Un
sicario su commissione che rovinava i gelati alle bambine e la
detective urlante al risveglio per via dell'insopportabile formicolio al braccio, dicevamo qualche post fa, si intrigavano
reciprocamente sin dall'inizio. Il bene e il male, il gatto e il
topo, si inseguivano come ogni caccia all'uomo – anzi, alla donna –
prevede. Già allora, ricordo, di Killing Eve sorprendevano
la freschezza e la semplicità. Pochi drammi, tanta violenza
e un gioco al femminile che viveva di intelligenza, civetteria e una
vaga insofferenza verso gli stilemi del cinema d'azione. L'intreccio,
per quanto già visto, osava proprio grazie a loro: due personaggi
bizzarri, umani, tratti dai romanzi di Luke Jennings ma rivisti e
corretti dalla penna riconoscibilissima di Phoebe Waller-Bridge.
Entrambe, infatti, cercano la normalità che non possono permettersi.
Non hanno il physique du rôle e
sono straniere in città straniere. Sandra Oh è una americana a
Londra dagli occhi da orientale: sbirra non così ferma nelle proprie
posizioni, segue le direttive di una sempre superba Fiona Shaw.
L'adorabile Jodie Comer, stella in ascesa e mia nuova cotta, è
invece per copione una assassina poliglotta a Parigi, bella e
inquietante come una bambolina dell'Est. Nessuna capitale europea
sembra abbastanza grande per non pestarsi i piedi a vicenda; inviarsi
minacce di morte o abiti firmati. In Russia, infine, si scopre che in
ballo ci sono cospirazioni, giovani galeotte educate alla violenza e
i Dodici, organizzazione internazionale di cui al momento poco
sappiamo. Forse Villanelle cerca una via d'uscita per cambiare vita?
Forse segue ogni mossa della poliziotta non come farebbe una stalker,
ma per avanzare una richiesta d'aiuto? Intanto Eve realizza un
ritratto dell'avversaria come i profiler del piccolo schermo
insegnano, e il pensiero di lei diventa pian piano un'ossessione
sentimentale che di morboso, di saffico, in verità ha poco. Killing
Eve gioca, sì, ma non alla
guerra fredda. Produzione BBC affatto ingessata, ti corteggia con
l'ironia e gli sguardi giusti prendendosi nel mentre
straordinariamente poco sul serio. Introduce, costruisce e disfa,
confonde con la musicalità degli accenti, la colonna sonora elegante
e gli strani languori di queste amiche-nemiche. Cosa c'è in
ballo, con una seconda stagione già annunciata? Il rischio è che arrivati
alla meta, raggiunta la signora Polastri, potrebbe esserci poco
altro con cui riempire una nuova missione (im)possibile. Se in un
thriller scoppiettante in cui le donne fan da padrone, e
per di più senza mai cadere nella pesantezza fine a sé stessa del
femminismo imperante, potremmo confidare nei trucchi che nascondono
in borsetta – oggetti contundenti, non soltando rossetti e rimmel.
Nei prendo e parto, nei non detti e nel proverbiale
multitaskingdi menti, all'occorrenza, criminali. (7+)
Sono
stato benissimo in loro compagnia nella prima sessione estiva della
mia carriera di studente. Mi hanno fatto sentire uno di
casa. Sognavo il loro appartamento coi mattoni a vista, con tanto di
gatto e armadio da cui attingere magliette a fantasia e camicie a
quadri. Eravamo psicologicamente pronti a lasciare New Girl
già un anno fa. E quel bacio
sospeso, quel finale lieto ma non troppo con Green Light di Lorde in stereo, si
faceva apprezzare. La settima stagione arriva dal niente a mettere i
puntini sulle i. Sui misura dai
fan, è proprio dai fan che sembra scritta. Ecco così due bambini,
un matrimonio e un funerale, gli ultimi scherzi. Schmidt e Cece sono
genitori di Ruth, tre anni; Winston e consorte sono in dolce attesa;
Nick e Jess appaiono invece indecisi sull'adottare un cucciolo o
meno, sul dirsi di sì. Non avevo chiesto che fosse ufficializzato questo addio, eppure
quando sul solito sito di streaming è arrivato il finale di serie mi
sono detto: come, di già? A parlare non era il crepacuore degli addii, ma la confusione. Davanti a una stagione di soli
otto episodi che si apre e si conclude passando inosservata. Davanti
a comedy, già sottotono da qualche stagione a questa parte, che
sfidano la cancellazione, scelgono a tavolino il tempo migliore per
congedarsi, ma non approfittano dell'ultima opportunità. Quando il
sipario si cala, New Girl
appare inutile, autoreferenziale, simpaticissimo. Non brutto, ma di
dubbia utilità. Troppo corto per essere un riempitivo vero e
proprio. Troppo scontato – stucchevole perfino, vedasi il
flashforwardconclusivo – per sorprenderti con il luccichio di una
lacrima. (5,5)
A
proposito di guilty pleasure degni di questo nome. Di prodotti che
all'inizio ti vergognavi quasi di seguire con la passione del fan,
poi diventati negli anni una promessa di leggerezza. Qualcosa,
qualcuno, su cui fare sinceramente affidamento. Ecco la serie a prova
di scettico che inviterei a riprendere o a sperimentare. Perché
no, croce sul cuore: Jane The Virgin non è una di quelle
candide porcherie tanto bruttine da diventare, dopo quattro anni, un
appuntamento immancabile. Cresce. Come le grosse grasse famiglie
latine (nonna Alba studia per ottenere il permesso di soggiorno,
mamma Xiomara fa i conti con una diagnosi preoccupante, papà Rogelio
tenta la conquista delle casalinghe americane accanto all'autoironica
Brooke Shields). Come le coppie che si formano loro malgrado (Petra,
la ex accusata dell'omicidio della gemella, è attratta dalle forme prosperose dell'avvocato
Rosario Dawson; Rafael, alias l'inseminatore fortuito, è finalmente riamato da una Jane in cerca della
giusta storia d'amore). Come quel figlio del miracolo. Vuoi bene
a tutti loro, dal primo all'ultimo, e ti senti di chiamarli amici;
per nome. Esempio di garbo e intelligenza, tenera ma piena di
suspance, l'immacolata concezione al tempo della CW può vantare la
presenza della deliziosa Gina Rodriguez, un narratore che è a mani
basse il migliore dei comprimari e un twist clamoroso, messo in
chiusura di una stagione talmente matura, talmente in pace con sé
stessa, da sembrare l'ultima. Jane The Virgin, successo a
prova di cancellazione, continua così la sua parodia di svolte impossibili
e buonumore. Lo aspetti, e non è domenica se non va in onda. Se, soprattutto, al giro di boa, si rivela essere molto più che un altro stupido guilty
pleasure latino-americano. (7)
|Jonas e il Mondo Nero, di Francesco Carofiglio. Il Battello a
Vampore, € 16, pp. 333 |
Da
bravo superficiale quale sono, non avrei saputo resistere.
All'illustrazione in copertina che prima ancora del passo di It citato
a pagina uno faceva respirare atmosfere alla Stephen King. Al nome di
uno scrittore molto prolifico – non si
tratta di omonimia: Francesco è il fratello minore di Gianrico, altra garanzia di bestseller –, qui alle prese con un
romanzo per ragazzi.
Com'era
perciò prevedibile non ho opposto resistenza, no, e mi sono concesso
con una punta di nostalgia un viaggio lungo una metafora assieme all'ultimo volume del
“Battelo a Vapore” – intorno agli otto anni non una semplice
branca della Piemme, bensì la mia migliore amica. Con il protagonista,
d'altronde, sarei andato d'accordo anche ai tempi. Balbuziente e
occhialuto, non brilla né a scuola né negli sport, e a casa, quando
non può perdersi in qualche romanzo o nell'inusuale catalogazione
dei coleotteri, fa i conti con una mamma che c'è e non c'è, un papà
a rischio cassa integrazione, una sorella maggiore che vive di
rotocalchi. Nemmeno i bulli, gli stessi che in una segheria
abbandonata usano i randagi del quartiere per il barbecue, si curano di lui: anonimo com'è, non ispira grandi angherie.
Si chiama come l'eroe della serie distopica di Lois Lowry, sogna
mondi sottosopra degni di una puntata di Stranger Things e
in una anonima città degli Stati Uniti – tra cenni a fotoromanzi,
sceneggiati radiofonici e vecchi tram, non sappiamo bene se
collocarla nel presente o nel passato – vede succedere strane cose.
Non esistono le ombre di cui parla: i genitori si sono
accertati che avesse tutte le rotelle al posto giusto in tempi non
sospetti, portandolo a colloquio da uno psichiatra infantile. Non
vogliono dirgli niente gli indovinelli alla Lewis
Carroll e i regali enigmatici che riceve in dono da conoscenti vicini
e lontani. Come convincersene se all'orizzonte non gli si prospetta un bianco Natale,
bensì nerissimo? Come fare spallucce, se nella sua stanza compare Melampo, una specie di elfetta
biondo platino che viene da una dimensione intermedia?
