venerdì 6 settembre 2024

Recensione: E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu

| E i figli dopo di loro, di Nicolas Mathieu. € 12, pp. 480 |

Abitano in una valle in cui non succede mai nulla. Pur di sfidare l'immobilismo, vivono le loro vite a velocità folle. Con le marmitte truccate e senza casco; il vento a spettinare loro i capelli. Li vediamo radunati sulle sponde di un lago in cui, ogni tanto, si registra un annegamento. In coda alle giostre del luna park, con le tasche dei jeans ingrossate dai gettoni degli autoscontro. Sulle piste di skateboard e nei pub col parquet appiccicoso di birra. Tutto è un gioco: perfino spaccarsi la testa. Siamo a Heillange, una cittadina di frontiera all'ombra degli altiforni. Le fabbriche, ormai chiuse da un pezzo, incombono sugli abitanti come carcasse in putrefazione. È lì, negli anni dei Nirvava e delle vaccinazioni antitubercolari, che si muovono tre protagonisti con nulla in comune se non il fatto di essere giovani da morire.

All'orizzonte il cielo aveva preso colori esagerati. Inebriato, mollò il manubrio e spalancò le braccia. La velocità faceva sbattere i lembi della canottiera. Chiuse gli occhi per un istante, con il vento che gli fischiava nelle orecchie. In quella città mezza morta, Anthony filava a tutta birra, pieno di brividi, giovane da morire.

Anthony, robusto e con un occhio pigro, si mette spesso nei guai pur di forzare il destino: sempre in cerca della ragazza più bella, della festa piu divertente, incappa nelle spire della piccola criminalità. Hacine, immigrato marocchino, spera di diventare qualcuno attraverso lo spaccio: ruberà la motocicletta sbagliata al ragazzo sbagliato, portando in famiglia venti di tragedia. E poi c'è Steph, figlia di un aspirante assessore, indifferente alle attenzioni di Anthony: innamorata del classico bad boy, è il sogno erotico di grandi e piccoli e, segretamente, fantastica di trasferirsi nella capitale. Parigi appare lontanissima: esiste soltanto nei film in bianco e nero. Com'è possibile affrancarsi dalla vita mediocre degli adulti, fatta di lavoretti in nero e sussidi statali? C'è futuro per gli adolescenti, che escono tutte le sere senza mai sapere bene dove andare? Assetati di un altrove che si trova chissà dove, i protagonisti bruciano gli anni migliori nella noia esistenziale. Hanno madri single e padri gravemente depressi, un'idea sorpassata della mascolinità e, in cuffia, una playlist con le hit più indimenticabili degli anni Novanta.

Da mesi prometteva a suo padre di andarlo a trovare. Ma aveva paura di vedersi di ronte un fantasma. Coralie lo aiutava anche in questo. Il retaggio impossibile e la morte che incombe. Lo prendeva per mano, gli diceva: “Scopami forte, tesoro mio”, cose semplici che aprono crepe nella solitudine.

Il bravissimo Nicolas Mathieu, nell'arco di otto anni, ci racconta quattro estati di un gruppo di diseredati teneri e smaniosi. Lunghissimo, ma all'apparenza povero di eventi, il suo esordio vive d'atmosfere palpabili. Come nel migliore cinema francese, è quasi possibile percepire l'odore zuccherino del sudore adolescenziale; gli umori viscosi del sesso, consumato goffamente in macchina o nelle tende da campeggio; l'oscillazione ipnotica delle code di cavallo e l'elettricità di quei temporali estivi prima preannunciati, infine abortiti. In un epilogo da incorniciare, splendido e simmetrico, la rabbia si depositerà come polvere. Ci sono i mondiali, si brinda e ci si abbraccia disinteressati ai trascorsi personali, si acquistano TV fuori budget: improvvisamente è un bel momento per essere giovani e francesi, per bearsi della “terribile dolcezza dell'appartenenza”. E i figli dopo di loro è il romanzo da leggere su un treno per il nord, quando al termine delle ferie ci si lascia alle spalle con un po' di commozione la provincia amata-odiata che ci ha visti crescere. Per dire addio all'estate, finita troppo in fretta. E, se come me si ha già trent'anni, anche alla giovinezza che fu.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Nirvana – Come As You Are

venerdì 23 agosto 2024

Recensione: Wellness, di Nathan Hill

| Wellness, di Nathan Hill. Rizzoli, € 22, pp. 736 |

È possibile provare l'esistenza dell'amore a prima vista? Jack ed Elizabeth, dirimpettai, si studiano dalle finestre dei rispettivi palazzi: a separarli c'è soltanto un vicolo. Lui, fotografo, si è lasciato dietro le praterie del Kansas: romanticissimo, nasconde una sensibilità d'altri tempi dietro l'aspetto studiatamente trasandato. Lei, studentessa cresciuta in una magione invasa dai pipistrelli, è l'erede di una famiglia arricchitasi sulle disgrazie altrui: ribelle, molla tutto e decide di vivere da bohémien. Siamo nella Chicago degli anni Novanta, ma sembra di essere a Montmartre. Mentre l'avvento di internet semina dappertutto promesse, la scena artistica si colora di sperimentazioni. “Diversi in modi simili”, i nostri protagonisti tuonano contro il capitalismo e si fingono orfani. Cos'è dei loro sogni vent'anni dopo?

Credi in quello che vuoi, mia cara, ma credici con delicatezza. Credici con consapevolezza. Credici con curiosità. Credici con umiltà. E non fidarti dell'arroganza della sicurezza.

Ormai sposati, Jack ed Elizabeth puntano a mimetizzarsi tra le famiglie del circondario. Performanti, moderni, perfettibili, tentano (invano) di educare il figlio a un uso più accorto del Tablet e investono (invano, sempre) su un cantiere in corso d'opera, in un quartiere dove i grattacieli sono talmente brillanti da tendere trappole agli stormi. Le agenzie immobiliari sponsorizzano “case per sempre”, ma intanto consigliano alle coppie di dormire separate. Servono sex toys e locali per scambisti, pare, per tenere viva la scintilla. La società impone l'appagamento di bisogni continui, ma nel frattempo annichilisce con idiosincrasie, tensioni, caos. Gli orologi monitorano i respiri, gli algoritmi tracciano gli alti e bassi delle prestazioni lavorative e alcuni credono perfino che la vita non sia altro che una simulazione: il presente, insomma, è una distopia. Jack non tituba, ha finalmente una famiglia tutta sua per contrastare la solitudine vissuta nell'infanzia. Ma Elizabeth, più cinica, guarda angosciosamente la curva discendente della mezza età. È possibile preservarlo, l'amore? Famosa per gli studi sull'effetto placebo, sa che le persone amano lasciarsi ingannare pur di superare il dolore di vivere. E se la loro storia, sin dal primo incontro, fosse una frottola al pari dell'agopuntura?

Si poteva scegliere di essere sicuri o si poteva scegliere di essere vivi.

