venerdì 29 agosto 2014

Recensione: Le ho mai raccontato del vento del Nord e La settima onda, di Daniel Glattauer

Ciao, amici! Oggi, recensione "in coppia" per la duologia di Daniel Glattauer: Le ho mai raccontato del vento del Nord e La settima onda. Una lettura bella e inaspettata, per coloro che vogliono qualcosa di diverso, ma autentico. Ho apprezzato moltissimo il primo, leggermente di meno il secondo: e perché? A lungo andare, l'impostazione mi è sembrata monotona, quindi vi lascio con un consiglio. Non leggeteli, come ho fatto io, tutti di seguito. Aspettate un attimo. Vedrete che sarà un piacere ritrovare due vecchie conoscenze come Emmi e Leo. Un abbraccio. M. 
Scrivere è come baciare, ma senza le labbra. Scrivere è come baciare, ma con la mente.

Titolo: Le ho mai raccontato del vento del Nord
Autore: Daniel Glattauer
Numero di pagine: 192
Prezzo: € 8,50
Editore: Feltrinelli – Universale Economica
Il mio voto: ★★★★½
Sinossi: Un'email all'indirizzo sbagliato e tra due perfetti sconosciuti scatta la scintilla. Come in una favola moderna, dopo aver superato l'impaccio iniziale, tra Emmi Rothner - 34 anni, sposa e madre irreprensibile dei due figli del marito - e Leo Leike - psicolinguista reduce dall'ennesimo fallimento sentimentale - si instaura un'amicizia giocosa, segnata dalla complicità e da stoccate di ironia reciproca, e destinata ben presto a evolvere in un sentimento ben più potente, che rischia di travolgere entrambi. Romanzo d'amore epistolare dell'era Internet, "Le ho mai raccontato del vento del Nord" descrive la nascita di un legame intenso, di una relazione che coppia non è, ma lo diventa virtualmente. Un rapporto di questo tipo potrà mai sopravvivere a un vero incontro?

Titolo: La settima onda
Autore: Daniel Glattauer
Numero di pagine: 190
Prezzo: € 8,00
Editore: Feltrinelli – Universale Economica
Il mio voto: ★★★
Sinossi: Emmi e Leo: per chi ancora non li conosce, sono i protagonisti di un amore virtuale appassionante, che ha vissuto ogni sorta di emozione, a parte quella dell'incontro vero. Sì, perché dopo quasi due anni, Leo ha deciso di tagliare definitivamente i ponti con Emmi e partire per Boston, per ricominciare una nuova vita. Emmi non si dà però per vinta, e riesce nell'impresa di riallacciare i rapporti con Leo. Mentre lei è ancora felicemente sposata con Bernhard, per Leo in nove mesi le cose sono cambiate, eccome: in America ha conosciuto Pamela e finalmente ha iniziato la storia d'amore che ha sempre sognato. Si sa, però, l'apparenza inganna. Ritornano le schermaglie via e-mail che hanno tenuto col fiato sospeso i lettori di "Le ho mai raccontato del vento del Nord", e anche stavolta promettono scintille.
                             La recensione
Quanti anni ha? Com'è fatta? Non ne ho idea. Tra i 30 e i 40. Bionda, castana, oppure rossa. Mi scuote nel profondo, mi emoziona, a volte vorrei mandarla a quel paese, ma altrettanto volentieri me la vado a riprendere. Ho bisogno che sia nei paraggi.”
Come Theodore e Samantha, i protagonisti viaggiano su dimensioni parallele. La tecnologia li unisce, li fa chiacchierare a cuore aperto, ma quella lontananza elettronica è una barriera insormontabile. Vivono nella stessa città, ma non conosco il loro reciproco aspetto fisico: solo parole in chat, voci timide sussurrate nella segreteria telefonica. L'esordio di Daniel Glatteur è un Her in una dimensione possibile, ma fantascientifico neanche un po'. Come Jesse e Celine, i narratori sono un uomo e una donna che vengono da pianeti diversi. Giurano di incontrarsi in un caffè, un anno, il successivo e l'altro ancora. Si promettono amore eterno, ma qualcuno si presenterà davvero a quel fatidico appuntamento ai tavolini di un bar affollato? Avranno la forza di guardarsi in faccia? C'erano Prima dell'alba, Prima del tramonto, Prima della mezzanotte: vent'anni, tre film, due amanti invecchiati sotto gli occhi del regista Richard Linklater. A questo scrittore austriaco - che io ero testardamente convinto fosse francese e che immaginavo attorniato da due affiatati attori dalla regale cadenza british - bastano due libricini: quattrocento pagine. Infine, testardi e ciechi, migliori amici e confidenti, innamorati ed egocentrici, ci sono gli Emma e Dexter di Un giorno e, dove soffia un ventaccio che fa restare svegli, giusto al di là del mare, ecco spuntare Leo ed Emmi. Conoscevo quei due personaggi da dieci pagine e già mi andavano a genio: mi facevano pensare naturalmente a coppie irresistibili del cinema e della letteratura contemporanea, ed era cosa buona e giusta. Non sapevo com'erano fatti, eppure li avrei riconosciuti in un incontro al buio. Loro si conoscono per errore. Come quando, chissà perché, c'è un gioco strano di indici e anulari e, in una frase battuata al computer, ecco spuntare una lettera di troppo. Una cosa che non va. Leo è l'errore di Emmi. Lo conosce un po' per il gioco del destino, un po' per la rivalità tra due delle nostre dita preferite: l'anulare, dove va la fede nuziale; l'indice, con cui additiamo – sin dall'asilo nido – quello che ci piace o non ci piace. Si fanno gli auguri di Natale per email, si punzecchiano, e chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano. Leo, un professore universitario, vive di parole e di ex ragazze che vanno e vengono. Emmi, progettatrice di siti Internet, ha un pianoforte in camera da letto e un marito, due figli e un gatto al piano di sopra. La duologia del sorprendente Daniel Glattauer è un originale monologo in forma epistolare che diventa dialogo. 
Parlare, per loro, tra loro, è come parlare all'orecchio della coscienza. Le previsioni meteo: le tirano in ballo quando, bambini, girano intorno a un argomento importante. I segreti dell'altro sesso: giocano ad indovinarli. Le sveglie, abolite: si addormentano con il portatile accanto e, al mattino, è l'arrivo di una nuova email a destarli; un trillo che fa brillare loro gli occhi. Si danno il buon giorno e la buona notte. Si sognano intensamente. Pensieri fissi; pensieri erotici. Fare l'amore con una sconosciuta, al buio, bendati, come in un film di Bertolucci. Il loro sentimento telematico è costruito per bene nell'arco di due romanzi che ho letto d'un fiato. Li confondo. Non so dove finisca l'uno e inizi l'altro, giuro. Vediamo... Passano dal “lei” al “tu”. Dalla galanteria attempata al linguaggio di sempre. Da creature senza tempo, conoscono anche loro la quotidianità: la noia, il ripensamento, il rimpianto, l'instabilità. Quelle prime dichiarazioni alla Jane Austen, quasi, cedono il passo a conversazioni per punti in cui si dimentica a casa la poesia, ma non l'esistenza dell'altro. Redigono liste interminabili: lei usa i numeri, lui le lettere. Nel primo, lei glielo chiede: le ho mai raccontato del vento del Nord? 
Soffia fuori dalla sua finestra, e non si riesce a dormire, quand'è così. Il consiglio di Leo, tempestivo, è provare a coricarsi obliquamente. E come fare, poi, con la lampada? A Emmi serve per leggere, e senza leggere non riesce a prendere sonno. Lui le invia una prolunga, per scherzo, in formato doc: ci sono regali e regali. Nel secondo, allontanandosi, hanno cercato invano di dirsi addio. Emmi, in un luogo esotico e distante, sente gli abitanti del posto parlare di un'onda leggendaria, la settima, che è la più alta. Mangia la riva, contrasta l'acqua cheta, ti porta su. Arriverà mai? I due capitoli della loro relazione epistolare hanno uno stile che riconosceresti a colpo sicuro. Un realismo che, quando lo trovi, crea scintille di magia. Le loro conversazioni sono irriverenti, sagge, maliziose, dinamiche: terapia di coppia gratuita di una... non-coppia. Fanno ridere e fanno arrabbiare. Il romanzo ti tocca, tu provi a toccare il romanzo. A entrarci dentro. A raggiungerli e ghermirli, per far cozzare forte le loro teste dure: Vi piacete, ragazzi. Dai, datevi una mossa. Coraggio! Questo, forse, è il problema di La settima onda: averlo letto subito, mi ha reso intollerante nei confronti delle tante schermaglie che, sommate a quelle buffissime del precedente, sembravano ininterrotte. Io cracco i codici nascosti. Hackero i loro pensieri. Li ammanetto con il mouse, li lego a quel cordoncino che li incatena alla tastiera. Il laptop è una bocca spalancata in uno sproloquio da canaglia. I tasti sono i denti. E, da qualche parte, ci sarà anche un passaggio segreto che porta all'esile perfezione di Le ho mai raccontato del vento del Nord. Daniel Glattauer, con una sensibilità da fuoriclasse, ti fa credere a quello che leggi: carismatico affabulatore. Innaffia il romanticismo con whisky (per Emmi) e vino rosso (per Leo) e, anziché sulla scena del crimine del coma etilico, ti porta a osservare la proverbiale cecità dell'amore. Avete mai visto quei disegni che si compongono con le sole lettere dell'alfabeto, o anche con i numeri – perché l'arte mette pace tra la letteratura e la matematica? Piogge torrenziali di codici e sigle alla Matrix
Ditemi di sì. Chiudete l'occhio destro, poi il sinistro. Vedete? Formano le sagome di un lui e di una lei. Alla fine, pare si bacino. Con le parole. Con le labbra. 
Il mio consiglio musicale:  Robbie Williams & Nicole Kidman - Something Stupid 