Ci
sono vari modi di sentirsi soli. Non poter raccontare i propri
segreti era uno di quelli.
Jonas
era un dodicenne normale, per quanto sui generis: una spasimante di
cui non contraccambiava le gentilezze, un compagno di banco
che nascondeva i lividi di un genitore manesco, l'amore igenuo per Nina (figlia di pasticcieri,
incantevole e spiritata: non vedente). Certo, aveva un nugolo di
parenti finiti a picco nell'oceano o in una camera dalle pareti
imbottite, ma nel suo microcosmo di hobby, routine e manie ci
stava ignaro e contento. Si è arreso: la stranezza sembrava una condanna vita natural durante. Tutto è destinato a
cambiare. Ha letto spesso di straordinarie avventure per mari e per monti, di verità che sfuggono e bambini scelti per sbrogliare
equilibri instabili: non pensava che i fantasy che ha divorato sotto
le coperte, con la neve fuori, parlassero di lui. Che è la chiave
della porta che apre il bene e taglia fuori il male, pronta a
spalancarsi pericolosamente ogni trentatré anni. Che
nell'intercapedine della nostra realtà esiste Extramondo, una Isola
che non c'è popolata dai
Ragazzi Ombra. Che a mezzanotte le due dimensioni nemiche si
incontreranno, e una soccomberà all'altra, fulminandosi come una
lampadina in esaurimento. Come può lui avere potere decisionale, se
grigiore e malumore diffusi, se l'impressione tutta contemporanea di
poter fare a meno di essere felici, testimoniano che il male è un'infiltrazione che non ci abbandona?
Alcune
cose, a volte, riescono meglio a occhi chiusi.
Jonas
e il Mondo Nero, più
vicino al racconto fantastico che all'horror,
è un romanzo strano, in parte, come strano ci si presenza il suo
adorabile protagonista (i dialoghi superano le descrizioni e, fra le pagine, si
respira una durezza del vivere che non ti aspetteresti). Chiariamolo
subito: l'originalità non è di casa, di qualche guizzo ironico ho
proprio sentito la mancanza, e la risoluzione finale appare
piuttosto approssimativa. Non mi sono piaciuti gli “appunto” di
troppo, l'esagerare coi puntini di sospensione nelle parti
dialogiche, il fatto che molti personaggi – i vicini, la
spasimante, il migliore amico – fossero introdotti per poi rimanere
sullo sfondo. Mi è piaciuto il resto (gli ex manicomi, i passaggi
segreti dappertutto, le stazioni abbandonate), ma soltanto con il
senno di poi. Perché Jonas e il Mondo Nero fa
parte di quei romanzi che decollano tardi amando la malinconia della
partenza, che sono soprannaturali ma non così tanto. Quelli che si
accontentano di essere semplici, di cuore, e in cui l'elemento fiabesco resta
una scusa per cominciare a raccontare. Troppo, qui?
Dove
vanno a finire le cose dell'infanzia? Tipo la collezione dell'Uomo
Ragno, le corse a perdifiato, e i racconti di tuo nonno d'estate,
all'ombra della grande quercia. Dove vanno a finire le voci, gli
odori, la sensazione precisa di essere nell'istante perfetto, che
durerà per sempre? Che non finirà mai. Non dura per sempre. E tutta
quella roba, a un certo punto, sparisce. La memoria si inghiotte i
fumetti, le corse e i racconti di tuo nonno. E improvvisamente sei
solo. E improvvisamente, non sei più bambino.
Da
piccoli poteri derivano grandi responsabilità. C'è sempre il tempo
per ogni cosa: scoprire che le guerre non si vincono mai in
solitaria, ad esempio, oppure cambiare. E c'è un ragazzetto cupo per natura
che paradossalmente, eppure, fa abbastanza luce da illuminare un viaggio al
centro della terra, e della notte, di cui ho percepito a metà
l'importanza di quel che c'era in ballo. Crescere, racconta l'adulto
Carofiglio con una punta di tristezza a chi adulto si appresta a
diventarlo, significa dimenticare la magia. Nell'Extramondo, nell'età
di confine tra l'infanzia e l'adolescenza, qualcosa passa di mente e
qualcosa no. Restano un origami a forma di suricato (la sentinella
del mondo animale) sulla scrivania di una cameretta che si è fatta
d'un tratto troppo piccola. Gli ammonimenti, durante una partita decisiva, di chi ci consigliava di colpire la palla di
piatto, non di punta. Per abbandonare la panchina e fare goal in una
vita nuova. Esultando sotto un cielo che ha smesso di pioverci addosso, e di
fare male cane.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Shawn Mendes – In My Blood
Shelly
è una di quelle adolescenti di cui ti accorgi quanto sono belle da
un'estate all'altra. Le curve sbucate all'improvviso e l'allestimento
di un chiacchierato stand dei baci rappresenteranno per lei un
grattacapo non da poco. Colpa della gonna troppo corta se i coetanei
fanno apprezzamenti spinti, che la imbarazzano e segretamente la
lusingano. Colpa del rissoso e iper protettivo Noah se, con la scusa
di proteggerla, si avvicina quel che basta a innamorarsi corrisposto
di lei. Peccato sia il fratello maggiore di Lee, che di Elle è
l'amico di tutta un'infanzia. Peccato che tra i due, pappa e ciccia,
ci siano regole da non violare in nome di un lungo sodalizio. In fatto di sentimenti, i parenti sono materia
proibita. Amore o amicizia? E che amicizia è, poi, se ci domanda di
scegliere? Tratto da un romanzo in uscita per De Agostini, The
Kissing Booth avrebbe potuto
scoraggiarmi – con la sua aria appartentemente televisiva, con i
suoi triangoli indigesti da un pezzo –, se non fosse stata per la
media online che non ti aspetti. Che sia nel suo piccolo
un'eccezione alla regola, per fortuna, te ne accorgi presto. Il
segreto: la verve di Joey King, non bellissima eppure
adorabile, degna della cotta che contrappone gli aitanti Joel Courney
e Jacob Elordi. Commedia romantica frizzante e spiritosa,
leggerissima, ricorda i teen cult degli anni '80 senza ricorrere
alla retromania dilagante già bella che venuta a noia – a cosa
serve ambientarla in un passato d'oro, poi, se hai mamma Molly
Ringwald nel cast e un confronto finale sulle note di Don't
You (Forget About Me)? Una
sedicenne come tante e come nessuna, John Hughes che dà appuntamento
al recente The Duff,
ritmi azzeccati: come strapparti sorrisi frequenti, così, e un ultimo bagio. (6,5)
L'amore
oltre il confine, quello clandestino, quello proibito se all'interno
di una distopia futuribile. Drake Doremus torna a raccontarcelo a modo suo. Tema
inesauribile con altri angoli da indagare, nuove tecnlogie con cui
fare i conti. Quello tra Nicholas Hoult e Laia Costa – così belli
e talentuosi da fare invidia – sboccia sui siti d'incontri,
e a causa di quelli rischia di morire. Lui, con già un
matrimonio alle spalle, è segretamente in cerca della compagna
giusta. Lei, spagnola in terra americana, insegue l'orgasmo.
La loro notte di fuoco si trasforma in una convivenza di cui ci si
annoia presto. Eppure troppo giovani per un terapista di coppia,
innamorati come dicono, aprono le porte della camera da letto ad
altre persone: non sanno bastarsi. Il sesso prima li unisce, poi li
divide. Hoult ossessionato dai rimpianti verso la storica ex, la
Costa presa da un uomo più grande. Dedicato alla memoria di Anton
Yelchin, autentico ma prolisso senza reale motivazione, Newness parla
come Genovese degli effetti collaterali che la tecnologia ha sul
cuore e dei contro delle novità a tutti i costi: riflessioni
post-moderne accompagnate da un tocco ormai riconoscibile, con
dialoghi quotidiani, una fotografia bluastra e primi piani
morbidissimi ma mai indulgenti – al contrario dei film precedenti
qui c'è tanto contatto fisico e scarsa intimità: ci si confessa i
reciproci amanti, mai i segreti personali. Questo amore online,
quest'ultimo Doremus, piace sempre, ma meno del solito: se scettici come me all'idea della coppia aperta, ma attenti alla sensibilità del cinema
indipendente. Se abbastanza vecchio stile da non credere nelle
sperimentazioni e alle lacrime di coccodrillo di protagonisti un po'
scostanti. La libertà, per ironia della sorte, sta nel legarsi
spontaneamente; nell'annoiarsi insieme, in un finale che finalmente
emoziona. Osando desiderare qualcosa di proprio in un mondo usa e
getta, a forma di smartphone. (6,5)
Il
quattro luglio, un giorno di festa. All'Indipendenza si aggiunge
l'organizzazione di un compleanno a sorpresa. L'affaccendata
Katie recupera festoni e palloncini colorati, il miglior vestito dal
fondo dell'armadio e soprattutto gli invitati. Compresa la sua
famiglia. Compreso il fratello minore, Seth: già ragazzo padre, già
entrato e uscito in un indistinguibile andirivieni dalle cliniche di
disintossicazione. Passarlo a prendere a casa diventa un'impresa: salvarlo di nuovo dall'eroina. Si dimena come un
pazzo sul sedile anteriore. Porta le maniche luglie in piena estate.
