Il
cinema, la sessualità, le mamme. Alla luce del mio recente
recupero, impossibile non pensare alla poetica di Pedro Almodòvar:
uno dei pochi registi stranieri a non avere mai ceduto alle sirene
delle major. Nell'errore, al contrario, è incappato l'adoratissimo
Xavier Dolan: il ragazzo prodigio, ormai cresciuto, sognava Hollywood
sin dall'infanzia. Il suo sogno americano, non a caso, contiene
tracce innumerevoli di lui. Attore bambino con la cameretta
tappezzata di poster, tormentato a scuola al suon di insulti
omofobici, fa dell'ambizioso Jacob Tremblay il suo alter-ego; trova
rifugio, per fortuna, nell'intrattenimento – vengono citati Jumanji,
Il giardino segreto, la saga di Harry Potter – e
nella venerazione di un teen idol sulla cresta dell'onda. Come starà
vivendo il suo mito i giorni di gloria?
Partito per l'estero ma sempre nella sua comfort zone, Dolan cerca
compromessi che non lo accontentano fino in fondo. Ma la stessa
frustrazione, diciamolo subito, non è vissuta anche dagli spettatori.
Lontano dal disastro descritto dagli statunitensi, La mia vita con
John F. Donovan non è forse
l'opera della maturità che si domandava a un regista trentenne ma,
benché mainstream, mostra un Dolan che non si tradisce. A
differenza dei classici tranche de viedella
provincia canadese, il suo ultimo film è un triplice melodramma:
macchinoso giacché scrittissimo, scricchiola a causa di una
scrittura romanzesca che nel bene e nel male limita i colpi di testa
dell'autore. Rivestito di tutto punto, il regista in trasferta porta
con sé la coperta di Linus dei temi cari pur rivestendoli con la
patina attraente del cinema a stelle e strisce. Mentre la giornalista
Thandie Newton prende appunti, assistiamo alla biografia fittizia di
una stella emergente che vendette l'anima al successo.
Particolarmente coraggiosa, allora, appare la scelta di un Kit
Harington a un passo dall'implodere: la star della HBO polemizza con
il suo ruolo di mentore del piccolo schermo e, con amara ironia,
anticipa le dipendenze che di recente lo hanno condotto in rehab fra
un pettegolezzo all'altro. Omosessuale represso, si ritrova nelle
canzoni a squarciagola alla radio o nella vasca di mamma: una Saradon
invadente quanto la miglior Dorval, a cui si contrappone dall'altra
parte una Portman fredda e disattenta. La sceneggiatura è un taglia
e cuci a cui neanche il montaggio funambolico riesce a star dietro. Per
questioni di minutaggio sono stati tagliati personaggi e passaggi:
su tutti, imperdonabile, quello a proposito della nascita di una
scandalosa amicizia epistolare che nei fatti non c'è, quando
dovrebbe essere invece il cuore della storia. Ma restano
quel paio di scene madri da pelle d'oca; una colonna sonora che
spazia da Florence ad Adele, dai Verve ai Green Day; un cast
esageratamente assortito, con piani narrativi che combaciano purtroppo a
fatica con il resto. Il regista canadese fa i conti con le
aspettative altrui, la fama precoce e il bullismo subito, in un'altra
questione privata che somiglia tanto a una seduta psicoanalitica. In
poltrona, emozionati, vogliamo bene alla perseveranza e alla
schiettezza mostrate. Peccato che a rendergliene merito, al cinema,
fossimo appena in tre. Somigliassero tutti a questo Dolan fuori fuoco, i flop
annunciati. (7)
Cosa
significa essere il genitore di un tossicodipendente che non vuole
lasciarsi salvare? Ispirato alle memorie del giornalista
David Sheff, Beautiful Boy racconta
la sua coraggiosa odissea accanto al figlio Nic: accettato da sei
college alla fine del liceo, in cerca dello svago meritato, il diciassettenne ricade
nel tunnel delle dipendenze. Se un dolcissimo Carrell regala ormai più
soddisfazioni come attore serio che nei passati ruoli comici, il
coprotagonista Chalamet sfoggia lacrime di coccodrillo che vengono
presto a noia. Gli ambienti luminosi e confortevoli delle ville
alto-borghesi, distanti dai ghetti malfamati dell'immaginario
collettivo, incorniciano le levatacce del primo e le notti in bianco
del secondo; le ansie, i sospetti innumerevoli e le bugie impenitenti
di un adolescente carismatico ma difficile da amare. L'amore di un
padre, così, ispira una ricerca sul campo in una tragedia comune a tante,
troppe famiglie, con un epilogo per una volta eccezionalmente
fortunato. Ma la guarigione, scontata e didascalica, passa attraverso
lunghi abbracci, discorsi motivazionali e ricadute snervanti in quanto continue. Depotenziando un dramma familiare già compassato,
nonostante i duetti da Actor's Studio, la cui maggiore delusione è
attribuibile al lavoro del regista. Dopo il meraviglioso Alabama Monroe, Felix Van Groening usa
il marchio di fabbrica di un montaggio frammentario – nel film
precedente una poesia contemporanea, qui fonte perenne di
sconcentrazione – per girare senza un piano costruttore, al suon
dell'invadente colonna sonora indie, un brutto episodio di This
is us. In quale vicolo sudicio
ripescare Nic; in quale clinica ricoverarlo? Molto meno affannosa, al
contrario, la domanda che ci ponevamo all'inizio, sapendo Beautiful
Boy tagliato fuori dalla
stagione dei premi: perché il cuore freddo di critici e giurati,
davanti a un caso di coscienza che – a torto, su carta – ci sembrava
struggente? (5,5)
Lui
è un lupo di mare con un'amante focosa in ogni porto. Lei, femme
fatale poco convincente sin dalla tinta bionda, è una ex in cerca di
aiuto contro il marito manesco. Potrebbe sembrare un giallo
hitchcockiano, se non fosse per la presenza di un personaggio
secondario che proprio non ci si spiega: un omino occhialuto e bizzarro, così
fuori posto e dal ruolo così imprevedibile. Su una bellissima
isola che non c'è, dove tutti sanno tutto di tutti, si muovono con
il pilota automatico personaggi in crisi: irrisolti, incompresi, si
consolano ora con il rum a fiumi, ora con i tuffi spericolati dalle scogliere a picco.
Nel mentre, pianificano il delitto perfetto o aspettano l'arrivo delle
mareggiate. Se la collega Anne Hathaway, qui al suo peggio, è un
pesce fuor d'acqua, Matthew McConaughey ha sprezzo dei suoi
cinquant'anni portati alla grande: fuma e trinca, praticando l'amore libero,
e concede più del solito a favor di telecamera un lato B estraneo
alla forza di gravità. La fotografia assolata e il sex appeal dei
protagonisti, comunque, non distraggono: il bastonatissimo
Serenity, altro film
sabotato dalla critica, a volte incappa in scivoloni grossolani o
buchi di sceneggiatura grandi quanto voragini; altre nella stranezza
di colpi di scena talmente campati in aria da risultare quasi degni
di stupore. Alla deriva, senza una meta condivisibile, Steve Knight –
altro che ha perso la bussola, dopo il successo di Locke–
si dà a una risoluzione tanto inattesa quanto surreale, incoerente
con il resto ma toccante a modo suo, in cui il McConaughey nudista
sembra tornare a indossare la tuta spaziale del padre di Intestellar.
Un po' thriller erotico anni Ottanta, un po' videogioco avventuroso,
Serenity finisce per
essere un divertente nulla di fatto. Un incrocio bizzarro, difficile
da incasellare nel cinema dello sceneggiatore americano e,
soprattutto, nella carriera di due premi Oscar. Come hanno potuto
abboccare? (5)
Le
chiamano selkie. Metà donne e metà foche, queste splendide
figure dalla doppia natura popolano le acque e le leggende nordiche.
Qualche volta, come in Ondine o La canzone del mare,
hanno ispirato anche la settima arte. Il fascino imperituro del
folklore è arrivato infine anche in libreria, insieme alle onde del
primo mese di mare. Quella che potrebbe sembrare alla lontana un
aggiornamento della storia della Sirenetta,
combattuta com'era fra i fondali e la terraferma per amore di un
principe, in realtà trae spunto da una leggenda scozzese. Un
pescatore, invaghitosi di una misteriosa creatura in mutazione, le
sottrae la pelle originaria e la costringe ad adattarsi agli usi e i
costumi degli uomini. Il romanzo d'esordio di Su Bristow parte da
qui, e l'indispensabile succede proprio nelle dieci pagine
introduttive: lei si trasforma e lui, accecato dalla lussuria, la
stupra sul bagnasciuga. La giovane, già incinta, non può
raggiungere le altre foche oltre gli scogli; il pescatore, pentito
per la brutalità del gesto, promette di sposarla. Ma il paese, sul
chi va là, intanto parla e sparla, scomodando la magia nera davanti
all'ennesimo fondato sospetto.
