venerdì 21 aprile 2023

Recensione: Un giorno di festa, di Joyce Maynard

| Un giorno di festa, di Joyce Maynard. NN Editore, € 19, pp. 240 |

Lei, Adele, è una mamma single che ha chiuso con il mondo: improvvisamente sembra essere diventato troppo per lei. Ex ballerina, ha riposto le scarpette e il cuore in un cassetto a seguito di un divorzio dolorosissimo. Chiusa in una casa ai margini della provincia, accumula provviste per limitare gli andirivieni al supermercato e si lecca amaramente le ferite in compagnia di Henry, l'unico figlio. Lui, Frank, è un galeotto braccato dalla tragedia: sull'uomo, reduce di guerra evaso dopo diciotto anni di carcere, pendono una taglia di diecimila dollari e l'accusa di omicidio colposo. In fuga dalla polizia, si rintana a casa dei protagonisti. Li prende in ostaggio, o forse, presso di loro, trova semplicemente e finalmente rifugio. In un film di un decennio fa – trasposizione cinematografica felicissima – i due erano interpretati dagli splendidi Kate Winslet e Josh Brolin. Dalla loro convivenza forzata nascerà una struggente storia d'amore lunga sei giorni appena.

Ovunque tu scelga di vivere, c'è sempre un'altra casa, un'altra persona che ti chiama. Vieni da me. Torna qui.

A raccontarla è Henry, tredicenne precoce e in piena tempesta ormonale, abituato sin dall'infanzia a osservare senza pregiudizi i punti di rottura degli adulti. Rievocata da un altro narratore, probabilmente, questa stessa storia si sarebbe prestata alla doppiezza; alla morbosità. Adele è vittima della sindrome di Stoccolma? Frank è il suo carceriere? Henry, che durante la notte sente spesso la testiera del letto picchiare contro il muro della camera matrimoniale, è il testimone di un abuso? Prevalgono le ragioni del cuore, non quelle della ragione; una scrittura delicata, eppure tesissima insieme, in grado di creare un erotismo avvolgente e un'atmosfera sospesa nella sonnacchiosa canicola estiva. L'arrivo del galeotto è vissuto dall'adolescente con un misto di spavento ed eccitazione. Come il resto dei suoi coetanei, pensa al sesso in continuazione e vede il suo corpo cambiare. Presto cambia qualcosa anche in quella madre che a volte beve un po' troppo e, spenta, è abituata ad avere Henry come unico confidente. Lo sviluppo della sessualità del ragazzino è parallelo al risveglio sessuale della madre. Frank è un uomo con spalle larghe e mani grandi. Frank cambia le lampadine guaste, prepara la moka al mattino, cucina un ottimo chili. Frank, con gesti lenti e morbidissimi, è capace tanto di legare i polsi degli ostaggi con foulard di seta quanto di mulinare in aria una mazza da baseball.

Mia madre e Frank erano come due naufraghi su un'isola tanto sperduta che nessuno li avrebbe mai trovati, ciascuno con nient'altro a cui aggrapparsi eccetto la pelle dell'altro, il corpo dell'altro. O forse non era nemmeno un'isola, solo una scialuppa di salvataggio in mezzo all'oceano, anche quella in procinto di sfaldarsi.

È troppo tardi per essere una famiglia? Soprattutto, si è troppo mal assortiti per immaginare un futuro insieme – magari oltre il confine? In certi weekend festivi, in certi romanzi, sembra tutto possibile. Anche vincere l'inevitabile gelosia che si avverte quando un genitore s'innamora e, per un attimo, si ha la sensazione di essere lasciati indietro. Mosso da una spasimata voglia di contatto umano, Un giorno di festa è un gioiello di tensione emotiva imprevedibile fino all'ultimo, così com'è imprevedibile l'animo adolescente. Joyce Maynard, annullatasi per magia dietro il punto di vista maschile, ci invita a camminare in punta di piedi, a trattenere il respiro, a far piano: potremmo disturbare il filosofeggiare di Frank, che attraverso i segreti per una perfetta pasta frolla sembra raccontare quelli della felicità, o spezzare il fragile incanto di questo melodramma degno di I ponti di Madison County, non pensato per la voracità di occhi indiscreti.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Joni Mitchell – A Case of You

venerdì 14 aprile 2023

Recensione: Daisy Jones and The Six, di Taylor Jenkins Reid

| Daisy Jones & The Six, di Taylor Jenkins Reid. Sperling & Kupfer, € 16,90, pp. 352 |

