sabato 30 novembre 2013

Recensione: Le stanze buie, di Francesca Diotallevi

Ciao a tutti, amici, e buon sabato. Come state? A volte ritornano, e a volte ritorno. Dopo quasi una settimana dall'ultima recensione, rieccomi qui, a parlarvi di un romanzo che – senza riserve – consiglio a tutti quanti. Nei miei giorni d'assenza, infatti, sono stato in meravigliosa compagnia: quest'esordio è prodigioso davvero. Altro che Masterpiece... Grazie ancora, quindi, alla gentilissima Francesca per avermi fatto il dono di inviarmelo. Io, d'altra parte, ho donato al suo romanzo una delle mie canzoni preferite. Augurandovi buona lettura, vi abbraccio, dandovi appuntamento a breve: ho già tre film di cui parlarvi! Un abbraccio, M.
Allora non sapevo che l'amore è così. Non ti lascia scelta.

Titolo: Le stanze buie
Autrice: Francesca Diotallevi
Editore: Mursia
Numero di pagine: 390
Prezzo: € 22,00
Sinossi: Torino 1864. Un impeccabile maggiordomo di città viene catapultato nelle Langhe: per volere testamentario di un lontano zio, suo protettore, dovrà occuparsi della servitù nella villa dei conti Flores. Il protagonista si scontra così con il mondo provinciale, completamente diverso da quello dorato e sfavillante dell'alta società torinese, e con le abitudini dei nuovi padroni e dei loro dipendenti. Nella casa ci sono un conte burbero, una donna eccentrica e anti-conformista, ma anche sola e infelice, un cameriere dalla doppia faccia e una vecchia che sa molte cose, ma soprattutto c'è una stanza chiusa da anni nella quale non si può assolutamente entrare. A partire da questo e da altri misteri il maggiordomo si troverà, suo malgrado, a scavare nel passato della famiglia per scoprire segreti inconfessati celati da molto tempo e destinati a cambiare per sempre la sua vita.
                                                    La recensione
La mente, ora l'ho capito, è destinata a dimenticare. A lasciare andare. Non il cuore. Ciò che esso ricorda, non può essere cancellato. E, come un grande illuso, esso rifiuta l'abitudine, l'assuefazione alla mancanza di ciò che non può smettere di desiderare.” Io non credo ai fantasmi. Io non ho paura dell'oscurità. O così, almeno, mi piace pensare. Le stanze buie di Francesca Diotallevi, tuttavia, mi intimorivano, e tanto. Quando sentii parlare per la prima volta del romanzo, ero in una stanza invasa dalla luce di un sole che ancora sapeva scaldare e far sudare; in una stanza tutt'altro che tetra come quelle svelate enigmaticamente dal titolo, ma, d'un tratto, altrettanto angusta. L'estate, andando via, mi stava salutando e io, pronto per la partenza, stavo salutando, come se fosse stata l'ultima volta, la mia casa, invasa da scatoloni e scatoloni che, in quei giorni sempre più brevi, ci rubavano spazio, aria, fatiche preziose. All'ombra di quell'ultimo sole, come nell'indimenticabile canzone di un poeta di nome De André, dormivano ancora uffici stampa, case editrici, librerie, blogger pigri e nostaligici come me. Poi, il trillo familiare e inaspettato di una nuova email. La mia casella di posta, assonnata e stanca per via di quei mesi di assoluto e dolce far niente, poltriva, indolente e scarsamente utilizzata, come tutto il resto. Aveva dimenticato di essere lì per un motivo valido. Ad aspettarmi, la richiesta di un'esordiente. Una di quelle cose da maneggiare con delicatezza e cura estrema, su cui – come con uno di quei miei ingombranti e pesanti scatoloni – qualcuno avrebbe dovuto scrivere, in bella vista e in grande, anche per i miopi come il sottoscritto, Fragile. Ho capito immediatamente che il romanzo di quella giovane donna che si rivolgeva a me personalmente, chiamandomi per nome, con semplicità e franchezza, non era uno di quegli esordi malsicuri ed esili che, nell'ultimo periodo, mi ero ritrovato a valutare, con una diplomazia e un'insicurezza che non fanno parte del mio tipico agire.