C'è ricaduto. Il bruciore della dipendenza, più forte dell'amore
verso una bambina col pannolino sporco a cui ha promesso in pasto i
fuochi d'artificio. Per Katie – una vita in differita, consacrata
alle fragilità del prossimo –, invece, il sangue del suo sangue
viene prima del futuro. In cerca ora di una clinica, ora di un'ultima
dose, Abbi Jacobson accompagna un ottimo Dave Franco, alle prese con
la prima grande prova distante dalle commedie demenziali e dall'ombra
del più famoso James, in una Los Angeles in cui tutti vanno in rehab
e le tentazioni sono sempre dietro l'angolo. Lei, con un vestitino da
cocktail fuori luogo nei mondi di Shameless, sfida i
bassifondi e attacchi di panico in cui pensa letteralmente di
annegare (e Seth, in tutto ciò, resta la sua zavorra). Lui, in preda
ai sudori freddi, al vomito e agli attacchi di dissenteria, è un
tornado che ti porta in alto nei momenti di euforia e poi ti
distrugge. Un'ora e quattordici per passare a comprare una torta
d'alta pasticceria e la droga. A sorpresa, abbastanza per
affezionarsi alla semplicità e al realismo di questo film. Due
protagonisti al loro meglio. Una regia notturna, serratissima, con un
taglio stilistico alla Sean Baker che a tratti lo rende un gioiellino. Dramma indie sparato dritto in endovena, 6 Balloons ha tutto il dolore,
la violenza e la tenerezza che possono starci. In una macchina che
porta verso i pusher. In un palloncino a elio sospeso nella speranza,
finché non scoppia. (7)
Sentirle
dire che non è felice davanti a una colazione a letto. Davanti a un ragazzo che, fra giochi erotici,
piccoli riti e un linguaggio di gesti e risate coniato soltanto per
loro, cerca di mantener viva la scintilla. Lui, infatti, è
sentimentale per natura. Lei, la realista dei due, pare invece
eternamente insoddisfatta. Colpa di un figlio che non arriva, degli
ex, del cane che puzza, della cortesia esagerata del primo e della
luna storta dell'altra. Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?
Melodramma (pre)matrimoniale con protagonisti logorroici, bizzarri e
umani che sperimentano al terzo anniversario le gioie e i dolori di
mettere il cuore al vaglio, la commedia Netflix ha comprimari
telefilmici per nulla indispensabili (Isidora Goreshter da Shameless
e Kristin Bauer van Straten da True Blood) e un piglio indie
che, al solito, la salva dai connaturati difetti. Dopo tre anni d'amore, per la copia
uscita peggio di Zoey Deschanel, Noel Wells – già vista e mal
sopportata in Master of None –, e Ben Schwartz, è in
agguato la fine o forse un'altra occasione? Tutta questione di punti
di vista, in Happy Anniversary. Un giorno all'apparenza lieto
innesca nella coppia – che prende in giro le smanie dei coetanei
radical chic, che si dà contro per sport pur di non cadere vittima
della medesima ipocrisia – una serie di reazionie e pensieri
collaterali. Accontentarsi. Ingannarsi. O, semplicemente,
rassegnarsi al fatto che il tempo si cambi, anche come amanti? (5,5)
Non
ho mai fatto mistero della mia predilezione per il cuore nero degli
horror iberici, né per la concezione secondo la quale nel cinema di
genere – ormai senza idee vincenti – si debba preferire la forma
alla sostanza, se in cerca di qualche guizzo.
Verònica è un film che gioca con il fuoco delle tavolette Ouija e
il fascino delle evocazioni: l'ennesimo. Corrono gli anni Novanta, ed
ecco i poster alle pareti delle adolescenti, le cuffiette del walkman
nelle orecchie e un piacevole gusto kitsch, che contempla luci al
neon e musica elettronica. La protagonista, quindicenne, è la
primogenita di una famiglia bella ma popolosa, in cui lei si
trova a fare un po' da mamma. Anche se aspetta ancora il primo
ciclo mestruale, confine invisibile fra le donne e le bambine. Anche
se le ragazze responsabili non trafficano con l'occulto da edicola,
con il rischio che qualcosa – un'ombra alla James Wan, mostrata con
intelligenti vedo-non vedo – si impossessi del suo corpo. Non
mancano i cliché: la suora cieca con un fiuto per il male;
il detective messo in difficoltà da un crimine con implicazioni
paranormali. Non manca lo splatter, con un lungo incubo in cui la
protagonista viene divorata dalla nidiata di fratelli minori: gli
stessi che rendono adorabili, eppure, la quotidianità e il giovane
cast – su tutti ovviamente lei, la bravissima Sandra Escacena – dell'ultimo film del sempre affidabile Paco Plaza. Il
regista, braccio destro di Balaguerò nella saga in caduta libera di
Rec, ricorda i nostri
Fulci e Argento nella grana autenticamente rétro delle immagini;
perfino lo Spielberg di Incontri ravvicinati, con il tenero Antonito
incantato sull'uscio del bagno. L'eclissi oscura Madrid e anima un
ipnotico delirio, fra possessione satanica e allucinazioni, con un
tocco d'autore – classico e modernissimo insieme – che, come si
diceva, sa fare la differenza. Inquietante metafora del diventare
adulti come il cannibale Raw,
Verònica è la
riprova di come il male padroneggi tutti gli idiomi del mondo. Lo
spagnolo, lingua di balli di gruppo e brividi non da poco, a quanto
pare, meglio di altri. (7,5)
L'animale
femmina si chiama Rosita. Minuta e poco appariscente, ha imparato
subito a mimetizzarsi. Il parlare controllato per paura che le vocali
troppo aperte o troppo chiuse del dialetto casertano rivelassero al
nord, dove in fretta si è adattata, le origini che
ripudia a testa bassa. La propensione all'anonimato, nutrita
cancellandosi via dalle labbra accenti sbagliati e rossetto. Senza un
filo di trucco, così, la ventiseienne sfugge all'incalzare dei predatori e agli spari
dei bracconieri. Studentessa di Medicina fuori sede e fuori corso,
Rosita – cassiera con uno stipendio da fame che non le assicura
neppure il poco d'indipendenza economica che cercherebbe – si
ritrova con un debito verso il padrone di casa e,
testimone di uno scippo ai danni di una domestica straniera come
tante se ne vedono, con un portafoglio per le mani. Esporsi
suonando al campanello di una sconosciuta, in nome della tacita
solidarietà tra disgraziati, è l'isolato gesto di gentilezza che la
porterà nella tana di Ludovico Lepore: lo sfarzo impersonale delle
case ricche ma senz'anima, l'odore di pipa che riaccende in lei il
ricordo di un padre conosciuto a malapena, il busto in soggiorno di
Madame du Barry – da prostituta ad amante del re di
Francia – a ispirare nell'anziano interlocutore il racconto di una
memorabile scalata al potere. Rosita ha piccole ambizioni di
autonomia e Lepore, avvocato ultrasettantenne specializzato in
diritto di famiglia, è il solo che possa aiutarla: anche se la sua
proposta di lavoro suonerà indecente con il senno di poi; un patto col diavolo. L'esordiente Emanuela Canepa,
vincitrice all'unanimità del premio Calvino, sembra raccontare
all'inizio la favola amara di una donna in carriera. Come Anne
Hathaway nella commedia già cult, la protagonista
deve fronteggiare un datore di lavoro che la sottovaluta per la sola
colpa di appartenere al genere femminile e una guida sul campo,
l'inarrivabile Renata, che la illumina con una punta di compiacimento
sugli incartamenti in archivio e la mìse da sfoggiare. Dove vuole
andare mai, altrimenti: troppo trascurata, troppo
magra, troppo bambina? Lepore le chiede di acquisire abilità con la
moka, perché i meriti di una donna si giudicano dai
caffè che serve, e di incarnare il luogo comune della segretaria
media: la divisa d'ordinanza comprende perciò gonna al ginocchio
e camicia dai colori neutri, tacchi alti e occhiali non graduati per vezzo, un make up leggerissimo.
Sa perché non sono ancora in pensione?Perché mi diverto moltissimo. Le femmine sono animali
interessanti.
