminare il caos in un ridente quartiere residenziale: mogli tentatrici, coppie no-vax e allettanti scambisti hanno ovviamente le ore contante. Tutti presi dal coprirsi le spalle a vicenda, i protagonisti non rinunciano tuttavia a nuove ossessioni: mentre Joe si invaghisce di una bella bibliotecaria in lotta per l'affidamento della figlioletta, Love si lascia lusingare dal vicino adolescente. E tutti fanno sesso con tutti, in questi dieci episodi di cinquanta minuti ciascuno, ma la serie è troppo grottesca e sopra le righe per risultare sexy. Il matrimonio riparatore? È la tomba dell'amore in You: da me attesissima, come sempre, nonostante un inizio intrigante e un prosieguo inspiegabilmente sciocco. Come mai gli sceneggiatori hanno deciso di trasformare i delitti di un fascinoso psicopatico in una commedia con qualche morto ammazzato qui e lì? Da vedere senza pretese, magari doppiata e sbrigando tutt'altro, la terza stagione diventa una novella Santa Clarita Diet che lascia gli zombie e flirta con i serial-killer. A darle un senso, oltre al consolidato carisma di Penn Badgley, sono il monologo conclusivo di una sempre bravissima Victoria Pedretti – a volte angelica, altre delirante, si concede una stoccata accesissima contro il perbenismo e il maschilismo della società contemporanea: in sottofondo Taylor Swift e Bon Iver – e l'insospettabile cambio di scenario degli ultimi minuti. Cosa succederà dopo un finale più movimentato e cattivo del resto, che solleva fuoco e fiamme in periferia? Ho il sospetto che al suo ritorno You – subito rinnovata per una quarta stagione – sarà nuovamente la discutibile parodia di sé stessa, ma che nuovamente me la gusterò in binge watching. (6,5)

mercoledì 27 ottobre 2021

Recensione: La casa vicino alle nuvole, di Nickolas Butler

| La casa sulle nuvole, di Nickolas Butler. Marsilio, € 18, pp. 380 |

È al termine di una strada sterrata che sembra portare alla fine del mondo. La incorniciano il gorgogliare del fiume vicino, i vapori di una sorgente termale, le rocce aguzze delle montagne. Abbracciata dalla vallata e protetta da un silenzio impenetrabile, La casa vicino alle nuvole è un regno privato. Siamo in un Wyoming senza più cowboy né rancheri, preso d'assalto da capricciosi turisti in abiti griffati: viverci è diventato un lusso. Cole, Bart e Teddy lo abitano come operai, non come degni cittadini. Quando avranno abbastanza stabilità economica per mettere radici? Manovali di umili origini e dai caratteri agli antipodi, hanno fondato una società di costruzioni che fatica a ingranare. Finché l'algida Gretchen, donna d'affari sola al mondo e dai piani misteriosi, non li tenta con un progetto impossibile: costruire una casa in appena quattro mesi e consegnarle le chiavi entro Natale. In cambio riceverebbero assegni stellari. Cosa rappresenta per lei quel progetto? Per quale motivo altri costruttori si sono già tirati indietro? Nonostante la vista paradisiaca, il cantiere ispira una brutta sensazione: mette la pelle d'oca, come la casa infestata di un film dell'orrore.

Com'era possibile, si chiese, non possedere una casa, non avere risparmi, nessuna istruzione universitaria, nessun talento artistico, niente di niente – non una sola attestazione dei suoi quasi quarant'anni su questo pianeta –, eppure trovarsi laggiù, a costruire quel santuario sulle montagne? Quel divario a volte lo lasciava sbalordito e l'unico conforto che provava era che quella casa, in qualche modo, era anche la sua traccia, la sua eredità, benché il suo nome non fosse inciso su nessuna superficie, su nessuna pietra.

Cole, leader ambiziosissimo, non teme la sfida; Bart, una mina vagante dipendente da metanfetamine, si rifugia nelle droghe pur di incrementare le prestazioni lavorative; Cole, mormone e padre di quattro figli, è una voce della coscienza che nulla può contro la tracotanza. Perché sacrificare tutto – famiglia, salute, moralità – per un patto scellerato? Nella storia della True Triangle Construction i giorni prenderanno a confondersi in un'unica matassa indistinguibile. I ritmi diventeranno massacranti, le scadenze rigidissime: il romanzo è un conto alla rovescia, il tempo un tiranno e gli strumenti per raggiungere l'obiettivo, talora, sono illeciti. Come fronteggiare inoltre le giornate che si accorciano, i climi a picco, gli agenti atmosferici? Tratto da una vicenda realmente accaduta che ha dell'incredibile – ricorda un po' quella di L'incredibile storia dell'Isola delle Rose –, il romanzo è la cronaca di un'impresa d'altri tempi in cui il titanismo dei protagonisti sfocia in risvolti scioccanti: la neve è destinata a tingersi di rosso.