Per varcare quelle Stanze buie non avrei dovuto aver paura di calcare il passo: i pavimenti di marmo, solidi come pietra e lucidi come argenteria lustrata da mani esperte, non sarebbero crollati sotto il peso delle gravose aspettative che incidevano sulla consueta leggerezza del mio corpo. Sapevo che Le stanze buie sarebbe stato un ottimo romanzo su tutti i fronti, lo sentivo dentro di me, in profondità, eppure non ero pronto ad iniziarlo. Non sapevo se mai ne sarei stato all'altezza, se mai avrei potuto apprezzarlo pienamente, se mai avrei avuto il coraggio di intraprendere una lettura di tale portata - apparentemente pesante, apparentemente impegnativa, apparentemente pretenziosa. Troppi apparentemente. Ma le apparenze, come dicono i proverbi dei vecchi saggi, ingannano, sempre. Semmai avrete la fortuna di avere questo romanzo tra le mani, non fate il mio stesso errore. Non aspettate segni che il cielo non manderà. Gettatevici a capofitto. Così, senza pensare alla bellezza e allo stupore che vi avvolgeranno in seguito, collocandovi delicatamente al centro di uno sterminato labirinto innevato di cui non vorreste, quasi quasi, trovare via d'uscita; salvezza... libertà. La classe è una cosa che si acquisisce con l'età: così ho imparato leggendo. Una cosa da signore, e da signore ricche. Francesca Diotallevi, eppure, non ancora trentenne e con quest'unica pubblicazione all'attivo, inaspettatamente, ha classe: è palese, innegabile, naturale, contagiosa. Ha classe da vendere. Mette i brividi, scalda l'anima. Regala sensazioni opposte, regala tutto. Il fuoco e la neve. Il buio e la luce. L'odio e l'amore vero. Generosamente e completamente, Francesca regala sé stessa. Il suo romanzo ha il suono di una storia rievocata durante una sera d'inverno, tra teiere che fumano e ceppi di legno che alimentano scintille tremolanti e tizzoni ardenti. Ha l'autentica bellezza di un racconto antichissimo e sottratto, in religioso silenzio e con religioso rispetto, alla polvere di un tempo ormai passato. Ha le fattezze di un manoscritto d'altri tempi, vergato con piuma e inchiostro su un prezioso scrittoio d'epoca. Semplicemente, non sembra un esordio. Non ne ha i limiti, le pecche, i refusi, le perdonabili e tipiche ingenuità. Semplicemente, ha voce sua
Una voce matura e ferma che può costruire grandi cose, grandi immagini, grandi case. L'autrice accoglie e abbandona il suo lettore con quel bilanciamento sublime di forze ed equilibri opposti che riempiono degli stessi brividi che dà la febbra alta: quella che fa scoppiare i termometri e tremare come foglie tra le lenzuola. Ci accoglie all'arrivo in stazione del protagonista. Un cappotto troppo pesante per proteggersi dalle temperature troppo pungenti, una valigia vuota, un testamento in tasca, insieme a una lettera di referenze e a un biglietto di solo andata. Sbuffi di fumo caldo e di vapore ovunque. Ci espone senza preavviso, poi, al gelo, in una tempesta di neve e fulmini in cui, tra i fiocchi che cadono e si perdono nel bianco, la mano del destino compone il volto evanescente di una donna vestita di lacrime, ricordi e seta candida. Riesce ad erigere luoghi che sanno magicamente parlare e una casa spaventosa e stranamente bellissima che scricchiola, dalla soffitta alle fondamenta, per gli spettri di un vecchio amore mai dimenticato. In queste stanze in cui l'ingresso della luce è severamente proibito e in cui ogni cosa ha rigorosamente il suo posto, rivive la storia infelice di un Alfredo con una fanciulla bella e fatale quanto la Violetta della Traviata di Verdi e aleggiano, come granelli di polvere, echi di voci appartenute ad altri autori e ad altri capolavori che, anche nella classica notte fredda e tempestosa delle ghost story, sconfiggerebbero la paura del buio al servizio della meraviglia. Chissà se il protagonista, Vittorio, con i suoi