Credi
di essere l'unico pescatore che esce in una notte di luna piena e
prende più di quello che si aspettava?
L'autore
approfondisce i personaggi del racconto orale, dando loro una
personalità sfaccettata e il nome di battesimo. Il timido Donald,
oggetto di scherno a causa della salute cagionevole e della pelle
delicata, regge poco gli spintoni dei bulli e ancora meno l'alcol.
Attaccato alle gonne della madre Bridie, l'orgogliosa levatrice del
paese, tituba all'idea di mettersi a capo della ciurma dello zio
Hugh: non brilla infatti per spirito d'iniziativa e, da quando il
padre è scomparso in un nubifragio, diffida dall'acqua alta. Con una
moglie accanto, tuttavia, diventa un uomo nuovo. A dargli lezioni
d'umanità, letteralmente e metaforicamente, interviene la dolce
Mairhi: la selkie incinta si
strugge alla vista del mare, vorrebbe ma non può nuotare. Muta come
un pesce e dai modi tipicamente infantili, imita i versi delle
bestie, piace ai bambini del posto e, messa alle strette, può
trasformarsi perfino in una minaccia contro i violenti. Nonostante le
tragiche premesse iniziali, in poco tempo diventa la protagonista di
una tranquilla routine coniugale. Ma l'incanto può forse durare per
sempre? A ben vedere, infatti, non ha mai avuto facoltà di scelta.
Era
strano stare con lei. Gli altri gli davano addosso in continuazione,
con le parole, gli sguardi, i giudizi. Donald passava la vita a
difendersi, in attesa della tempesta successiva, senza mai capire
davvero cosa stesse succedendo. Non capiva neanche cosa pensasse lei,
ma Mairhi non gli chiedeva nulla. Eppure aveva bisogno di lui per
dare un senso a ciò che aveva intorno. Per la prima volta da quando
Donald aveva memoria, c'era qualcuno più sperduto di lui.
Sullo
sfondo di una realtà portuale in cui tutti sono imparentati con
tutti, in un villaggio che brilla per il suo straordinario senso
comunitario ma è minacciato altresì dalla crescente xenofobia, va
in scena un caso di coscienza molto vicino a quello descritto
nella Luce
sugli oceani.
Fatto di grandi atmosfere e piccoli personaggi, Pelle
di foca si
concentra sul realismo di una convivenza – tralasciando i risvolti
degli ultimi capitoli – assai meno magica del previsto. Per Donald
e Mairhi la quiete prima della tempesta dura un po' troppo. Quanto
sono moderni quei dialoghi, a proposito di casi di violenza domestica
e gravidanze a rischio? Quanto appaiono all'avanguardia le
protagoniste femminili, soprattutto all'ombra della provincia più
bigotta? Una storia che prometteva di portarmi lontano, a malincuore,
non salpa mai. Colpa della bonaccia di una scrittura standard, che
punta tutto sulle interazioni verbali e poco sulle descrizioni
dettagliate di paesaggi o attanti. Colpa, ancora, di un coro di
compaesani pronti a redimersi come nella tradizione dei migliori
apologhi: tanto accomodanti da invogliarti a restare sulla
terraferma. Si incappa, così facendo, in una limpida storia
d'affetti e scelte che non avrebbe avuto bisogno di parole superflue.
Ma si perde, purtroppo, qualsiasi promessa d'avventura. C'è sempre
una certa nostalgia quando si alza la marea. C'è una nostalgia
profonda anche qui: la rilettura di una leggenda indimenticabile che
intrattiene anche nel formato del romanzo, nonostante la
appesantiscano le ancore delle lungaggini superflue; quello che la
narrativa a volte dona, altre sottrae, tanto quanto la marea.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Max Gazzé – La leggenda di Cristalda e
Pizzomunno
Ci
sono ritorni che aspettavi senza saperlo. È successo con Il
nostro giorno: all'apparenza
seguito fuori tempo massimo del romanzo di David Levithan, letto e
adorato negli anni del liceo, ha temporeggiato sei anni prima di riprendere le
redini del capitolo precedente – nel mentre ci sono stati un
capitolo intermedio raccontato dal punto di vista della
coprotagonista, purtroppo mai letto, e l'omonimo film di Michael
Sucsy, sottovalutato dagli spettatori ma comunque ottimo per
rinfrescarsi la memoria. Ho salutato i protagonisti a diciannove
anni, così, ma allo stesso tempo, al cinema, l'ho fatto giusto la
scorsa estate. Ora come allora quel finale dolce-amaro, sospeso nei
forse, mi era sembrato perfetto: non sono per le precisazioni a ogni
costo – mi piace il mistero dell'inspiegato –, né per il lieto
fine delle fiabe. L'idea di saperne di più, onestamente, attraeva e
spaventava. E se, giovanissimo ai tempi, mi fossi lasciato andare a
un entusiasmo ingiustificato con la lettura di Ogni giorno?
E se l'autore avesse rovinato tutto, rivangando la storia d'amore fra
A e Rhiannon per un pubblico ormai fuori target? Il sospetto mi ha
fatto compagnia, e mi ha fatto preoccupare, per le prime pagine.
Seguito diretto del predecessore, Il nostro giorno è
infatti ambientato a poche settimane di distanza dagli avvenimenti
del capitolo introduttivo. Ricordiamo a grandi linee la peculiarità
della trama: nel momento del risveglio l'anima di A viaggia da un
corpo all'altro. A volte maschio, a volte femmina, vive la
maledizione di cambiare ogni giorno pelle ma il privilegio, d'altro
canto, di vestire i panni di qualcun altro. Straordinario portavoce
di empatia e tolleranza, finiva per violare le regole innamorandosi
di Rhiannon: sedicenne di aperte vedute che ogni giorno, qualsiasi
fosse il suo aspetto, ne ricambiava i sentimenti.
Ci
viene detto che le parole più potenti del mondo sono “ti amo”. E
anche se penso che siano potenti, penso che questa frase lo sia
altrettanto: “Ho iniziato a conoscerti, e voglio conoscerti di
più”.
Per
il bene di entrambi, non poteva durare. Ma, come leggiamo, si sono
accorti presto di non saper fare a meno l'uno dell'altra. Anche se
nel frattempo lei si è fidanzata con Alexander, il ragazzo perfetto,
e ha un piede in due scarpe. Anche se lui, fedelissimo, è vittima di
una violenta crisi di identità. Non ci vorrà molto per scambiarsi
messaggi e canzoni in chat. Per ricascarci, lasciandosi dietro tracce
inequivocabili per il piacere perverso di X: alter-ego del
protagonista, è un villain in piena regola – infesta i corpi degli ospiti come farebbe una presenza demoniaca, uccide, minaccia – ma,
a differenza dei cattivi da fumetto, a muoverlo sono più i dolori di
un'esistenza in solitaria che i piani criminali. Ai lati opposti di
una simile barricata, A e la sua metà oscura devono decidere da che
parte stare; accanto a chi svegliarsi. Deve essere per forza un
viaggio solitario, il loro? Cos'è giusto per i corpi invasi, e cosa
per quelle anime erranti? Il nostro giorno
è un romanzo maturo. Da un lato, il faccia a faccia fra i
Viaggiatori porta alla luce questioni etiche e dilemmi morali, con
congetture che oscillano fra filosofia, scienza e fede; dall'altro,
invece, la strana relazione a distanza con Rhiannon, a ben vedere,
non è tutta rose e fiori. L'adolescente è chiamata ancora una volta
a giostrarsi fra amicizie e futuro, macinare chilometri in macchina,
mentire. Provata dagli abbandoni e dagli andirivieni, appare più disincantata, rischiando di arrivare già
stanca a incontri goduti quindi a metà. Mancarsi, però, è meglio che
deludersi?
Ciò
che c'è tra noi, be', di sicuro non è una cosa normale. Ma il
punto, quando si ama qualcuno, è che sei tu a scrivere la tua
versione della normalità. Ed è esattamente questo che faremo. […]
Noi saremo onesti e condivideremo le nostre vite. Faremo dei casini e
ci daremo una mano a vicenda per risolverli. Faremo degli errori,
soprattutto a proposito dei nostri sentimenti. Però ci saremo, nei
giorni belli e in quelli brutti. Perché io non voglio che tu sia
qualcuno con cui esco, A, o che tu faccia dentro e fuori dalla mia
vita: voglio che tu sia la mia costante.
