È una delle serie dell’anno corrente, ma lo sarebbe stata
anche di quello passato. L’ho recuperata in ritardo, con ben due
stagioni a disposizione. The Bad Guy non è ciò che sembra. Vedi Lo
Cascio, leggi “mafia”, immagini la solita serie italiana: un giudice
coraggioso, una lotta prometeica, una morte gloriosa. Dimenticatelo.
Perché Nino, da anni impegnato nella caccia al latitante Suro, viene
incastrato. Creduto morto, torna con una nuova identità. Non vuole vendicarsi
soltanto del boss, ma dello Stato. Intrigante come il Conte di
Montecristo, caustico come Walter White, un brillante Lo Cascio compie una
rapida ascesa al fianco dei cattivi. Riuscirà a non sporcarsi le mani, tra
pizzi, appalti e clan da aizzare l’uno contro l’altro? Dirige un duo, ma,
nonostante lo splatter e l’ironia pungente, non si tratta dei
Coen. Vulcanici e con ambizioni internazionali, Fontana e Stasi guidano un cast
in stato di grazia – al suo meglio Pandolfi, sorprendente Catania, folgoranti Maenza
e Caramazza – in una commedia nera che immagina un covo criminale in un parco
acquatico e perfino il ponte sullo Stretto. Tra una risata e l’altra, non
mancano cenni all’attualità né invettive. Nemmeno il Ministro degli Interni è senza colpe: ha assoldato il sicario Accorsi per mettere a tacere ogni dissenso. Il più buono, insomma, ha la rogna. Il più
cattivo, invece, si è meritato una serie così. (8,5)
Lila e Lenù ci dicono addio per sempre. A sei anni dalla prima
stagione, a dieci dall’ultimo romanzo, si congedano. Mazzucco e Girace, troppo
giovani per interpretare due quarantenni, cedono il posto a Rohrwacher e
Maiorino seminando qualche dissenso in rete. Mentre Maiorino non scontenta,
aiutata da una forte somiglianza con l’interprete precedente e da una napoletanità che
la rende, a tratti, troppo teatrale, Rohrwacher è stata una scommessa vinta: il
suo accento lascia un po’ a desiderare, ma compensa con due occhi parlanti,
silenzi pieni di significato e un fascino che ricorda quello di Monica Vitti. La
migliore del cast, però, è Vitolo: nei panni dell’anziana Imma è di
un’intensità straziante. Dirige Bispuri, finalmente una donna, e si nota dai
dettagli. Entrambe nel rione, entrambe madri, le protagoniste tornano
inseparabili come lo erano da bambine. Ma, tra le macchinazioni dei Solara e
una tragica sparizione, perfino dieci episodi sembrano pochi per contenere i
misteri della “smarginata” Lila. Nonostante la cura di regista e sceneggiatori,
Storia della bambina perduta non è stata accolta all’unanimità: è
l’adattamento più arduo dei quattro. Matura ma imperfetta, densa ma dalla forza
altalenante, la quarta stagione ci lascia definitivamente orfani di Ferrante.
(7,5)
Perché siamo tutti ossessionati dalle serie true crime, ma
ci indigniamo quando a produrle sono gli italiani? Accolta tra polemiche e
sabotaggi – troppo brutto il poster, troppo messa in cattiva luce l’innominabile Avetrana –, la serie del sorprendente Pippo Mezzapesa
è da vedere senza pregiudizi di sorta. Asciutta e accurata, ma caratterizzata
da uno sguardo fortemente autoriale a metà tra il cinema grottesco dei Fratelli
D’Innocenzo e i southern gothic americani, non cede a facili illazioni. Qui non è
Hollywood vuole raccontare l’irrequietezza adolescenziale, una provincia da
Far West, lo sciacallaggio a opera di giornalisti e compaesani: mai proporre
nuove ipotesi a proposito di colpevoli presunti o moventi. Quattro episodi,
quattro punti di vista, un cast impreziosito da alcuni fra gli attori più
intensi dell’annata: le irriconoscibili Perulli e Scalera, al centro di una
impressionante trasformazione da Actors Studio, e uno struggente De Vita. Il
risultato è un folk horror dall'impianto originalissimo. Un meticoloso scavo psicologico.
Un’ode alle gioventù invisibili, mentre i Queen cantano di eternità e gli
altri, indifferenti, passano oltre: perché il tuo caso, Sarah, ormai conta più di te.
Questa serie, a quindici anni dal delitto, ripristina finalmente l’ordine.
(7,5)
Non è necessario essere fan accaniti della musica degli 833 per
recuperare e amare la serie TV a loro dedicata. L’ottimo Sidney Sibilia, da
sempre appassionato di strane storie vere, utilizza l’ascesa del curioso duo di Pavia
per raccontarci la provincia italiana, l’industria musicale degli anni Novanta,
la storia di un’amicizia lunga e ispiratissima. Dalla scoperta casuale della
musica (tutto per conquistare la ragazza più bella del liceo) alla fatica per
imporsi (a dispetto del successo istantaneo riscosso, i nostri eroi erano considerati troppo
impresentabili per la televisione), la prima stagione della serie Sky è molto più che un canonico biopic:
un feel-good movie lungo otto ore che funziona sia come appassionante romanzo di formazione,
sia come juke-box tutto da cantare. Tra disavventure rocambolesche e cameo divertentissimi (i
giovani Fiorello, Jovanotti, Maria De Filippi), Hanno ucciso l'Uomo Ragno si rivela un’ode al
cuore puro di Repetto. Max Pezzali cantava. Cosa faceva, invece, il danzerino
Mauro? Ancora prima che esistessero, era il più grande fan degli 833. Come Elia
Nuzzolo, bravo ma acerbo, avremmo tutti bisogno di un motivatore che
somigli a Matteo Oscar Giuggioli: è nato un nuovo stato d'animo, è nata una
star. (8)