Wellness, sontuoso boy meets girl con dieci pagine di bibliografia in chiusura, resterà la folgorazione dell'anno. Arguto e coltissimo, Nathan Hill impiega 700 pagine per indagare il più grande dei misteri: il benessere matrimoniale. La sua prosa deve somigliare ai dipinti realizzati dalla sorella di Jack. Pennellate semplici e veloci, dettagli fugaci, con l'obiettivo della massiva universalità: la letteratura, così come le tempere, va fatta respirare. E questo romanzo respira, sì, e vive una vita propria in un luogo di confine in cui la commedia romantica e il saggio antropologico possono coesistere, fare l'amore e riprodursi. Come in Rooney, al centro ci sono due protagonisti perfetti l'uno per l'altra ma vittime dell'autosabotaggio. Come in Yanagihara, sullo sfondo, c'è una città popolata da bohémien vestiti da yuppie. Come in Franzen ci sono il disincanto, il grottesco, la satira, e si sorride a denti stretti di papà che cospirano su Facebook, strampalate coppie aperte, fortune fraudolente legate al Ku Klux Klan. Visceralmente contemporaneo, Hill gioca con la chimica delle emozioni e sonda le prese di coscienza di un'età in cui somigliare a tutti gli altri sembra la scelta più comoda. Si è troppo grandi per credere alle favole, alle bugie, alle cospirazioni. O forse no? Se perfino il mercato immobiliare collassa, infatti, gli unici architetti restano i romantici: costruttori di straordinarie bugie, in un mondo sempre più digitale e distratto, creano ogni giorno le emozioni per guarire in autonomia. Bisogna soltanto avere fede nella cura, e tenersi stretta la fede al dito. Il matrimonio è un placebo. Ma quanto è bello credere a una storia d'invenzione, per poi scoprirsi realmente cambiati?

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: The Smiths – How Soon Is Now?


venerdì 16 agosto 2024

Recensione: Un'estate, di Claire Keegan

| Un'estate, di Claire Keegan. Einaudi, € 12, pp. 80 |

Su Instagram resto puntualmente incantato dai contenuti di una pagina intitolata Vita Lenta. Quegli scorci, quegli sprazzi di vita vissuta, sono il migliore antidoto contro la tristezza. Quei post sono la pace dei sensi. Quei post sono un'estate senza fine. Ho respirato atmosfere simili nel romanzo di Claire Keegan, che al cinema ispirò The Quiet Girl. Una lettura tanto breve quanto evocativa in cui la fatica gioiosa della vita dei campi scandisce la bella stagione di una bambina spaiata.

È bello sentire la strada digradare, sapendo che in fondo c'è il mare.

Selvatica e taciturna, sempre a piedi scalzi, la protagonista è cresciuta in una famiglia in cui c'erano tanti figli e pochi soldi. Non c'era mai tempo per le premure né per la tenerezza; forse non c'era tempo neanche per i nomi di battesimo: per questo, nel romanzo, la protagonista sarà anonima per tutto il tempo. Allontanata dai fratelli e affidata momentaneamente a una coppia di zii sconosciuti, sperimenta gli ambienti umili e i sentimenti nobili della vita accanto a John e Edna, in una casa senza vergogna e senza segreti. In poco tempo, diventa la loro ombra; il bastone dello loro vecchiaia. Cos'è accaduto al loro unico figlio, di cui tutti in città parlano a mezza bocca? Tra passeggiate notturne con lo sciabordare del mare in sottofondo e crostate al rabarbaro profumatissine, la bambina conoscerà per la prima volta l'amore, la morte, la vita. In punta di penna come il miglior Kent Haruf, l'autrice ci regala un piccolo romanzo di formazione sulla paura di diventare grandi.

Se non ci fossi, sono sicura che cadrebbe. Chissà come fa quando io non ci sono. Cerco di ricordarmi di un'altra vola in cui ho avuto la stessa sensazione e sono triste perché non riesco a ricordarmela, e anche felice perché non ci riesco.

C'è l'arrivo di settembre, un mese di cambiamenti, che mette paura. C'è la scoperta della lettura, con una nuova sorprendente consapevolezza: i libri, a volte, portano più lontano di una bicicletta. C'è la reticenza della gente di campagna, i cui gesti parlano più forte delle parole. Non siamo a Holt, ma nell'Irlanda dei primi anni Ottanta. In un libricino nei cui silenzi c'è talora malinconia e talora l'esatto contrario: una gioia di vivere per cui si faticano a trovare parole adatte. Bisognerebbe coniarne di inedite allora: un nuovo lessico famigliare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Taylor Swift – August

giovedì 1 agosto 2024

Recensione: L'amore è un fiume, di Carla Madeira

 
| L'amore è un fiume, di Carla Madeira. Fazi, € 18,90, pp. 180

La chiamano saudade. È la nostalgia che illanguidisce gli arti e i petti con l'avvicinarsi del crepuscolo. Intraducibile in italiano, è il sentimento che nell'antichità accompagnava gli uomini di ritorno dalla caccia. Le mogli avrebbero riabbracciato i mariti morti di fatica? E i mariti le mogli, ritte alla finestra? Come un vento caldo, la saudade soffia tra le pagine del romanzo di Carla Madeira: un successo del passaparola, con una scrittura a ritmo di bossanova e un intreccio da gustarsi preferibilmente sotto l'ombrellone, con il mare a fare pendant con il blu della copertina. Ambientato in un Brasile senza tempo, è la sfida tra tre personaggi combattuti tra la difficoltà di disimparare l'odio e il bisogno di tornare ad amare.

Non si ragiona con chi è malato di saudade.

Separati in casa all'indomani di una tragedia da non svelare, Venancio e Dalva erano la coppia più invidiata di una citta divisa tra chiesa e bordello. Tutti ricordano gli oggettini intagliati da lui e il profumo delle empadas di lei. Tutti ricordano il giorno delle nozze, con quel vestito bianco ricamato da ognuno dei presenti e i canti festosi a fare da accompagnamento. Cosa li ha divisi? Se lo chiede anche Lucy, la piu fiera e capricciosa tra le prostitute, desiderosa di conquistare l'inconquistabile Venancio: l'unico maschio con l'ardire di rifiutarla. Ne deriverà un gioco di seduzione a colpi di provocazioni e sberleffi, in cui a dominare sarà il fascino dei personaggi femminili: la gelosia bruta del protagonista, conteso tuttavia per l'intero romanzo, nulla può contro i silenzi misteriosi di quella moglie piena di decoro né contro la sensualità dell'amante, stesa come una lucertola all'ombra del quartiere a luci rosse.

Perché l'amore scatti, ci vuole un qualche tipo di coincidenza. In ogni contatto, esiste una percentuale di miracolo. Non è peregrino dire che l'amore è sacro.