guanti pulitissimi, i suoi vestiti senza mai una piega e il suo volto senza mai un'espressione di gioia o tristezza, riuscirebbe a scorgere, nel riflesso degli specchi o dal buco della serratura di una porta sprangata, gli ospiti illustri che, in segreto, popolano i corridoi di villa Flores e questo romanzo che parla di lui e non solo. Protagonista grande ed umano, senza saperlo, condivide la scena con personaggi letterari e cinematografici che l'autrice, con grande professionalità e rispetto, omaggia apertamente, facendo confluire nel complicato Vittorio la pacata professionalità dell'Anthony Hopkins di Quel che resta del giorno, i misteri di Albert Nobbs, l'oscura e fitta poesia di Il fantasma dell'opera e Giro di vite, la passione logorante di Moulin Rouge. Nelle stesse stanze, lo spirito costante delle sorelle Bronte; soprattutto quello di Charlotte e del suo Jane Eyre, l'opera a cui lo scritto della bravissima Francesca somiglia di più, sia per spessore che per l'originale maestria con cui riesce ad abbracciare pienamente generi letterari lontani, ma perfettamente conciliabili. 
Che il romanzo fosse bello, infatti, non avevo impiegato molto tempo per capirlo, ma è stata la parte centrale – così inaspettata, così romantica – a strapparmi dalle labbra, più e più volte, un ammirato ed estasiato wow. Si va a formare, pagina dopo pagina, confidenza dopo confidenza, un rapporto sobrio e delicato che saprebbe fare innamorare anche il lettore più cinico: sarà che, in tutta onestà, Le stanze buie, tra le altre cose, trova anche lo spazio e il tempo per intrattenere con una delle storie d'amore più belle che quest'anno abbia saputo, personalmente, regalarmi. Mi ha emozionato, tantissimo, e, questa volta in un'inedita chiave maschile, ha invertito con grande eleganza i ruoli della timida Jane e del distaccato Signor Rochester, spostando una dichiarazione d'amore altrettanto deliziosa e convincente da un verde giardino inglese a un cortile della provincia piemontese invaso da una tempesta di neve senza fine apparente. Valida controparte femminile, sebbene circondata da uno stuolo di servitori che costituiscono squadre di incredibili comprimari, è Lucilla Flores, moglie di un marito che non ama e madre di una figlia che, forse, ama troppo. Sola, con le ali spezzate, è una colomba in gabbia. Non ha via d'uscita. Ma ha capelli sempre spettinati che le sfuggono dalla crocchia, il collo di un cigno di porcellana, un profumo sempre diverso e sempre ipnotico e un laboratorio magico pieno di fiale e beccucci in cui, in una gabbia polverosa, custodisce un uccellino ferito, la sua perduta libertà e le grandi speranze per la sua piccola Nora, una bambina problematica che non parla con amici immaginari, ma con fantasmi in cerca di pace. Il romanzo ha una struttura al limite della perfezione: simmetrica, elegante, corposa. Ricorda Kate Morton e Sarah Waters per la tessitura di una superba e riuscita cornice storica, Zafòn e Diane Setterfield per quegli intrecci di storie che non confondono mai, ma sanno incantare. Francesca Diotallevi, insomma, richiama per lo stile e il gusto inusuale alcuni degli autori di narrativa, contemporanei e non, che il mondo è stato così magnanimo da farci conoscere. E' italiana. E' al suo esordio, anche se risulta difficile crederlo. E, strano ma vero, di suo pugno, ha scritto a me per avere un'opinione su un romanzo che è praticamente un gioiellino senza difetto alcuno. Non posso che ringraziare con il cuore in mano: una meraviglia del genere non te la propongo esattamente ogni giorno. Le stanze buie è il romanzo di cui tutti dovrebbero necessariamente parlare. Il prezzo è oggettivamente eccessivo e l'edizione, poco più che discreta, non lo giustifica affatto, vero; ma, se vi volete bene un po', regalatevelo.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Birdy – Skinny Love

