venerdì 17 marzo 2023

Recensione: La vita intima, di Niccolò Ammaniti

| La vita intima, di Niccolò Ammaniti. Einaudi, € 19, pp. 302 |

Niccolò Ammaniti mi ha cresciuto. Per anni è stato casa, scuola. Quando sono diventato insegnante, ho portato le sue storie nelle mie classi. Una volta a settimana, anche col raffreddore, il venerdì le leggo a voce alta ai miei studenti. Con le sue avventure e i suoi crimini, con i suoi incantesimi e le sue parolacce, si diventa magicamente adulti fra i campi di grano e le cantine polverose. “Questo non è un romanzo che avrei il piacere di condividere con qualcun altro”, ho pensato al termine della Vita intima. Un ritorno (purtroppo non di fiamma) nel segno della delusione. Dove sono l'umorismo caustico, le trovate strampalate, il piglio cinematografico? Niccolò, dove sei?

Le storie, quelle importanti, quelle che cambiano la vita, sono fiumi impietosi, difficili da imbrigliare. Tu gli metti un ostacolo e loro deviano, trovano un'altra via per fluire. E a me piace che questa storia inizi così, con un urlo di dolore.

È stato senz'altro bravo a farsi da parte per scomparire nei vestiti di una protagonista eccezionalmente femminile. Si chiama Maria Cristina, è la moglie trofeo del premier in carica e per gli algoritmi, anche con qualche ritocchino estetico di troppo, resta la donna più bella del mondo. È Maria Tristina per coloro che la immaginano vuota e infelice: un inanimato feticcio da copertina. È Maria Pompina per un ex fidanzato che potrebbe rovinarle di colpo la reputazione attraverso la diffusione di un sex tape di gioventù. Ma chi è davvero questa novella Emma Bovary una volta spente le luci dei riflettori? Piccola storia di una piccola rivoluzione femminista (passa da un nuovo colore di capelli agli accordi per un'intervista esclusiva), La vita intima è una dimenticabile commedia umana su una donna in preda al disagio di esistere: sarà abbastanza coraggiosa per non soccombere al peso della sua stessa bellezza? Ci sono le paranoie, le ansie, le ossessioni, i dolori fisici e spirituali. Ci sono, sparsi, i soliti comprimari sopra le righe: il mitico Bruco – un po' social media manager, un po' deus ex machina – avrebbe meritato, ad esempio, un romanzo per sé. Manca, purtroppo, tutto il resto.

La bellezza, senza coraggio, è un guaio.

Godibilissimo e nulla più, il romanzo rinuncia alla crudeltà strada facendo e appare la versione meno perturbante del bell'esordio di Nicoletta Verna. L'autore premio Strega, nonostante tutto, è un sommozzatore coraggioso. Scandaglia i fondali della sua eroina senza perdere mai l'orientamento né la credibilità. La guarda da fuori, onnisciente e sfrontato quanto basta, ma ne ricostruisce meticolosamente la psicologia. Restituendole, infine, ciò che reclamava sin dal titolo: il diritto, fiero e gioioso, forse anche un po' banale, a una propria sfera interiore. Ma nel guado, inevitabilmente, si bagna. Si annacqua. E, nella corrente, perde così l'attenzione di qualche affezionato della prima ora come il sottoscritto. Allora benvenuta, cara Maria Cristina, finalmente uguale a te stessa e a nessun'altra; ma, non senza timore, arrivederci Niccolò. Chiusa questa parentesi, spero non sia un addio.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Miley Cyrus – Flowers