Il pensiero corre alle squillo sagge di Marquez, al cinema femminista e fieramente kitsch di Almodovar: pulsioni ancestrali, istinti bassi, parole abbastanza palpitanti da evocare la morbidezza dei colpi e la passionalità degli amplessi. Forte di atmosfere semplicemente irresistibili, Madeira pecca di un intreccio esile e di una narrazione a tratti inutilmente corale, in cui i comprimari (i genitori di Dalva, la miracolosa Francisca) hanno il difetto di affollare una narrazione troppo leggera, troppo breve, per prestarsi alla polifonia: non aiuta l'esagerato colpo di scena conclusivo. L'amore è un fiume. L'autrice non lo argina con una struttura più ragionata, ma lo lascia scorrere senza padroni. Ha numerose forme, ha mille sblocchi. Cosa succede quando lo inquinano un raptus mortifero, i tradimenti e i difetti di forma? Basta lasciarlo scorrere. E aspettare, aspettare, aspettare. Al resto penserà la naturale magia della narrativa sudamericana.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ornella Vanoni – La voglia, la pazzia

martedì 23 luglio 2024

Recensione: Lamento di Portnoy, di Philip Roth

| Lamento di Portnoy, di Philip Roth. Einaudi, € 13, pp. 220 |

Quale uomo non spererebbe di impugnare la propria vita così come abitualmente fa col proprio pene? Il mio quarto Philip Roth è il più divertente e autobiografico dei suoi romanzi finora letti. Bisogna avere una spiccata autoironia, d'altronde, per lavare i panni sporchi in pubblico. E mettere nero su bianco, senza peli sulla lingua né falsi pudori, feticismi, nevrosi e fantasmi. Il protagonista ha un altro nome, Alexander Portnoy, ma ha gli stessi tratti distintivi del giovane Roth: è nato a cavallo fra le due guerre, è sopravvissuto a un'epidemia di poliomielite, ha un naso adunco e una spugna abrasiva per chioma, è incontrovertibilmente ebreo. Come un novello Zeno Cosini, benché preferisca definirsi il «Raskolnikov delle pugnette», Portnoy si sfoga sul lettino rosso dell'analista.

Dottore, di cosa dovrei sbarazzarmi, mi dica, dell'odio... o dell'amore?

Queste duecento pagine sono la trascrizione delle sue sedute. Il risultato è un monologo fiume, una barzelletta sporca, il ritratto di un trentenne troppo poco ebreo in famiglia e troppo poco americano in società. Figlio di un assicuratore imbelle, nonché gravemente costipato, e di una madre castrante dotata del dono dell'ubiquità, il protagonista vuole affrancarsi; diventare tutto ciò che i genitori, angoscianti e un po' razzisti, non sono. Scapolo a Manhattan, colleziona viaggi esotici e donne virtuose. Lasciate ogni pudore, o voi ch'entrate. Misogino, vanaglorioso, volgare, l'alter-ego dell'autore non fa mistero di avventure sessuali e perversioni. C'è un intero capitolo dedicato alle gioie della masturbazione e, come in una scena cult di American Pie, non sono al sicuro nemmeno gli alimenti: basta un torsolo di mela, infatti, a infiammare le fantasie! Ma ci sono anche i ricordi color seppia delle vacanze insieme, le partite di softball, i primi lavori accanto al cognato comunista, il candore delle fantasticherie adolescenziali. Bastano i Levis e un paio di mocassini a cancellare il senso di colpa per la Shoah? Cosa direbbe Freud delle occhiate alle gambe di mamma o dell'invidia verso il pene di papà? Così sincero da fare tenerezza, questo Roth leggerissimo oscilla tra “id” e “yid” con l'intramontabile romanzo di formazione su un ragazzo e il suo sogno: scoparsi, e così conquistare, l'America.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: AC/DC – You Shook Me All Night Long

lunedì 8 luglio 2024

Recensione: L'arte della gioia, di Goliarda Sapienza

| L'arte della gioia, di Goliarda Sapienza. Einaudi, € 15, pp. 540 |

Nell'omonima miniserie di Valeria Golino, è la voce suadente di Tecla Insolia a guidarci nel dedalo dei pensieri di Modesta. Queer, determinata, machiavellica, si inebria della forza segreta dell'odio ma inneggia all'amore libero. Ora ingenua e ora spietata, profondamente consapevole della sua intelligenza, ci sussurra la fiaba nera di una serva divenuta padrona. È possibile, seppure al termine di una lunga serie di nefandezze, arrivare a gioire con la nostra antieroina? Assolutamente sì, in una storia di curiosità intellettuale, emancipazione e lotta di classe, che prende avvio nella povertà delle campagne verghiane e giunge, infine, presso i palazzi nobiliari di Tomasi di Lampedusa. Questo, però, non è che l'inizio delle vicende di Modesta. Ci saranno altri uomini (dopo il gabellotto Carmine: Mattia, Carlo, Marco) e altre donne (dopo suor Leonora e la principessina Beatrice: Joyce e Nina); ci saranno figli biologici e figli acquisiti (Prando, Jacopo, Ida, Ntoni); arriveranno i totalitarismi e le loro promesse illusorie rivolte ai giovanissimi, un altro conflitto mondiale, una democrazia di cui diffidare.

Per prepararsi alla rivoluzione si deve bere tanta e tanta fantasia.

Attratta dalla rivoluzione ma nauseata dalla guerra, sedotta da una carriera in politica ma troppo idealista per appendere il ritratto del Re o del Duce in salotto, Modesta maturerà con grazia e nessun rimpianto in una casa in cui farà da benefattrice a geniali trovatelli, spie in incognito, sognatori instancabili. L'orfana incendiaria degli inizi diventa la matriarca di una comune definita “una piccola repubblica”; una donna come tante e come nessuna, impensierita dalle ansie della maternità e dalla Certa che incombe. I suoi protetti sconfesseranno amaramente ciò che lei ha insegnato loro? E se la vecchiaia, a ben vedere «una giovinezza cosciente», riservasse altre avventure, altri amori? Golino adatta soltanto la prima delle quattro parti di un romanzo asimmetrico e fluviale, splendido e spossante, che spesso ha l'andamento frammentario di certe poesie, di certi ricordi, di certi sogni. Lo ha scritto Goliarda Sapienza cinquant'anni fa, ma non l'ha mai visto pubblicato: protagonista di travagliate vicende editoriali e di una rocambolesca vita da film, l'autrice meriterebbe un discorso a parte. Quest'anno si celebra il centenario della sua nascita. Ma l'iconica Goliarda, in realtà, doveva venire dal futuro. Lascia in eredità alla sua Modesta l'ateismo, le simpatie comuniste, la fame di tutto e subito. L'Etna è un seno, la lava zampilla al posto del latte: nutrite col fuoco, sono destinate a non morire mai. Nella mia vita ci sarà sempre un prima e un dopo di loro.

E se questo mio vecchio ragazzo si stende su di me col suo bel corpo pesante e lieve, e mi prende come ora fa, o mi bacia fra le gambe proprio come Tuzzu faceva allora, mi trovo a pensare bizzarramente che la morte orse non sarà che un orgasmo pieno come questo.

Scritto in una lingua assonanzata e musicale, il romanzo slitta a piacimento dalla prima alla terza persona, da pagine dense di dialoghi a ellissi narrative che restituiscono informazioni confuse sul destino di taluni secondari. L'andamento: quello imprevedibile di una cantastorie controcorrente, contro natura, nata per seminare dappertutto un magico disappunto. Le ambientazioni: la testa febbrile di Modesta, il suo corpo flessuoso, e una Sicilia claustrofobica che spalanca occhi e cuore davanti allo spettacolo improvviso del mare. Laggiù, in quel blu fino ad allora immaginato attraverso gli occhi dell'indimenticato Tuzzu, la protagonista imparerà a nuotare. Ma anche a cavalcare, a fumare la pipa, a mostrarsi nuda senza l'ausilio del buio. A dare piacere. A darsi piacere. E a organizzare feste sfrenate dove i vivi ballano con i loro fantasmi e le fiaccole illuminano a giorno l'isola. Non si dimentica mai come si galleggia al largo, né la gioia di essere stati eccezionalmente ospiti nell'esistenza di una donna tanto scandalosa. Ora voglio nuotare controcorrente, progettare colpi di stato, chiamare un gatto Mody, ribellarmi sempre. Rubare tutta la vita che posso. L'arte della gioia è un diritto di natura: «come il pane, come l'acqua, come il sole».