Compendio
d'azione e introspezione, con l'aggiunta vincente di piccoli inserti
thriller, il ritorno in libreria di David Levithan conferma la sua
bravura al di sopra della media in materia di Young Adult. Questa
volta ha scelto una struttura polifonica di punti di vista speculari,
regalandoci passaggi che appaiono veri gioielli di scrittura creativa
– il soggiorno di A nel corpo di un ragazzo iperattivo, scosso da
un terremoto di input chimici, o la storia parallela di due
adolescenti dai sentimenti incerti a un convegno di letteratura queer
–, dolcissimi appuntamenti galanti – su una panchina innevata a
Central Park dove sarebbe bello invecchiare insieme, davanti ai capolavori
impressionisti al Met, durante una marcia per l'uguaglianza a Washington DC –, spiragli di un mondo ben più
popoloso del previsto – a sorpresa scopriamo che ci sono altri
nella condizione di A, e si confessano nei forum anonimi, e lanciano
preoccupanti segnali d'aiuto.
Mi
sono tenuta stretta le mie storie capendo che ciascuno di noi ne
contiene una moltitudine e che nessuna racconta esattamente la
stessa cosa. Ciascuno di noi ha dentro di sé almeno una storia che a
raccontarla ci spezza il cuore. Ciascuno ha almeno una storia in cui
siamo sorpresi della nostra stessa forza d'animo e una storia che non
si è mai avverata e che più di tutte avremmo voluto poter
raccontare. Spesso non è colpa nostra se questa storia non è mai
diventata vera; spesso siamo rimasti bloccati nell'attesa che le
storie di altri combaciassero con le nostre.
Delicato
e moderno, educativo senza mai salire in cattedra con inutili pretese
di verità, Il nostro giorno per
fortuna non dice
troppo né si snatura. Diverso ma uguale, attento alle questioni di
genere con l'intelligenza di sempre, nell'era della presidenza Trump
torna a riflettere su sesso e identità, armonia e compartecipazione,
attraverso un'ordinaria relazione fra ragazzi straordinari. A e Rhiannon
hanno una nuova lezione da imparare, nuove parole per definire un
sentimento che travalica i confini di amore e amicizia. Il cuore,
infatti, è un organo capiente. Possiamo amare a lungo e di più,
senza vincoli, a patto di non sacrificare noi stessi: non siamo fatti in fondo per consacrare la nostra vita a una sola persona, a una sola
battaglia. Il sopraggiungere della mezzanotte vanificherà tutti gli
sforzi? Il carpe diem secondo David Levithan passa allora da qui: un romanzo
puntuale nel suo essere in ritardo, che a colpi d'arte risarcisce
gli orfani inconsolabili di Sense8
– siamo tele astratte di Rothko, non forme predefinite – e, nel
mese del pride, a testa alta, marcia con l'arcobaleno di tutti i suoi
colori.
Sono
una famiglia afroamericana di quelle fortunate. Abbastanza in alto
per permettersi una vacanza sull'oceano o tollerare con leggerezza le battute sarcastiche di una coppia di amici bianchi,
una sera ricevono una visita: la loro casa viene presa
d'assalto da misteriosi invasori. Sono quattro, come loro. E hanno le
loro identiche facce. Dopo il successo di Get Out,
Jordan Peele ritorna al cinema horror e a sembrarmi tremendamente
sopravvalutato. Dotato di uno spunto brillante ma di uno svolgimento
tutt'altro che originale, Noi ha
un impatto minore del film precedente: l'assunto di base, infatti,
viene sperperato in due lunghe ore e nella confusione di risvolti mai spiegati. I doppi dei protagonisti sono
le loro ombre infernali, o le loro controparti sfortunate? Siamo
americani, dicono. Vogliono gli
stessi diritti e gli stessi doveri. Reclamano sogni, pretese e ore
d'aria. In questa Invasione degli Ultracorpi al
tempo di Trump, sfugge il punto della situazione. Bastian contrario
benché appartenga alla schiera dei privilegiati, Peele fa antipatia: arraffone e ammiccante, attacca i soliti
conservatori con una verve che, al secondo giro, rischia di annoiare.
Per fortuna c'è un epilogo meno didascalico, in cui si confondono
vittime e carnefici. Per fortuna c'è Lupita Nyong'o, scream
queenche piacerà anche
all'Academy. Ma, per godersi meglio l'alta tensione, consigliabile abbassare
le aspettative. (6)
Anno
fortunato per Shirley Jackson. Dopo il successo di The Haunting of Hill House, la
maestra spirituale di King è tornata sugli schermi. Anche se
ormai non è più tra noi da un po'. Anche se Abbiamo sempre vissuto nel castello,
letto lo scorso autunno, va per i sessant'anni. Passato in
sordina in patria, accolto tiepidamente dalla critica, il film tratto
dal suo romanzo di culto è, a dispetto delle scarse speranze, una
trasposizione esemplare dove perfino i difetti vengono dal
romanzo. La casa delle orfane Blackwood, interpretate dalle
convincenti Taissa Farmiga e Alexandra Daddario, è la copia di
quella immaginata: bella e decadente, sembra una novella
dimora Addams che non disdegna i colori pastello, la
raffinatezza del mobilio, la fantasia della carta da parati. Le
sorelle trascorrono lì, in una gabbia dorata, una routine
destabilizzante. Isolate dal mondo, fantasticano di trasferirsi sulla
luna. Ma la Daddario, tentata dal cugino Stan, minaccia di
mandare tutto a rotoli puntando all'Italia. Della
Jackson, la trasposizione si tiene stretta i ritmi
lenti, le situazione piuttosto trascinate e quel climax finale di
grande cattiveria, qui con un tocco di violenza aggiunta. Lo immaginavo a torto televisivo. Inscenato sullo
sfondo di una campagna lussureggiante, risulta essere invece una
parafrasi fedelissima dalla fotografia cristallina e con un guardaroba
che farà l'invidia delle spettatrici. We Have Always
Lived in the Castle è una fiaba
nera che anche in questa veste funziona a metà, non facendomi
cambiare idea su un romanzo sopravvalutato. Ma anche
l'occhio vuole la sua parte e qui, fra malie e stranezze, ha
il suo bel da vedere. (6,5)
Era
un uomo bello e un abile oratore. Era un serial-killer. Ted Bundy, negli anni, Settanta frequentava Giurisprudenza e si
difendeva da un'accusa inequivocabile: l'omicidio barbaro di oltre
diciotto donne. Le prove erano tutte contro di lui, ma la giustizia
americana rende tutto spettacolo. Interpretato da un Efron al di sopra
delle aspettative, con la giusta faccia da schiaffi e una
parlantina sorprendente, il caso Bundy rivive in un'arringa accurata
e un po' televisiva, convincente ma non sempre coinvolgente. Senza
mostrare sangue, più attento alla dimensione processuale che al
marciume, il documentarista Berlinger scongiura ogni tentazione
voyeuristica e mette in scena un gioco retorico per sospettare di
tutto e di tutti. Perfino di una verità universalmente accettata: la
colpevolezza dell'accusato, messa in dubbio da un carisma di star
navigata. La compagna Collins, che all'inizio lo segue come una groupie innamorata, si stanca presto della bugie
e di un triangolo amoroso che culmina in una farsesca proposta di
matrimonio. Il verdetto? La scelta di preferire gli aspetti pubblici
e privati potrebbe far storcere il naso agli amanti dell'horror, ma i
protagonisti – a torto giudicati troppo glamour per i ruoli –
mettono comunque i brividi nel faccia a faccia finale. La nausea vera, di terrore e ingiustizia, arriva durante i
titoli di coda. Con la sfilza delle donne martirizzate. Con la
consapevolezza che l'incubo, con tanto di fughe picaresche e schiaffi
morali alle forze dell'ordine, sia pura verità. (6,5)
Quali
sono i segni particolari di uno psicopatico in erba?
Una timidezza a confine con la sociopatia, il pallino per gli animali
investiti in strada, una famiglia poco convenzionale. Avevano
personalità agli antipodi ma, in quanto a spietatezza, Ted Bundy e
Jeffrey Dahmer rivaleggiavano: quest'ultimo, dagli anni Settanta in
poi, terrorizzò in particolare la comunità gay di Milwaukee. Alle origini, però,
era soltanto un adolescente in cerca di sé stesso. Si
estraniava di frequente ma sapeva dissimulare. Amico di tutti e di
nessuno, indossava i panni di buffone del liceo pur di far pace con
la propria testa e, soprattutto, con la propria sessualità. Ispirati
a una graphic novel, i dolori
di un giovane serial-killer sono raccontati anche stavolta con un
approccio poco convenzionale. Rinunciando allo splatter, My friend
Dahmer sperimenta toni diversi
fino a somigliare a un dramma adolescenziale alla Van Sant. Senza
sporcarsi, il magnetico Ross Lynch – un caso sia uscito anche lui
da Disney Channel? – si trascina torvo e ingobbito in una
dissacrante pagina di diario che ricerca con successo i primi passi
di un folle che non ha ancora sperimentato il sesso, né fatto i conti con le macchie di una coscienza sporca: la banalità del male.