Da
dietro la sua scrivania, l'avvocato guarda
le cose succedere come un demiurgo pettegolo e manipolatore, a cui
unire, però, lo sguardo curioso dell'antropologo. Si gode la
soddisfazione di mettere in imbarazzo il prossimo dall'alto del suo
pregiudizio. Si fa beffa del dolore delle sue clienti, spesso
facoltose ereditiere abbandonate a loro stesse, e chiede alla
sottoposta attenti resoconti: tutte uguali, tutte illuse, le donne
per Lepore sono incapaci di dichiarare resa e di considerare il
matrimonio quel che è, un progetto di disfacimento a lungo
termine. Scandalizza la protagonista, violando il segreto
professionale e non astenendosi mai da giudizi soggettivi, eppure non
cerca il sesso con avances altrettanto fuori luogo, ma l'obbedienza
di una seguace. Rosita, impercettibilmente, cambia nel corso di
quest'apprendistato. Sfaccettata, mutevole, con abbastanza tempo
libero per tornare sui libri senza più il pensiero del lunario da
sbarcare e una passata di rossetto scarlatto, è un'altra persona. Si
deve forse vergognare di trovarsi bellissima allo specchio? Degli
amanti anaffettivi che d'un tratto si fermano a dormire, del corriere
che si prodiga in mille gentilezze, di una nuova consapevolezza di sé che
francamente fa comodo? La madre da cui è scappata alla prima
occasione buona per paura di diventarne l'ombra – un automa bigotto
che lava e stira e, alla cornetta, spera di vederla tornare all'ovile
con la coda tra le gambe – avrebbe da ridire. Le ha spiegato a
dodici anni che il sesso non va fatto per piacere, che la femminilità
va mortificata, quando invece sono un'arma a doppio taglio: le
migliori forme di attacco e difesa. Lepore, si rende piano conto, ha
ragione da vendere e torto marcio. Ma quanto liberi si può essere,
alla fine, se in un harem di eterne debitrici: la parola resilienza
pronunciata alla stregua di un'imprecazione e le mani che prudono, causa dermatite nervosa, come quelle di Lady Macbeth? Quanto costa
vedere padroneggiare un tiranno, e dovergli anche dire grazie?
Il
momento in cui cominci a capire chi sei è lo stesso in cui diventa
superfluo spiegarlo a chiunque.
Vicenda
essenziale ma tenuta in piedi con estrema grazia, L'animale
femmina seduce con la morbidezza
dei suoi movimenti e si legge con la frenesia del thriller. Da un lato
c'è una farfalla che, dalla sua teca di vetro, scruta di sottecchi
le mosse affaticate di quel vecchio – spregevole ma straordinario,
nonostante l'età avanzata e il maschilismo velenoso: pensate allo stilista dell'ultimo Day Lewis e dategli il volto del nostro Roberto Herlitzka – e si
domanda chi tenga il coltello dalla parte del manico, chi abbia più
bisogno di chi. Dall'altra, in capitoli che virano al color seppia
degli anni Cinquanta, ci sono due adolescenti diversi
ma inseparabili che non sanno ancora che la loro lunga amicizia è
stata in realtà tutta un lungo corteggiamento: un efebo acquistato
in gita a Volterra darà il via a una spietata sfida per dichiararsi,
per aversi, che farà prima di un grande amore, poi di una strana
vendetta, il bastone della loro vecchiaia.
Gli uomini serbano inutile
rancore e le donne fanno, in un romanzo giocato sul filo sottile
dell'ambiguità. Fermo a un torto che non sa perdonare, a una sciocca
scusa, l'animale maschio ha bisogno infatti di una spinta per andare oltre.
La femmina, complice ed esca insieme, per tutto il tempo è stata invece al
sicuro dalle zanne del falso dominatore. Troppo impegnato
a mordersi la coda per sapere che l'altra, incolume, della gabbia
dorata era la serratura e la chiave
Se
ogni romanzo è un viaggio, una trilogia è una vacanza di cui
riconfermare anno dopo anno la meta. In fondo si ritorna sempre dove
si è stati bene: perché cercare altro, oltre? Sono tornato a Roma,
tra le pagine di Mirko Zilahy, per la terza primavera consecutiva:
inizia a fare troppo caldo per i miei gusti, le giornate ad
accorciarsi, ma lo scrittore – italianissimo, nonostante il cognome
– ti sfida a sentire freddo, i brividi a fior di pelle, e a credere
che le ore di buio siano inesorabili, per quanto brevi. Nella
capitale in cui Brown cerca il folklorismo da esportazione facile e
Carrisi i misfatti del Vaticano, Zilahy batte invece territori poco
noti: scavi archeologici minori, ma non per questo indegni di
interesse, e atti d'ordinaria follia che abbiamo già avuto il
dispiacere di leggere sui giornali di cronaca – l'inquietante
avvento di squadroni neonazisti alla caccia di minoranze alle strette
e perfino le famigerate buche sull'asfalto, capaci di strappare
qualche sorriso inaspettato negli accidentati inseguimenti in
automobile.
C'è
chi ci mangia, trafficando sulla mondezza di oggi e sui tumori di
domani. Stessa gente, stessi cognomi, stessa storia. Sempre e per
sempre, nella città eterna.
Su
uno sfondo sempre scenografico, seguiamo i passi cauti del
commissario Enrico Mancini: gli ultimi, spiace ricordarlo, se alla
fine di una serie che ce l'ha mostrato disperato, furente, umano. Si
è deciso a guarire dal lutto, complici la psicologa del distretto e
il recente amore per una collega: via i guanti che lo separano
dall'esterno, che lo proteggevano dal contatto fisico, ma ecco
comparire una barba incolta ad alterarne i lineamenti. Come se stesse
meglio, certo, ma non abbastanza da venire a patti con sé stesso: i
sensi di colpa non vanno mai a dormire. Chi è Enrico Mancini? Senza
mostri, senza guanti, senza gli oggetti appartenuti all'amata Marisa?
Chi è quando questo capitolo si chiude, senza più mostri da
stanare? Si parla di identità: la parola chiave. Quella che il
protagonista cerca di ricostruire, nel suo piccolo, e quelle che un
serial killer strappa alle vittime: mutilate, disseminate tra le
rovine dell'antica Roma, guardate autoannientarsi con la sincera
curiosità di un apprendista antropologo. Stando al profilo che ne
tracciano: caucasico, di mezza età, all'apparenza irreprensibile,
cresciuto nella scuola di vita di ogni psicopatico tra abusi fisici e
privazioni. Gli indizi: nei disegni d'infanzia, nei fascicoli
polverosi, in casi in cui la giustizia ha fatto cilecca. La squadra
brancola in preda ai dubbi. Le vittime appaiono scollegate. La
stampa, a causa delle soffiate di una misteriosa talpa, accusa
Mancini di negligenza. Il profiler addestrato a Quantico ha forse
perso i suoi sensi sopraffini, il tocco?
La
discesa, la chiamo così. Una specie di immersione nella palude
mentale dei miei assassini. E' una discesa che si fa con gli
strumenti adatti e un salvagente, anzi, direi uno scafandro. Gli
strumenti sono oggettivi. Sono le cose che conosciamo, come si muove,
la sua firma, le tracce che lascia. Lo scafandro invece è una specie
di corazza che ogni profiler indossa quando deve calarsi nell'inferno
interiore di quei soggetti.
Assieme
a lui, volti e nomi che abbiamo imparato a conoscere: Caterina e
Walter, in crisi per il desiderio di lei di adottare il piccolo Niko,
bambino rom inverisimilmente propenso a cacciarsi nei guai; Antonio e
Alexandra, personaggio femminile che ancora una volta mi è parso
ininfluente, che fanno i conti con il coinvolgimento della Nigro nel
caso precedente; il professor Biga, incapace di rassegnarsi
all'inoperosità della sua triste situazione clinica; l'infido
Gugliotti, già proiettato verso la pensione e roso dalla gelosia
per una relazione – quella tra Enrico e Giulia – nata come uno
sgarbo nei suoi riguardi. Cosa manca a tutti loro, mi sono domandato
nell'arco di una lettura cinematografica che eppure convinceva meno
del previsto? Gli spazi personali, il privato: continuamente
squillano i cellulari, le ricetrasmittenti gracchiano, le soffiate
anonime interrompono qualsiasi tentativo di intimità –
tralasciando la coppia Caterina-Walter, Mancini e la Foderà in
quattrocento pagine avranno appena pochi passaggi fianco a fianco,
evitando i silenzi parlanti, la loro stessa relazione, casa. Zilahy
in precedenza li ha scavati, ha approfondito i loro talloni
d'Achille, per poi farne cosa? Restano gli omicidi suggestivi (il più
coreografico implica la mummificazione con del gesso liquido), i
parallelismi affascinanti tra il boia e un investigatore quanto mai
indolente, una scrittura bella ma diversa. Concitatissimo, questo
Zilahy taglia, sfoltisce, aguzza gli spigoli e toglie quel che era
superfluo solo a un'occhiata superficiale – il lirismo consueto,
quel gusto barocco tanto atipico per un thriller, è riservato alle
pagine in corsivo che descrivono in soggettiva i punti di vista di
assassino e vittime – e che, in verità, sul lungo tratto era la sua
grande forza.