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Parola (Rework) feat. Anna Caragnano

martedì 2 luglio 2024

Musica (d'autore) leggerissima: Challengers | Kinds of Kindness | Hit Man | The Idea of You

Gli elegiaci parlano di militia amoris. L'uomo è un soldato, la donna il comandante. L'amore: una guerra. È così anche per l'ultimo Guadagnino, in cui i sentimenti sono un gioco disputato su un singolare campo di battaglia: quello da tennis. A struggersi sono due campioni con tutto da perdere: soprattutto la stima di una moglie-manager che, sotto gli occhiali da sole, nasconde lo sguardo di una sfinge. Affamato di bellezza, il regista palermitano regala con una commedia sportiva che eccita come un porno e gasa come un film d'azione. I piedi battono al ritmo della colonna sonora elettronica di Reznor e Ross. Gli occhi guizzano, smaniosi, di qua e di là. I rimbalzi della pallina diventano metafora, così, dei rovesci di fortuna e dei cambi di alleanze di un triangolo in cui l'infuocato O'Connor e il vulnerabile Feist gareggiano per Zendaya: dea beffarda, incolume tanto al sex appeal del primo quanto alle lacrime del secondo, che urla di piacere soltanto in caso di vittoria. Teso, muscolare, iper cinetico, Challengers trasforma l'attrazione in spirito agonistico e non rinuncia a dialoghi alleniani dove il tennis diventa l'anticamera del sesso e, dunque, dell'esistenza. Mainstream con audacia, questo Guadagnino in forma smagliante torna felicemente a declinare il desiderio. Non è bastata la parentesi horror di Bones and All a placare la sua brama di corpi umani. Qui è attentissimo alle fronti imperlate, ai nervi tesi, ai muscoli guizzanti. Sulla macchina da presa, piovono gocce di sudore. È tempesta – ma ormonale. È il cinema con la lettera maiuscola – fattosi, nel frattempo, carne soda, madida, palpitante. (9)

Un impiegato vessato dall'infernale datore di lavoro sperimenta una crisi d'identità una volta uscito malauguratamente dalle sue grazie. Un poliziotto riabbraccia la moglie, sopravvissuta a una spedizione in mare attraverso presunti atti di cannibalismo, ma sospetta sia un'impostora. I membri di una setta cercano una giovane dai poteri taumaturgici per riconquistare i favori del loro leader. Cosa succederebbe se il regista del recentissimo Povere creature dirigesse una serie antologica nello stile di Black Mirror? Il risultato è uno Yorgos Lanthimos più indipendente e più colorato, leggero ma in pillole amare, che rinuncia al grandangolo ma non a un cast di sole star: Emma Stone balla ancora, Jesse Plemons vince a Cannes, ma questa volta è Margaret Qualley a stregare. Meno manieristico che in passato, il regista greco confeziona una commedia nera in cui non mancano i lampi di genio e gli eccessi del cinema delle origini, ma la cui struttura episodica prima diverte e infine annoia. Si va alla ricerca, allora, di un comune fil rouge all'interno di storie dentro storie che similmente parlano di relazioni tossiche e people pleasing; che, contemporaneamente, sanno raccontare benissimo l'America odierna e omaggiare l'immancabile tragedia greca. Tra investimenti e dita mozzate, sesso e lacrime, a sorpresa si ride perfino. Ma la sensazione che sia un estenuante esercizio di stile, o una serie TV ancora work in progress, è più forte degli atti di fede dei protagonisti. (6,5)

Un mite professore con collaborazioni occasionali con la polizia viene creduto un sicario. Ma cosa succede quando a ingaggiarlo è la cliente di cui finisce per innamorarsi? Ispirato a una storia vera, il soggetto potrebbe apparire lontano dal cinema di Linklater: cosa hanno in comune il regista di Boyhood e questo incrocio tra la romcom e il thriller? Applaudito a Venezia, Hit Man non è ciò che sembra. Se la trama promette equivoci e sparatorie, sorprenderà scoprire un film ben più intimo, raffinato, pirandelliano. Qualcosa non mi ha convinto nella prima parte, retta interamente da Glen Powell: qui anche sceneggiatore, non mi fa simpatia con il suo faccione, i suoi ammiccamenti, le sue smorfie. E il faccione, gli ammiccamenti, le smorfie trapelano da sotto ogni camuffamento, facendomi credere ben poco al talento di questo novello Ripley. Fittamente dialogato, ambientato soprattutto in interni, il film ha però come uniche scene d'azione gli incalzanti botta e risposta tra i personaggi. Sexy, divertenti, divertiti, regalano grande intrattenimento in una seconda metà in cui, tra un dialogo e l'altro, sorgono pericolosi malintesi e colpi di scena per via della folgorante Adria Arjona: una femme fatale per cui vivere, morire, cambiare. E uccidere? La risposta: ora al cinema, prossimamente su Netflix e il prossimo anno, pronostico, in lizza per la Migliore Sceneggiatura Originale. (7)

Solene, una gallerista d'arte quarantenne, si innamora, ricambiata, di un giovane cantante un tempo apprezzato dalla figlia adolescente. Nato come una fanfiction su Harry Styles, poi diventato bestseller, The Idea of You riesce a essere sorprendentemente credibile: non solo perché i protagonisti sono talmente belli e affiatati da superare qualsiasi differenza d'età, ma perché il regista Michael Showalter, bravissimo in materia di commedie dopo il premiato The Big Sick, eleva a buon cinema un comune vagheggiamento di Wattpad. Certo: è richiesta la massima sospensione dell'incredulità. Ma è impossibile non guardare con un sorriso inebetito gli incontri e le paure di Anne Hathaway e Nicholas Galitzine. Se lui, ormai onnipresente, è qui più convincente del solito, lei si conferma l'erede ufficiale di Audrey Hepburn e Julia Roberts: senza paura di mostrare i primi segni del tempo, è un sole. Speranzosa ma tormentata, la storia d'amore targata Amazon Prime Video dovrà confrontarsi con la sovraesposizione e il sessismo. Perché una madre innamorata deve sempre scegliere tra sé e gli altri? Perché destreggiarsi, ancora, tra chi la considera squallida e chi iconica? Nel solco di Notting Hill, una fiaba romantica con tutti i sacri crismi: surreale ma bella. E più longeva di certe boy band. (7)

venerdì 21 giugno 2024

Miniserie fatali: L'arte della gioia | Baby Reindeer | Mary and George

Inganno, sesso, omicidio. Ma, al termine di una lunga catena di nefandezze, ecco sopraggiungere un'incontenibile gioia. Sopravvissuta a un'infanzia verghiana, l'orfana Modesta gioca con le vite altrui. Prima accolta in convento, poi ospitata in un asfissiante palazzo nobiliare, si muove, scandalosa, nel buio seducente della miniserie di Valeria Golino. In arrivo su Sky nel 2025, l'adattamento del romanzo omonimo è in sala per farsi ammirare sul grande schermo. I sei episodi traspongono le prime 150 pagine di un cult che ne conta 500. I primi tre mostrano Modesta alle prese con l'infatuazione per suor Jasmine Trinca: l'erotismo è alle stelle. Gli ultimi si spostano nei salotti del cinema di Ivory, dove una Modesta ancora più machiavellica attenta al potere della principessa Valeria Bruni Tedeschi: esilarante e impietosa, l'attrice franco-italiana si conferma la nostra Streep. A palazzo Brandiforti la protagonista bramerà le carezze della principessina Alma Noce, ma vibrerà di passione a cavallo con Guido Caprino. Sontuoso e liberatorio, folle ed erotico, L'arte della gioia arriva dopo Povere creature e Saltburn, ma li precede nel tempo: il romanzo, infatti, è degli anni Settanta. L'antieroina diretta dall'eccezionale Golino diffida della sua stessa ombra ma ammicca allo spettatore. È la progenie di Bella Baxter e cammina, assetata di mare, nella Catania di inizio Novecento: è il primo passo affinché Barry Keoghan, poi, possa ballare nudo sulla scena del delitto. Piromane, mette a ferro e fuoco le convenzioni sociali e ci regala il ritratto di una nuova ragazza in fiamme: (im)modestamente, si chiama Tecla Insolia. Vent'anni, indimenticabile, senza catene. (8,5)