(7)
Ne
hanno fatto prima un film per la TV, poi una miniserie in otto
puntate. A un appuntamento romantico, Mrs Maisel andava a vedere
perfino un musical ispirato alle sue gesta efferate. L'assassina
Lizzie Borden, simbolo di un femminismo estremo, non smette di
affascinare la settima arte. A nemmeno cinque anni di distanza dal
film con Christina Ricci, le vicende della donna – riassumiamola:
uccise padre e matrigna a colpi d'ascia, e fu scagionata per assenza
di prove – torna a farsi raccontare dal cinema indipendente,
attento alle questioni di genere e alla verosimiglianza dei fatti. La
Borden di Chloe Sevigny va a teatro da sola, rifiuta il matrimonio,
scontenta i genitori con una lingua sferzante e una relazione con
Kristen Stewart, domestica sul punto di rottura. Come una trionfale
Medea, nuda e insanguinata, la protagonista si aggiunge ai nemici del
padre – viscido e temutissimo – e giunge a soluzioni deleterie
per liberarsi dell'orribile famiglia. Cupo e lentissimo, Lizzie
è una tragedia teatrale di zii usurpatori e passioni clandestine
che, classe a parte, poco aggiunge tuttavia a un ritratto di donna
già approfondito in precedenza. L'acqua cheta logora i ponti. Ma
all'ennesimo rimaneggiamento, centoventi anni dopo il massacro, non
fa notizia. (5,5)
La
trama è quella di un thriller di Rai Due. Una
ragazza di buon cuore restituisce a una vedova la borsetta dimenticata in metropolitana. La prima non ha più una
madre, l'altra non ha più una figlia: l'amicizia intergenerazionale,
quando si fa ossessione, diventa stalking. Classico, più che vecchio
stile, Greta rilegge
un canovaccio di sicuro fascino. Non corre mai il rischio di
rinnovarlo, eppure sorprende per la freschezza di Neil Jordan: settant'anni e l'ultimo film,
Byzantium, risalente a ormai sette anni fa. L'autoreconosce bene le regole
del gioco, e lo stesso può dirsi del suo cast di attrici bravissime:
Chloe Grace Moretz, scream queen
per eccellenza delle nuove generazioni, e soprattutto Isabelle
Huppert, straniera dal fascino stregonesco. A metà tra Norman Bates
e Annie Wilkes, la sua cattiva è un cane rabbioso che non vuole
essere abbandonato. Manipolatrice e onnipresente, conosce
vini pregiati, suona il pianoforte e si apposta negli angoli. È in
ogni squillo, in ogni messaggio, in ogni ombra. A cosa spinge la
solitudine? Se tutto va esattamente come dovrebbe, due protagonisti in
forma smagliante sanno farsi comunque ricordare grazie a una perfetta
alchimia e qualche dettaglio raccapricciante. Greta
è in cerca di un'amica, o forse di un'altra vittima? Ha
borse identiche a quella perduta. Ha usato già quelle stesse parole,
letto da quello stesso copione. Non siamo speciali, no, e lei non si è
presa la briga di ordine un inganno su misura. L'esca è la solita, il canovaccio abusato. Ma, intanto, abbocchiamo. (7)
Christopher
Abbott, noto tanto la serie Catch 22 quanto per la somiglianza innegabile con il collega Kit Harrington, ha l'aria di un verginello alle prese con l'ansia della prima volta. Guardate quant'è impacciato mentre fa le prove, prende appunti,
coreografa nel dettaglio parole e movimenti. Nella sua camera
d'albergo aspetta l'arrivo di una prostituta e questa, puntualissima,
non si fa attendere: è Mia Wasikowska, irriconoscibile tutta impellicciata
e con un caschetto aggressivo. Lui è un sociopatico che vuole darsi
all'omicidio, lei una provocante autolesionista. Il piano sfugge di
mano. Quella che a una prima occhiata sembrerebbe una coppia di
disadattati da commedia indie si pone al centro di un rapporto
sfuggente e perverso, che giunge picchi di goduria indicibili quando
Nicolas Pesce – giovane regista da tenere d'occhio – inizia a
scherzare con lo split screen di
Brian De Palma o la colonna sonora di Dario Argento.Guilty pleasure di cinefili e feticisti, Piercing è
un gioco delle parti stilizzato e intriso di cose – sangue,
umorismo caustico, citazioni alte – che funziona, sì, ma
esclusivamente nella dimensione dell'omaggio. Per il resto, è troppo
strano e troppo aperto. Ha personaggi troppo esagerati e troppo
tagliati con l'accetta. Ipnotizza e diverte, stilosissimo dall'inizio
alla fine, ma lascia violenza in quantità, qualche ottima
interpretazione, cicatrici semipermanenti e un pugno di mosche. (6)
Quattro ingenui amici in sella a una bici: aspiranti Sherlock Holmes con alle spalle
famiglie in crisi, una cotta comune per la bella del quartiere e il
coprifuoco fisso. Un vicino di casa poliziotto, insospettabile ma non troppo.
Tutto è un gioco. Tutto ha una fine, anche l'estate del cuore.
Perché tutti i serial killer, in fondo, sono i dirimpettai di
qualcun altro. Partita a nascondino classica e sdoganatissima, Summer
of 84 fa leva su quell'effetto
nostalgia venuto francamente a noia da un po' e su misteri feroci ma
intuibili, che non conoscono nessun colpo di scena ma a sorpresa, nel
finale, minacciano di strappare brividi duraturi. Amaro e spietato,
sbucato non a caso dal preziosissimo circuito del Sundance, in realtà ha
poco a che spartire con il candore pop di Stranger Things.
I Perdenti di Stephen King, qui, conoscono la cattiveria: quella
umana, quella vera. La loro perdita dell'innocenza appassiona e
stordisce più delle rivelazioni mancate, più di un canovaccio che
con la scusa dell'omaggio poco s'inventa di sana pianta. E questa
estate di metà anni Ottanta, stagione per eccellenza di scottature,
ci brucerà per sempre. (7)
|Doppio vetro,
di Halldóra
Thoroddsen. Iperborea, € 15, pp. 128 |
Osservare
la vita in differita per non lasciarsi scalfire. A una certa età, sedersi
accanto a una finestra e aspettare. L'inevitabile va accolto
sferruzzando, facendo il conto di tutte le volte in cui il telefono
squilla per annunciare che un altro amico è passato a miglior vita. Ma qualcosa, qualcuno, a sorpresa
ha il potere di risvegliare il desiderio del mondo esterno. Come
ignorare la chiamata di una seconda opportunità? La protagonista,
sulla soglia degli ottant'anni, lavora a maglia, scribacchia i propri
pensieri, scruta: il divario generazionale, la prevedibilità di
storie destinate nel bene e nel male a ripetersi, il disinteresse di
quei nipoti ormai disaffezionati alle favole della buonanotte.
Pur considerandosi un residuo del secolo passato, a modo suo cerca di
stare al passo. Nella Parigi degli anni Cinquanta, d'altronde,
frequentava gli intellettuali alla moda e studiava matematica per
accontentare la famiglia intransigente, filosofia per diletto.
Il mondo è cambiato in fretta, e i telegiornali le
portano notizie dal mondo direttamente in soggiorno. Nei giorni
storti, infatti, perfino la caduta del governo o una manifestazione
studentesca risultano essere fiammelle sparute contro le giornate
buie dell'inverno nordico. Invecchiando, la vedova ha imparato ad
apprezzare gli uomini medi, un po' noiosi. Invecchiando, sono cambiate le priorità imminenti:
in caso ci si innamori, non si parlerà più di andare in vacanza bensì di case di riposo da mettere al vaglio.
La
passione richiede sacrificio. Sempre la stessa storia, eterni
sacrifici. Ma la vecchiaia non deve bruciare tra le fiamme, semmai
tenere vive le braci. Prendersene cura, badare alla continuità. “I
desideri non si avverano in un attimo pavido”, le sussurra una voce
dentro di lei. Vuole davvero rallentare la discesa, raffreddare il
fuoco per pura e semplice grettezza e starsene a casa con i suoi
doni?