mercoledì 27 agosto 2014

I ♥ Telefilm: Orange is the new black, Hemlock Grove, The 7:39

Ciao a tutti, amici. Oggi nuovo appuntamento con I Love Telefilm, in cui vi parlo delle ultime cose che ho visto e di qualche bella serie che ho concluso. Orange is the new black, show dello scorso anno, è stato bello esattamente come mi avevano assicurato; Hemlock Grove, dopo una prima stagione sorprendente, prosegue più che bene lungo il suo lugubre e spoglio sentiero notturno; l'ultima, The 7:39, è invece una miniserie. Solo due puntate per una storia d'amore completa e delicata. Ah, il mondo quest'oggi piange il mio Kobo: usato un paio di volte e morto. Sì, l'ho fatto cadere a terra: indovinato. Ed ero a metà del seguito del fantastico Le ho mai raccontato del vento del nord. Argh!

Orange is the new black
Stagione I
Sono stato bravo. In questi ultimi giorni d'estate, ho fatto tesoro dei consigli dei miei amici. Sto seguendo Breaking Bad (ma questa è un'altra storia) e, cosa rimandata per tre lunghi anni, mi godo piacevolmente la compagnia di New Girl (altra storia pure questa.) Soprattutto, ho recuperato la prima stagione di Orange is the new black: per molti, la serie rivelazione dello scorso palinsesto. Sapevo di stare per guardare qualcosa di notevole. Me lo dicevano le opinioni degli altri, poi l'ho capito dopo i primi minuti. Quando la protagonista, passata dal pensiero del matrimonio a quello di un anno da scontare in carcere, si siede sul gabinetto, fa pipì e piange in silenzio. A dirotto. Di là c'è il Jim di American Pie - sempre eccitato, sempre un po' infantile - con il quale vuole passare l'ultima notte di libertà e di sesso. Piper è la ragazza perfetta: bella, gentile, naturalmente bionda, fedele. Il suo passato è un bel casino, però. Stava insieme a una focosa trafficante - sì, una donna - e, dopo dieci anni, le tocca scontare i crimini di gioventù. La giustistizia pare non averla dimenticata. Il passo dalla felicità alla galera è breve. Com'è la vita in carcere? Orange is the new black, tratto da una curiosa storia vera, è uno spettacolo contro i luoghi comuni; totalmente interessante, sempre vero. Un microcosmo senza sbavature. Al centro esatto della commedia e del dramma. Sexy, ironico, cattivello, è fatto di singolari minacce di morte, scandali e gravidanze, nascite e suicidi. Baci saffici e imprevisti amplessi rubati. Poi: le feste, i regali dolci, i pacchi bomba. Le passioni fatali. Ampio, illimitato, anche se chiuso a doppia mandata, è fatto di donne ferme, ma con la mente che vaga, tra ricordi, sogni, crimini violenti. Red, il boss della cucina, vendicativa e spietata, ma con un tosto cuore d'oro; un'inquietante e manesca fanatica religiosa, dipendente da Dio e dall'eroina; quella che si innamora del nuovo, romantico secondino, poi; e quella che subisce le sgradite attenzioni di una guardia con mani lunghe e ossessioni striscianti; il transessuale con moglie, figli e un sesso nuovo che ha bisogno di ormoni e comprensione; tanti altre figure da scoprire da zero... A guardare come si muovono, come reagiscono, come sopravvivono, il complicato personaggio della bravissima Taylor Shilling, che a volte odi, a volte ami: tentata dalla sua amante di un tempo, che è la causa della sua condanna; confortata a telefono da un ragazzo tenero ma stupidotto, a cui - con la distanza di mezzo - finisce per pensare poco, a volte. Le attrici, sconosciute, spiccano per la loro infinita naturalezza. Portano in tv la normalità. E vedetele, sui Red Capert, per scoprire quanto sono belle, lontano dalla divisa arancio. Nel musical Chicago c'era il Cell Block Tango - ve lo ricordate, sì? Orange is the new black è la danza delle galeotte dietro le sbarre: macabra, tragicomica, coloratissima anche con l'incolore guardaroba che si ritrova. Le protagoniste sono ballerine con la divisa identica o la camicia di forza. La tredicesima puntata, con un montaggio perfetto, si chiude con un concerto improvvisato da pelle d'oca. Un presepe vivente blasfemo e male assortito, ma che emoziona. Non è diventato la mia dipendenza estiva, perché è intenso, lungo e merita attenzione, un certo rispetto: non guardavo più di qualche episodio a settimana, personalmente. A un certo punto scatta un pensiero tremendamente egoista. Devono stare lì; si meriterebbero tutte una pena più lunga. Per farti divertire e riflettere ancora. (7,5)

Hemlock Grove
Stagione II
Hemlock Grove. Dove il soprannaturale è di casa. I lupi mannari si trasformano, spezzandosi le ossa e strappandosi la pelle di dosso. I vampiri non si chiamano vampiri e, al prezzo del sangue, sono a capo di clan secolari. Le industrie, con torri alte fino alle nuvole, fabbricano corpi e tengono sirene in bicchiere. Gli esseri deformi, dotati di un animo buono, giocano con i bambini infelici. Una bestia e un Upir – un tempo amici, adesso rivali – mettono da parte le loro divergente per diventare papà di una bella bambina con lo sguardo di fuoco. La fortunata serie prodotta da Eli Roth, lo scorso anno, era sbucata dal nulla. Talmente bizzarra da lasciare esterefatti. Avevo seguito gli episodi, all'epoca, con un misto di curiosità e diffidenza: capivo poco, ma non riuscivo a smettere di guardare. Tutto era mistero. Intricati nodi da soap opera, una mitologia da scoprire, legami da mettere a fuoco, una spirale di violenza che ti risucchiava, portandoti via. Indubbiamente, era stata la più grande sorpresa del 2013. Ho iniziato a desiderare la seconda stagione sul finire della prima. Cast confermato; dieci episodi assicurati e rilasciati, sulla rete, in un unico giorno. Che fortuna, e che guaio. L'ho vista d'un fiato e il caloroso bentornato a Hemlock Grove non ha fatto altro che darmi gradite, graditissime conferme. Come si fa quando si ha a che fare con cose lunghe, complesse, ambigue, del finale di stagione – a un anno e qualcosa di distanza – ricordavo davvero l'essenziale. Senza preoccuparmi troppo, ho subito notato la grande differenza. Rispetto alla prima stagione, questo Hemlock Grove è più facile da seguire. Lineare. Con un intreccio che presenta colpi di scena, ma nessuna parentesi che distrae. Da una parte, ciò permette di ricordarlo di più e di goderselo senza sofferenze. Dall'altra, quel fascino assicurato dalle cose che stenti a cogliere sfuma, fino a perdersi. Comunque, non preoccupatevi: non diventa mai qualcosa di scarso. La qualità, rozza e corposa, risulta intatta. Tra Netflix e The CW, un abisso. Le creature di questa cittadina sono credibili, complicate, dipinte con tutti i toni di grigio possibili. Roman e Peter, così diversi, dopo una rivalità amorosa non dimenticata, si avvicinano nuovamente soltanto da metà stagione in poi. E alla serie la loro amicizia fa bene. Il primo, con una mamma che va e viene e una folle cugina strega; il secondo, con il padre nella tomba, una mamma immortale e cattivissima, una sorella tanto mostruosa quanto dolce. Famke Janssen, più seducente con gli anni che passano, impara la compassione e l'abilità di un buon genitore. I punti di sutura sulla lingua le avranno fatto bene? Commovente la sua figlia diseredata, Shelley: vaga, si nasconde nelle cantine. Vive al buio per paura di spaventare le persone con il suo orribile aspetto. E se potesse cambiare la sua esteriorità e mantenere la sua anima? Se, nelle industrie Godfrey, fosse possibile spegnerla e caricare la sua coscienza in un corpo artificiale, nuovo di zecca? Una novità: la bionda Madeleine Brewer. Lei è nuova in città e, in una notte di tempesta, trova rifugio a casa di Roman, ignara del suo segreto e della neonata al piano di sopra. Glielo rivelerà il suo corpo: i suoi seni, pieni di latte per miracolo o maledizione, la renderanno una madre. Un difetto: Hemlock Grove mantiene l'ironia, ma perde il suo potenziale sex appeal. Troppo ripulito, non “fa sangue”, come si dice. La notevole tensione sentimentale che c'è non viene sfogata. Clamorosamente coinvolgenti gli ultimi due episodi. Un tripudio di violenza, trovate originali, emozione, con quel finale magistrale, all'orizzonte, e troppo troppo aperto. (7,5)