L'America è il più grande paese del mondo, a patto di non restare senza soldi.

Non fatevi ingannare dall'apparente gravità del tutto: La casa vicino alle nuvole è sì un'angosciosa parabola di rivalsa sociale, ma è soprattutto il quinto romanzo di Nickolas Butler. Entrato di diritto tra i miei autori del cuore, lo scrittore americano non delude le attese neanche questa volta: per me la sua voce continua a essere una coperta calda e morbida. Amici, soci in affari e infine complici, i tre protagonisti mettono le loro solitudini al servizio dell'avventura. Benché antieroici, conquistano grazie alla consueta umanità con cui vengono dipinti. È impossibile non tifare per loro, non coprire i loro orribili misfatti, non desiderare di proteggerli dal mondo circostante e soprattutto da loro stessi. Sboccati e chiassosi, ma dal cuore tenerissimo, contemplano il cielo stellato – in mutande, con una birra in una mano e una canna nell'altra – e si confessano sogni di gloria e fantasticherie di ricchezza. Uno di loro, ad esempio, vuole trasferirsi a Panama semplicemente perché il nome del paese ha un bel suono. Ciò che resta delle loro fatiche sono i ricordi, e lo scintillio commovente di una tomba lontana. Sporco eccezionalmente di sangue, l'ultimo Butler racconta di un'amicizia che minaccia di erodersi. Come si erodono gli animi, se mangiati dalla cupidigia; come si erodono le montagne. È una lotta contro il tempo, contro la morte, contro la Natura stessa, per erigere un sogno su misura. O forse un incubo?

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Led Zeppelin  - Stairway to Heaven 

venerdì 22 ottobre 2021

Recensione: Due donne - Passing, di Nella Larsen

| Due Donne. Passing, di Nella Larsen. Frassinelli, pp. 166, € 16,50 |

Girato in un abbagliante bianco e nero e diretto dall’attrice inglese Rebecca Hall, Passing è arrivato qualche giorno fa alla Festa del Cinema di Roma. A novembre, poi, sarà la volta di Netflix. E chissà che non si farà strada fino agli Oscar, con la sua storia, attuale più che mai, d’identità razziale e linee invisibili. Quanto è seducente, quanto pericoloso, spacciarsi per ciò che non si è? Pubblicato negli anni Trenta da un’autrice di madre danese e padre caraibico, il romanzo vive una seconda vita grazie alla recente rivalutazione della recente critica femminista e all’attenzione impensata del cinema. Bistrattato, dimenticato, frainteso, riesce tutt’oggi a sorprendere grazie al suo piglio intrigante e inquieto: un incrocio tra Alfred Hitchock e Woody Allen.

Incomincio a credere che nessuno sia mai del tutto felice, o libero, o al sicuro.

L’incontro tra Irene e Clare, amiche d’infanzia, va letto come l'episodio di un noir: cambierà tutto irrimediabilmente. La prima, moglie di un medico afroamericano, è una donna di colore nella Harlem benestante del dopoguerra: in casa si parla poco o niente dei linciaggi pubblici, ma in compenso si organizzano balli o tè sbucati dalle pagine più lussuose di Fitzgerald. L’altra, Clare, è una disertrice: graziata da una pelle dorata e dai tratti gentili del viso, infatti, si finge bianca secondo una pratica assai diffusa negli anni ruggenti. È passata dall’altra parte della cosiddetta «color line», sposando un uomo razzista e inconsapevole delle origini della moglie. Nonostante quella scelta, esecrabile per Irene, la fascinazione verso Clare è istantanea: maliziosa e felina, divorata dalla smania di possesso, la seconda donna è una femme fatale che s’intrufola nella vita dell’altra e mette tutto a soqquadro.

A che cosa servono gli amici, se non a sopportare i nostri peccati?