Affezionata
alla propria autonomia, la protagonista biasimava i coetanei che
cercavano un partner a ogni costo. Ma in una caffetteria è saltato
fuori Sverrir, arzillo ma non troppo, con un'onorata carriera da chirurgo alle spalle e una famiglia negli Stati Uniti: fra loro
mancheranno il fuoco e lo struggimento, ma senza
etichette si godono comunque nella buona e nella cattiva sorte una convivenza
guardata di cattivo occhio dagli eredi. Che pensano maliziosamente al
sesso vissuto a fatica, ai risparmi sperperati e, invano, desidererebbero condurli sulla retta via. Agli occhi degli altri
questi innamorati della terza età non sono niente. Possono forse
viversela senza promesse solenni, con tanto di ex
sospettose fra le scatole? Quale nome si leggerà per
primo sui necrologi?
Il doppio vetro dell'ultimo successo Iperborea
ammortizza la pioggia, il sole e il vento. I suoni e i rumori
violenti. Le emozioni, mai. Dall'altra parte, tuttavia, qualcosa si
perde. Sommesso, essenziale, delicatissimo, il romanzo della
Thoroddsen incanta e lascia estranei quanto o più di Le nostre anime di notte: storia
d'amore e senilità, interrotta in fase di scrittura dalla scomparsa
dell'autore Kent Haruf. Al punto da risultare più vicino al racconto che al
romanzo; una vicenda irrisolta. Le padrone di casa restano per tutto il tempo
prive del nome di battesimo. Alcuni comprimari entrano ed escono disordinatamente: a
volte senza annunciarsi, altre senza congedarsi. La leggerezza impalpabile dello stile, insieme a coloriture politiche poco lampanti agli occhi dei lettori disinformati, piacciono a metà.
È
brutto non sentire se si è vivi.
Come
superare la paura di morire? Ci si rifugia prima in casa, poi
nell'illusione di un amore speciale perché tardivo. Infine, nei
vaneggiamenti della fantasia: la testa persa fra le nuvole, come
succede al soggetto della meravigliosa copertina illustrata. Romanzo
realistico e quotidiano, benché perdutamente proiettato nella dimensione
poetica del sogno per contrastare così l'avanzata dell'oblio, Doppio
vetro si legge in un pomeriggio dolce-amaro. E lascia di pari
passo fascino e confusione, davanti a una sensibilità, a un lirismo,
così diverso dai nostri. L'Islanda non è soltanto un punto sulla
carta geografica, ma tutto un mondo di nomi impronunciabili, scenari
mozzafiato e politici fanfaroni. È un altro mondo, lontano dal mio gusto, di raccontare e raccontarsi. A cuore aperto, a
porte chiuse.
Il
mio voto: ★★½
Il
mio consiglio musicale: Ornella Vanoni - Domani è un altro giorno
|Persone normali, di Sally Rooney. Einaudi, € 19,50, pp. 248 |
Marianne
e Connell seguono alla lettera il classico canovaccio delle storie
d'amore un po' travagliate. Benché si conoscano da tutta la vita,
andare ripetutamente a letto insieme all'ultimo anno di liceo non è
stato l'inizio di una relazione felice. Lei, secondogenita in una
famiglia di avvocati, si atteggia a misantropa e rifugge la
popolarità: più attenta a quello che succede fuori dalla finestra
che a lezione, freme di anticonformismo nella sua divisa troppo
stretta e non elemosina tenerezze. Lui, figlio di una mamma single
che a casa di Marianne fa la domestica, è la stella della squadra di
calcio, ha tutt'intorno amici adoranti, ma nel privato arrossisce per
un nonnulla. Agli antipodi della barricata – ricca contro povero,
emarginata contro popolare – vivono la loro frequentazione con un
misto di discrezione e vergogna. Si guardano alle spalle per
assicurarsi che nel circondario non ci siano occhi indiscreti. C'è
un'affinità innegabile, fisica e psicologica, ma purtroppo manca la
naturalezza. Nel buio di una stanza, aggrovigliati su un letto
singolo, non vedono la luce del sole. Come sarebbero in pubblico:
abbaglianti, o tuttalpiù abbagliati? Molto più che amici di letto,
si scambieranno un ti amo che seminerà resistenze e malumori. Al
ballo di beneficenza della scuola lui invita un'altra; all'esame di
maturità lei per poco non lo straccia; all'indomani dell'ammissione
al Trinity College, a ruoli inversi, lei si trasforma in una
carismatica capogruppo e lui in un signor nessuno. I famosi migliori
anni sono già passati? E l'occasione giusta?
Non
lo dico per dire, ti amo davvero. A lei tornano a riempirsi gli occhi
di lacrime e li chiude. Questo momento le sembrerà di un'intensità
insopportabile anche nei ricordi, ma ne è già consapevole fin da
ora, mentre sta accadendo. Non si è mai considerata degna di essere
amata da qualcuno. Adesso però ha una nuova vita, di cui questo è
il primo istante, e anche dopo tanti anni penserà ancora: Sì,
proprio così, quello è stato l'inizio della mia vita.
Facciamo
la loro conoscenza nella stagione dei nuovi inizi e delle scelte che
cambiano la vita; quattro anni dopo li salutiamo con dispiacere
immenso. Come in Un giorno, i
capitoli sono scene dal taglio cinematografico con giorni o perfino
mesi a dividerli: i dialoghi brillanti, riportati attraverso il
discorso diretto libero, riflettono l'imbarazzo degli incontri
improvvisi, le schermaglie, i rovesci di fortuna. I supermercati sono
troppo piccoli, i corridoi troppo stretti. Nessuna città, neppure
Dublino, è abbastanza grande; né il tempo lungo a sufficienza. Come
le coppie storiche delle nostre sitcom preferite, fanno sesso per
noia, per vendetta, per fare la pace. Finiscono inevitabilmente l'una
fra le braccia dell'altro, ma si ostacolano a suon di
incomunicabilità. Per mancanza di chiarezza, o forse di coraggio.
È
magra, pensa. Era così magra, prima? Lei preme la faccia contro la
sua ultima maglietta pulita. Indossa ancora il vestito bianco che
aveva nel pomeriggio, adesso con uno scialle ricamato d'oro. Lui la
stringe forte, e il suo corpo sposa quello di lei come quei materassi
che pare facciano bene alla salute.
Conoscono
a memoria i reciproci numeri di telefono. Ci sono, e sono tanto
sicuri da darlo per scontato, nel momento del bisogno. Ma
inconsapevolmente, vicendevolmente, si tarpano le ali: bocciano i
nuovi partner e mandano in malora le occasioni propizie. Maestri
degli arrovellamenti psicologici, su carta potevano ispirare grande
antipatia ma, a sorpresa, si sono lasciati apprezzare dall'inizio
alla fine fra riconoscenza e riconoscimento. Merito di uno stile
semplice e cerebrale, essenziale nella scrittura ma con un'attenzione
tipicamente artistica verso i gesti, i tic nervosi, le simmetrie.
Parlando, infatti, si tormentano i capelli, le mani o la bocca.
Eccoli, vivissimi e tremanti, mentre fumano e armeggiano con le
bustine del tè nel bollitore. Lei così masochista, legata a uomini
possessivi. Lui così fragile, frustrato per il mancato recupero
dello status liceale. Le azioni compiute sovrappensiero tradiscono le
loro insicurezze. E tu, lettore, potresti giurare di vederli davvero:
come fossero attori in carne e ossa, di quelli navigati, che
interagiscono con gli oggetti di scena simulando la routine e
aspettano il primo ciak del regista – non a caso, diretta da Lenny
Abrahmson e prodotta da Hulu, la serie TV omonima è già stata
annunciata.
È
incredibile come prendi delle decisioni perché ti piace qualcuno,
dice lui, e poi tutta la vita è diversa. Credo che la nostra sia
quella strana età in cui la vita può cambiare enormemente per delle
decisioni minime. Ma su di me tu nell'insieme hai avuto un'ottima
influenza, tipo che adesso sono decisamente una persona migliore,
credo. Grazie a te.
In
oltre duecento pagine i protagonisti cercano disperatamente
l'indipendenza economica ma, al contempo, bramano la dipendenza
affettiva. In balia di un sentimento che ora può schiavizzare, ora
affrancare, faranno l'amore e la guerra: se tutto va per il meglio,
anche pace con loro stessi. Al suo ritorno in libreria la ventottenne
Sally Rooney, letta adesso per la prima volta, si scopre all'altezza
di quel successo istantaneo che subito l'ha resa chiacchieratissima.
Talentuosa e straordinariamente onesta ha conquistato anche me, di
solito titubante davanti all'etichetta di romanzo generazionale. Ma
l'autrice irlandese, di soli tre anni più grande del sottoscritto,
sa raccontare alla perfezione la gioventù dell'Erasmus,
dell'Interrail, della friendzone, dello psicologo una volta a
settimana. Ci hanno reso ciechi le seghe, quelle mentali. Ci ha
fregati la nostalgia, sentimento del passato che intanto ruba viveri
al presente. Noi: la generazione di ma cosa penserà la gente, cosa
commenteranno i social. Nevrotici a vent'anni, desidereremmo la
normalità – qualsiasi cosa implichi – ma poi, riflettendoci,
non sapremmo bene che farcene.