mercoledì 22 febbraio 2023

And the Oscar goes to: The Fabelmans | Gli spiriti dell'isola | Aftersun | Tár

Un ragazzino di provincia scopriva un'epifania chiamata cinema: si chiamava Fabietto ed era il protagonista dell'ultimo Sorrentino. La stessa fiaba è vissuta un anno dopo da un altro sognatore: Spielberg e il suo alter-ego, Sam. Memore delle lacrime versate per E' stata la mano di Dio, temevo e speravo di struggermi: immerso in un'irresistibile atmosfera da sit-com anni Cinquanta, invece, mi sono divertito tantissimo. Spielberg racconta gli alti e bassi di una famiglia in crisi, ma rinuncia al conflitto; omaggia i classici della settima arte, ma non appare manieristico; mette in scena sé stesso, ma rende omaggio a tutti i felici a modo loro. Sbadatamente, avevo dimenticato di trovarmi al cospetto del più grande regista di film per famiglie di tutti i tempi. E i Fabelman, che hanno le storie perfino nel nome, sono proprio indimenticabili. A capotavola siedono Paul Dano, ingegnere gentile e dolcissimo; Michelle Williams, mamma sull'orlo di una crisi d'identità, che insegue tornadi e balla alla luce dei fari. A guardarli è un adolescente dall'occhio già critico: il cinema aiuterà lui e gli altri personaggi a percepire lo scollamento tra realtà e aspettative. Sincero, personale, tenerissimo, il film minaccia di dilaniarci in un braccio di ferro tra vocazione e famiglia. L'autore che ha allevato generazioni di cinefili, invece, concilia gli opposti e sa ricreare l'intimità domestica perfino in questo eclatante esempio di grande cinema da godere sullo schermo più grande possibile. Era genetico, era destino. La casa della famiglia ebrea in fondo al viale, l'unica buia nel bel mezzo dello sfavillio del Natale, brillava di luce propria e del fascio del proiettore. L'importante, nel ritrarla, è ricordarsi di controllare l'altezza dell'orizzonte nell'inquadratura: “Se è in basso è interessante, se è in alto è interessante, ma se è al centro... È una palla mortale”. È stato un suggerimento di John Ford. È stata la mano di Spielberg. (8)

Siamo in un'isola bellissima, a largo dell'Irlanda. Sulla terraferma impazzano i combattimenti, ma a Inisherin non giungono che i boati lontani. Lì, tra i pub fumosi e le scogliere a picco, si consuma un'altra insensata guerra civile: quella fra due uomini, un tempo migliori amici, che improvvisamente non si vanno più a genio. Il pastore Colin Farrell, tenero e fragilissimo lontano dai ruoli di bel tenebroso che l'hanno reso noto in gioventù, elemosina una seconda opportunità e nel frattempo si strugge. Il violinista Brendan Gleeson, annoiato dalle moine dell'altro, minaccia di tagliarsi le dita a colpi di cesoie se importunato di nuovo. Non staranno forse esagerando? Perché non si limitano ad affrontare le solitudine e la depressione alla maniera degli altri isolani, si domandano la sorella volitiva Kerry Condon e lo scemo del villaggio Barry Keoghan? Brontoloni, imprevedibili e adorabili, gli eccellenti protagonisti animano una sceneggiatura beckettiana fatta di paradossi: la stupidità umana viene raccontata con la solita intelligenza del regista; i dialoghi, al solito fitti, nascondono non detti fino alla fine. Ma da Martin McDonagh mi aspettavo qualcosa di più, dopo i fasti di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Piccolo e indipendente, questa volta se ne torna alle origini e con il suo microcosmo agrodolce (ho pensato a un Chocolat con la rabbia canina) conquista qualche nomination agli Oscar di troppo. Vincerà la statuetta alla sceneggiatura: brillante, al solito, ma per me inutilmente triste e amara. Su quest'isola ci sono le streghe, le canzoni folkloristiche tramandano la leggenda delle banshee, ma non c'è la magia sperata. (7)