E'
un momento di passaggio. Una lunga mezzanotte sociale. E quando cala
il sole gli animali sordidi e vigliacchi emergono dal nulla in cui
vivono le loro esistenze.
Questo
puntuale congedo si legge da sé, ma non mi è parso poi così crudele, così
memorabile. Per arrivarci, tuttavia, è necessario prima passare dai
capitoli precedenti: la conoscenza di uno scrittore impareggiabile –
professionalmente, umanamente – allora vi ripagherà dall'attesa, e
da colpi di scena a volte assestati più debolmente di altri. Così
crudele è la fine ricorda ai lettori l'importanza vitale del
buio. Essenziale per contrapporlo alla pace del giorno. Per
affannarsi strenuamente a cacciarlo e, nel mezzo della ricerca,
scoprirsi vivi. E scoprirne magari il senso che sfugge, nel
riflesso di uno specchio in frantumi.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Linkin Park - In The End
Non so chi sei ma io sono qui: il titolo di un romanzo young adult letto lo scorso autunno e, con amara sorpresa, da me poco
apprezzato. La concezione di amore telematico, sincero perché anonimo, con l'avvento dei
social. Le maglie della rete non come pericolo generico, questa
volta, ma come protezione: il picchiettare sui tasti che conforta, di notte, le
anime solitarie.
Se il film, visto in anteprima a una
proiezione gratuita lo scorso lunedì, è stato un inaspettato successo
di pubblico in patria, probabilmente la storia la conoscerai già:
Simon, diciassette anni, ha un amico di penna e un segreto.
Omosessuale non dichiarato, di questo amico si è innamorato tra un
messaggio e l'altro: in un'esistenza altrimenti tranquilla, da
manuale, ci sarebbe spazio per il ragazzo che in calce si firma
Blue? Mamma Jennifer Garner e papà Josh Duhamel, abbastanza liberali
da guardare The Affair in compagnia dei figli
e da scherzare su argomenti protetti altrove dal politicamente
corretto, non giudicherebbero; per i migliori amici – nel gruppo
anche Katherine Langford, attesa al varco per la seconda stagione
di Tredici – resterebbe l'adolescente spigliato e
intelligente di sempre. Ma Simon Spier, ormai un mistero anche per sé
stesso a furia di mentire, chi è davvero? Mentre la scuola è presa
dalle prove di una versione amatoriale di Cabaret, qualcuno minaccia
di sbugiardarlo.
Al cinema si mantengono gli stessi protagonisti, lo
stesso intreccio un po' giallo e un po' arcobaleno, ma per fortuna si
cambiano titolo e tempi. Tuo, Simon arriva in sala
per sfatare i luoghi comuni (ad esempio: chi dice che il romanzo è
sempre meglio della trasposizione?), e si porta dietro una
sceneggiatura dagli equilibri invidiabili e il lanciato Nick Robinson
per protagonista – anche lui, come la commedia che lo consacra definitivamente novello teen idol, è di una naturalezza disarmante. In un altro film
sarebbe stato forse la spalla comica, il comprimario inservibile: infatti non
sa cantare, indossa felponi poco appariscenti, ha una famiglia
esemplare e non eccede mai con colpi di testa o di cuore. Qui
guadagna il centro della scena suo malgrado. E diventa grande, più
sé stesso di quanto prima non fosse, facendo capolino dal
proverbiale guardaroba. Ma lo sbalzo termico fa sempre paura,
e il giudizio degli altri purtroppo conta. Così Simon rischia di
farsi pensieroso, egoista, manipolatore per legittima difesa. Cerca
disperatamente Blue nel pianista dello spettacolo scolastico, nelle
attenzioni di un cameriere gentile, nel complicità di un coetaneo
che gli ha aperto casa ad Halloween. E prende sottogamba l'amica
innamorata del ragazzo sbagliato; l'ultima arrivata in città, bella
e spensierata solo in superficie; il cyberbullo bisognoso di
considerazione. Lo aiuta a vedere meglio, a mettere a fuoco ciò che
conta davvero, la saggia direzione del convenzionale ma sensibile
Greg Berlanti (un paio di trovate divertentissime tocca proprio
riconoscergliele: la sequenza in cui tutti i personaggi, gay e non,
fanno outing in famiglia; l'immaginario flashforward a tinte
musical). Si parla di identità, non soltanto sessuale. Si parla a un
pubblico trasversale, senza impastoiarsi mai nei drammi del cinema LGBT né togliere immediatezza alla problematicità dei
diciassette anni. Non c'è un finale che preveda morte e solitudine,
tirate un sospiro di sollievo: l'adolescenza è una montagna russa,
ma se lasci un posto libero qualche coraggioso verrà a sedertisi
accanto. Non c'è l'elitarismo di Guadagnino, lo struggimento di Lee,
la denuncia sociale di Jenkins.
Tuo, Simon non fa due pesi, due misure. Raccontato, nel bene e nel male, come
fosse una storia qualunque: di quelle che ti fanno uscire dalla sala
sorridente e toccato. Sulla semplicità di essere strani. Sul diritto
sacrosanto di meritarsi un amore su misura, alla luce del sole. Su una
libertà che fa tendenza. (7)
|Lonely Betty, di Joseph Incardona. NN Editore, € 12, pp. 110 |
Il
Santo Natale dovrebbe sempre portare la neve. La neve dovrebbe sempre
portare il mistero. Il mistero dovrebbe sempre la verità. Si parte
in questo preciso ordine: una tormenta che sotto le feste fa scendere
le temperature sotto zero, il crimine irrisolto di una triplice
sparizione attraverso il punto di vista di una testimone eccezionale,
il desiderio quasi incidentale di dare giustizia alle piccole e
innocenti vittime che furono. Chi ha ucciso i fratelli Harrys? Dopo
la frenesia delle indagini iniziali, la domanda a proposito del loro
destino ha perso d'urgenza, di importanza, finché un giorno come un
altro non ha semplicemente smesso di riecheggiare. Nella centrale
della polizia; tra le strade battute della Contea di Durham, Maine.
Qualcosa cambia in occasione del centesimo compleanno di Betty
Holmes, chiusa in una casa di riposa – e in un meditabondo silenzio
di tomba – da decenni e decenni. All'improvviso apre bocca e, con
un colpo di teatro da grande attrice, chiede un colloquio con il
tenente John Markham.
Mentre
Sally si allontanava, Betty fissò con intensità la terra coperta di
neve, come se sapesse con esattezza cosa c'era seppellito lì. E
dove.
A
modo loro, sono entrambi i pilastri della comunità: lei
maestra di innumerevoli generazioni di scolari, licenziata per
negligenza in seguito alla scomparsa in sincrono degli ultimi
arrivati in classe; lui vecchio cowboy ormai in pensione, che non ha
abbastanza pazienza per giocare a carte con l'unico nipote o per
stare a sentire storie dell'orrore. Quello di Joseph
Incardona, scrittore di mamma ginevrina e padre italiano, sembrerebbe un incastro dei più classici e
consolidati: il passato che torna, e miete un'ultima
vittima. A ben vedere, però, non tutto torna in un romanzo che
preferisce non prendersi mai troppo sul serio: dalla psichedelica copertina
lynchiana alle ambientazioni statunitensi, da qualche nome che
ricorre con fare sospetto (Dolores, Carrie, un bambino inquietante
chiamato Stephen) ai capitoli a singhiozzo. Meglio degnare
di una seconda occhiata i personaggi, allora, che le righe le
travalicano e tra le righe, a volte, si accorgono di vivere. Perché
questo sbirro incartapecorito ha una figlia stripper e un linguaggio
ingiurioso, per di più nel giorno della nascita di
Gesù-Cristo-Nostro-Signore; la candida centenaria confinata nella
camera 17 risulta razzista, bisbetica, alle prese con una brutta
indigestione da purè di patate e ronzii parlanti oltre le palpebre abbassate;
la vice sindaco Sarah Marcupanni manderà parzialmente all'aria i
festeggiamenti per Betty – un coro di bambini sotto shock, una
torta da prendere e buttare, un solenne bouquet scambiato con una
corona funebre –, troppo presa a immaginare i baci umidissimi della secondina Savannah.
Quello,
anche, era la vita, sfiorare il dolore e tirare diritto, senza
voltarsi.