The 7:39
miniserie tv (2 episodi)
Quant'è brutto essere schiavi della routine. Carl è prigioniero delle stesse cose da quindici anni. Ha figli grandi, una moglie di cui non si è mai stancato, un impiego che lo porta a stare lontano da casa tutta la giornata. Usa la sua villetta in periferia come un appoggio. Lì va a dormire e lì si risveglia. Il cellulare vibra ed è già ora di svegliarsi. Vestirsi, dare da mangiare al gatto, concedersi una colazione veloce e poi il treno. Quello delle 7:39: il solito. Sally fa la pendolare da qualche mese e si è stufata dopo poco di quella vita da eterna passeggera. Lavora in una palestra, ha un bell'appartamento, un fidanzato muscolosissimo e galante con cui parla di ricevimenti, matrimoni e bambini. Anche lei va a Londra con il treno delle 7:39 e succede che così conosce Carl. Qualche gentilezza, due chiacchiere, le confidenze, le previsioni meteo e l'uno entra nella routine dell'altro. Hanno un appuntamento fisso che nessuno conosce. Il vagone di quel treno pieno di uomini stanchi e armati di ventiquattrore diventa il territorio neutrale in cui i due si incontrano, per alimentare quel timido rapporto che non ha nome. Fanno gli stessi pensieri e, in quel mondo ad alta velocità, iniziano a pensare alla stessa cosa. Decidono di provarci. Di incontrarsi all'esterno, lontani dai binari, e di visitare la città come due turisti adolescenti che ridono, si danno ai selfie, prendono una stanza d'albergo per una notte di sciopero dei mezzi. Se non avete niente da fare, in un pomeriggio di pioggia tra tanti, e sull'agenda avete un corposo buco di due ore da riempire, recuperate The 7:39. Una miniserie inglese, composta da due puntate di un'ora ciascuna, sceneggiata da David Nicholls, meraviglioso autore di Un giorno. Che vi piace ve l'ho detto, una volta... o duemila. Be', mai troppe. Il tocco della sua penna si vede, anche filtrato dal piccolo schermo. Firma, infatti, una commedia romantica delle sue. Umana, ben scritta, autentica e un tantino struggente. La storia di un lui e di una lei che s'incrociano alla stessa ora tutti i giorni. Poi si parlano e, anche se entrambi impegnati, scoprono che forse è possibile che il nostro cuore, tanto grande, s'innamori di due persone contemporaneamente. Giusto o sbagliato? Una fotografia limpida che cattura bei momenti. Dialoghi lunghi e brillanti che sono tutto. Un cast impeccabile, in cui si distinguono – accanto all'intensa Olivia Colman (Broadchurch) – due protagonisti separati da quindici anni di differenza, ma armoniosi e intimi. La bella Sheridan Smith (Hysteria) e un David Morrisey (The Walking Dead) affascinante e ineditamente buono. La BBC, garanzia di qualità, produce un film grazioso e agrodolce – solo diviso in due tempi e due momenti. (7)

lunedì 25 agosto 2014

Recensioni a basso costo: The Giver - Il donatore, di Lois Lowry

Buon lunedì, amici. Oggi, la recensione di un romanzo che, velocemente, ho letto nel weekend. In wishlist da un po', ho voluto recuperarlo prima che – a settembre – arrivi al cinema il film, che sarà intitolato The Giver – Il mondo di Jonas. Prima di lamentarvi, sappiate che quello era il titolo originario dell'edizione italiana, al tempo degli Oscar Mondadori! Io so tutto, ebbene sì! Il libro, come tanti prima di me avranno detto, merita, ma il film, che ha sette di media e commenti positivi, mi lascia ben sperare. E' tutto diverso – i protagonisti sono più adulti, si respira un'aria di fantascienza qui assente, ci sono gli effetti speciali e gli intrighi da thriller – ma il cinema ha un altro linguaggio, e riportare scolasticamente quello della Lowry, così semplice e fiabesco, non avrebbe funzionato molto. Pare, tra l'altro, che sia in uscita anche una ristampa del romanzo, con la solita cover del film (qui), anche se le informazioni sono scarse, al momento. 
Tu hai i colori. E il coraggio
Io ti aiuterò dandoti la forza.

Titolo: The Giver – Il donatore
Autrice: Lois Lowry
Editore: Giunti Y
Numero di pagine: 256
Prezzo: € 9,90
Sinossi: Jonas ha dodici anni e vive in un mondo perfetto. Nella sua Comunità non esistono più guerre, differenze sociali o sofferenze. Tutto quello che può causare dolore o disturbo è stato abolito, compresi gli impulsi sessuali, le stagioni e i colori. Le regole da rispettare sono ferree ma tutti i membri della Comunità si adeguano al modello di controllo governativo che non lascia spazio a scelte o profondità emotive, ma neppure a incertezze o rischi. Ogni unità familiare è formata da un uomo e una donna a cui vengono assegnati un figlio maschio e una femmina. Ogni membro della Comunità svolge la professione che gli viene affidata dal Consiglio degli Anziani nella Cerimonia annuale di dicembre. E per Jonas quel momento sta arrivando...
                                      La recensione
Nel mondo di Jonas non c'è nulla che non vada; niente che sia lasciato al caso. Non esistono disparità sociali, razze differenti, guerre, divorzi: regna l'Uniformità. Non si hanno motivi per cui lottare o ribellarsi. Puri, anestetizzati, sognanti, si vive in un futuristico Eden che l'antico peccato di Adamo ed Eva non ci ha strappato del tutto dalle mani. Le famiglie hanno due figli a testa: un maschio e una femmina, a cui altri assegnano il nome. Non esistono gemelli, non esistono individui con lo stesso nome di battesimo. Si è unici. I neonati, partoriti da donne ai margini e assegnati secondo piani precisissimi, sono concepiti senza fare l'amore. I bambini, divisi per età, aspettano per tutto il tempo il sopraggiungere dei dodici anni: allora, piccoli ma già adulti, conosceranno lo scopo della loro esistenza. Anno per anno, una festosa celebrazione pubblica regala piccole soddisfazioni, e li ringrazia per la loro preziosa infanzia. Man mano che crescono, permette loro di tagliare i capelli, di indossare una divisa coi bottoni sul davanti, di inforcare una bicicletta e giocare, di avere un fratellino o una sorellina con cui crescere. Jonas è il ragazzino perfetto nella famiglia perfetta: non ha segreti. Deve raccontare a tavola le sue emozioni, le sue paure, i suoi sogni... perfino quando, una notte, emozionato, sogna di fare il bagno tutto nudo con l'amica di sempre, Fiona. Il  desiderio lì ha un altro nome: Impulso. Ma niente paura: gli ormoni, i turbamenti, il calore nel petto si curano ingoiando un'innocua pillola giornaliera. Gli effetti collaterali – non detti – sono che ammazza l'amore: e che cos'è l'amore, tanto? Jonas impara quella e altre parole - “neve”, “sole”, “collina”, “gioia”; ma anche “guerra”, “abbandono”, “morte” - nel suo duro apprendistato presso il Donatore: un uomo vecchio e saggio, che gli regala millenni di ricordi passati. Per non dimenticare e non commettere gli stessi, crudeli errori. Il suo destino, da grande, sarà essere un contenitore di memorie: una biblioteca vivente, con libri fragili e impalpabili che nessuno può consultare. Ci sono cose che nessuno, a parte lui, dovrà sapere. Egoista, potrà serbare per lui la sensazione del gelo sulla punta del naso o sui polpastrelli sensibili. In silenzio, solo, potrà essere tormentato da rivelazioni che, com'è successo a una fanciulla di cui nessuno pronuncia più il nome, potrebbero spezzargli il cuore o, peggio, farlo morire dentro. The Giver è un romanzo stampato e ristampato, sotto altri nomi e altre vesti grafiche. Probabilmente, tanti ricollegheranno il titolo a un film di prossima uscita, con un cast in cui spiccano mostri sacri di Hollywood (la mia amata Meryl Streep; Jeff Bridges) e volti giovani e nuovi. Io, pur consapevole degli scandali e dei tagli, delle manomissioni della censura e delle controversie più disparate, mi ci sono avvicinato tardi, complice, al solito, l'uscita della trasposizione cinematografica che, per ragioni pienamente condivisibili, presenterà non poche differenze. Necessario, infatti, rinnovare un romanzo che invecchia indubbiamente bene, ma che porta i segni dell'età.
Mi avrebbe dato fastidio guardare il film senza sapere cosa c'era prima; il resto: l'approccio delicato e lieve di Lois Lowry, il colore degli occhi del Jonas che da vent'anni vive tra le pagine, le fattezze di un mondo distopico, forse, direttamente successivo a quello di Orwell e Bradbury. The Givery c'era prima, semplicemente. Prima che le mode spingessero esordienti di ogni dove a cimentarsi con il genere, e quando alcuni argomenti, esplosivi, non potevano essere trattati. Non in un libro per bambini. Non potrei definirlo diversamente, pur volendo: il primo volume di questa fortunata tetralogia, spacciato per young adult alla moda, per quello che non è, è pensato come un libro per l'infanzia. Una lettura che è un rito d'iniziazione, un'agrodolce perdita dell'innocenza. Una narrazione dai tempi stringati, vicina alla dimensione del racconto per via dei suoi capitoli brevi e delle strutture sintattiche quasi elementari, che – tirandoti per il bavero della giacca – ti porta in basso, alla sua altezza. 
Per duecento pagine, ti ritrovi alto (o basso) come quando avevi dodici anni: alcune cose non le vedevi, certo, ma ne vedevi altre. Il romanzo, tra colpi di scena e brividi, è una riflessione dal sapore etico, incorniciata per bene in una prospettiva originale e vagamente spiazzante. L'unico problema del romanzo, ai nostri giorni, è trovarsi in presenza di un pubblico smaliziato, ormai assuefatto. Niente sembra nuovo, anche se il romanzo è attuale, bello, aperto a tante diverse interpretazioni e tutte giuste; il finale, frettoloso, è una pecca, anche se la sua totale incertezza lascia in pace con se stessi...
L'importanza delle dissonanze, il terrore della perfezione, perfino l'eco del nazismo. Il mio consiglio, quindi, è quello di leggerlo guardando alla linea del tempo; con il senso della prospettiva storica: uscito nel 1993, quando io non ero ancora nato, ha rappresentato il punto di partenza per saghe valide come quella di Matched, Divergent, Delirium. La Lowry, oggi anziana, è un'autrice che ha fatto scuola. Nel modo più velato possibile in cui si possa essere onesti con un bimbo ormai sulla soglia dell'adolescenza, in uno scenario da leggenda che inquieta, lei parla – tra le righe e non – di infanticidio, razzismo, fanatismo, eutanasia. Dove dovresti inziare a vedere il marcio, però, il mondo si riempie inaspettatamente di colore. E che cos'è il colore, chiederebbe un membro qualsiasi della Comunità? Quello che, da bianco e nero, fa diventare quel mondo cupo in Technicolor. Solo allora, alla luce spietata della conoscenza, vedi i pregi e i difetti; prima, a causa di quel basilare contrasto, tutto si limitava ad essere pura ombra. La verità rende liberi e, spesso, è necessario scappare via, per esserlo; quando nessuno ti è amico, i neonati difettosi hanno bisogno di una seconda opportunità, una casa non è una casa.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: OneRepublic – Ordinary Human ("The Giver" Soundtrack) 