Siamo vittime e carnefici della società che i nostri padri ci hanno lasciato in eredità. Ma essere maschi non ci rende automaticamente figli del patriarcato. Soffocati da una visione machista della mascolinità, sottoposti a standard di prestanza fisica o coraggio irrealizzabili, viviamo anche noi un segreto senso di inadeguatezza. Anche noi ci sentiamo frangibili. E, a volte, fatichiamo a riconoscerci come vittime. Cosa direbbero in questura se un ragazzo forte e in salute denunciasse gli abusi subiti da una donna, per di più in sovrappeso e di mezza età? Cosa direbbero se questo stesso ragazzo, etero a suo dire, aggiungesse di essere stato stuprato da uno sceneggiatore televisivo? Il cromosoma Y non protegge dalla violenza. Baby Reindeer, la miniserie di cui tutti parlano, è una visione inedita della vulnerabilità maschile. Breve e affilata, racconta l'odissea psicologica di un aspirante comico perseguitato da una stalker. Nel passato di lui, però, si nasconde una vicenda di bugie e vergogna che l'ha condotto in una spirale senza ritorno. Può una psicopatica rispondere al nostro disperato bisogno di attenzioni? Può una violenza lacerarci a tal punto da portare alla luce aspetti di noi mai metabolizzati? Breve, scomodissima e dall'epilogo perturbante, la dark comedy autobiografica del sorprendente Richard Gadd non ha paura di mostrare al pubblico le contraddizioni dei protagonisti. Stratificati, contorti, incoerenti, hanno anime fragili e un ego masochista. Sono due facce dello stesso disagio; l'uno lo specchio dell'altra. Per l'orgasmo hanno bisogno del dolore, per amare hanno bisogno di odiarsi. E la tenerezza? Somiglia ai messaggi, ora patetici, ora minatori, che ci intasano la segreteria telefonica. Per scrittura e interrogativi, per coraggio e reticenza, per bile e catarsi, resterà la serie rivelazione del 2024. (8,5)

Una spietata arrampicatrice sociale alleva il suo secondogenito alla seduzione con un solo obiettivo: farne l'amante prediletto dal re d'Inghilterra. In ballo non ci sono soltanto titoli nobiliari e privilegi, ma perfino una potenziale guerra civile. Ispirato alla storia vera della famiglia Villiers e ambientato nella corte dissoluta di re Giacomo, noto sia per le pessime decisioni in materia di politica estera che per le trasgressioni sessuali, Mary & George è un intrigante dramma in costume in cui le prime quattro puntate promettono un'orgia sfrenata a base di sangue, eccessi, nudità. Il sesso è un gioco tra potenti. Il sesso è un'arma. All'inizio irresistibile, finisce purtroppo per appesantirsi negli ultimi episodi: le macchinazioni dei protagonisti abbandonano la camera da letto, minacciano di condurre a una guerra con gli spagnoli per puro capriccio, e i toni diventano più convenzionali; i ritmi più compassati. L'emergenza politica toglie spazio al vizio. Più accurata del previsto senza però rinunciare a una vena rock 'n roll, la miniserie Sky ha i suoi punti di forza nella magnificenza del comparto tecnico e nel cast. È un piacere vedere gigioneggiare Julianne Moore: mai così divertita e crudele, inanella l'ennesima performance magnetica. Ma mentre Tony Curran è un sovrano tormentato e vulnerabile, non convince l'ormai onnipresente Nicholas Galitzine. Bello sì, ma di una bellezza troppo adolescenziale e contemporanea, stona in una ricostruzione seicentesca ed è sprovvisto del sex appeal richiesto al ruolo. Non memorabile, la miniserie mette però a nudo scandali e personaggi: consigliata agli amanti dei period drama più spicy. (6)

giovedì 13 giugno 2024

Recensione: Triste tigre, di Neige Sinno

| Triste tigre, di Neige Sinno. Neri Pozza, € 18, pp. 240 |

C'era una volta una bambina con il nome di una principessa delle fiabe. Prima di quattro figli, Neige vive un'infanzia avventurosa in una famiglia di alpinisti un po' hippy. La sua innocenza finisce a sette anni: il nuovo marito della madre, un giovane uomo vigoroso e imprevedibile, comincia ad abusare ripetutamente di lei. Neige lo denuncerà soltanto negli anni dell'università: troppo grande la paura che una parola senza ritorno, “stupro”, possa sconvolgere l'idillio. Costretta al silenzio, allevata nella menzogna, rifiuta la psicoterapia e la saggistica: si rifugia in un'appassionata vita interiore; nei mondi della narrativa. Triste tigre, autobiografia di un abuso, è la storia di una bambina che non c'è più. Agghiacciante ma illuminato da una scrittura di radiosa bellezza, vario e metaletterario, il testo vincitore del Premio Strega Europeo affronta un argomento scabroso da innumerevoli prospettive. Abilissima nel dire l'indicibile, l'autrice rinuncia a qualsivoglia pietismo e indaga con audacia, ferocia e lirismo l'intimità improvvisa fra padri e figli, vittime e carnefici; le zone di grigio in cui si impantanano i pensieri intrusivi, la malagiustizia, l'ironia del destino.

Ho una vita interiore. Una grande, un'infinita vita segreta e interiore e totalmente mia. Ricordo me da piccola, mentre mi dico che, con quello che vivevo, avrei potuto essere rinchiusa dentro una cassa per anni e riuscire comunque a vivere all'interno dei miei pensieri. Io posso vivere qualsiasi cosa e riuscire comunque a prendere un momento per me, a portarmi a passeggio nel mio mondo, quello di dentro.