Irene è davvero appagata, o nel suo matrimonio ci sono ombre degne di sospetto? Che le liti frequenti per l’educazione dei figli siano un’avvisaglia dell’insoddisfazione latente del marito? Sarebbe stato meglio imitare Clare e vivere nella bugia, sotto una maschera d’avorio? Libera, ma non per questo al sicuro, Clare ha bisogno di una tramite per tornare a frequentare la sua gente. Ma una volta «passati» è forse possibile tornare indietro? All’apparenza distante dai drammi strazianti della discriminazione, immerso com’è nella bolla ovattata dell’alta-borghesia, Passing alimenta una rete di sospetti, pensieri scomodi, ambiguità etiche. Talora compassato nello stile, ha una struttura teatrale e lunghi dialoghi. Mai didascalica, Nella Larsen semina dilemmi su dilemmi e ci lascia con un epilogo frettoloso, tanto sfuggente quanto affascinante, da lasciar decantare giorni e giorni per metabolizzarlo meglio. Singolare storia di bianchi e neri, di bianchi e di neri, sceglie punti di vista inediti e si muove infine in una palette di grigi sfumati. Se costretti a scegliere, meglio salvare sé stessi o la razza?

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Aretha Franklin - (You Make Me Feel Like A) Natural Woman 

martedì 19 ottobre 2021

Recensione: La voce di Robert Wright, di Sacha Naspini

 
| La voce di Robert Wright, di Sacha Naspini. E/O, € 18, pp. 307 |

Quando vengono a mancare certi personaggi, il mondo diventa un luogo un po' più povero. Pietrificati davanti ai telegiornali, ci scopriamo orfani. Gli artisti non dovrebbero morire mai. E forse, in qualche modo, non lo fanno: sopravvivono perfino a loro stessi. La tragica dipartita di Robert Wright, attore immaginario ispirato al mito di Robin Williams, getta Carlo Serafini e la sua famiglia nello sconforto: il protagonista, attore e doppiatore, era la voce italiana di quella star compianta all'unisono. Il loro curioso rapporto di dipendenza, dopo trent'anni di onorata carriera, si spezza. Semplicemente aprendo bocca, nel tempo, Carlo ha evocato mondi e suggestioni: mentre il suo viso anonimo non meritava selfie, il suo timbro riconoscibile gettava un magico ponte tra l'Italia e Hollywood. Venuta meno una leggenda, smarrito e disoccupato, realizza una dolorosa verità: la sua voce appartiene all'oltretomba. Chiuso in un mutismo impenetrabile, con un sorriso da monaco zen sulla faccia, Carlo smette di proferire verbo una volta pronunciata l'ultima battuta dell'ultimo film di Wright. Chi è, adesso, senza il suo dio? Come mai la moglie sembra tramare qualcosa in combutta con l'avvocato? Perché Vanessa, collaboratrice licenziata dopo un flirt, lo ha messo alla gogna? Carlo avrebbe tanto da dire, tanto da chiedere, tanto da svelare, ma si limita a lasciar parlare gli altri e a leggere una saga di Stephen King in poltrona. Finché un invasore in cerca di vendetta e un libricino misterioso, nascosto tra i classici russi, non lo renderanno artefice di un piano sfuggente fino all'ultimo.

La verità è che siamo tutti tizi impauriti, vestiti a festa ma nascosti chissà dove nella speranza che qualcuno si accorga di noi.

Sempre bravissimo, sempre diversissimo, il prolifico Sacha Naspini torna in libreria con uno psicodramma dalla struttura teatrale e dai quesiti affascinanti, soprattutto per i cinefili: quant'è labile il confine tra verità e finzione, tra persona e personaggio? Siamo al settimo piano di un condominio romano, in un appartamento di trecento metri quadrati, con il Natale ormai alle porte: il salotto dei Serafini, addobbato con cura maniacale, diventa la scenografia simbolica e beffarda di una commedia a confine con il giallo inglese. In scena va un gioco al massacro popoloso di personaggi e disvelamenti continui: forse avrebbe avuto bisogno di una chiusa più incisiva, con il senno di poi, ma grazie ai suoi passaggi migliori ricorda Luigi Pirandello. Raccontato in seconda persona, infatti, il protagonista vive la stessa perdita dell'io di Vitangelo Moscarda: è uno (Carlo Serafini), è stato centomila (tutti i personaggi impersonati da Wright) e, dall'oggi al domani, si ritrova a essere nessuno. Già perfetto per un adattamento, La voce di Robert Wright è un'analisi ironica, dolce e delirante degli ingranaggi della mentre umana e di quelli, sconosciuti agli addetti ai lavori, della settima arte. Non dissimile dal suo protagonista, Sacha Naspini si conferma un maestro indiscusso della parola. E tra le pagine modula la propria voce – rendendola a capitoli alterni dolente, stridula, raggelante – evocando a piacimento ora sogni di gloria, ora incubi di alienazione.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mina – La voce del silenzio