2006. Un
cadavere da occultare, un incendio doloso, una donna scomparsa.
Partiamo in quarta. Partiamo con il migliore dei suoi film: quello
insuperato. Lo splendido Volver,
secondo soltanto a Tutto su mia madre
in quanto a premi, ha le fattezze di un gineceo ospitale e
coloratissimo. Irrinunciabile, nonostante il macabro delle tematiche
affrontate e il carattere spigoloso delle padrone di casa. Per una
volta tutt'altro che soffocante, la provincia madrilena è un porto
sicuro che invita Penelope Cruz e sua sorella a gettare le ancore. A
ripopolare le case infestate, grazie a tutta la vitalità di cui è
capace la morte e a tutta la fatalità, al contrario, annidata nella
vita. Se la prima fa i conti con l'assassinio del marito, l'altra
chiacchiera amabilmente con lo spettro della madre. Sotto forma di un fantasma
in incognito, la magica Carmen Maura lascia la tomba e aiuta i propri cari. In un paesello in cui sciogliere i nodi del passato confidando nella vaghezza del domani, si onorano i defunti e si disonorano le famiglie omertose. Ci
si prende cura non tanto dei morti, quanto dei vivi. Volver
ha in sé il dolce e l'amaro,
gli sposalizi perfetti, una scrittura felicissima dal gusto teatrale.
E un posto a sedere in un ristorante abusivo, che nella cella
frigorifera custodisce l'armonia e i cadaveri. Mi ha insegnato
che bisogna pensare alle stanze sfitte, non alle lapidi. Confidare
nella furbizia, dire di tanto in tanto qualche bugia a fin di bene, senza rinunciare però
al conforto del meraviglioso. (8,5)
2002. Più
che a una conversazione somiglia a un sussurro. Negli ospedali sono proibiti gli schiamazzi. In corsia, al
capezzale di donne sospese fra la vita e la morte, fanno conoscenza
due amanti respinti: il primo, compagno di una torera dalla vita
sentimentale messa al vaglio; il secondo, infermiere che ha fatto
della guarigione di una danzatrice in coma una questione privata. Signorile e discreto, Parla con lei si
concede le esibizioni di Pina Bausch e non il playback
delle drag queen. I colori, più tenui, sono quelli delle
cliniche private: addio alle carte da parati sfarzose, all'horror vacui degli arredi floreali.
Meno scalmanato, pur non tradendosi mai, questo delicato
esperimento è un'eccezione alla regola senza prosecutori. Peccato che un
sentimento a senso unico, nel silenzio generale, rischi di diventare
in fretta ossessione. I protagonisti rifuggono la solitudine e
imparano il dialogo. Le loro donne sono davvero gusci vuoti? A
riempirle intervengono passioni inquadrate fra passato e
presente; le coreografie del balletto e della mattanza; i risvolti
inattesi di una moderna tragedia, bella come un'opera lirica. Pedro
parla con loro, e con noi. Di un grande cinema che si concentra sulle
piccole cose. Di una bella addormentata e del suo goffo salvatore,
che sognano amplessi fantastici – in una sequenza cult un
lillipuziano passeggia sul corpo nudo della fidanzata fino alla porta
aperta delle gambe – e altre condivisioni. Della vita che torna in
circolo e, infine, germoglia all'improvviso. Qualcuno ci vedrà il
peccato, qualcuno poesia da parafrasare. Qualcun altro, confuso ma
felice, il miracolo. (8)
2004. Quando
un maestro del travestitismo si maschera per
scherzo da Ozon, non possono che nascere i thriller erotici
sapientemente orchestrati. Quelli che ammiccano con il cinema, con
l'aspect ratio, con la bellezza perturbante dei loro primi attori.
Anticipatore della svolta noir portata poi ai massimi livelli con La
pelle che abito, La mala educaciòn ha
colpi di scena a raffica, ambientazioni un po' sofisticate e un po'
pacchiane, una scrittura machiavellica come non mai. Bambola
russa di storie dentro storie, è un film nel film. Una vicenda
spacciata per vera, come suggeriscono i titoli di coda, in cui si parla dei misteri annidati nella
sessualità, nelle infanzie e nelle produzioni cinematografiche turbolente. Tutto
ha inizio con la perdita dell'innocenza ai tempi del collegio, con
l'attrazione per un piccolo compagno di scuola che suscita
immediatamente la gelosia di un sacerdote indegno della tonaca. Abbastanza per farne un racconto autobiografico materia di
ricatto? Abbastanza per trarne una versione cinematografica, ma con
un finale alternativo? La realtà supera l'immaginazione. E
quest'ultima, in caso di traumi o falle, per fortuna vi sopperisce. In un cast
maschile con attori en travesti per
ospiti fissi, abbonderanno le scene torbide – il sesso è
l'arma a doppio taglio per eccellenza, anche se la femme fatale
è un lui – e gli ammiccamenti del bellissimo Bernal, insieme ai magheggi
di un doppio regista e alla fantasia di un cinema in bilico fra genio e
soap. Fra arrendevolezza – lo spettatore, infatti, va trattato coi guanti bianchi – e maleducazione
irresistibile. (7,5)
1999. Successo
irripetibile di pubblico e critica, premiato prima a Cannes e poi agli Oscar, se ne parla come di un fenomeno. Ogni
giorno, sui social, almeno una pagina cinefila ne condividerà citazioni
o frame. Chi non si è mai imbattuto nella donna in trench che
indugia davanti al poster di Un
tram che si chiama Desiderio?
Chi, conoscitore o profano, non associa immediatamente il titolo
in questione al nome del regista? A vent'anni di distanza
dall'uscita, colpa di aspettative alle stelle, di Tutto
su mia madre mi
sono sfuggiti i meriti particolari. Suo film più rappresentativo – di un
abbagliante rosso kitsch, sullo sfondo di una Barcellona
LGBT –, non è fra i migliori. Ci sono una mamma
inconsolabile, una suorina dubbiosa, una migliore amica
transessuale e un'attrice affetta da mal d'amore. Non è una barzelletta,
bensì l'inizio di un'amicizia vera, anche se c'è un problema: tre
donne su quattro hanno avuto una relazione con il medesimo uomo, un
fuggitivo che a sorpresa ha cambiato sesso e anche città. Se Cecilia Roth piange il figlio morto, però, Penelope Cruz sta per metterne al mondo un
altro. C'è paura per l'Aids, e il rischio che il padre del nascituro
si faccia vivo. E in mezzo c'è tanto cinema, il migliore, con maratone
sul divano o pièce che ti tentano ad approfondire la Davis, la
Leigh, Williams. Ma non mancano le cadute di stile, le sbavature, in
una sceneggiatura che offre bellezza (il monologo di Agrado) e trash (la sorte della Cruz, il flashforward
dell'epilogo). Tanto di Almodóvar, ed ecco spiegata la canonizzazione ufficiale, non tutto. (7)
1997. Si
comincia alla lontana, in una Spagna sotto dittatura, e si arriva nel
pulp degli anni Novanta seguendo la giovinezza di un ragazzo
sfortunato: partorito su un autobus, finisce in prigione per colpa
dell'amore a senso unico verso la nostra Francesca Neri. Lui la
desidera, lei lo respinge e, fra i poliziotti intervenuti, c'è Javier Bardem. Lui sconta ingiustamente la pena, l'altra si lega al
salvatore per puro senso del dovere. La libertà del protagonista,
all'insegna della vendetta più dolce – il sesso –, unirà cinque
solitudini e condurrà a un epilogo da film western. Poligono sentimentale
lungo svariati anni, Carne
tremula è
un dramma del desiderio in cui tutti sono stati a letto con tutti ma,
titolo a parte, di erotismo ce n'è poco. Grezzo, cupo, senza
fronzoli o orpelli, è senz'altro invecchiato peggio di altre
produzioni. Ma si domandava poco, lo ammetto, a un titolo minore.