Lonely
Betty ha una scrittura infarcita
di informazioni e parolacce come se piovessero, politiche bisex e
infermiere maggiorate, Stephen King per vicino di casa e forse dramatis persona. E' una folle
fantasia erotica e metaletteraria. Un omaggio e una parodia insieme
(degno della sequenza dell'Overlook Hotel nel bel mezzo del rumorosoReady Player One) di uno
scrittore, di un genere, che a pennellate leggere sa realizzare
spassosi bozzetti di vita vissuta e di mystery. Sudditi del Re,
all'appello: questa volta siete chiamati in causa e, vi avviso,
riderete di voi e di Incardona sentendovi perfettamente a casa. Come
tutti i giochi innocenti che prestano fede ai proverbi delle nonne,
questo – sorprendente e dissacrante com'è – ha la saggezza di
durare poco. Peccato, a conti fatti, costi un po' troppo.
Lei
non ha mai sentito dire che la realtà talora supera la finzione?
I
temi corretti dalla maestra Betty riportano in alto la data, anno
scolastico 1958-1959, e le coordinate di una scena del crimine tinta
di bianco Natale. Le lezioni di scrittura creativa suggeriscono, per
imparare a scrivere, di partire da ciò che conosci bene. La
realtà supera la finzione, qui, e la imita.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Bobby Vinton - Mr. Lonely
L'inizio
è per definizione il punto di partenza. Meglio cominciare da lì,
nel dubbio – lo stesso che accompagna i romanzi densi,
incontenibili, di cui non so mai bene come parlarvi all'indomani di
giorni intensi di lettura e d'amore. E comincio da un'immagine che
per bellezza non fa invidia all'erotismo pieno di candore dell'ultimo
Guadagnino: una villa con piscina e tre adolescenti, di notte, che
fanno il bagno in una proprietà privata profanata dalla nuda sfacciataggine
dei quattordici anni. Teresa, loro coetanea, li spia dalla finestra
invidiando i segreti del sesso maschile e il suono che fanno le loro
risate contagiose, anche alle orecchie del custode inferocito.
-
Loro sono diversi. Sono cresciuti con le radici troppo corte. Prima o
poi una folata di vento li strappa e li porta via.
Ma
Cosimo non sapeva quello che sapevamo noi: che le piante cresciute al
sicuro nei vasi, con le radici lunghe che girano tutto intorno, non
si adattano alla terra. Soltanto quelle con le radici libere,
estirpate giovani in inverno, ce la fanno. Come noi.
Siamo
a Speziale, Brindisi, nei tardi anni Novanta. Lei è un'adolescente
torinese in vacanza dalla nonna materna. Loro, cresciuti alla stregua
di fratelli, sono invece i vicini che spesso sconfinano in cerca di
brividi che scaccino via l'afa di agosto e il bigottismo di una
coppia di genitori molto devota. Nicola, il più alto e prepotente, è
loro figlio naturale; poi vengono l'efebico Tommaso e lo sfuggente Bert, orfani in affido temporaneo, che da bambini divideranno con il
primogenito la magia di una casetta sul gelso e da adulti le
tentazioni della carne di una ragazza chiamata Violalibera. Nel
mentre, la solita Teresa viene e va. Nell'estate prima del diploma,
di Secretly nel walkman e delle farfalle in pancia, perderà
la verginità nel canneto con Bern: il ragazzo che scalava le grondaie
(per la conquista del letto) e gli ulivi, come il Barone rampante,
facendosi perno di un mondo da far girare o crollare tramite la
grazia di un suo sì. Speziale sembra esistere solo nei mesi di
villeggiatura, all'inizio, e al ritorno aspetta Teresa sempre uguale: dove l'aveva lasciata, come la ricordava. Di quello che
accade in autunno sa solo le lettere della nonna e i romanzi gialli
in prestito, le bucce dei pistacchi in giro, l'olio di una
bacchiatura che c'è già stata senza di lei. Com'è però il mare
della Puglia in inverno, in solitudine? Da un lato c'è un topo di
città, una giovane donna dalla natura anfibia, che si adatta a tutto
per il bisogno disperato di fare finalmente parte di qualcosa di vero.
Dall'altra, un trio (si uniranno strada facendo Corinne, Giuliana,
Danco) cresciuto seguendo i dettami di una rigorosa dieta
vegetariana, su una tovaglia da cucina con la riproduzione dei cinque continenti: il mondo, si interrogavano, stava forse tutto su
un'incerata?
Era
una fantasia e non ce la confessammo nemmeno dopo, ma ero certa, come
ne sono certa oggi, che la vedemmo viva davanti a noi, e identica.
Perché questo succedeva tra Bern e me in quegli anni: usavamo sempre
meno le parole, ma eravamo ancora capaci di riconoscere insieme il
visibile e d'inventare, in un tacito accordo, anche l'invisibile.
Raccontarvi
Divorare il cielo, a questo
punto, mi porta qui: a una masseria occupata abusivamente, un rifugio
di attivisti dalle anime perse, con un pisello propiziatorio
scarabocchiato sulla facciata e nessun telefono, nessun televisore,
nessuna bolletta della corrente pagata, alla faccia del capitalismo.
Un orto a chilometro zero, il miele delle arnie, l'utopia hippie di
Max Stirner: perché a una determinata età si ha sempre fame di
tutto, e subito. Intorno, all'ombra dei veleni degli oleandri, quella
terra riarsa in cui eppure fioriscono spontaneamente proteste e
visite guidate, ricordi di una gioventù gloriosa e momenti di
angosciante isolamento, i matrimoni felici e gli omicidi. Conosciamo i protagonisti ragazzini, li
abbandoniamo ultratrentenni. Mossi da incontrastabili forze
centripete, tornano a bazzicare sempre i soliti luoghi. C'è chi ci
rinuncia a malincuore e chi fa il sacrificio di
trasferircisi, in quella parentesi di fortuna. La polvere del
tratturo custodisce le orme dei loro passi, le coordinate di un
affannarsi irrequieto lungo quasi vent'anni: in cerca
dell'assoluzione dall'egoismo, della benedizione di un figlio che non
arriva, dell'incontaminato oltre le colonne d'Ercole di una Islanda
maestra di addii perfetti.
Non
era questa l'avventura che volevo, Teresa. L'avventura che volevo era
con te.
Com'è
l'ultimo Paolo Giordano? Nei giorni scorsi, strano ma vero, più di
qualche passeggero sconosciuto mi ha rivolto la parola sui mezzi
pubblici per domandarmelo: un esordiente insignito del premio Strega
a ventisei anni lo si ricorda, infatti, anche a un decennio
dall'esordio, anche se di rado si frequentano le librerie. Un grande
romanzo? Se è un grande romanzo – ho risposto stringendo
sovrappensiero la mia bozza in anteprima, l'autografo sul
frontespizio – non lo sapevo, no, ma Divorare il cielo è
senz'altro un romanzo grande. Quattrocento pagine corali, tante ma
non troppe, difficilissime da soppesare. Di quelle necessarie, immediate, con tutto quello che dovrebbe esserci: le chimere della
giovinezza, il richiamo dell'avventura per qualcuno e l'abbandono
struggente per qualcun altro, l'emozione che una volta gli
rimproveravo di non avere. Cuore compreso. Se ne resta affascinati e intimoriti, come
davanti alla fame del cielo. Brilla dappertutto, azzurro abbacinante,
ma qualche fotografia – qualche bocca in preda alla fame chimica,
dopo un tiro d'erba – sembra contenerlo. E dappertutto sono gli
amici di Teresa, che aspettavano che qualcuno come Paolo Giordano,
stranco della solitudine del suo primo successo, li stringesse
fortissimo nell'abbraccio di una frase vorace. Affinché, di loro, non
restassero solo briciole.
La
sigla suggeriva di non farlo, di non guardare. Noi, affezionati
lettori dei volumi targati Salani o bambini cresciuti in compagnia
dei bislacchi travestimenti di Jim Carrey, abbiamo disobbedito.