sabato 23 agosto 2014

Mr Ciak - Edizione speciale: Robin Williams (Mrs Doubtfire, L'attimo fuggente, Al di là dei sogni, One Hour Photo)


Ci sono i film per l'infanzia, e poi c'è Mrs Doubtfire. Il film per l'infanzia. Con Robin Williams che, quando i miei non erano in casa, mi faceva da baby-sitter. Guai se i miei dicevano che io e mio fratello avevamo bisogno di una tata, come i figli piagnucolosi dei nostri vicini. Ma guai ad ammettere che io avevo un po' di preoccupazione a stare da solo. Mamma ho perso l'aereo – altra commedia, altro Columbus – insegnava ai genitori a non scordare i figli in città e a non lasciare entrare estranei in casa. Chi non conosci ha brutte intenzioni, e i ladri rubavano gioielli, soldi e bimbi piccoli per chiedere poi un riscatto. Ma quali gioielli, ma quali soldi...? In casa, al massimo, c'erano solo due carinissimi esponenti dell'ultima categoria: bambini. Circondandomi di giocattoli e altri strumenti di tortura, mettevo su una videocassetta che ormai conoscevo a memoria, così da poter seguire con un occhio il film e con l'altro mirare alla porta d'ingresso. Iniziava il film, invece, e io mi dimenticavo di tutto. Il fatto di conoscerlo da cima a fondo era scusa perfetta per anticipare le battute dei protagonisti, infastidire con anticipazioni spietate l'altro attento spettatore, fare vocioni grosse e vocine acute, per imitare il più camaleontico e buffo dei personaggi. Mrs Doubtfire, uscito nei cinema un anno prima che io nascessi, mi ha cresciuto, fino a quando il nastro non si è consumato e io, costernato, sono dovuto passare al dvd. Conservo ricordi vivi di questo film, anche se – con la scusa di averlo dimenticato – lo rivedrei volentieri oggi e pure domani. Con la consapevolezza del poi, riesco a vedere la mia infanzia così: comune, spensierata, quieta. In realtà, il Michele che guardava Mrs Doubtfire era già un bambino troppo incline alla malinconia: con poca esperienza del mondo, pensavo che tutte le famiglie dovessero vivere in pace come in un bel film e che solo nella mia, sballottata spesso e volentieri da una parte all'altra d'Italia, ci fossero litigi, malintesi, traslochi. E se, al posto della vecchia casa, un anno, avessi dovuto rinunciare alla mia mamma o al mio papà, per un nuovo genitore che non volevo? Capita, crescendo, di sbucciarsi un ginocchio e di cadere dalla bici. I miei genitori – a anche quelli nelle case degli altri – alzavano la voce perché starnazzare era il loro modo di farsi male e curarsi; di crescere insieme. In un universo di felici case del Mulino Bianco, la famiglia Hillard mi ha insegnato che a volte le coppie scoppiano, che il lieto fine non puoi catturarlo, ma che l'amore non passa. Non quello per un figlio, con cui vedresti anche i più brutti dei cartoni animati mai pensati. Robin Williams, qui, fa di più: si intrufola nelle vite dei suoi figli come un agente segreto sotto copertura. Un angelo custode in missione per la famiglia che ha la parrucca bianca, le calze contenitive, le tette di gomma che vanno a fuoco. Quella volta ho scoperto che c'è chi cambia sesso davvero, non per finta: si chiama “transessualità” (che strana parola!) e, anche se non si torna più indietro, è una cosa di cui non ridere. Quella volta, invece, ho riso come un matto per i chili di trucco, le trasformazioni impressionati, i donnoni che facevano la pipì all'impiedi come me, che al water ci arrivavo a stento. Una volta ho anche pianto, perché non era giusto quel finale dal gusto amaro... ma una volta sola. Tutte le altre, ho lodato il magico realismo che quel Tootsie per bambini aveva il coraggio di mantenere. Tra tutti, questo è quello che ho visto più volte – quando avevo la febbre, quando ero solo, quando mi andava. Ho accolto la notizia della morte del suo protagonista con un sorriso triste. Al mare, quel giorno, ho guardato la mia vicina d'ombrellone: una signora di una certa età, alta e massiccia, con un impeccabile cocco biondo e la passione per gli sport, i libri, gli hobby dei giovani. E' da quando la conosciamo che, tra noi, la chiamiamo segretamente Iphigenia. Il cognome, non detto: Doubtfire. (9)