domenica 24 novembre 2013

Recensione a basso costo: Gli acchiappazombie, di Jesse Petersen

Ciao a tutti, amici miei, e buona domenica! Il weekend, oggi, ha portato una nuova recensione. Ringraziando la casa editrice per avermi inviato il romanzo a sorpresa, vi abbraccio tutti e, nella mia solitudine dei numeri primi, vado a vedere un po' cosa mangiare a pranzo. Potrei diventare uno chef, vi avverto! Buona giornata, M.

Titolo: Gli acchiappazombie
Autrice: Jesse Petersen
Editore: Multiplayer Edizioni
Numero di pagine: 223
Prezzo: € 9,90
Sinossi: L'apocalisse zombie ha portato fortuna a Sarah e David. Il loro matrimonio va a gonfie vele. Comunicano bene, condividono le responsabilità e, adesso, stanno avviando un'impresa. Acchiappazombie: per soddisfare le vostre esigenze di eliminazione zombie. Ci sono un sacco di zombie e questo significa un sacco di clienti... Solo che uno di loro non li vuole morti, ma vivi e pronti per la sperimentazione. Gli scienziati pazzi possono essere clienti difficili e, questa volta, Sarah e David potrebbero aver messo troppa carne al fuoco.
                      La recensione
Esattamente una settimana fa, recensivo Shadows, prequel del romanzo che – divertente e veloce – aveva segnato l'inizio della mia tanto desiderata estate. Per una pura coincidenza, proprio sette giorni dopo, ho letto il secondo capitolo di un altro romanzo – altrettanto divertente, altrettanto veloce – che, invece, mi aveva piacevolmente accompagnato in una situazione decisamente meno piacevole: l'ultima settimana prima degli orali. Panico, follia, delirio assoluto. Libri ovunque, post it appiccicati anche tra i capelli e sulle T-Shirt, dizionari aperti sulla scrivania come trappole mortali e, in mezzo a quel pandemonio, un libro animato da protagonisti che vivevano in un disastro ancora più grande e temibile del mio: l'apocalisse. Loro mi avevano insegnato, nel loro piccolo, in quelle poche pagine disseminate di morti, risate e tanto amore, come affrontare l'inevitabile con stile. Senza mai perdere la speranza, il sorriso... e la testa. E, quest'ultima cosa, non è da intendere in senso lato, proprio no!
Finché zombie non ci separi, come l'Obsidian di Jennifer L. Armentrout, non era il libro dell'anno, e non voleva nemmeno esserlo: semplicemente, era la lettura spensierata e buffa di cui tutti, ogni tanto, hanno bisogno. Era un antidepressivo diventato libro. Era L'alba dei morti dementi diventato romanzo. Il tema della fine del mondo è noto mondialmente almeno quanto la mia incostanza: sarò, probabilmente, uno dei pochi lettori al mondo, infatti, a non scalpitare di gioia all'idea di conoscere, a poca distanza di tempo, i risvolti delle saghe che ho letto. Mi stanco facilmente e preferisco che il tempo limi meglio i miei ricordi, in modo da frenare le aspettative ed, eventualmente, la noia, tra un romanzo e l'altro di una serie. Anche con il secondo romanzo di Jesse Petersen ho fatto un'eccezione: sarà finita meglio o peggio rispetto a quella brutta delusione chiamata Shadows? Meglio, decisamente meglio. Gli acchiappazombie, infatti, è perfettamente coerente con il contenuto del primo volume. L'interruzione quasi non si percepisce: è graduale, delicata, naturale. Come Sarah e David non si sono presi una pausa nella loro corsa verso la vita, così l'autrice non ha perso inutilmente tempo prezioso: è tornata, grazie alla nostra Multiplayer Edizioni, in tempi record, con lo stile, i personaggi e la leggerezza che me l'hanno fatta conoscere e, in parte, anche amare. Ancora una volta ha fatto il suo dovere, rispettando promesse fatte e le scarse aspettative di sorta: mi ha divertito. Tanto. Il primo capitolo, con personaggi proiettati dalla routine al set di un film splatter con le risate registrate di sottofondo, aveva più trucchi e più dettagli per fare ridere e sorprendere. Gli acchiappazombie, invece, più vicino ai tanto citati Mad Max e Resident Evil, questa volta, sceglie di parodiare i film più fisici, adrenalinici ed estremi del genere. Ridere con la versione non-morta di Mr & Mrs Smith era facile; si può farlo, invece, davanti alle armi e ai colpi di kung fu di sexy eroine in latex alla Kate Beckinsale? Con la Petersen tutto è possibile. In un'America a pezzi e infestata da gente letteralmente a pezzi, la narratrice di sempre, Sarah, ha lavorato ad una redditizia attività anticrisi e, idolo delle masse, dall'alto della sua nuova mansione, può finalmente fare un'autopsia degli stupidissimi film d'azione, pieni di bellocci e bellocce con le tutine generosamente imbottite, che il suo David l'ha sempre costretta a vedere, in serate molto poco romantiche passate sul divano mezzo sfondato del loro appartamento ormai andato in fumo. 