È più facile ammettere di essere state vittime di un tiranno o di un patetico uomo medio? Ha senso parlare di consenso o piacere, quando a essere oggetto di attenzioni è un bambino? È possibile mettersi nei panni del nostro aguzzino? Sinno, contraria alle narrazioni che umanizzano gli stupratori e rendono astratti i dolori delle vittime, si muove tra attrazione e repulsione in un regno di tenebre: legge avidamente Nabokov; ama uomini di trent'anni più grandi e il sesso orale; accarezza sua figlia e pensa, per una frazione di secondo, a quanto sarebbe semplice lasciare scivolare poco più giù la mano. Tigre e agnello, citando Blake, condividono il medesimo creatore. Chi, potendo scegliere, non si preferirebbe predatore? Neige Sinno è una scrittrice di razza: non una vittima che scrive libri. Offesa dai personaggi letterari sublimati dal sacrificio, rivendica in queste pagine la sua unicità: il diritto di essere vittima. L'autofiction, così, diventa una scelta etica ed estetica che potrebbe spiazzare lettori abituati a narrazioni, e dolori, più lineari. Equilibrista sull'abisso, Sinno veste una camicia di ortica e, a dispetto delle vertigini, non cade mai. Non per questo, però, è incolume. La letteratura non ti salva dal passato: nulla lo fa. Ma può rievocare, oltre al buio viscoso di uno scantinato, la libertà della pioggia in estate. È allora, in un tempo sorprendente perché ciclico, che la nostra piccola principessa può inseguire lucertole e bagnarsi, libera, sotto un acquazzone che lavi via l'afa. E il sangue.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tracy Chapman - Behind the Wall

venerdì 31 maggio 2024

Recensione: Trilogia della città di K., di Agota Kristof

|Trilogia della città di K., di Agota Kristof. Einaudi, € 14, pp. 384 |

Quando ho chiuso Trilogia della città di K, ho sentito il bisogno di sfogliarlo a ritroso. Ho recuperato un foglio volante e ci ho appuntato sopra nomi propri, cronologie, dettagli di un intreccio narrativo che cambia a piacimento e sconvolge. La scrittura è ordine e chiarezza, pensavo a torto. Ho condiviso le mie annotazioni con altri lettori: come me, a fine lettura, dichiaravano confusione. Ma le nostre opinioni sui misteri di Agota Kristof non collimavano. Le interpretazioni sul romanzo, anzi, si moltiplicano; il gioco di specchi si complicava. A chi appartenevano le parole lette? C'era una verità univoca, o la trilogia era una lunga bugia? Quanti erano i narratori inaffidabili: uno o due? Ambientato in un conflitto senza nome, in una città dell'est dall'identità violata dagli invasori stranieri, due gemelli temprano corpo e spirito a un passo dalla frontiera. Disabituati all'amore, alimentano una perversa fascinazione e nutrono uno strano senso della giustizia. In prima persona plurale, documentano le loro giornate sul Grande quaderno nascosto in soffitta. Man mano si passa a una narrazione in terza persona. Nella progressiva messa a fuoco, il periodare si fa articolato, i capitoli si allungano e i gemelli, finalmente distinguibili e collocati su uno sfondo meno favolistico, sperimentano lo struggimento della separazione: in La prova, Lucas resta privo della sua metà e trova consolazione in una famiglia improvvisata, ma capace di tenerezza. Che fine ha fatto l'altro? Il suo nome, anagrammatico, è Claus o Klaus? Intervengono personaggi dal linguaggio sibillino, allegoria di qualcosa di ben più sfuggente. Le identità si sovrappongono e mescolano. La trama si fa più oscura. Quarant'anni dopo, le frontiere si assottigliano e le vicende trovano risoluzione in un racconto a punti di vista alterni. Le ultime pagine rivelano la natura dello strappo, l'origine del trauma. Possiamo fidarci, però, se il titolo recita: La terza menzogna?

Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.

Capace di suscitare parimenti curiosità e frustrazione, Kristof è l'attentissima Minosse di un labirinto in cui le nostre tre storie finiscono per sovrapporsi disordinatamente e in cui il gusto della narrazione, qui parente stretta della bugia, prende il sopravvento. Il filo rosso è proprio la scrittura: inseguendone il bandolo, arriveremo in una casa dalle imposte verdi, all'ombra di un noce abbandonato. I protagonisti, al contempo candidi e crudeli, fanno provviste dei prodotti di cancelleria; prendono cartolibrerie in gestione, seducono bibliotecarie con il pallino dei libri proibiti, rievocano un'infanzia scandita dal ticchettio della macchina da scrivere. Uno diventerà prosatore, uno poeta: lo faranno per legittima difesa. La Trilogia è un groviglio che infesta mente e cuore. Non ha una spiegazione né un senso: ne ha molteplici. Se me lo chiedeste oggi, per me teorizza il valore salvifico della finzione contro la brutalità dell'autofiction. È soltanto così che delle pedine inermi, in balia della violenza della Storia e delle istituzioni familiari, possono trasformarsi in soggetti attivi. Eroi della loro personale epopea tragica, vivono disavventure zeppe di morti, amplessi, ardori e mostruosità. Ma la spettacolarità futurista della guerra – macabra ma irresistibile – arde i noiosi salotti borghesi: è soprattutto lì, infatti, che si annidano mine mortali. Se me lo chiedeste domani, invece, chissà. È una storia che cambia pelle. E, nel frattempo, cambia la tua.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Max Richter – On the Nature of Daylight

lunedì 27 maggio 2024

Recensione: I giorni di Vetro, di Nicoletta Verna


 I giorni di Vetro, di Nicoletta Verna. Einaudi, € 20, pp. 448 |

Per rievocare una guerra maledetta che «ha ammazzato tutti, anche i vivi», Nicoletta Verna diventa medium pur di intercedere con gli spettri di un mondo in fiamme. Dopo un esordio di chirurgica bellezza, è tornata finalmente in libreria con un romanzo d'altre epoche, che si snoda implacabile dal delitto Matteotti alla Liberazione. Nemmeno l'arrivo degli alleati rimarginerà, in conclusione, le voragini. Siamo in una Romagna di balere, concorsi di bellezza e fuoco. Lì, presso il Grand Hotel di Castrocaro, nascerà la Repubblica di Salò. Ma sulle montagne, intanto, un gruppo di fuorilegge è armato fino ai denti per l'idea della libertà. L'autrice, questa volta, intinge la penna nel sangue vivo. Macchia e straborda, e il rosso densissimo non sbiadisce. È una Storia di fantasmi, la sua. La protagonista, dunque, non poteva che essere una creatura liminare come Redenta: sopravvissuta alla polio, accompagnata dalle apparizioni dei fratelli defunti e perseguitata dalla scarogna, si muove sul confine smarginato che separa i vivi dai morti.

La vita vale più di un'idea”. “Dipende da quale vita. E da quale idea”.

Il padre le ha attribuito un nome breve: sarà più semplice inciderlo sulla lapide, quando creperà. Redenta non crepa: si innamora di un futuro partigiano, il sognatore Bruno, ma va in moglie a un gerarca fascista pluridecorato in Abissinia, Vetro. Redenta parla tardi e poco, ma sente forte: e, dentro di sé, in segreto, alimenta una voce assordante. Redenta ha una gamba matta: procede piano, ma arriva dappertutto. Vittima di un marito-orco capace di gesti di raccapricciante sadismo, la giovane donna è prigioniera della fiaba di Barbablù. Rischia la morte anche Iris, la seconda voce narrante del romanzo, ma per perseguire un ideale: dotta e bellissima, ha abbandonato l'insegnamento per amore del leggendario Diaz, il leader partigiano ricercato dal battaglione M. Mentre Redenta subisce la violenza, vivendo ora attese struggenti e ora i morsi della miseria, Iris è in prima linea: leggiamo di lei come se fosse l'eroina di un romanzo di spionaggio, in cui l'energia futurista del conflitto genera un'eccitazione mista a orrore. Sì è mai realmente soggetti attivi, tuttavia, sotto lo schiaffo della storia? È proprio nelle disgrazie che il cuore degli uomini è solito mostrarsi nella sua più nuda verità.