Ancora prima di iniziare il liceo, a me Orazio l'aveva insegnato L'attimo fuggente. Per me, per anni e anni, l'invito a non sprecare un'ora, un secondo, un'eternità è appartenuto non a un'antichità difficile da immaginare, ma a un omino paffuto, affabile e sognatore che esortava, dalla cima della sua cattedra e del suo metro e settanta, i suoi alunni al carpe diem. Ho scoperto che la citazione era di gran lunga precedente al 1989, e di parecchio, anche se a me – nato qualche anno più tardi – anche il finire degli anni '80 appariva cosa indefinita e astratta. Questione di prospettive, suppongo. Apparteneva ad altri ingegni e ad altre epoche. Ma niente da fare: mai come adesso non c'è voce diversa da cui voglia sentirla pronunciare. Robin Williams per la vita. Qui, nelle vesti comuni del professor John Keating, l'insegnante che tutti sognavano, ma che nessuno ha mai avuto. Io ci ho riempito i miei temi delle elementari e delle medie coi suoi piccoli e memorabili inni. Io, su di lui, ho disegnato la scuola che vorrei. Capivo che c'era un po' di Keating quando alla prof di greco, umana come tutti, scappava una parolaccia bella e buona, perché la campanella non si decideva a suonare o lei non si decideva a smettere di fumare; quando, a lezione di chimica, spiegando il trasporto attivo, io ero stato una molecola e il mio compagno di banco un'altra per mostrare alla classe i sottili e teatrali meccanismi della scienza secondo noi; quando, anche se le possibilità di lavoro sono magre, lo scorso annno ho scelto Lettere senza pensarci. Non avrei potuto scegliere qualcosa che non fosse mio, mi dicevo e me lo diceva anche Robin: se c'è la passione, ma purché sia grande grande, il resto segue a ruota. E gli imprevisti succedono, e gli accidenti capitano, ma tutto disegna giorno per giorno i contorni della nostra esistenza. Lo fa L'attimo fuggente, almeno: una commedia poetica, emozionante e iconica che parla di gente morta che ci insegna com'è che va la vita. Possibile? A vent'anni, dopo un gesto che ha reso il prof di Robin Williams drammaticamente vicino al più fragile, emotivo e artistoide dei personaggi del film di Peter Weir, l'ho visto con occhi annebbiati e spirito stravolto. Più commosso ancora, nel sentire il professore dire che non siamo altro che cibo per vermi, ma che dalla nascita al fetore della putrefazione ne passa di meraviglioso, irripetibile tempo. Il tuo, Robin, non è andato sprecato, non preoccuparti. Di diritto, adesso, lui entra nelle fila della Dead Poet Society. Purtroppo, è morto; ma è stato un poeta e un oratore eccellente, unico anche col più stiracchiato dei copioni; ha creato una società di fan di tutte le età che lo piangono come un parente e riempiono i muri invisibili dei social di idee pazzesche – appartenute a lui, appartenute ai suoi personaggi: ché poi è lo stesso. Lui era i suoi personaggi. Il suo corpo, su una barchetta di legno costruita su misura, va alla deriva, nel mare della storia del cinema, come fosse un condottiero vichingo. E chiedi a un giovanissimo Ethan Hawke, al superbo Robert Sean Leonard e a tutti quelli cresciuti sotto le insegne di Onore, Disciplina e Tradizione di farti largo per dire, una volta nella vita, “O capitano, mio capitano”. Anche se non sai leggere a voce alta. Anche se ti senti incompreso. Anche se vivi di nascosto. L'attimo, tanto, arriva. Salite sul banco e andate a raccoglierlo dall'altra parte di ciò che l'occhio, limitato, vede. (8)

Invece, a quattro o cinque anni, la Divina Commedia l'avevo scoperta con Al di là dei sogni. Non avevo dovuto aspettare neppure la prima elementare. Mi ci ero avvicinato come fosse una favola. E, a lungo, mi è piaciuto pensare questo: che Dante, in realtà, avesse firmato una delle più belle storie d'amore mai raccontate. Quando, quella mattina, avete saputo la notizia, voi che avete fatto, a cosa avete pensato? Il mio primo ricordo di lui era legato a questo film, particolarmente significativo, eppure visto qualche volta appena. L'avevo immaginato, mentre, come nella canzone di Modugno, si dipingeva le mani e la faccia di blu, in un Paradiso disegnato dal nulla con gli effetti speciali e gli acquerelli. Un uomo coraggioso, con un sorriso e un pianto che contagiano, che camminava in un aldilà liquido, scomposto, ancora fresco di vernice. C'era scritto non toccare. Ma i fiori sembravano così veri, il mare così azzurro, i gabbiani così vivi: il tocco di quella natura irreale lasciava i segni dell'arte sulle mani. Ispirato all'omonimo romanzo del compianto Richard Matheson, Al di là dei sogni è una malinconica gita in compagnia della morte, in cui il Regno dei cieli, costruito su teorie new age e filosofie orientali, ha le forme di un capolavoro di quadro impressionista. Onde di colore, merletti di ombre, bagni di luce. Correre tra i papaveri di Monet, volare nei cieli di Van Gogh, trascorrere le domeniche pomeriggio al Grand-Jatte di Seurat. Il destino di un dottore come Patch Adams; un uomo dolce e buono che aveva sofferto quello che nessun padre dovrebbe soffrire. La perdita dei suoi figli. Aveva provato a raccontare loro, alla morte del loro vecchio dalmata, cosa fosse il Paradiso: un'idea lontana, per due bambini che scoppiavano di vita. Invece, prima di lui, vanno via. E lui, quattro anni dopo, li segue, lasciando sola una moglie di cui nessuno può più raccogliere i pezzi: una famiglia distrutta dal traffico, dalla strada e, infine, dal dolore più forte. Chris ha incontrato la sua Annie ai piedi di un lago: lei era in barca, aveva i capelli nerissimi e uno scialle rosso. Sognavano di andare lì, quando sarebbero stati vecchi, pensionati, innamoratissimi. I pensieri positivi di Robin Williams hanno aiutato una potente, distrutta e splendida Annabella Sciorra a non tagliarsi più. Gli squarci alle vene si sono chiusi e, della depressione, resta un caschetto corto, una cicatrice, il soggiorno nel verde di una clinica psichiatrica. Quando il marito muore, cosa resta? Raggiungerlo. Mentre Chris sguazza nel suo angolo di cielo, che ha lo stile e le strutture di un quadro della moglie, Annie si ritrova altrove, senza memoria. Al di là dei sogni, così, si trasforma in un folle volo, un'impresa impossibile: esplorare l'altro lato del cielo, varcare le porte dell'inferno, per poi rinascere, con la speranza che l'amore della nostra vita – nonostante l'oblio – possa riconoscerci. Non siamo nessuno per mettere bocca nel dolore di un'altra persona. Per capire cosa significa l'amore quando c'è e quando invece non c'è. Il fantasioso melodramma di Vincent Ward, con i suoi effetti speciali all'avanguardia e la più macabra e tenera delle storie, canta amori e morti violente, suicidio, gioie ultraterrene e amarezze terrestri. E' un colore che non va via. Cuba Gooding Jr. è Virgilio, Max Von Sydow è Caronte, Robin Williams è sia Dante che Beatrice. Narratore della sua storia, attore del suo dramma, salvatore. Orfeo, ma con una Euridice da salvare da se stessa e da demoni che chi ha la fortuna di non conoscere non può vedere e basta. (7)

Non esistono. I ritratti di famiglie infelici. Le famiglie felici. I matrimoni inattaccabili, i figli perfetti. Invenzioni da giornali, soggetti per primi piani da rivista. Cose che invece esistono: gli interpreti forbidabili. Ma non quelli semplicemente passabili. Io parlo di quelli così bravi da cambiare le sorti di un film. Questo è il caso del Robin Williams che possiamo ammirare in One Our Photo. Un thriller che, ragionandoci sopra, è da brividi per un solo motivo: il lavoro eccelso nella costruzione di un protagonista cattivo, eppure raro. Ho recuperato il film solo adesso, tardi. L'idea che mi stessi per perdere una prova di simile pregio mi fa piangere il cuore. Questo è uno dei Robin Williams migliori di cui avrò memoria. L'ennesimo Oscar mancato nella sua carriera, un ruolo inedito. Indelebile, il ricordo di lui che, coi capelli ossigenati, la stempiatura evidente, gli occhi più blu del blu, si aggira tra i corridoi spogli di questo film bianco ospedale e verde acido. La prima prova da regista del futuro autore del fortissimo Non lasciarmi, tralasciando qualche cruda e intrigante trovata formale, ha intoppi che potrebbero far crollare il tutto nel territorio del tv movie. Momenti diluiti, tòpoi abusati. L'idea classica, ad esempio, di un ossessione che ti porta a cancellare il volto del rivale in foto. Il fatto che ad impugnare il coltellino e a cancellare la faccia di suola di Michael Vartan, però, sia un Williams in forma smagliante dà senso al tutto e, da nulla, riscrive una storia tipica. Un film da poco diventa perciò un gran film grazie a Seymour Parrish e alle sue smanie. Un uomo mite, gentile, solo, affetto da una malinconia che fa danni. Ispira simpatia, mette addosso una tristezza gelida. Cerca attenzioni come un bambino, elemosina la tua compagnia con scuse patetiche come chi è dimenticato dai propri simili. Sviluppa foto. Spia le vite degli altri, mette a posto cose. Colleziona frammenti di vita degli Yorkin su una parete che testimonia i loro cambiamenti: la nascita di un bambino, gli ultimi tagli di capelli, la casa nuova in un quartiere alla moda... Il film è una foto della foto. Un muro, contro cui rimbalza il suono, con i primi piani sulle espressioni mutevoli - ora placide, ora furenti – di un attore benevolo che, eppure, sa far paura. La foto segnaletica di un mancato assassino. Il ritratto di un addetto alle stampe che ha vinto il titolo di miglior impiegato del mese, e di peggior incubo diurno. Le macchinette che sono diventate digitali, i rullini in via d'estinzione. Un personaggio che, arrendendosi al progresso della tecnologia, non esiste più. Catturato dal flash, per sbaglio, prima della cassa integrazione, di una mensa dei poveri, di un passo falso di troppo. (6,5)

venerdì 22 agosto 2014

Pillole di recensioni #5: I love you, Beth Cooper (Doyle), Losing Hope - Le sintonie dell'amore (Hoover)

Ciao a tutti, amici. Giorni di studio matto e disperato, ma continuo a leggere. Sempre libri semplici, cose da poco, ma non è detto che ciò sia un male. A volte... Questa volta, purtroppo, nella nuova puntata di Pillole di recensioni – rubrica presa in prestito da Il piacere della lettura – vi parlo di due libri che mi hanno lasciato poco, pochissimo. No, non pensate: “ammazza, che sfiga!”
In realtà, il primo l'ho letto agli inizi del mese, ma per non postare un solo, misero commentino, ho aspettato il momento opportuno per trovargli un compagno. E' toccato alla Hoover, con questo secondo e ultimo appuntamento con la serie Hopeless, che però mi ha annoiato, meritandosi due stelle in meno del predecessore (qui) e facendomi saltare interi dialoghi che, riportati pari pari, ricordavo ancora. Una non richiesta rilettura, insomma. Leggo che i libri, comunque, sono piaciuti ai lettori registrati su Anobii, quindi magari il problema è mio e della mia momentanea irritabilità. Con qualcuno me la devo prendere, no? Inquietante il fatto che abbiano stesso prezzo, stesso numero di pagine, stessa valutazione... Su, vado. Ripeto e, dopo, mi scelgo un libro che sia easy, ma bellino. Si farà quel che si può. Un abbraccio, M.