È il film di cui tutti parlano. Un piccolo miracolo dal cuore grande, che a sorpresa è uscito dal circuito indipendente per imporsi anche nella stagione dei premi. Trama, toni e atmosfere sono quelli del Sundance: due personaggi, uno scenario esotico, tanti dialoghi, troppi non detti. Ma questa volta i protagonisti sono un padre e una figlia, e il film (autobiografico) è la storia del loro primo e ultimo viaggio insieme. Lui ha un braccio ingessato e improvvisi sbalzi d'umore; lei ha undici anni, ma la sa già lunga. Tenero e idilliaco all'apparenza, il loro rapporto nasconde ombre indecifrabili. E la sceneggiatura, sospesa, carica di tensione quell'epilogo già cult sulle note dei Queen. È possibile mettere insieme i frammenti sparsi di un genitore mai compreso? Ci prova Charlotte Wells, che affida le memorie di un'estate a Paul Mescal: ancore una volta, il gigante buono di Normal People commuove unendo la sua fisicità da adone a una delicatezza quasi femminea. Sophie lo considera vecchissimo e gli domanda cosa farà per il suo centotrentunesimo compleanno. L'uomo abbozza, vago. E i suoi misteri, a distanza di un ventennio, vengono scandagliati attraverso i video ricordo. Ma né la memoria né l'elaborazione sono lineari; non lo è il perdono. I ricordi della regista, così, diventano flash tra le luci di una discoteca. Spettri da scacciare, miraggi da acciuffare: il tutto, invano. Certe mani grandi non possono essere riafferrate per un nuovo giro in pista. Ma resta la memoria tattile del loro tocco, quando ci spalmavano il doposole nei punti in cui non arrivavamo. Aftersun è la bruciatura. Aftersun è la crema lenitiva. (9)

Da dietro il suo leggio, Lydia Tár, direttrice d'orchestra (anzi, “direttore”), muove le mani come se potesse domare il mondo intero. O annientarlo. Omosessuale, anticonformista, ambiziosissima, è misogina e conservatrice come si addice a quel mondo: tiranneggia sulla giovane e illusa assistente, seduce e abbandona le borsiste, esprime dissenso verso il politicamente corretto della generazione Z. Articolato in una serie di lunghi colloqui dal taglio teatrale, il film di Todd Field si muove come un (falso) biopic tra vita pubblica e privata: a distrarre la protagonista sono le prove per la quinta di Mahler, la ricerca di un nuovo vice alla sua altezza, il suadente rumore dei tacchi della violoncellista neoassunta. Questa è la storia, indecisa tra dramma e beffa, della perdita di controllo di Lydia. Il suo crollo (a cui, amaramente, non seguirà una rimonta) viene mostrato, nell'ultima parte, con toni vagamente horrorifici. Annunciato sin da premesse, dopo quasi tre ore fittissime lo si accoglie al suono di sbadigli. Field non è Sorkin. Tár non è Jobs. Il personaggio eponimo affascina, ma non c'è mai una curiosità voyeuristica dietro quelle conversazioni interessanti soprattutto alle orecchie degli addetti ai lavoro. A noialtri restano qualche raro sorriso tirato e la sensazione che la grande pretenziosità del tutto (prendete perfino i titoli di testa, spossanti) guasti il coraggio dello spunto di partenza: raccontare la vicenda di una predatrice sessuale nell'era del #metoo. Quest'orchestra stridente, in mano a un altro, sarebbe stata un capolavoro. Ma il film, premiato a Venezia per la migliore interpretazione femminile e plurinominato agli Oscar, è un anfibio gelido, scontato e prolisso. Come, d'altronde, la bravura da prima della classe di Cate Blanchett: a lungo andare, viene a noia anche quella. (5,5)