venerdì 15 ottobre 2021

Recensione: Ivy, di Susie Yang

|Ivy, di Susie Yang. Neri Pozza, € 18, pp. 368 |

Preceduto da paragoni illustri e da un gran dispendio di energie da parte di Neri Pozza, editore solitamente infallibile, Ivy è arrivato in libreria promettendo sconvolgimenti. Poco più che un fuoco di paglia, resterà una delle maggiori delusioni dell'anno corrente. L'ho letto con piacere? Mentirei se dicessi il contrario. Scorrevole e intrigante, nonostante le sue quattrocento pagine, si legge smaniosamente ma in cerca di guizzi, di risvolti sensazionali, che purtroppo non arrivano mai. E le promesse mancate, spesso, irritano più dei romanzi brutti. Presentato come un thriller patinato, a metà tra le atmosfere di Patricia Highsmith e quelle di Donna Tartt, l'esordio di Susie Yang prende in parte spunto dall'infanzia dell'autrice per raccontare la scalata sociale della protagonista. Cresciuta secondo una rigida educazione cinese, fatta di percosse e rinunce, Ivy muove i primi passi in un quartiere di immigrati.

Ormai da tanto aveva capito che la verità non contava, quello che serviva a lei erano le apparenze. Se la lasci depositare, l'acqua fangosa diventa limpida.

Disposta a tutto pur di vivere appieno il famoso sogno americano, inizia a rubacchiare ciò che i genitori le negano – accessori e frivolezze da adolescente per integrarsi meglio a scuola – e baratta la propria verginità soltanto per dispetto. Vittima di sogni a occhi aperti ben più grandi di lei, si macchia di piccoli crimini ma immagina di vivere in un film o in un romanzo ottocentesco: punta a sposarsi, magari con un dottore, perché stando alle massime della nonna un matrimonio di successo sfamerebbe tre generazioni. Diventata maestra elementare, abilissima nel tessere relazioni di convenienza, riallaccia i rapporti con il ricco e volubile Gideon: un ex compagno di scuola con il pallino delle sciate, dei ristoranti stellati e dei cottage in New Hampshire. Mentre i sogni di gloria di Ivy sembrano realizzarsi, spunta però una figura del suo passato: Roux, altro parvenu che minaccia costantemente di smascherarla. Ritratto tanto impietoso quanto banale della sfaccendata borghesia bianca, il romanzo parte in maniera convincente ma si arena in una parte centrale prolissa e salottiera. Le carte in tavola cambiano grazie alla nascita di un pericoloso triangolo sentimentale, di un epilogo prevedibile ma crudele: il cambio di toni e ritmi, tuttavia, lascia straniti.

A volte Ivy aveva l'impressione che in lei ci fossero due persone diverse: la cittadina gentile, generosa, moralmente irreprensibile che cercava di essere con Gideon; e la sua essenza insoddisfatta, pragmatica, opportunista. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché le venisse naturale essere come Gideon – per essere buona – ma non era buona. Era gelosa, meschina, vendicativa.

Le parti migliori restano, allora, quelle dedicate alla contraddizioni della famiglia della protagonista: benché non esente dai cliché, presenta un personaggio – Austin, il fratello minore di Ivy – che mostra le conseguenze alternative di un'infanzia traumatica. Allevato senza amore, smarrito, vive una profonda depressione che l'ha trasformato in un sorta di hikikomori. Volitiva in teoria, ma fragile e dubbiosa nella pratica, sua sorella intanto commette un errore di valutazione. Amore, ricchezza e bellezza possono forse fare la felicità: non regalare la pace. Messo in cattiva luce da paragoni senza fondamento, questo romanzo garantisce un buon intrattenimento, ma non è né noir né rosa, né serio né ironico. Come classificarlo? Commedia nera? Satira sociale? Al pari della sua protagonista eternamente fuori posto – troppo poco cinese in casa sua, troppo poco americana agli occhi dei suoceri –, Ivy resta ferma al bivio del bene e del male.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga – Applause 

venerdì 8 ottobre 2021

Stagione che vieni, serie TV che vai: Sex Education 3 | Modern Love 2 | Atypical 4 | This is us 5 | Dickinson 2