È la band sulla bocca di tutti. Passata dalle biografie di carta e inchiostro al menu delle novità di Amazon Prime Video, appassiona e fidelizza generazioni lontane. Impossibile che le ragazze non traggano ispirazione da Daisy: bellissima, volitiva e appassionata, sfoggia una voce roca alla Janis Joplin e cerchi dorati alle orecchie subito iconici; peccato che i suoi pessimi vizi, tra alcol e amfetamine, la rendano imprevedibile. Impossibile che i ragazzi non confidino di intraprendere la stessa scalata sociale di Billy Dunne: venuto dalla monotona Pennsylvania con l'amata compagna Camila al seguito, si infiamma quando canta la vergogna delle dipendenza e le gioie della recente paternità. All'apparenza inconciliabili, Daisy e Billy (insieme agli altri cinque membri della band di lui) sono stati accoppiati per una trovata di marketing come tante. Ma una collaborazione occasionale li ha resi presto squadra, all'indomani dello straordinario successo radiofonico del loro primo feauting. In quell'occasione hanno condiviso lo stesso microfono e, pare, occhiate infraintendibili. Correvano gli anni Settanta. Ci voleva poco a diventare icone; meno ancora meteore. Che fine hanno fatto ora Daisy Jones e i Six, scomparsi poco dopo il successo? Hanno minato al loro equilibrio i complessi di inferiorità degli altri musicisti, confinati nell'ombra da un leader tanto carismatico quanto prepotente? È stata colpa di Karen, la tastierista, che in nome degli ideali femministi rinunciò all'amore? O la passione platonica tra Daisy e Billy, fiutata dalla moglie di quest'ultimo, avrebbe infine portato le due primedonne allo scontro?

Essere la musa di qualcuno non mi interessava. Io non sono una musa. Io sono quel qualcuno. Fine della storia.

Investiga Taylor Jenkins Reid, già fortunatissima autrice dei Sette mariti di Evelyn Hugo. Dopo averci svelato i segreti della Golden Age hollywoodiana attraverso le relazioni di un'intramontabile diva del muto, questa volta passa dal cinema ai concerti rock; dagli anni Venti all'era di Woodstock. Ah, sì: Daisy e gli altri, al pari di Evelyn, sono personaggi di finzione. Falsa biografia, raccontata sotto forma di interviste ai membri della band, il romanzo rinuncia a una narrazione classica: ne guadagna in credibilità, ma ne perde in ritmo. È una canzone senza il groove. Un ritornello che inizialmente cattura, poi annoia. La colpa è principalmente del taglio narrativo, a lungo andare stancante, e della caratterizzazione stereotipata di luoghi e personaggi. L'autrice mette in un frullatore tutti gli aneddoti e le sciagure delle star amatissime, i costumi e le scenografie occhieggiate su Pinterest; immagina per le sua band perfino un repertorio (leggere le canzoni, forse, è la parte più sorprendente). Ma il tutto, laccatissimo, ha una patina di finzione che non convince. Manca il sesso; di droga ce n'è quanto basta; il rock 'n roll, ingentilito, farà storcere il naso agli appassionati. Venuta meno le credibilità, lo si finisce di leggere soltanto per la curiosità salottiera con cui si seguono alcuni servizi di Verissimo alla TV. E il perché dello scioglimento dell'iconica band, francamente, non è poi questo gran mistero. Domandatelo ai Beatles.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Daisy Jones & The Six - Aurora