Titolo: I love you, Beth Cooper
Autore: Larry Doyle
Editore: Kowalski Editore
Numero di pagine: 310
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Good Charlotte – Last Night
La recensioneLeggendo il mio Città di carta, avevo pensato a un film di qualche anno fa e avevo scritto ad alcuni tipi in chat. “Ma ve la ricordate la commedia del 2009 di Chris Columbus, Una notte con Beth Cooper?” La risposta era unanime: no. Bene – cioè, male – ma la prima parte del romanzo di John Green a me ricordava molto quel teen movie in particolare. Succede, adesso, che Città di carta va nelle mani di un'amica e che questa amica, dopo le prime pagine, su Whatsapp mi manda una foto. “Ma sai che mi ricorda questo libro qui? Ci hanno fatto anche un film...” Il libro di Larry Doyle aveva ispirato la pellicola con la star di Heroes. Oltre allo stupore momentaneo, perché, ehi, nessuno ricordava l'esistenza di quel tassello della biografia del buon Columbus, c'è stata la curiosità di leggerlo. Mi sono reso conto di ricordare bene il film e di non divertirmi quindi più di tanto, alle prese con la volubile Beth, l'impacciato Denis, i loro squilibrati amici. La versione di inchiostro, seppur piacevole, non aggiunge nulla a ciò che il film mostrava. E il film già mostrava poco di suo, ma garantiva un'ora e trenta di svago. Doyle mette insieme questo young adult surreale, ironico e scanzonato, ma - capace di volgarità a raffica - non si rivela portavoce della necessaria profondità che ogni storia per ragazzi merita. Un film: novanta minuti e passa. Un libro, con cui trascorri più di qualche giorno, dovrebbe lasciarti qualcosa di più. Invece sono le riflessioni a mancare e si dimentica, quindi, il libro in sé, per uno stile che non cattura nemmeno. Le citazioni, le nozioni geek, le infinite liste lo rendono più irritante che altro, tanto da far pensare che il protagonista – maestro di brutte figure e capro espiatorio per i bulli – si meriti un po' della sua famigerata sfortuna nera.

Titolo: Le sintonie dell'amore – Losing Hope
Autore: Collen Hoover
Editore: Leggereditore
Numero di pagine: 310
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★
La recensioneNonostante il titolo, Le coincidenze dell'amore era una bella storia. Un romanzo che sapeva emozionare. Una sorpresa all'inizio dell'estate. Questo, invece, lo leggo sul finire di vacanze che non sono mai iniziate. Mi rendo conto: l'ho recuperato troppo presto, ma non avevo altro per le mani. Tralasciando il titolo italiano, due volte più brutto del precedente, neanche il romanzo mi è piaciuto. Anche se non abbastanza brutto, specifico, da meritarsi una denominazione tanto atroce, come tutti i libri che vorrebbero raccontarti la stessa storia, solo da un punto di vista alternativo, è inutile. La Hoover, come i fantasiosi titoli nostrani suggeriscono, torna a parlare – indovinate? - d'amore. L'intoppo è che, questa volta, non funziona quello che c'è tra Sky e Holder. Pochi pensieri, tanti dialoghi. Nemmeno banali, ma già sentiti, e in scene già viste. Generale l'assenza di quello che mi aveva coinvolto nel primo: umorismo, confusione, mistero. Senza, è una storia di traumi giocati a carte scoperte, visti da una prospettiva poco brillante. Il primo mi era piaciuto soprattutto per l'intensità del tema. Il resto era la solita canzone, anche se orecchiabile. Ricordo di essermi meravigliato per l'alternarsi concitato dei toni leggeri degli inizi e per l'imprevista tensione dell'epilogo: una densità da due libri in uno, quasi, non contemplata da new adult che spuntano come il prezzemolo. Il protagonista – nella storia di come perse e ritrovò la Speranza – si dimostra adesso fatalista, zuccheroso. Ha scarsa credibilità: un diciottenne non si esprimerebbe mai così, nemmeno fosse un pozzo incontaminato di sensibilità, castità e pensieri zen. A salvarsi sono i dialoghi con un tale Andrew e il simpatico migliore amico gay (e mormone) di turno e le rare lettere scritte alla sorella suicida, Less: l'unica cosa grossomodo inedita – a meno che non abbiate letto The Sky is everywhereNoi siamo grandi come la vita e simili. Sky è un pretesto, un personaggio secondario: un'adolescente che, senza sapere quanto coraggiosa e vitale sia grazie alla lettura di Hopeless, ti sembrerebbe una miniatura stilizzata. Per scrivere libri simili, si deve essere bravi: una storia nota deve essere raccontata con inattaccabili perché. Questo prequel/sequel/spin-off/come-volete-voi non ne ha oggettivamente di abbastanza validi. Il precedente era la stessa cosa in senso stretto, ma era un'altra cosa in senso lato. Facciamo che vi consiglio quello, dài. Le sintonie dell'amore è da leggere ad anni di distanza, se avete una memoria a breve termine o l'idea di un'onesta rilettura dell'altro vi repelle proprio. 

martedì 19 agosto 2014

Recensioni a basso costo: Il rumore dei tuoi passi, di Valentina D'Urbano

Buongiorno, amici! Oggi, nuova recensione per voi, di un libro che ho letto in un giorno. Tutti, almeno di nome, lo conosciamo già, quindi non mi dilungo. Mi è piaciuto. Non so esattamente quando, ma in autunno uscirà il terzo libro dell'autrice, Gli Spietati  Quello che ci manca (hanno cambiato titolo, direi), e sarà un ritorno, per chi vorrà, nella Fortezza. Dicono ci sia ancora chi ricorda Beatrice e Alfredo... Le bellissime foto che vedete, tra parentesi, sono di Nikki Smith (arcangel-images.com), la stessa fotografa voluta dalla Longanesi per realizzare la copertina. Voi l'avete letto? E' nella vostra wishlist? Ditemi tutto. Un abbraccio, M. 
Ci sono mani in questa oscurità, e ci sono voci. Cerco di difenderti da quelle mani che mi tirano, mi forzano e mi accarezzano e tentano di staccarmi da te. Non ti preoccupare, Alfredo, non avere paura, io rimango qui con te. 
Dentro il buio.