All'inizio l'avevo sottovalutata, scambiandola per una specie di American Pie. Ma capace com'è di alternare i momenti goderecci alle riflessioni, a sorpresa, Sex Education è una serie che cresce di stagione in stagione. E la terza, per me, è la più bella finora prodotta. Matura e inclusiva come non mai, oltre a seguire l'evoluzione di personaggi ormai amatissimi, ha un occhio di riguardo verso il mondo queer. E l'amore platonico tra l'atleta popolare e il nuovo personaggio non binario, insieme a una scena che affronta la tematica tabù di sesso e disabilità, è di una delicatezza commovente. Di mezzo ci si mette anche la preside Jemina Kirke, cattiva ma non troppo, che per riportare ordine impone divise inamidate e etichette. Nell'impossibilità di esprimere sé stessi, i personaggi sentiranno nostalgia delle lezioni impartite da Otis e Maeve: ormai ai ferri corti – lui in una relazione segreta con Ruby, lei presissima da Isaac –, per un po' si sfiorano a malapena ma faranno scintille in gita. Come può Aimee superare il trauma delle molestie? Con chi possono confessare Eric e Adam, dopo un clamoroso coming out, le prime titubanze? C'è qualcosa di sbagliato nelle fantasie di Lily, che si eccita soltanto con racconti sugli alieni? Mentre gli adulti spiazzano tutti con una gravidanza imprevista – è fiocco roso per Gillian Anderson –, gli sceneggiatori non dimenticano di approfondire i comprimari né di stare al passo. La serie elogia il sesso, in qualunque sua forma, ma condanna il sessismo. Dà voce a ogni identità di genere, mette in mostra ogni corpo. È empatica e formativa, senza mai scadere nel didascalismo: la farei vedere a scuola, vorrei viverci dentro. Perché insegna stare meglio al mondo, e con più leggerezza. (8)

Era la coccola di cui avevo bisogno, soprattutto per riprendermi dai postumi dell'estate appena passata. Ma dopo quel debutto dolce e brillante, finito nel meglio della sua annata, questa volta Modern Love non propone né sensazionali parate di stelle (gli attori più famosi sono Minnie Driver, Anna Paquin e Kit Harrington: pochi e televisivi) né lacrime durature. Di otto episodi ne ho apprezzato fino in fondo soltanto tre. Il primo (la macchina del defunto marito Tom Burke da dare via: preparate i fazzoletti), il sesto (due anime tradite si incontrano e fraternizzano in fila da un terapista: dirige il regista del bellissimo Brooklyn), il settimo (dopo un'isolata notte di passione, due ragazzi gay si incrociano lungo le strade di New York con un espediente narrativo a metà tra Closer e The Affair). Godibili il secondo e il terzo (piccole commedie indie che azzeccano i ritmi e le tematiche, ma sbagliano purtroppo il cast: peccato), di una noia inenarrabile il quarto e il quinto (il primo amore di una stand-up comedian e la scoperta di sé di un'adolescente, forse lesbica, forse asessuale), stucchevole ma guardabile il conclusivo (troppa carne al fuoco, tra ritorni di fiamma e malattia, per non scontentare gli inguaribili sentimentali). Tutt'altro che moderna, romantica a tratti, a questo giro non vi farà innamorare. (6)

D'un fiato, anche se in ritardo sulla tabella di marcia, ho recuperato anche la quinta stagione di This is us. Nonostante i momenti di commozione non si siano negati, complice i ritmi del binge watching, per me è forse la stagione più discontinua e frammentaria del ciclo: soprattutto dopo i fasti impensati della precedente, di una magia pari a quella dell'esordio. Trovo saggia perciò, come annunciato da cast e produttori, la scelta di salutare per sempre la famiglia Pearson il prossimo anno: la sesta stagione sarà l'ultima. I flashback e i flashforward sono introdotti disordinatamente, con flebili fili conduttori a unirli. La costante presenza del Jack di Milo Ventimiglia, a malincuore, appare sempre più forzata. Ma se un Kevin neopapà si conferma il mio preferito dei tre fratelli e Kate, invece, la più insopportabile, sorprende constatare quanto a tenere banco siano quei comprimari un tempo in secondo piano: l'adorabile zio Nicky, la madre biologica di Randall, Beth, Toby, Miguel e soprattutto Madison, futura sposa di Kevin. L'emergenza sanitaria ancora in atto avrà fatto sicuramente la sua parte, guastando i piani di gloria degli sceneggiatori. E per la prima volta, così, viene messo in scena in TV il dramma delle mascherine antisettiche, degli abbracci centellinati, della degenza. Il pregio? Benché dimenticabili, questi quindici episodi sono la campagna vaccinale più efficace su piazza. Per questo e per l'affetto che ormai ci lega, gli perdoniamo qualche sbadiglio qui e lì. (7)