lunedì 23 gennaio 2023

Recensione: Il giovane Mungo, di Douglas Stuart

| Il giovane Mungo, di Douglas Stuart. Mondadori, € 22, pp. 456 |

Due ragazzi si baciano. Portano tute acetate coloratissime e i segni freschi dell'acne. Un velo di sudore sulla fronte, l'alito – cattivo – che sa di caramelle mou. La copertina, bella e sfacciata, ammicca dagli scaffali delle librerie italiane: promette amore e anni Ottanta. Seppure ambientato nella Scozia irrequieta di un quarantennio fa, il ritorno dell'autore vincitore del Booker Prize richiama le atmosfere dei classici dickensiani e conquista, a sorpresa, con una dimensione corale che soltanto nella seconda metà cede il passo alla scoperta della sessualità del protagonista. Mungo, quindici anni, protestante, finisce sempre per cacciarsi nei guai. Figlio di un padre morto in una disputa tra gang e di una madre alcolista, ha un animo troppo candido per uscire integro dalla violenza urbana di Glasgow. Tutti vorrebbero farne un uomo d'un pezzo: il fratello, Hamish, attraverso i traffici di speed; la sorella, Jody, attraverso un'adeguata educazione scolastica. Né abbastanza feroce né abbastanza intelligente, l'adolescente è completamente sé stesso – qualsiasi cosa significhi, qualsiasi cosa sia – accanto a Jack: un coetaneo dalle orecchie a sventola, cattolico, che passa i pomeriggi in una colombaia e non si affanna per diventare l'uomo che la società, patriarcale, pretende.

Era niente, eppure sembrava tutto.

Douglas Stuart sottopone il suo innocente eroe a prove di una durezza inenarrabile. La strada della crescita è lastricata di tappe terribili. E la giovinezza, a volte, è intima amica del senso di colpa. Abusato nel corpo e nello spirito, Mungo vorrebbe urlare al mondo l'oltraggio e l'amore dei suoi quindici anni. Ma si vergogna tanto di essere vittima quanto di essere innamorato. Cosa ha a che spartire la tenerezza con la vergogna? C'è speranza di sottrarsi a un futuro di ruderi e casermoni puntando insieme, mano nella mano, al miraggio del mare? Mungo e Jack fantasticano di compiere sedici anni e, abbandonata la scuola dell'obbligo, di rifugiarsi su un'isola deserta. E laggiù, finalmente soli, di sperimentare un sesso che non sia più stupro, pornografia, clandestinità coatta. Convenzionale nelle tematiche soltanto all'apparenza, Il giovane Mungo è insieme romanzo di formazione, educazione sentimentale, vendetta trasversale. Gli indimenticabili randagi della famiglia Hamilton mi hanno tenuto compagnia per oltre un mese e se qualcuno mi avesse attentamente osservato, sui mezzi pubblici, avrebbe visto smorfie a centinaia incresparmi la fronte. È stato come se Mungo, affetto da un tic nervoso che ne altera inavvertitamente l'aria angelica, mi avesse prestato per cinquecento pagine il caos di un viso – e di una vita – che non sa gestire. Mungo si gratta, si schiaffeggia, si impone di non lasciare che ogni sentimento mutevole gli si legga sulla faccia. Si tormenta, perennemente imbarazzato. Ma che colpa ne hanno i prismi, che colpa ne hanno gli arcobaleni.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Hozier – Take me to Church

sabato 7 gennaio 2023

11 anni e Top 5: cosa succede, a volte, ai buoni propositi

Al principio dello scorso anno sono risultato positivo al Covid. Ho passato i primi venti giorni di gennaio barricato nella mia stanza. La mia prigionia da hikikomori, però, durava da più tempo. Bloccato in un pantano, ero stato a lungo spettatore della vita altrui dal buco della serratura. In attesa del risultato del tampone molecolare, infine, avevo formulato un buon proposito: non sarei più rimasto chiuso dentro. L'ho rispettato. Sono arrivati i concorsi, i viavai, lo studio matto e disperato, le attese spasmodiche, le graduatorie: altre attese. È arrivato il contratto a tempo indeterminato e, anche se non credevo di avere né le forze né il coraggio, sono andato via. Completamente libero e completamente solo. Lontanissimo da me. A ventotto anni ho messo radici altrove, o almeno ci sto provando. Torino mi somiglia. È malinconica, ordinata; cupa qualche volta. Mi piace, Torino, perché si fa i fatti suoi. È il posto migliore per ricominciare. Anche se fa un freddo secco, che mi arrossisce la faccia alle fermate degli autobus, e non ho ancora superato quell'istinto naturale che mi spinge a ricercare il mare tra i ritagli dei palazzi porticati. Lavoro in una città a un'ora di distanza dal centro. Mi sveglio all'alba e la sera crollo presto. A scuola ho cinque classi – un centinaio di alunni circa. Dovrei sentirmi euforico, ma a volte sono stanco e basta. Però, sull'autobus del ritorno, se ho i Pinguini Tattici Nucleari in cuffia e un raro sole negli occhi, mi scopro felice come non mai. Quando stacco, mi dirigo verso un posto – un appartamento in zona Porta Nuova, con altri tre coinquilini sconosciuti fino a settembre – che chiamo già “casa”. Ho letto poco; forse guardato meno ancora. Immagino che, quest'anno, sia stato troppo impegnato a vivere. Ma, benché distrattissimo, sono tra coloro che si ricordano di onorare festività, ricorrenze e compleanni. Oggi, miei cari superstiti, il blog compie undici anni. Non posso promettere nulla: maggiore costanza soprattutto. Ho già il lavoro e la sveglia a impormi spietate tabelle di marcia. Voglio che questa resti la mia ora d'aria, il mio giardino felice. Incoltivato, forse, ma felice sempre. Come da tradizione, lascio in coda le mie top (ahimè, saranno Top 5) di romanzi, serie TV e film, ma vorrei tantissimo che mi raccontaste di voi. Un abbraccio e grazie per la compagnia.