Titolo: Il rumore dei tuoi passi
Autrice: Valentina D'Urbano
Editore: TEA – Longanesi
Numero di pagine:
Prezzo: € 10,00
Sinossi: In un luogo fatto di polvere, dove ogni cosa ha un soprannome, dove il quartiere in cui sono nati e cresciuti è chiamato "la Fortezza", Beatrice e Alfredo sono per tutti "i gemelli". I due però non hanno in comune il sangue, ma qualcosa di più profondo. A legarli è un'amicizia ruvida come l'intonaco sbrecciato dei palazzi in cui abitano, nata quando erano bambini e sopravvissuta a tutto ciò che di oscuro la vita può regalare. Un'amicizia che cresce con loro fino a diventare un amore selvaggio, graffiante come vetro spezzato, delicato e luminoso come un girasole. Un amore nato nonostante tutto e tutti, nonostante loro stessi per primi. Ma alle soglie dei vent'anni, la voce di Beatrice è stanca e strozzata. E il cuore fragile di Alfredo ha perso i suoi colori. Perché tutto sta per cambiare.
                                        La recensione
Se hai qualcuno che ti ama, forse ti salvi.” 
Rimasti lì. Per tutto il tempo. Seduti, pietrificati, scomodi, immobili. Sui gradini di pietra dell'Anfiteatro, come statue da guardare e basta. Tu non toccarli. Potrebbero crollare. Anzi, crollano; sicuramente. Niente dura, in quel quartiere dal soprannome beffardo, ma stranamente significativo. Case antracite, umidità, legno che non è buono neanche per appicciare un fuoco. Il marciume è un infezione virale che colpisce le pianticelle, i fiori, i neonati. Nella Fortezza non cresce niente che non sia destinato a quella fine tristissima. Non ci sono alberi, non ci sono bambini da innaffiare e raccogliere. Come le case in cui aspettanto di farsi grandi, sono costruiti con materiale di scarsa qualità: mucchietti umani di ossa, sangue, radiazioni. Un fiotto di sputo caldo, schifoso, collosso per unirli insieme: come capita, alla bell'e meglio. Si cresce disincantati e storti, nel gracchiare delle tivù accese e nella nebbiolina indistinta di stagioni che, non viste, passano, tutte uguali. Bea e Alfredo hanno fatto il meglio che potevano e hanno aspettato. Si sono disintegrati con spinte e tocchi reciproci su quel campetto malato, in cui i bambini giocano a calcio e si fanno le canne, ma non prima che fossi abbastanza vicino da poter raccogliere resti di loro sul palmo della mano. Pesano un niente. Hanno più volume le loro vite che i loro corpi. L'anima, impalpabile, aveva più senso della loro concreta persona. Erano tutta anima, mettiamola così. Beatrice è un'acuta osservatrice, una che le cose le sente prima che accadono, perché tutti si lasciano appresso degli indizi, soprattutto quando cercano aiuto e non lo ammettono. Mi sente, che con le infradito dei cinesi arrivo da loro, e sa con sicurezza di potermi affidare la loro storia. Un passo strascicato, ma leggero. Diverso da quello di Alfredo, che indossa gli zoccoli e si regge a stento all'impiedi. La presenza di un altro ragazzo è quello di cui ha bisogno. E, dopo tutti questi anni, io ero disposto ad ascoltarla. La verità è che volevo leggere Il rumore dei tuoi passi da quand'è uscito. Mi era passato per le mani spesso, nei salti in libreria, nelle code al supermercato. Per nove mesi, ho trovato la D'Urbano nello stesso angolo, facendo la strada a piedi per arrivare in stazione. C'era un bar affollato che portava il suo cognome. Nei primi momenti, per orientarmi, ricordavo in quel modo la direzione da prendere. Arrivare al D'Urbano e, allo stop, girare a sinistra; sempre dritto. Io non faccio un metro senza pensare a un libro. Quei metri li facevo tenendo a mente un'idea che non c'era. Un romanzo che non ancora avevo letto. Ma avevo letto talmente tanto su di lui – le anteprime, gli elogi, le stroncature – che mi sembrava di conoscerlo già. Mi ero tenuto lontano dagli spoiler, certo, ma non è servito. Il rumore dei tuoi passi si spoilera da sé, se vogliamo, aprendosi con l'immagine di un funerale che anticipa tutto e dà senso alle parole di cui leggeremo. Il dolore, ammortizzato, non fa però meno danno. L'intero romanzo è un conto alla rovescia fino a quel giorno - tempo di addii, ventenni vestiti di nero, girasoli da strappare come per portarli in pegno. La stagione dei fazzoletti, delle siringhe e dei limoni, dei cerotti strappati di botto. Si ritorna alle origini, in rewind. Il passato riavvolto, come i nastri delle musicassette che suonavano poco punk anni '70 e tanto Venditti e Baglioni. 
La D'Urbano è brava, perché firma un romanzo amaro, disincantato, pessimista – e tutto quello che volete – ma mai più nero del nero. Nel quartiero poco immaginario che descrive la corrente salta spesso. Si cammina al buio, attenti a non calpestare qualche siringa, un senzatetto che dorme su un cartone, due sedicenni che, appartati, fanno sesso ma non l'amore. I lampioni fanno il loro dovere come e quando vogliono, a sere alterne. Ma Il rumore dei tuoi passi penso che al buio non ci resti mai. La Mazzantini – se non la tiro in ballo, parlando di narrativa italiana, io non sono io – è un'autrice bravissima e crudele, con una prosa di sangue e parolacce: avrebbe fatto di meglio, e forse anche di peggio. Valentina, invece, come la sua Beatrice, ama ripensarci, raccontare qualche balla, lasciare con uno di quei sorrisi cupi. Il suo, nonostante le avversità, è un romanzo pulito. Senza eccessi, senza cadute impreviste: c'è un trampolino per fare un salto nel baratro e il capitombolo è un tuffo coreografato. Non puzza di candeggina pesante. Non ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di segreto grattato dal muro con le unghie e occultato con della brutta carta da parati a fiori. Si respira il fetore di solitudine e betoniere che appesta la periferia, e la rabbia che avvolge in una nube tossica i cuori dei ragazzi. Aroma amaro di tragedia, essenza di una piccola storia crudele. Vera, come sa esserlo una realtà che non regala finali felici o certezze tangibili. Ancora, la D'Urbano è brava, perché il suo esordio, pur lontanissimo dall'originalità, intenerisce, intriga, tocca, saltando con la corda del prevedibile. Gioca a carte scoperte, ma quei personaggi sbagliati, animaleschi, ottusi, barbari, conquistano con quei rari pregi che hanno e con quelle barricate insormontabili di difetti. Brava due volte. Capisci il motivo per cui si mordono, si marchiano, si soffocano a vicenda. Tu, lettore, faresti lo stesso: prenderli a schiaffi a sangue, stringerli. Anche se alla violenza non ci credi mica, ma sai che senza la violenza stenterebbero a capire la tua spontanea vicinanza. I gemelli, li chiamavano, anche se non si somigliavano affatto. Beatrice non attira sguardi: formosa, ma con accessori da poco che mettono in risalto soltanto i suoi lati peggiori. I capelli stopposi, il fondoschiena prominente, l'egocentrismo assurdo, il connaturato caratteraccio. Assillante, forte. 
Avrebbe voluto andare a scuola, fare il liceo classico, ma ha la terza media. Divide il letto con il fratello minore, sta sempre in casa per paura che qualche poveraccio possa buttare le loro cose dalla finestra e occupare abusivamente le loro stanzette. Alfredo è uno che piace, anche se non ha il fisico: occhi verdi, capelli biondi, gambe lunghissime. Cinquanta chili scarsi; debole dentro e fuori. La sua testa dorata spicca nei campetti di calcio, nei locali strapieni per la finale dei mondiali, in un mondo di ragazzini piccoli, neri, robusti. Lui nemmeno le medie ha finito: fermo alla quinta elementare. Nemici, amici, confidenti, amanti, sono vittime di una brughiera di gradoni luridi e palazzi cascanti, schiavi di un sentimento graffiante, brutale, ma a tratti luminoso. Insieme, fino alla fine, al centro di una storia dura come il cemento e morbida come i petali di quel solitario girasole in copertina. Torridi, feroci, ustionanti, fatti di luce del sole: ci vogliono gli occhiali scuri delle bancarelle per contemplarli, per vedere quanto cavolo sono belli; le eclissi per farli stare zitti. Un filo di scotch per unire uno strappo, le metà strappate di un'unica foto. Una zingara bruna e un vichingo. Sembra guardino il vuoto, sorridendo. In realtà guardano l'un l'altra, smembrati, e quel sorriso è uno dei più rari e spontanei che faranno in vita loro. A saperlo. Mi ha ricordato alcuni racconti dei miei genitori. Quand'erano piccoli, vivevano in un paesello con quattro gatti, eppure certe cose già le conoscevano. Una povertà che spaventa, l'istruzione scarsa, l'invisibilità della provincia meridionale. Cose che, quando ritorno, guardo di sfuggita dal finestrino della macchina. Meglio non fermarsi, andare di corsa. Se non c'è speranza, se non c'è voglia, penso sia giusto dirlo. Utilizzare un luogo comune per inquadrare gente che dei luoghi comuni non vuole svestirsi. Ci sta bene. Armature, guaine, abiti per tutte le stagioni; ché i soldi in vestiti non si spendono. Non ci stanno.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. 
Ci saranno tante cose a cui dovrò abituarmi, e ce ne saranno altrettante di cui dovrò fare a meno. Il rumore dei tuoi passi, il tuo odore che svanisce sul cuscino, la luce del giorno in cui mi hai lasciato sola.”
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Rino Gaetano – A mano a mano


sabato 16 agosto 2014

Recensione: Teorema Catherine, di John Green

Ciao a tutti, amici! Come state? Ferragosto è arrivato e finito e spero l'abbiate passato nel migliore dei modi. Qui da me il tempo è stato bellissimo, quindi ce lo siamo goduti, una volta tanto. Purtroppo, è arrivato il momento di mettersi sotto e studiare, va be' che lo dico sempre. Ho un esame molto impagnativo, i primi di settembre, e devo ripetere tutto, da zero. E, soprattutto, non dimenticare di prenotarne un altro per il venti del mese prossimo: che gioia, che gioia. Cercherò di farmi vivo, dal momento che ho una serie di post già scritti, ma mi vedrete e non mi vedrete. Oggi ci sono, sì, e vi lascio la recensione della mia ultima lettura e del mio ultimo John Green. Questa volta, devo ringraziare di cuore Sonia che, dal profondo del suo Cuore d'inchiostro, mi ha regalato il libro. Si arrabbierà un casino: avevo promesso di non ringraziarla più.
Ho sempre avuto la sensazione che le Catherine mi mollassero appena cominciavano a vedere com'ero fatto dentro. Ma io me lo chiedo sempre. Se gli altri potessero vedermi come mi vedo io... se potessero vivere nei miei ricordi... Ci sarebbe uno, dico uno, che mi vuole bene?