Comedy su un adolescente autistico alle prese con le gioie e i dolori della crescita, è la serie che più mi ha tenuto compagnia negli anni. Giunta alla quarta stagione, non senza qualche tempo morto nel mezzo, Atypical ci dice addio senza grandi sensi di colpa. Il protagonista, Sam, è cresciuto: ha ormai una fidanzata di lunga data, convive con il migliore amico e, a dispetto della sua diagnosi, punta con energia a ottenere l'indipendenza economica e affettiva. Punta a un viaggio in Antartide, soprattutto, per andare a vedere finalmente di persona i suoi animali preferiti: i pinguini, che guarda incantato allo zoo e di cui conosce le caratteristiche a menadito. Ma questa non è più soltanto la sua storia. Nel corso del tempo Atypical ha riservato sempre più attenzione ai personaggi secondari, al punto da seguire nel dettaglio tutti gli altri membri della famiglia Gardner. Mentre i genitori si riavvicinano, dopo il tetro pensiero di divorziare, la sorella maggiore – Casey, il personaggio più in divenire – esplora con consapevolezza i propri limiti e la propria sessualità. Non tutto fila come dovrebbe. Anzi, questa volta dieci episodi sembrano troppi e troppo tirati per le lunghe: trascinandoci, lasciano percepire la pochezza di una trama ormai giunta alle battute conclusive. Al pari di The Kominsky Method (vista, ma senza Alan Arkin nel cast perché scriverne?), Atypical si conclude a malincuore con la stagione più debole e dimenticabile. Ma il finale, dolce e conciliante, compiuto, ripaga comunque le attese. (6,5)

La poetessa americana Emily Dickinson raccontata in versione post-moderna. Non soltanto una trascinante colonna sonora contemporanea e un linguaggio colorito, ma anche: la scrittura febbrile, la speranza e il terrore di essere pubblicata, il sempiterno flirtare con i mostri e i fantasmi della mente umana, la bisessualità. Dopo un esordio folgorante, finito a pieno diritto nel meglio della sua annata, la serie Apple non rinnova il colpo di fulmine ma nemmeno delude. Fresca e godibile, benché sottotono rispetto ai fasti del debutto, non può contare più sul precedente effetto sorpresa e patisce la concorrenza della recente The Great – altro period drama maleducato e dissacrante, ma dalla sceneggiatura più graffiante: recuperatelo! Gli episodi belli per fortuna non mancano – vedasi l'ottavo –, insieme ai comprimari adorabili. Qualcuno ha citato Austin e Lavinia, il fratello e la sorella di Emily? La definizione, invece, mal si addice ahimè a Sue: l'interesse amoroso della protagonista, al centro di un inossidabile triangolo sentimentale, è uno dei personaggi più insopportabili del piccolo schermo. L'ex bambina prodigio Hailee Steinfeld, ribelle e appassionata, sin troppo in un epilogo che non convince per via del suo telefonato ritorno di fiamma, si conferma una magnetica padrona di casa. La sua storia troverà conclusione a novembre, sempre su questi schermi: la terza stagione, per la giovane Emily, sarà l'ultima poesia. Il prossimo mese lecito confidare nel proverbiale canto del cigno? (7)