Perché Hollywood dice un mare di stronzate. Gli zombie non sono affascinanti e romantici come in Warm Bodies, la Pretty Woman di turno non troverà nessun Richard Gere in limousine e smoking a strapparla via dal suo corpulento pappone, le storie d'amore tra adulti non sono come mostra The Notebook, Underworld è una palla colossale. I pantaloni di pelle stringono, fanno sudare le cosce, ingigantiscono preoccupantemente il sedere (colpa loro, non dei fornitissimi magazzi del McDonald sopravvissuti a una catastrofe planetaria!) e non facilitano aggraziati e agili calci fluttunati alla Jackie Chan. Il rischio di somigliare a un Kung Fu panda vestito di nero è dietro l'angolo, siete avvertiti! Da disoccupati a icone, però, in situazioni come queste, il passo è breve: morti tutti, morta la crisi economica. Mentre Finché zombie non ci separi era impostato come un alternativo opuscolo sulla terapia di coppia “fai da te”, Gli acchiappazombie è un manualetto per piccoli imprenditori desiderosi di crescita, arricchimento personale, armi da brevettare e sangue marcio. 
A bordo di un furgoncino ridipinto che richiama quello dell'indimenticabile Scooby Doo, Sarah e David uccidono morti viventi su commissione. E fanno affaroni, signorsì! Un autentico toccasana per l'autostima di Sarah: non deve fare autografi ai suoi fan, ma ha comunque tipi in astinenza forzata che, ad ogni occasione, nella folla, le cercano di palpare le tette. E' la popolare, desiderata e ricca Paris Hilton dell'apocalisse. Shhh... Non vi fate sentire! Lei preferisce Anne Hathaway: più raffinata, meno estroversa e con una tuta attillata che, nell'ultimo Batman, le stava da Dio. La relazione con il suo David è cresciuta, non si è arresa ed è sopravvissuta a un avvento di disgustosa violenza che li ha trovati più forti, innamorati e affiatati di prima. Ma, cosa risaputa, nemmeno loro possono sfuggire alla famosa crisi del secondo romanzo... altro che crisi del settimo anno! Ci sono passati tutti e, con un affascinante scienziato pazzo similissimo a Luke Wilson - non il biondo con il naso storto, quello dei Tenenbaum! - a far girare la testa alla nostra protagonista, riusciranno i due a uscire sani e salvi, con la fede al dito, il cuore al posto giusto e nessun morso bavoso sul collo? Scopritelo voi, tra ironici triangoli sentimentali, zombie bionici e undicenni pestiferi che amano la guida spericolata, la famiglia, l'azione, i colpi di scena finali. Gli acchiappazombie è un libro onesto, leggero, rilassante e coinvolgente che, caso raro, sa restituire ai lettori il poco che promette. Finché il divertimento facile è ciò che cercate, affidatevi a Jesse Petersen: la figlia segreta di George A. Romero e Carrie Bradshaw ha tutte le carte in tavola e, questa volta, sembra essersi divertita a leggere e fare a pezzi anche qualche noioso libro di economia. O, magari, facendo zapping, si è soltato trovata davanti una puntata di The Apprentice; prima di spegnere la TV sul faccione di Briatore, ha elaborato questo suo secondo, esilarante romanzo. Una satira, diluita con tanto sangue e acqua di rose, che fa più che bene il suo sporco e duro lavoro. Per sterminare zombie, infatti, è severamente vietato essere schizzinosi. Le mie tre stelline sono riconfermate e il prezzo del volume si abbassa di ben cinque euro. Anche se, qualche fastidioso errorino di stampa qui e lì, si sarebbe potuto evitare, onestamente, a una rilettura più attenta e accurata.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Capital Cities - Safe & Sound