Sorprendentemente palpitante, in grado di ispirare simpatie e
antipatie grazie all'umanità dei personaggi, può contare su incipit
degno di nota fra le luminarie di Madrid e piccolissimi inciampi, lì dove
spuntano armi e sparatorie: materia con cui il regista è poco a suo agio, ma apprezziamo lo sforzo. Dieci anni dopo riproporrà
la stessa equazione di attrazioni, gelosie e ripicche con Gli
abbracci spezzati:
elegante e, purtroppo, gelido come nessuno. (7)
2009. Epopea
amorosa fra un regista e la sua diva, legata per interesse anche a un crudele industriale, Gli abbracci spezzati si muove fra
set, ville e grattacieli. Cambi d'abito, trucchi e parrucche. Di
estrema classe, ma estremamente manierato, regala forse le sequenze
più curate ma ha la sua debolezza nella prevedibilità di
situazioni e personaggi. Si avverte la mancanza di matrone generose e
schiette, qui offuscate dalle pose glamour di una Cruz, a onor del
vero, bella come la compianta Audrey Hepburn. Ci si strugge, ma soprattutto per la
latitanza della tipica autoironia che dà a questo thriller
sentimentale l'aria di un algido e magniloquente contenitore
hitchcockiano. È il film più americano di un regista, eppure, mai stato tentato dall'idea dell'espatrio. Il più lungo. Quello, in assoluto, dal titolo più bello. Lo avevo visto dieci anni fa, trovandolo un
gioiello. Ma a una seconda visione non mi ha colpito altrettanto: il
lavoro di fino di un Pedro diverso, un po' in ombra, che omaggia il
noir dell'epoca d'oro e, con il pilota automatico, scrive una storia
che gli appartiene ma non abbastanza. (6,5)
1989. Un
po' giallo all'italiana, un po' commedia sexy, cosa non è Légami?
Unica concessione fatta al Pedro delle origini, quello leggero e
scollacciato dei primi film di culto, il film – il cui titolo è
tutto un programma – racconta la convivenza morbosa fra una pornodiva e il suo stalker. Un giovane Banderas, pazzo di
Victoria Abril, minaccia di tenerla legata alla testiera del letto
fino a farla innamorare. Ogni dettaglio, dalla colonna sonora sopra
le righe di Ennio Morricone ai nudi integrali, dai curiosi personaggi
borderline a quello di un regista sporcaccione a un passo dal
pensionamento, mostrano un Pedro che, senza scadere mai nella
volgarità, diverte se stesso e noi con le prurigini e il tabù. Di sesso,
probabilmente, non ha mai parlato altrettanto. E di sesso si parla
dall'inizio alla fine, rinunciando senza grandi sensi di colpa alla consueta
coralità, con una scrittura brillante che fonde sindrome di
Stoccolma, sadomasochismo e romanticismo. Peccato per il finale, fin troppo rose e fiori. In una
camera da letto di vizzi e viziosi, infatti, la stranezza maggiore
resta una: quanto sono misteriose le strade battute di Cupido, spiritello
dispettoso e beffardo? Su Netflix ce lo ha confermato Bonding:
anche i dominatori sognano una fiaba d'amore. E nodi più forti.
(6,5)
1988. Ci
sono titoli che entrano nell'immaginario collettivo, talmente famosi da diventare modi di dire. Chi non
ha mai definito così, sull'orlo, una conoscente che sta
perdendo le staffe? Chi, più o meno consapevolmente, non pensa ogni volta agli eccessi di questa commedia d'interni? Nonostante sia ben lontano dall'opera d'esordio – lo precedono sette film, ma di quelli che ho poco desiderio di recuperare –, a Donne
sull'orlo di una crisi di nervi spetta
il primato di averlo lanciato a livello internazionale, mentre per la
consacrazione toccherà aspettare Tutto
su mia madre.
Ironico, penserete, che definisca due titoli tanto rappresentativi al
di sotto delle aspettative: ma tant'è. Caos metropolitano di letti
bruciati, telefoni rotti e vetri infranti, la commedia al femminile
racconta un'altra convivenza provvisoria. Carmen Maura, sedotta e
abbandonata, droga del gaspacho per servirlo al traditore. Ma in
casa, in un volare di oggetti buttati dal balcone e di ospiti
intossicati, irrompono un'amica con manie di persecuzione
e un'ex moglie di ritorno dal manicomio. Collaborazione istantanea, grottesca e verbosissima come piace a me,
le Donne
sull'orlo invecchiano
bene grazie a un fascino senza tempo che si rifà al cinema degli
anni Settanta e a una scrittura di levatura drammaturgica. Ma strepiti e folleggiamenti
sono belli quando durano poco, e se fra un urlo e l'altro si infilano
magari le riflessioni di Carnageo
Perfetti sconosciuti.
Altrimenti il mal di testa è servito, soprattutto ai danni di un
taciturno come il sottoscritto, e questo gaspacho della discordia non lo si
digerisce senza Alka-Seltzer. (6)
A
cosa può spingere la noia? Siamo a San Rodi, un paese immaginario in
cui la perversione è di casa. Gli anni Ottanta impazzano, ma il
loro eco è debole. Nonostante si scorrazzi in bicicletta come in
Stranger Things, in cerca di
boschi e misteri, in
Italia l'ombra del fascismo è ancora visibile. Dei cimeli di quegli
anni, da noi piuttosto lontani dalle mode d'oltreoceano, sono approdate soltanto le videocassette e i fumetti fantascientifici. Ma laggiù i veri mostri siamo noi. Traviati
dall'immobilismo e dalla calura, i quindicenni fanno
gruppo e giocano a fingersi onnipotenti. Braccano e seviziano
animali, si proclamano Cacciatori. Ci sono Arcangelo e Tommaso, il
primo in sovrappeso e l'altro segretamente omosessuale, mentre strada
facendo si è aggiunto allo squadrone Piero B, troppo piacente per essere un reietto
ma indebolito da un infortunio calcistico. Hanno famiglie sciagurate, case pericolanti,
scheletri nell'armadio, e il loro leader conosce i loro dolori come
le proprie tasche: il carismatico Fermo, che pronuncia proclami
magniloquenti nello stile di Mussolini, fa leva
sulle fragilità degli amici. Fino al punto di rottura. Quanto tempo è
richiesto per passare a prede più
ghiotte?
Ogni
giorno, dopo la scuola e prima che calasse la notte, impugnavano le
loro maestose biciclette e si allontanavano dal pietroso centro
cittadino, alla ricerca di avventure. Avevano visto troppi film, e
volevano comportarsi da eroi. Speravano di trovare qualcosa nei
boschi che li circondavano, sognavano di imbattersi in qualche
animale raro o in qualche artefatto dimenticato. Questi quattro
quindicenni emarginati erano Arcangelo, Piero B, Tommaso e Ferro.
Si
va a caccia di esseri umani, così, ma Fermo non lascia niente di
intentato. La vittima designata dovrà cadere spontaneamente nella
sua rete. Purtroppo o per fortuna il povero Mollusco – che di
verghiano ha sia soprannome sia il destino da vinto – si lascia
circuire in fretta. Vessato a scuola, maltrattato in famiglia,
avrebbe bisogno di buoni amici. Anche se gli tocca passare attraverso
disgustosi riti d'iniziazione. Anche se, sin dall'inizio, è
spacciato. Piccole
anime folli è
un esordio che attraeva per toni e atmosfere. Un romanzo
di formazione estremo e disperato che riportava alla mente il primo Ammaniti. Sfogliandolo ho subito pensato che in compagnia del bravo Mirko Rauso, già sceneggiatore, avrei trovato pane per i miei denti. Se possibile, andando avanti, l'impressione si
è acuita. Piccole
anime folli spiazza.
Inizia in un modo, finisce in un altro. È un macello, in quanto caotico e sanguinosissimo. Insensato, come d'altra parte dev'essere la violenza in tenera età. Questo perverso gioco di ruolo viene mandato a monte dall'arrivo di una ragazza dai capelli
fiammeggianti, Venusia, il cui ingresso fatale cambia alleanze e
obiettivi. Aggiungete al disegno un improbabile poliziotto dal
cuore malandato, che di cognome si chiama Donovan, e una
professoressa con un corpo da commedia sexy e il pallino del satanismo; una scia di omicidi coreografici, che
portano la firma di un novello Jack Lo Squartatore dal cappello a
cilindro, e una guerra intestina fra maschi e femmine se ai Cacciatori vengono a contrapporsi all'improvviso le Streghe.
Non
dobbiamo guardare Manson, dobbiamo guardare Gesù. La perfezione, il
miracolo. Io sono l'agnello di Dio, il re dei Cacciatori solitari, il
Distruttore silenzioso. Sono stato scelto, e voglio portare a termine
ciò per cui sono stato messo al mondo. Cacciatori, è giunto il
tempo di ultimare la Caccia finale, la Caccia suprema.