Guardando gli otto episodi introduttivi della serie Netflix: belli ma
con riserva. Ritornando dagli orfani Baudelaire per una seconda
stagione ancora. Nuove disavventure, nuova crudeltà aggiunta, nuovi
antagonisti del lieto fine. Lo schema, immutato: i protagonisti
scappano, vengono acciuffata, se la cavano, vengono riacciuffati
ancora. Ricominciare dall'inizio, ogni volta, con altri
trasferimenti, in un altro angolo della fantasia di Lemony Snicket. A
onor del vero, le vicende si fanno più collegate – flashback di un
passato vicino o lontano, vecchi volti che diventano personaggi
ricorrenti, informazioni sulla società
segreta di cui i genitori di Violet, Sunny e Klaus facevan parte. Si
fanno più indipendenti dal film di quattordici anni fa, ma non da
una struttura che resta purtroppo il loro più grande difetto e la
loro più lampante particolarità insieme. Un collegio infernale, un
grattacielo senza ascensore, un villaggio assiepato dai corvi, un
ospedale in cui si è a rischio di lobotomia, un freak show con
talenti da strapazzo e leoni che hanno fame di frugoletti. Insieme a
loro, questa volta, la collaborazione di Isadora e Duncan, orfani
parimenti disgraziati e brillanti; l'agente segreto Nathan Fillion,
la bibliotecaria Sara Rue e l'irresistibile Lucy Punch, innamorata di
un Patrick Harris a lungo andare, spiace ammetterlo, insopportabile;
i siparietti musical e gli sprazzi horror che lo rendono, al solito,
uno stilosissimo esercizio di fantasia. Tutto giusto. Tutti bravi. Tutto bello. Dividerla in un mese
di visione, però, è stata una scelta necessaria, anche se non so
quanto vincente. Per sopportare quella ripetitività che proprio non
torna e ritmi che funzionano meglio su carta che in TV. Per non
lasciare prevalare i contro, per non lasciarla, affezionato come
resto alle tragedie dei tre fratelli, al fare sornione del narratore
Patrick Warburton e alla tavolozza variopinta di questi intrecci rocamboleschi,
a metà fra il gotico di Burton e lo zucchero filato di Anderson.
(6,5)
Ci
sono voluti tre film di Sam Raimi e tre stagioni con la serie
TV che porta il suo nome affinché Ash Williams, non più il
giovincello perso nei boschi del primo Evil Dead,
fosse scagionato dal sospetto dei concittadini. Non
assassino impunito ma cacciatore di demoni a tempo indeterminato, sul
finire della seconda stagione rivelava l'esistenza del Male con la
lettera maiuscola agli scettici e, in ritardo, veniva acclamato eroe. Per lui e i suoi aiutanti, però, non c'è pace. Il
sogno di gestire un ferramenta tutto suo, infatti, dura Natale e
Santo Stefano – sabotato da un'altra ondata di mostri, da svolte
più o meno previste che portano davanti a un bivio (più che bivio, è un portale spalancato su un'inquietante
dimensione parallela). Mentre Pablo è conteso da forze opposte e
Kelly, pronta a dire sì all'amore, cede suo malgrado il corpo a
un'entita primordiale, il solito Ash fa i conti con grattacapi
incresciosi: la salvezza del mondo e, soprattutto, una paternità
imprevista. Come può il cazzaro di sempre crescere un'adolescente
che, per di più, lo detesta? Come può essere il salvatore biblico
in cui un paio di eletti credono? Prima stagione che vedo
lontano da casa, senza la compagnia del mio, di papà, quella di Ash
Vs Evil Dead è a sorpresa anche
l'ultima: la Starz ha annunciato la cancellazione il mese scorso, nel
rumoreggiare amareggiato dei fan. Nonostante quel finale sospeso, che
annunciava per il futuro prossimo mondi e avventure alla Mad
Max, io dico poco male: la comedy horror
si congeda, e si concede secchiate di sangue, morti spassosissime,
personaggi sopra le righe. Onestamente, però, iniziava a farsi meno godibile, con il suo ripetere massacri e
situazioni grottesche. Più che per l'addio al piccolo schermo in sé,
allora, spiace per quello che potrebbe significare per il caro
Bruce Campbell, da anni in cerca – senza successo – di una vita
dopo Ash: gli toccano forse la tristezza del pensionamento, appese al chiodo motosega e
casacca blu? Nel dubbio, non ditelo a papà: che ci si fa
vecchi, che il divertimento è bello quando dura poco, che si finisce qui. (6,5)
I retroscena di un programma televisivo alla Uomini e
donne. Chi corteggia chi e, alla fine, un'unica scelta da condurre
in parata all'altare. Nel mentre, immancabili le manipolazioni degli
autori, che da dietro le quinte non si perdono un intrigo o la migliore occasione per aizzare il fuoco. UnReal,
partito anni fa su un'emittente ben poco propensa a brillare per qualità,
era la commedia nera che intrigava e, zitta zitta, faceva il filo
alla stagione dei premi. Protagoniste bravissime, sceneggiature
affilate, risvolti malsani. L'ultima volta, per proteggersi, ci si
era spinti fino all'omicidio. Shiri Appleby e Constance Zimmer, nonostante tutto ottime padrone di casa, sono ora alle prese
con il senso di colpa e un'ennesima edizione di Everlasting. Fuori
onda: il desiderio da parte della volubile Rachel di affrancarsi dai
ricatti e di far luce su abusi di cui chiedere spiegazioni
in famiglia; Quinn, sempre in cerca di pace e Emmy. Sotto i
riflettori, invece, si cerca l'amore con un'unica varazione sul tema:
lo scapolo stavolta è donna – femminista non così convinta, in fondo – e
i corteggiatori saranno dunque ragazzoni aitanti con concezioni agli
antipodi. L'idea della Lifetime, in una terza stagione strascicata e
poco necessaria, sembra avere esaurito il suo potenziale. Istanze e
riflessioni ammiccano spesso al caso Weinstein; i protagonisti,
viziosi e insopportabili, si proteggono a vicenda le spalle. C'è
poco pepe. C'è, soprattutto, poco trash. Anche in un finale
apparentemente risolutivo, tarallucci e vino, in cui l'elemento di
maggiore interesse è il promo, in chiusura, della quarta stagione già girata. Resisterò al richiamo della metamorfosi di Rachel, da
produttrice a concorrente d'eccezione, con lei che vorrebbe cambiare disperatamente vita e io canale? (5,5)
Romanzi
in sala d'attesa. Autrici che in prima persona scrivono a nome di
mamme e padri, sorelle e fratelli. Il bianco asettico
di un ospedale, una porta che si apre e si chiude a ritmi alterni, un
meccanico andirivieni di camici, ordini e parole difficili a
proposito di prognosi riservate, vite e morti. Dall'altra parte, nel
letto di una stanza inaccessibile, c'è una persona che amano o hanno
amato. Sotto i
ferri. Ci si limita a fare ciò che andrebbe fatto nelle sale
d'attesa, perciò. Si attende. Anestetizzando il senso di colpa con
l'arte del ricordo. L'ansia del verdetto tormentandosi mani e testa. La madre di Eva è l'ultima di quelle signore di mezza età
accasciate su una sedia, tra i muri color tristezza e un passato da
rivangare assieme. Immobile a riva, come una guardiana a cui sono
stati preclusi i segreti del mare aperto. Sembra la versione
sbagliata di un mito cosmogonico, il suo: una figlia chiamata come la
prima abitatrice del Creato che nell'Eden, per ironia della sorte,
avrebbe voluto essere Adamo.
Ci
siamo solo io e te. Siamo su un iceberg che si è staccato dal
continente e sta andando alla deriva al centro dell'oceano. Siamo io
e te, sedute una accanto all'altra senza guardarci, spalla contro
spalla a cercare con la vista qualcosa in fondo verso l'infinito, ad
aspettare che una delle due gridi: “Terra”.
Ma un'altra terra, un
luogo nuovo, dove tu possa finalmente essere ciò che desideri e io
possa finalmente riposare.
All'inizio
erano un prodromo di famiglia felice in quel di Roma. Un papà
architetto che costruisce case perfette e smussa angoli per
professione, una mamma insegnante di teatro: giovani, presi, mettevano in cantiere l'idea di un neonato. Femmina, avrebbero
scommesso a scatola chiusa, scherzando su un ramo materno composto da sole donne, tanto inconsueto da attirare la curiosità di una
laureanda in ostetricia attratta da maledizioni e anomalie genetiche. E femmina
è, senza sorprese: Eva. Crescendo, però, qualcosa si guasta o forse
s'aggiusta. La bambina a Halloween vuole vestirsi da vampiro, non da
strega, e al suo quinto Natale chiede un pisellino in regalo. Si
disegna maschio, in innocenti ma rivelatori schizzi a matita, e
attira su di sé i pettegolezzi crudeli delle altre madri, le prese
in giro di qualche bullo, intrufolandosi nel bagno sbagliato per fare pipì in piedi. L'arrivo dell'adolescenza – il ciclo mestruale
ogni mese, un seno procace che la fa impallidire per la vergogna – accentua le problematiche e le richieste d'aiuto. La
leggerezza dei genitori si affievolisce: la ragazza e le sue scenate
melodrammatiche, non semplici capricci, dividono una coppia
progressita ma assolutamente impreparata. Per i diciotto anni, Eva ha
chiesto loro un viaggio esotico ma senza ritorno.
Almeno non con il nome dell'andata, non con quel corpo per fare il
check-in all'aeroporto. O così, ha decretato, o la morte.
Irreversibile
è una parola da cui non si torna indietro.