5. Tasmania: Il mondo va a rotoli? Mi trasferisco con l'ultimo Paolo Giordano. 
4. Spatriati: E' il vincitore del Premio Strega. E racconta di due meridionali in fuga da loro stessi, nel medesimo anno in cui mi sono “spatriato” anch'io. 
3. La città dei vivi: Brividi di orrore e bellezza nell'ultimo Lagioia. Se fossimo noi le vittime del prossimo caso di cronaca nera? Se fossimo, soprattutto, i colpevoli?
2. Dove sei, mondo bello: Il mondo bello è ora e qui, tra le pagine di Sally Rooney. La voce più vera della nostra generazione.
1. Patria: La tragedia delle guerre intestine in una saga familiare indimenticabile. Non è un romanzo: è un'esperienza umana.








5. The Fabelmans: I ricordi, le famiglie (in)felici, il cinema. Spielberg non smette di regalarci magie.
4. Cha Cha Real Smooth: Avete superato i venticinque, siete tornati all'ovile, vi innamorate di persone al di fuori della vostra portata? Non siete soli. Una commedia in puro stile Sundance, scritta diretta e recitata da un giovane prodigio (classe 1997).
3. Spencer/Blonde: Gli anti-biopic dell'anno. Horror psicologici al femminile: cupi, metaforici, asfissianti. Stewart e De Armas, principesse di un castello di sogni e orrori, entrambe da Oscar.
2. Pinocchio: Questa visione mi ha scavato un buco in petto. E, da allora, ci vive dentro un grillo parlante. Guillermo Del Toro al suo meglio.
1. Everything Everywhere All at Once: Pagare le tasse? Che avventura. Un viaggio nei multiversi del cuore, folle e coloratissimo, sulle migrazioni vere e figurate di una famiglia cinese in America. Segnatevelo: ai prossimi Oscar vincerà tutto.









5. Heartstopper: L'insostenibile leggerezza di essere adolescente e innamorato. I cuoricini si scioglieranno come Polaretti in un congelatore in panne.
4. Stranger Things – Stagione 4: Troppo teen, troppo inflazionata, troppo commerciale? Sarà. Ma la serie dei Duffer Brothers non sbaglia un colpo e sforna momenti cult.
3. The Staircase/Landscapers/Pam & Tommy: Storie d'amori tossici, storie vere, storie nere. Quando la realtà supera l'immaginazione e agli attori, in stato di grazia, tocca cambiare pelle.
2. Euphoria – Stagione 2: Zendaya che scappa per non finire in rehab, Sydney Sweeney che si strugge allo specchio, Eric Dane che balla un lento in un bar gay. Nel mondo della serialità ci sarà sempre un “prima” e un “dopo” Euphoria.
1. This is us – Stagione conclusiva: L'ultimo treno di Rebecca Pearson e di una famiglia che non dimenticheremo. Grazie per questi sei anni di lacrime. Ci hanno fatto sentire più umani, e più vivi.