In
quel di San Rodi il più pulito ha la rogna. La malvagità, come la
peste nera, è un contagio; una realtà basata su leggi medievali. Ironico e
amante del cinema di serie B, Rauso non va preso sul serio. Si dà
alla pazza gioia nel finale, e i lettori più impressionabili
potrebbero essere infastiditi da un autore che ciabatta nel torbido o dall'introduzione di loschi figuri vestiti come inMad Max. A questo punto mi prendo il permesso di fargli un po' le pulci, perché in fondo mi ha divertito da morire. Intrattenitore nato, lo scrittore
ventisettenne ha il difetto di raccontare più che mostrare. A
volte enfatizza poco, altre lo fa concentrandosi sui dettagli
secondari. La colpa potrebbe essere di un narratore al di
sopra di tutto e tutti, che funziona alla perfezione per gestire la
coralità corrotta degli abitanti, meno per la messa a punto della suspance o
di dialoghi verisimili. In sella a una bicicletta a cui
soltanto di recente ha tolto le rotelle, rinunciando agli equilibri
dell'ordinario per raccontare invece l'azzardo, l'autore rischia
frequentemente di scivolare e di lasciare a cuocere troppa carne al
fuoco. Più lungo e complesso del
previsto, però, Piccole
anime folli piace comunque perché ha il coraggio e la consapevolezza dei propri errori. Una
compravendita dell'innocenza che perde la bussola – negli
ultimi capitoli sconfina nel granguignolesco di Gianluca Morozzi –, mai il filo.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Anastasio – La fine del mondo
Rimasto
senza successori, Feud raccontava un testa a testa fra dive.
Cosa si nascondeva sul set di Che fine ha fatto Baby Jane?
Passato stranamente sotto silenzio, è arrivato infine quest'altro
biopic a puntate su un'altra coppia del cinema. Il tema: non il noir
bensì il musical, non l'acrimonia bensì l'amore. Quello che dura
fino all'ultimo respiro. Quello che sopravvive a un divorzio,
infiniti tradimenti, stelle eclissate. Dietro l'apprezzamento
parziale della miniserie Fox – realizzata magnificamente,
coinvolgente non sempre –, c'è il mio grado di impreparazione. Di
Bob Fosse, regista e coreografo osannato dagli Oscar a Cannes, non ho
visto niente, ma l'estate mi rende ben propenso ai recuperi da
rigattiere. Quali erano i retroscena dei suoi capolavori? Non
conoscendoli, mi sono appassionato in minima parte ai travagli
produttivi e ai cambi di rotta, ridestandomi grazie all'energia degli
inserti danzerecci e alla bravura di interpreti in stato di grazia.
Lui, un camaleontico Sam Rockwell, ha problemi con il sesso, con il
fumo, con un cuore malandato. Vittima di amanti a fiotti e del gene
del tradimento, vive la celebrità come dono e dannazione. Ne va
della sua salute, fisica e mentale. Ne va della relazione con una
Michelle Williams da Emmy, terza moglie che tale non rimase. Paziente
e affranta, la donna scende a compromessi e tenta spesso di
allontanarsi dall'ombra del collaboratore. Ma come rinunciare al
desiderio di portare in scena Chicago? Fra liti e
riappacificazioni, Bob e Gwen scoppiano come coppia ma
professionalmente resistono a dispetto dell'età, dei nuovi partner,
dei dissapori. Se la stima è una forma d'amore, non smetteranno
allora di amarsi fino alla morte di lui: stroncato a sessant'anni da
un infarto. Ricostruzione degna di meraviglia delle scene cult e
dello spirito di quei decenni ruggenti, Fosse/Verdon ha
fatto la gioia di costumisti e direttori dei casting, che questa
volta hanno inseguito con la lente d'ingrandimento somiglianze
fisiche ed eccellenze. I personaggi, genitori distratti e incostanti,
sono profondamente onesti ma difficili da difendere; nelle otto
puntate complessive, se ne individua al solito qualcuna di troppo, ma
da metà in poi l'alta classe è garantita. Bisognerebbe avere una
conoscenza preliminare del cinema di Fosse, però, e resistere ai
ritmi lenti degli inizi. Pazientare tanto per la genialità del
montaggio quanto per i guizzi della messa in scena – siparietti in
bianco e nero da stand up comedy,
tentati suicidi come in Rocketman
–, o per godere della prova di una Williams nel miglior ruolo della sua carriera. Le vite del duo, canterebbe Liza, sono state un cabaret.
Malinconiche e sopra le righe, non potevano essere raccontate
altrimenti. Il resto, difetti compresi, è jazz. (7)
Ho
aspettato il suo ritorno per anni. Erano bastati sei episodi
per trasformarla, ai tempi, in un metro di paragone. E per dirmi
innamorato di Phoebe Waller-Bridge, talento comico che infrangeva
cuori con una scrittura di cui tutti, presto, si sarebbero accorti.
Anche sceneggiatrice di Killing Eve,
chiamata in soccorso fra una cosa e l'altra sul set del James Bond di
prossima uscita, Phoebe approda su Amazon con il suo personaggio
portafortuna e ha venti minuti alla volta per congedarsi. Come
eguagliare la bellezza della cena dell'episodio introduttivo, in cui
si consumano il dramma di un aborto spontaneo e i convenevoli per un
matrimonio da organizzare? Come trovare un'altra spalla che somigli
al fascinoso Andrew Scott? Mentre il padre convola a nozze con Olivia
Colman e sua sorella ha una crisi di nervi per un brutto
taglio di capelli, nelle giornate della protagonista si avvicendano
ospiti d'eccezione – Fiona Shaw, Kristin Scott Thomas – e un
misto di emozioni contraddittorie, se i bilanci riportano in mente
una mamma e una migliore amica finite al cimitero. Tutto è
disastroso. Tutto è oro. Perfino la sua cotta, quindi, non potrà
che essere assurda: in crisi d'astinenza, la donna finisce nel
confessionale di Scott. Un sacerdote adorabile e sboccato, che legge gli attimi di isolamento nei quali la protagonista si
estrania, guarda lo spettatore, fa smorfie in camera. La eccita il
brivido del proibito, o forse quello sconosciuto del conforto?
Bisessuale e blasfema, la figlia illegittima di Gervais si
chiude in preghiera. Non ci sarà lieto fine, non calerà una
morale dall'alto. Ma il discorso sulla crudeltà dell'amore o uno
struggente monologo in lacrime risulteranno abbastanza miracolosi da
farci credere nel Padreterno e nel fatto che una trentatreenne
londinese sia la regina attuale della risata amara. Sotto la pensilina degli
autobus, con altre delusioni aggiunte alla collezione precedente,
Phoebe Waller-Bridge scuote la testa. Ci dice di non seguirla. Deve
andare per la propria strada. Purtroppo non porta a una terza
stagione – Fleabag
sceglie di fermarsi qui, di leccarsi le ferite in privato – ma
magari somiglierà, finalmente, alla felicità. (8)
Partito come classica spy story, Killing Evesi
era tradito in fretta. Per fortuna, aggiungerei. Nella partita a
guardia e ladri fra Sandra Oh e Jodie Comer, la prima sbirra e
l'altra sicario senza scrupoli, non c'era niente di annunciato in
partenza. E, soprattutto, niente di serioso. Ci si accoltella,
infatti, si commettono nefandezze e torti impensabili, ma mantenendo
sempre il sangue freddo. Nemiche a amiche, amanti forse un giorno non
lontano, le due donne agli estremi della barricata si sono studiate a
lungo e cercate dappertutto. Quando si sono trovate, durante lo
scorso finale di stagione, hanno affilato i coltelli. Sono finite a
letto, in un abbraccio insanguinato. Ma come reagire se la tua
ossessione amorosa risponde alle tue attenzioni accoltellandoti a
Parigi? La vendetta, piatto da servire freddo, placa i bollenti
spiriti grazie alla distrazione di un terzo incomodo: un nemico
comune da sconfiggere, spiazzando tutti e collaborando. A mali
estremi rispondono estremi rimedi. Un po' Hannibal e Clarice, un po'
Bonnie e Clyde, la coppia meglio assortita del piccolo schermo punta
all'Italia. Roma, quest'anno, ospita la villeggiatura di Aaron Peel:
sociopatico ferrato in traffici di dati privati, che tanto i Dodici
quanto l'MI6 vorrebbero fermare. Disposti a venirsi incontro
sottobanco, i buoni e i cattivi sguinzagliano le sexy Oh e Comer –
quest'ultima, a giusta ragione, ruba Bafta e attenzioni a colpi di
carisma. L'attrazione fra loro è fisica, cerebrale, o entrambe le
cose? In un violento ed esilarante soggiorno italiano, con tanto di
vezzosa colonna sonora nostrana e stilosi cambi d'abito,
Killing Eve si conferma un
piacere perverso. La serie da vedere. Esagera, ma con la solita intelligenza dietro cui si
scorge lo zampino di Phoebe Waller-Bridge. Ti rende
dipendente, ancor più che in passato, grazie a una Villanelle che spadroneggia incontrastata. Troppo sognare che queste due brutte
ceffe scappino e delinquano fino a noi, cuore a cuore? (7,5)