Titolo: Teorema Catherine
Autore: John Green
Edizione: Rizzoli
Numero di pagine: 335
Prezzo: € 14,00
Sinossi: Da quando ha l'età per essere attratto da una ragazza, Colin, ex bambino prodigio, forse genio matematico forse no, fissato con gli anagrammi, è uscito con diciannove Catherine. E tutte l'hanno piantato. Così decide di inventare un teorema che preveda l'esito di qualunque relazione amorosa. E gli eviti, se possibile, di farsi spezzare il cuore un'altra volta. Tutto questo nel corso di un'estate gloriosa, passata con l'amico Hassan, a scoprire posti nuovi, persone bizzarre di tutte le età, ragazze speciali che hanno il gran pregio di non chiamarsi Catherine.
                                             La recensione
Ecco come ricordo io le cose. Ricordo le storie. Unisco i punti e viene fuori una storia. E i punti che non stanno bene nella storia magari scivolano via. Come quando trovi una costellazione. Guardi il cielo e non vedi tutte le stelle. Le stelle sembrano tutte le stesso immenso cacchio di caos che sono. Ma tu vuoi vedere delle forme; vuoi vedere delle storie, così le isoli nel cielo. Vedi connessioni ovunque, quindi, alla fine della fiera, tu sei un narratore nato.
Ognuno ha in testa l'idea del partner ideale. Un appuntamento galante a San Valentino e, dall'altro capo del tavolo, una persona alta o bassa, estoversa o introversa, bionda o bruna, sportiva o sedentaria, possessiva o libertina. Una che ami i tulipani e detesti le rose rosse; una allargica ai fiori; una che, a casa, ha serre tropicali, con asfodeli e piante carnivore. Quando dite “no, non è il mio tipo”, quindi, cos'è che intendete voi? Il tipo di Colin Singleton, diciassette anni, sono  le Catherine. Lui non guarda all'aspetto fisico, solo al nome. Nove lettere e la certezza matematica di farsi spezzare il cuore per la ventesima volta. Se ti chiami Cathy, Katrina o Katherine, mi dispiace, ma non avrai successo. Prendi in considerazione un cambio di nome, piuttosto; sempre che imbrogliare funzioni. E' questione di “Catherinanza”. Le altre ragazze non danno due di picche con lo stesso savoir faire, né hanno la possibilità di entrare a far parte, per diritto di nascita, della nutrita schiera di ex di quello che un tempo fu un bambino prodigio. Sfruttando le sue disavventure sentimentali, nella speranza che un bambino prodigio possa anche diventare un adolescente prodigio, Colin studia notte e giorno per elaborare il teorema che spera possa far di lui un premio Nobel per la pace. Per la pace, sì: grazie a lui, niente più cattive sorprese. Il destino di una relazione, riassunto con matematica certezza, prima che essa cominci o finisca. Poi premio Nobel... che figata. Chi mollerebbe mai un generoso benefattore dell'umanità, come quello smilzo ragazzetto con gli occhi verdi verdi e i capelli cespugliosi alla Einstein? Trascinato in un viaggio rocambolesco, approdato in una sperduta cittadina americana, piena di abitanti indimenticabili e assurdi, Colin e il suo amico Hassan – cicciottello, irsuto, esilarante e troppo musulmano per i suoi gusti, anche se ci tiene a specificare di non essere un terrorista, nonostante le apparenze – raccoglieranno vecchie memorie, andranno a caccia di maiali selvatici, saranno inseguiti dagli stessi esotici maiali che volevano cacciare e da sciami inferociti di vespe assassine, conosceranno l'adorabile Lindsey Lee Wells e i colpi di scena che il destino, anche se non sembra, ha in serbo per tutti noi. Teorema Catherine, quinto libro di John Green che leggo, è anche l'ultimo dell'autore che rimaneva nella mia nutrita wishlist. Finiti. Letti tutti. 
E adesso mi sento un po' solo, sapendo che quando avrò bisogno di lui – per il momento – non ci sarà; proprio lui, che c'è sempre stato. Questo breve e fresco young adult ha un Green meno ispirato del solito, ma ugualmente coinvolgente. Sarà per il distacco in più dato dall'utilizzo dell'insolita terza persona, sarà per la mia totale ignoranza dell'ambito matematico: Teorema Catherine mi ha fatto sorridere spesso, però non è mai esplosa... quella cosa. Me ne sono accorto, per esempio, dal numero di frasi belle belle che ho appuntato. Un gruzzoletto esiguo ma significativo di riflessioni in cui specchiarsi, nudi. Senza maschere, senza artifici. John Green è uno che non giudica. Curiosissime le frequenti note a bordo pagina con le informazioni sulle vite assurde di presidenti rimasti incastrati nella vasca da bagno, uomini di scienza innamorati alla follia di piccioni, modi di dire non so cosa in nove lingue: curiosissime, per un libro carinissimo. Sempre che sappiate accontentarvi. Io l'ho fatto, e senza troppa amarezza: non posso parlare di delusione, perché il romanzo non mi ha deluso affatto. Per due giorni, è stato bene tra le mie mani e sotto l'ombrellone. Compratelo, per godervi in compagnia quel che resta dell'estate: Ferragosto, come fa l'Epifania con le feste, minaccia di portarci via il sole. I protagonisti, più lineari e meno ombrosi del solito, vi ricorderanno che è bello ridere, prendere la macchina e girare a vuoto. Si viaggia in una minuscola bolla di vetro. Il mondo che si capovolge, la neve che cade nelle stagioni sbagliate, la gente che si urta e si chiede scusa. Una bomboniera a buon prezzo in cui spicca la croce lignea più grande del mondo, una fabbrica che produce stoppini per tampax, un obelisco che fa ombra sui presunti resti dell'arciduca Francesco Ferdinando. Colin e Hassan sono scemo e più scemo, ma con un quoziente intellettivo vertiginoso. Logorroici e imbarazzanti, fanno associazioni di pensiero assurdamente buffe, anagrammi sgrammaticati, discorsi su argomenti decisamente inadatti alla conversazione tra liceali. 
E poi c'è Lindsey, che ha il pregio e il difetto di non essere un'altra Catherine. E sta insieme a un altro Colin. Una ragazza sveglia e sensibile, che si pone il problema di essere egoista e si dà della bugiarda, perché con altri che non siano Colin – ma quello vero, non LAC (L'altro Colin) - non riesce ad essere sé stessa. Essere sé stessi, il romanzo ci insegna, è mangiarsi le unghie come se l'altro non ci fosse: come se l'altro fosse un altro noi. Parlando su Facebook con una ragazza che non lo apprezzava, ho riflettutto sul perché mi piacesse Green, nei giorni scorsi. Avevo davanti una frase che parlava di me. Allora ho realizzato: lui dice certe cose, e in certi modi, che mi fanno dire “be', eccomi qui”. Non è accontentarmi, convinto non ci sia altro di meglio. E' aspettare di ritrovarmi in prima persona, prima o poi, nelle cose di un altro autore. E io, da ragazzo non geniale, mi faccio bastare anche libri non geniali, finchè il semplice ricordare come sono stato non molto tempo fa, e rivedermi un poco, sarà tutto quello che vorrò. Il protagonista vuole cercare un disegno, vuole una morale per le sue fallimentari storie. Storie... piuttosto che riassumerle attraverso schemi impersonali, meglio raccontarle. Con quelle parole che, anche quando non ci saremo, stravolte e modificate, rimaranno nell'aria. In trecentoventi pagine, spazio per una scena da Guiness. Il miglior bacio al buio. Non mostrato, non raccontato: reso con una serie di battute che hanno i punti di sospensione e basta. Un genio matematico che si rende conto che sapere le basi di nove lingue, il nome di colui che fu primo ministro del Canada nel 1871 e le dipendenze segrete di Thomas Edison è meno interessante del sapere fare conversazione e, raccontando, raccontarsi. La scienza salva il mondo, ma la letteratura salva l'uomo. La prima è importante per tutti, la seconda per noi. Ed è carino fare qualcosa per noi, di tanto in tanto. Dolce e genialoide, l'inconsapevole Colin segna l'armistizio nello scontro secolare tra artisti e uomini di scienza. Si può essere l'una e l'altra cosa. I capolavori di vite sono splendidi da guardare, tanto quanto le stelle. Il diagramma finale avrà una forma variabile. Una faccina sorridente, un cuore. Un romanzo simpatico e senza drammi, che non deride i ragazzi e le loro nevrosi. 
Ride insieme a loro.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Barry White – My first, My last, My everything