No che non ti ammazza”, avrei voluto dirle. “Purtroppo resti viva. E domani ti ricorderai di questa pena e ti sembrerà che non sia mai finita. Perché il male che patisci una volta lo patisci per sempre”.

Tra nefandezze e amori impossibili, rivalità e confidenze, le protagoniste si scopriranno più vicine del previsto sotto lo sguardo imperscrutabile di uno degli antagonisti più spregevoli della mia memoria di lettore. Indimenticabili per umanità e ferocia, questi Giorni di Vetro in cui «non c'è niente di vero, eppure non c'è niente di falso» sono fusi insieme da un'autrice abile come gli artigiani di Murano. Tra le qualità di Verna, eppure, non c'è la delicatezza. Ha mani pazienti ma pesanti; una lingua di tritolo. Seduta in bilico su una pila di macerie fumanti, sporca di cenere, l'autrice conta i caduti e fa una stima dei danni. Ma nelle sue pagine, benché tragiche, per fortuna non tutto è perduto; non tutte le cause si rivelano perse. Salvare qualcuno significa salvare sé stessi. E le bastarde senza gloria di Castrocaro resisteranno – ed esisteranno – per darci una lezione quanto mai attuale: perfino sotto le bombe, è vietato morire per mano di un amante violento.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Barbara Pravi – Voilà 

giovedì 16 maggio 2024

Recensione: Quella sera dorata, di Peter Cameron

| Quella sera dorata, di Peter Cameron. Adelphi, € 12, pp. 318 |

Peter Cameron scrive i dialoghi più belli del mondo. È il primo pensiero davanti all'arguzia, alla naturalezza e alla classe dei protagonisti di Quella sera dorata: a detta dei conoscitori, forse il romanzo più memorabile dell'autore americano. Ambientato in Uruguay, in un Eden splendido ma segretamente decadente, segue la missione di un dottorando in odore di pubblicazione: Omar, ventotto anni e tante ambizioni confuse, vorrebbe scrivere la bibliografia di Jules Gund, scrittore da poco morto suicida. Gli eredi, tuttavia, negano fermamente il consenso. Spinto da una fidanzata ben più volitiva di lui, l'aspirante autore vola dal Kansas al Sud America come la Dorothy del Mago di Oz. Al termine del sentiero di mattoni gialli lo aspetta la villa di Ochos Rìos, popolata da strampalati abitanti da persuadere. Su cosa fare leva pur di raggiungere l'obiettivo: il proprio fascino naïf o la compassione?

Lo champagne non è mai uno sbaglio.

Dopo aver indagato i tormenti tardo-adolescenziali del protagonista di Un giorno questo dolore ti sarà utile, a ben vedere vicinissimi a quelli di questo Omar in crisi creativa, Cameron ci delizia con una commedia corale piena di false cortesie e, a dispetto delle conversazioni fittissime, di significativi non detti. Il cast d'insieme comprende: Caroline, la vedova di Gund, ossessionata dal senso di incompiuto della sua vita artistica e matrimoniale; Arden, l'amante, all'apparenza arresasi al ruolo di sfasciafamiglie, ma in realtà desiderosa di innamorarsi ancora; Adam, il fratello omosessuale, che a suon di cinismo nasconde l'amarezza per l'età avanzata e la crisi con Pete, il compagno a cui non sa dare né l'amore né la libertà. Perché si ostinano a restare in quella villa ai confini del mondo, mantenendo integro un assurdo ménage domestico, se il loro collante è ormai venuto meno? Perché la diffidenza verso una biografia autorizzata: paura di cosa potrebbero scoprire del capofamiglia, o di loro stessi?

Sono arrabbiata, Omar, ma questo non esclude l'amore. Le due cose possono coesistere, sai. Sono capace di provare diverse emozioni allo stesso tempo. Sono una persona complessa. La vita è complessa. L'amore è complesso. Non è semplice. Non sono compartimenti stagni.

In anticipo sui tempi, il romanzo ironizza sull'ossessione della verità nella società dell'apparenza — basti pensare al continuo fiorire di biopic sui personaggi dello spettacolo, alla moderna propensione per l'autofiction, ai podcast radiofonici a proposito di crimini e misteri irrisolti — e si sofferma sulle esistenze dei “parenti di”, illuminati di una luce riflessa che non ne dissipa mai a sufficienza le ombre. Purtroppo o per fortuna, quello che succede in Uruguay non resta in Uruguay. Il perturbante arrivo di Omar, infatti, segnerà un prima e un dopo: niente sarà piu lo stesso. Dimenticate, però, le convivenze tossiche dei recenti May December o Saltburn. Lieve, esotico, romanticissimo, Cameron ci culla — e ci cambia — con i calici di rosato, i completi di lino, l'ozioso brusio degli alveari, il profumo soave del glicine in fiore e delle erbe aromatiche. È l'inizio dell'estate. Ci sono le stelle in cielo e, vestiti a festa, ci si attarda a guardarle. Il desiderio espresso? Che ”quella sera dorata” duri in eterno.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ornella Vanoni – Tristezza

venerdì 3 maggio 2024

“Un giorno”, tre lustri dopo: il cult di David Nicholls riletto a trent'anni

| Un giorno - One Day, di David Nicholls. Beat, € 15, pp. 489 |

Ho detto addio per sempre ai miei vent'anni in compagnia di David Nicholls. Avrei voluto rileggerlo da un po'. Il bisogno, poi, si è fatto urgenza con l'avvicinarsi del mio compleanno. Lo avrei festeggiato lontano da casa. Alla mia tavola, intento a soffiare sulla trentesima candelina, avrei avuto soltanto facce nuove; gli amici di oggi. E quelli storici? E il mio passato? Nell'impossibilità di averli con me, ho fatto posto a Emma Morley e Dexter Mayhew: li conosco come le mie tasche, in fondo, dalla metà esatta della mia vita. Quando li ho incontrati per la prima volta, al ginnasio, erano più grandi di me: con il loro odore di vino e sigarette, con il sogno di cambiare il mondo, mi sembravano irraggiungibili. Lei con una citazione letteraria per ogni occasione, lui con le Oxford ai piedi anche nelle scarpinate; lei con gli occhiali a fondo di bottiglia sfoggiati come una medaglia al merito, lui perennemente in posa come una stella del cinema italiano. Non sapevo ancora che avrei vissuto le stesse crisi, gli stessi strappi, le stesse frustrazioni. Non sapevo ancora che, soprattutto a venticinque anni, ci si sente tutti persi. Me lo sono ripetuto come un mantra dopo la laurea (insieme a un'altra frase cult: «Ti amo, ma non mi piaci più»), quando la cruda luce del giorno ha mostrato la spaventosa fragilità dei miei ideali: in balia del precariato, ho seguito le tracce di Emma. Come lei, insegno Lettere e vado al cinema per le rassegne di Kieslowski. Ma, sempre come lei, non smetto di sognare una mansarda parigina in cui rifugiarmi a scrivere in attesa del mio sudato lieto fine. Cosa ne sa invece Dexter: un bellimbusto che lavora in TV ed è sempre troppo brillo per aggiornare la lista delle sue amanti? A questa ennesima rilettura, mi è parso meno superficiale che in passato; non mi ci sono rivisto, ma ho visto in controluce quel suo cuore buono massacrato dagli eccessi, dai rovesci di fortuna, dalle coincidenze mancate.

Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”, di solito il consiglio era questo, ma chi aveva l’energia sufficiente per farlo? E se pioveva o eri di cattivo umore? Molto meglio cercare di essere buoni e coraggiosi e audaci e cambiare le cose in meglio. Non proprio cambiare il mondo, ma il pezzettino di mondo intorno a te. Esci allo scoperto con la tua passione e la tua macchina da scrivere e impegnati al massimo per… qualcosa. Magari cambia la vita degli altri con l’arte. Coltiva le amicizie, non tradire i tuoi principi, vivi intensamente, appassionatamente. Apriti alle novità. Ama e fatti amare, se ti capita la fortuna.

Emma si piega, ma non si spezza: ha dalla sua la costanza di chi continua a innaffiare perfino un'amicizia che, a volte, somiglia a un bouquet appassito. Dexter, restio a lasciarsi istruire con letture impegnate, resta incastrato sotto una maschera che fatica a calzargli una volta sfumato l'ardore giovanile: in crisi d'identità, chi è quando né i riflettori né l'adorazione di Emma lo illuminano più? Adorabili, affiatati e frustranti, ormai al centro di ben due adattamenti, sono ricordarti a torto come i protagonisti di una storia strappalacrime. Un giorno, in realtà, è una commedia brillantissima nello stile di Harry ti presento Sally, animata dal ritmo perfetto dei dialoghi cinematografici e da una scrittura pervasa dalla stessa malinconia di certe Polaroid. Più che a un'istantanea, però, questo romanzo somiglia alle foto in movimento di Harry Potter: in 500 pagine ecco che tutto cambia, ecco che tutti cambiano. Si passa dalla leggerezza degli anni Ottanta alla tragedia degli attentati terroristici, dai messaggi in segreteria ai primi cellulari, dalle lauree ai matrimoni; arrivano poi i figli, i mutui da pagare, le separazioni, il metabolismo rallentato, le rughe d'espressione. I corpi si inflaccidiscono, le volontà si infiacchiscono. L'irrequietezza iniziale lascia spazio al consolante trantran della mezza età: soltanto litigare di politica estera, allora, garantirà alla coppia annoiata un sussulto inatteso.

Forse era condannata a essere una di quelle persone che passano la vita a provarci.

In Nicholls mi sono visto come attraverso uno specchio deformante. Contemporaneamente e di colpo, ho avuto la consapevolezza di chi ero, sono, sarò. È troppo presto per immaginarmi a quarant'anni; ma intanto sorrido già ai bambini per strada, scorro le inserzioni degli appartamenti in vendita, ingollo pasticche di Bioscaline per prevenire la stempiatura. Scommetto che Emma e Dexter ci saranno anche allora, pronti a saltare fuori come una lettera d'amore dimenticata in India tra le pagine di Casa Howard; come un ritornello di musica leggera che, sparato di ritorno dalla gita scolastica, a sorpresa legherà me e i miei studenti in un canto intergenerazionale. Sono nato il 4 aprile: un detto popolare dice che, se piove quel giorno, pioverà per quaranta giorni. Il “giorno” di Nicholls cade il 15 luglio: i goccioloni a San Swithin sono sintomatici di un'estate piovosa. Coincidenze, dite? A quindici anni credevo che i film, i libri, le canzoni cambiassero la vita. A ventinove, mi davo dell'illuso. A trenta ho espresso un desiderio: non svilire mai la meraviglia degli adolescenti che siamo stati. A giudicare dalla sommessa euforia di questa rimpatriata, ho sempre avuto ragione. Ho riposto l'ombrello, piantato le candeline col numero trenta alla base della mia pianta grassa: sarà una primavera serena. Em e Dex, mancate sempre. Mancate già.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Smiths - There Is a Light That Never Goes Out

lunedì 29 aprile 2024

Recensione: Ho qualche domanda da farti, di Rebecca Makkai

| Ho qualche domanda da farti, di Rebecca Makkai. Bollati Boringhieri, € 19, pp. 480 |

Come in Le regole del delitto perfetto, un'insegnante dà ai suoi allievi un singolare compito per casa: indagare su un omicidio compiuto trent'anni prima. Come in Only Murders in the Building, l'ossessione per il true crime spinge un gruppo di detective improvvisati a ficcanasare tra i dettagli di una storia di sangue: non andrà bene. Rebecca Makkai torna in libreria, con un thriller perfetto, su carta, per diventare una serie TV. Prolisso e dispersivo, invece, invoglia più a mandare avanti veloce che a fare binge watching. L'intreccio, destinato a dipanarsi in quasi cinquecento pagine ma non a trovare una risoluzione definitiva, gioca con la nostra ossessione per la verità. Davanti a un caso di cronaca nera, siamo tutti voyeur. Non ci rassicurano nemmeno i verdetti. Quando qualcuno viene incriminato, di rado crediamo che giustizia sia realmente stata fatta. Olindo e Rosa sono gli artefici della strage di Erba? Il DNA che inchioda Bossetti è stato sistemato ad arte sulla biancheria di Yara? Amanda Knox, col suo visino d'angelo, ce la conta davvero giusta? Per quanto immaginario, il giallo di Makkai parla dell'ennesima vittima di femminicidio: Thalia, sedici anni, fu trovata riversa nella piscina della scuola.

Solo perché non riesci a immaginare qualcuno che fa qualcosa non significa che non ne sia capace.

Correvano gli anni Novanta. Gli adolescenti consacravano altari a Kurt Cobain e gli assassini erano puntualmente afroamericani: così è stato per Omar, preparatore sportivo, condannato per l'omicidio dell'adolescente. Si tratta di un caso di mala giustizia? Bodie Kane, ex allieva della Granby ormai celebrare nell'ambito della critica cinematografica, torna sulla scena del crimine. Divorziata e irrisolta, rivive il passato a ogni passo, con la speranza di cambiarlo. I suoi vecchi professori sono ancora in carica. I ricordi delle amiche e dei conoscenti, dei bulli e delle spasimanti bruciano ancora nell'orgoglio. Per fortuna sono cambiati i rapporti di genere, anche se l'ondata me-too travolge anche l'ex marito. Per fortuna sono cambiati gli adolescenti, più schierati. L'autrice si impelaga in un romanzo che ha troppa carne al fuoco. Il giallo passa presto in secondo piano, appesantito dalle stoccate femministe; dalle shitstorm su Twitter a proposito di molestie e razzismo; dalle riflessioni su un falso Eden, provinciale ed elitario quanto il sistema giudiziario americano. Cara Makkai, anch'io ho qualche domanda da farti. Perché dilungarsi con le relazioni sentimentali della protagonista? Perché il continuo rivolgersi a Bloch, professore di teatro sotto sospetto, senza mai farlo comparire in scena? Perché lasciare spazio alle teorie del complotto, ai dati, alle statistiche, se la riapertura del processo avviene a porte chiuse? Logorroica, tergiversi e impieghi fiumi di parole per distoglierci dalla povertà della tua inchiesta. Inefficace come thriller, il tuo ultimo romanzo può funzionare soltanto se letto in chiave amarcord. Più che un maxiprocesso, infatti, è una pizzata di classe in cui tutti parlano troppo e troppo forte mescolando gossip e tragedie alle foto d'epoca. Per essere al centro dell'attenzione, e dei disastri. Per sentirsi vivi.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Sophie Ellis-Bextor - Murder on the Dancefloor