lunedì 4 ottobre 2021

Recensione: Albicocche al miele, di Elisa Pellegrino

| Albicocche al miele, di Elisa Pellegrino. Mondadori, € 17, pp. 200 |

Quando ho finito l'università, non mi si sono aperte porte: soltanto la terra sotto i piedi. Ero inutile e laureato. La corona d'alloro seccava su una mensola in camera insieme alla mia voglia di fare. L'arrivo del lockdown, perciò, non ha modificato la mia routine: anzi, vedevo il resto del mondo sprofondare finalmente nel mio stesso immobilismo; allinearsi al mio passo strascicato. È stato grazie a Cortomiraggi, in prima linea con carrellate di film bellissimi contro la tristezza, che ho trovato un nome per il malessere che mi affliggeva: quarter-life crisis. Perfetto ritrovo generazionale, la pagina Instragram di Elisa Pellegrino somiglia al suo romanzo d'esordio: una commedia corale leggerissima nei toni, ma tutt'altro che superficiale negli argomenti, a proposito del doloroso smarrimento seguito al termine degli studi. Cosa succede dopo che un professorone in toga ti proclama dottore? Dopo aver radunato baracca e burattini, tocca ritornare all'ovile con la coda tra le gambe in attesa che il futuro si compia. Gli alloggi universitari vengono rimessi sul mercato immobiliare. Gli amici e i coinquilini si separano, consolandosi con videochiamate su Skype o appuntamenti saltuari.

Essere giovani è difficile, è doloroso. Scegliere lo è. Non mi vergogno a dire che i miei anni più belli sono quelli che sto vivendo ora. Mi piacerebbe avere meno pancia e più capelli, ma il mio cuore sta meglio adesso.

I quattro personaggi di Albicocche al miele non sono l'eccezione alla regola. L'autrice dedica loro un lungo capitolo a testa e per ognuno sceglie una stagione dell'anno, un film a tema. Meglio il romanticismo sognante di Before Sunrise o il bagno di realismo di Before Midnight? Intrappolata in una relazione di lunga data e in un noioso lavoro in azienda, Greta – ragazza con un pessimo rapporto con il proprio corpo – usa Hawke e Delpy come metro di paragone. Se all'improvviso sbucasse un'altra terra come in Another Earth, chi non proverebbe sincero terrore davanti a un ventaglio di infinite possibilità? È un pensiero di Giulia, leonessa ambiziosa e all'apparenza realizzata, che comincia a mostrare punti di rottura in una città più grande di lei. La parabola amara di A proposito di Davis fa più bene o più male? Il laconico Diego, non ancora laureato e fermo sulla soglia della friendzone, temporeggia per paura dei cambiamenti. Gli errori commessi sono uno stigma indelebile, o dovremmo imparare a guardarli con affetto alla maniera della vulcanica Frances Ha? Caterina, musicista in terapia per via di qualche problema irrisolto con la madre, sogna a occhi aperti un mondo in cui nessuno la faccia sentire incompresa.

Nell'arte c'è qualcosa che nella vita manca. C'è una logica anche quando l'obiettivo è la mancanza di logica, c'è confusione strutturata, c'è quella parola in quel momento, quel gesto in quella situazione. Qualcuno ci ha pensato prima, capisce? Nella vita invece non è così e se ti capita per caso di afferrare qualcosa devi essere preparato a perderla. […] A volte penso che il cinema mi permetta di capirmi, di accettare certi meccanismi. La finzione mi serve.

Ricordano i coinquilini delle sit-com del nostro cuore. Parlano al suon di citazioni. Filosofeggiano davanti alle pellicole indie. Si imbarcano negli erasmus, negli stage, nei tirocini non pagati. Vivono in un perenne stato d'ansia. Aspettano un'occasione per svoltare, e nel frattempo ti insegnano l'arte della pazienza. Un vecchio legge Il giovane Holden in treno e, guardandoli struggersi, affannarsi, ammette di non rimpiangere la giovinezza. Ma li avvisa di non perdere mai il contatto con la realtà: che l'arte, oltre che un rifugio sicuro, diventi soprattutto una porta. Ora angosciati, ora euforici, i personaggi di Elisa hanno saccheggiato la mia vita e la lista dei miei film preferiti. Si sono appropriati dei miei turbamenti – dei nostri –, e hanno dato loro voce in un romanzo forse un po' acerbo, ma indubbiamente speciale e veritiero. Albicocche al miele è la lettura giusta nei momenti sbagliati. Impossibile aspettarsi uno smaccato lieto fine: per ora, purtroppo, non ci tocca. Ma la consapevolezza di essere parte di una generazione di sfollati, di talentuosi naufraghi stretti su un'unica barca pericolante, è stranamente confortante in queste 200 pagine piene di sincerità. Nella speranza, come diceva qualcun altro, che questo dolore – insieme a queste ansie, questi film, questi libri, queste serie TV – ci sarà utile. Un giorno, sì: un giorno.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: The Lumineers – Sleeping on the Floor