Ad
accompagnarla a ogni passo, una madre coraggio amata e odiata. Attraverso anni e anni di consulti psichiatrici, trafile
burocratiche e carte false. Verso la clinica privata di una Serbia piena di musica,
piena di riservatezza, in cui si affaccendano come in un laboratorio
segreto infermiere bionde e primari con la guerra per apprendistato. L'esordiente Silvia Ferreri, finalista al Premio
Strega per un romanzo di commovente intensità, utilizza un monologo
classico per parlarci di un dramma inconsueto. La riassegnazione di
genere: il sogno di una figlia prigioniera, il fallimento di un
genitore – perché a volte sbagliano mamme che non sanno
perdonarsi, sbaglia Madre Natura, e
l'interno non corrisponde all'esterno.
Ho
chiuso le mani sulle tue, ho guardato il tuo corpo per l'ultima
volta. Così come te l'avevo fatto. Speravo bastasse. Le madri
sbagliano sempre. Io evidentemente di più.
Prima
l'asportazione di utero e ovaie, poi la mastectomia, infine la
falloplastica. Da qualche parte c'è un'adolescente aperta come un
pesce, e quanto sangue sul pavimento, quanti resti nella
pattumiera. Sono necessarie una violenza indicibile e una prosa quasi
primordiale per una seconda nascita a colpi di bisturi: per chiamare,
e farsi chiamare, con un nome nuovo. La transessualità, infatti, è per
sua stessa definizione un viaggio. Non lo si fa da soli. Una mamma
combattuta fino all'ultimo tra abiezione e orgoglio è lì in caso serva una
trasfusione urgente; per ricomporre con scotch e pazienza foto di
famiglia strappate in coriandoli. Si alternano in disordine passato e
presente, desideri e ricordi. E la voce della Ferreri, a tratti,
potrebbe confondersi con quella delle colleghe che aspettano
all'ospedale buone nuove. La peculiarità delle famiglie infelici a
modo loro, lo sapeva bene Tolstoj, rende però incomparabile e speciale –
nostro, soprattutto, in un centinaio di pagine appena – il dolore della Madre
di Eva. Si smette di aspettare, così.
Dopo il calvario, la resurrezione. Garze tinte di rosso, un bozzolo di lenzuola, per l'ultimo sonno di chi si
sveglierà farfalla; Alessandro.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Villagers – Nothing Arrived
Nella
casa in cui vivo in questo momento, una taverna a mezz'ora di autobus
dall'università, ho un cane. Stava lì, già parte dell'arredo, come la panca di legno davanti al
tavolo della cucina, l'armadio a quattro ante in camera da letto, le
mattonelle a fiori della doccia. Un dato di fatto, un elemento
imprescindibile del mobilio. Non ho allergie, gli animali mi fanno più simpatia delle persone e Angel, una bastardina con il
pelo dorato e il guinzaglio rosso, si gode dal primo giorno di
convivenza i suoi dodici anni – non pochi, dunque – nella quieta
indifferenza della sua cesta, fin troppo spaziosa per lei che è
quattr'ossa. Che cane strano: un cane-gatto, dico io. Dorme,
soprattutto con il cattivo tempo che strema i metereopatici, si
lustra il pelo e raramente si fa sentire dal vicinato abbaiando. La
mattina presto pretende solo che le si apra la porta. Ci avverte in tempo il
picchiettare delle sue unghie sul pavimento. Flemmatica,
forse, perché lo scorso novembre ha rischiato di non farcela:
l'hanno salvata dal Tanax il miracolo del cortisone e la dialisi del tempo.
Angel è un cane introverso, diffidente, femmina. A passeggio mi
scordo quasi di averla accanto a me, perché non tira né si stanca;
quando sono solo in casa non disturba né mi viene a cercare. Non
pensavo, ma le volte in cui abbandona la sua postazione in
cucina e si assenta il silenzio di quel cane non mio sa farsi
sentire davvero. E allora ne sento la mancanza, sì, come se avessero portato
via la panca e il divano, il guardaroba e il box doccia. Ho avuto un
cane dieci anni fa. Ora ho un gatto e un altro po'. E' per questo che da
gennaio mi porto appresso un rotolo di sacchetti igienici nella tasca
del giubbotto, conosco il dosaggio dei suoi medicinali e ho occhi
inevitabilmente lucidi davanti a romanzi che somigliano
all'esordio di Sara Baume. La storia d'amicizia tra un tenero sociopatico e Unocchio, il cane orbo per metà salvato dall'abbattimento.
Dov'eri
l'inverno scorso? Trovo difficile immaginare un tempo da noi vissuto
in parallelo, ma separati. Adesso sei come un arto supplementare. Ora
sei la mia gamba che non zoppica, e io sono l'occhio che hai perso.
Ray,
cinquantasei anni, vive da solo nella casa salmone del padre – il
pallore delle lampadine a basso consumo, una parrucchieria al piano
terra, una città di scogliere a picco fuori – da quando il
genitore è venuto a mancare. Il protagonista non ha mai fatto domande
sull'assenza della madre, evita i coetanei sin dagli anni della
scuola e, terrorizzato all'idea di sperimentare la cattiveria del
prossimo, trascorre le giornate leggendo in una casa di cianfrusaglie
e provviste. In primavera passano a trovarlo soltanto le rondini.
Ray, all'improvviso, ha un problema di topi in soffitta e si accorge
di aver bisogno di un piccolo cacciatore. Al canile gli danno il randagio che nessuno vuole: violento, violato, “libero come una scoreggia”.
Unocchio ha paura di dormire da solo e di notte Ray sogna di vedere
l'Irlanda attraverso il suo sguardo. Da lì in avanti risulterà
naturale ascoltarsi, ingozzarsi, abituarsi al fumo passivo: soli, ma
insieme. Anche nella fuga da un morso dato al bambino sbagliato,
lontano l'uno dal sospetto altrui e l'altro dalla minaccia del
collare a strozzo.
Tu
non mi appartieni, Unocchio. Tu non mi appartieni e ho sbagliato a
trattarti come se fossi mio. Tu appartieni alle colline ingannatrici,
ai campi e ai fossi irrefrenabili, alle buche della foresta, alla
linea dell'orizzonte, ai tassi. Le stagioni non mi appartengono, il
mare non mi appartiene, il cielo non mi appartiene. E' mia soltanto
la casa di mio padre, e anche se cambiassi tornerei a essere quello
di prima.
Una
copertina verde smeraldo, il titolo alla Sergio Endrigo,
l'affaccendarsi delle quattro stagioni. Le gioie e i dolori della
vita spiegati a un cane dagli occhi tristi, che sa già come va il
mondo eppure non possiede che la conoscenza di centocinquanta parole
appena. Inclinata la testa da un lato, così, Unocchio ascolta i
segreti terribili e la grazia di Sarah Baume. I dialoghi rari, tanto
assordanti da guadagnarsi le lettere maiuscole, e le descrizioni di
chi sa identificare piante e uccelli – troppo particolareggiate se,
dopo Mio assoluto amore, ci si trova davanti l'ennesimo
romanzo scritto con un erbario sulla scrivania. Da
che era in boccio, fiore
frutto foglia fango si
rafforza e prende forma; infine si secca, e secca. I
problemisono sorti coi primi freddi e le giornate che andavano accorciandosi. Con
un vagare apparentemente senza meta, senza senso, in cui si entra in
contatto con una natura onnipresente ma mai con altra anima viva.
Abbondano allora flora e fauna, i soliloqui esistenzialisti, i
dettagli che più affaticano, e si perde di vista il muretto di casa,
la commovente bellezza delle pagini iniziali.
Ci
sono storie in ogni cosa, mi disse una volta una vecchia vicina,
guarda caso, che mi insegnò a cucire. Accadde quand'ero
piccolissimo, troppo per capire che quasi tutte le cose non
significano esattamente ciò che sembrano, che il significato è una
cosa volubile. Per via di quello che aveva detto lei, con un coltello
da cucina seghettato tagliai la cucitura sulla schiena del mio
orsacchiotto preferito, Mr Buddy. Cercavo storie, parole maestose che
rotolassero fuori e si disponessero lungo linee orizzontali come
quelle nei miei libri di storia.
L'elemento on the road viaggia attravero campi inesplorati. Le
provviste della strana coppia scarseggiano. Il loro inquieto girare e
rigirare in tondo mette angoscia. La musicalità della scrittura, da
cristallina, va pian piano incupendosi. E la favola di un'amicizia
elettiva diventa altro, in un cambio di rotta che sconquassa il
cuore: il dramma amaro e disperato per cui, probabilmente, non eri
pronto.
Ci sono infatti momenti giusti per accogliere un cane nella
trascuratezza delle tue stanze e prendertene cura. Ci sono momenti
sbagliati per leggere un apologo nerissimo che di un cane ti parla,
adesso che un cane ce l'hai, lasciando tuttavia inappagato il desiderio di una
storia che concili e guarisca dalla malinconia.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Imagine Dragons – Next To Me