venerdì 22 novembre 2013

Recensione: The Returned, di Jason Mott

Ciao a tutti, amici. E' già venerdì! Questo weekend, ho deciso di non tornare a casa: studio (si spera!), film (ovvio!), freddo (purtroppo!). Questa mattina, subito dopo la colazione, mi sono messo all'opera: ho finito il romanzo che avevo in lettura e, immediatamente, ho deciso di parlarvene. Non è un romanzo da consigliare a tutti, ma io sono tra quelle persone che l'hanno apprezzato così com'è: incompleto, un tantino lento, frettoloso, ma emozionante. Decisamente. Ringraziando la casa editrice, vi auguro una buona lettura e uno splendido weekend. Un bacione, M.
Jacob rappresentava la sconfitta del tempo. Era il tempo fuori sincronia, un tempo più perfetto di quanto non fosse mai stato. Era la vita come avrebbe dovuto essere. Questo erano tutti i Redivivi.

Titolo: The Returned
Autore: Jason Mott
Editore: Harlequin Mondadori
Prezzo: € 16,00
Numero di pagine: 336
Sinossi: Per Harold e Lucilie Hargrave la vita è stata felice e amara allo stesso tempo, da quando hanno perso il figlio Jacob il giorno del suo ottavo compleanno, nel 1966. In tutti questi anni, si sono adattati a una vita tranquilla, senza di lui, lasciando che il tempo alleviasse il dolore... Finché un giorno Jacob, il loro dolce, prezioso bambino, misteriosamente, ricompare alla loro porta, in carne e ossa. E ha ancora otto anni. Qualcosa di strano sta succedendo... i morti stanno tornando dall'aldilà. Mentre il caos rischia di travolgere il mondo intero, la famiglia Hargrave di nuovo riunita si ritrova al centro di una comunità sull'orlo del collasso, costretta a fare i conti con una realtà nuova quanto misteriosa e con un conflitto che minaccia di sovvertire il significato stesso di genere umano.
                                   La recensione
Alcune persone chiudono le porte del loro cuore quando perdono qualcuno. Altre tengono porte e finestre aperte, lasciando che i ricordi e l'amore vi passino liberamente. E forse era così che doveva succedere. Stava succedendo lo stesso in tutto il mondo.” The Returned racconta la storia di uno, due... mille ritorni. Ritorni di aspiranti Ulisse che, in cerca della strada per arrivare dalle loro amate e personali Penelope, hanno attraversato mari, cieli, pericoli: l'intero aldilà. Sono ritornati dal regno dei morti con ricordi nebbiosi, corpi perfettamente intatti, menti lucide nelle quali, scolpita indelebilmente, c'era l'immagine della loro casa perduta. Il romanzo di esordio di Jason Mott è il post Warm Bodies, il post Pet Sematary: una toccante, dolorosa, originale e romantica testimonianza post mortem. Mostra, sin dall'accattivante incipit, un mondo improvvisamente sovrappopolato, in cui i morti – abbandonati i loro vecchi e polverosi giacigli – camminano insieme a noi. Al nostro fianco. Quando non ci sarà più posto all'inferno, i morti cammineranno sulla terra: così recitava la frase promozionale dell'horror ormai cult diretto dal leggendario George A. Romero. Lui, in quella celebre pellicola del 1978, parlava di zombi; parlava di sangue, morte, malvagità. Di creature sputate dalla gola rovente e catramosa dell'inferno. La cosa sorprendente di The Returned è il sapere scavalcare abilmente il cliché per eccellenza, pur partendo da punti di partenza piuttosto simili, nelle linee generali. Inizialmente, pieno di entusiasmo, avevo avuto l'impressione che il romanzo di Mott fosse una sceneggiatura perfetta per un film perfetto. Era, almeno nella prima parte, uno di quei libri che non riesci a poggiare sul comodino senza aver prima conosciuto la fine della storia. Pieno di inquietudine, rabbia sommessa, sussurri e bisbigli che, alla resa dei conti, dicono cosa, esattamente? Parole d'amore. Nessuna paura, nessun timore. Ma c'è il pericolo costante, c'è la violenza dell'uomo, c'è il dubbio, onnipresente come un chiodo fisso. La storia si apre con il risveglio di Jacob, otto anni. Confuso e disorientato, si sveglia in un posto che non conosce, tra genti che parlano lingue esotiche e misteriose, accanto a un fiume molto simile a quello che vide, cinquant'anni addietro, prima di chiudere per l'ultima volta gli occhi. Durante il suo lungo sonno ininterrotto, tante cose sono cambiate: Jacob sa che non bisogna più aver paura del colore della pelle dell'omaccione gentile che lo sta per riportare a casa; sa che i Redivivi affollano il mondo, sfidando ogni equilibrio naturale; sa che i suoi genitori temono e sognano di riabbracciarlo ancora, dopo mezzo secolo di lontananza. Harold e Lucille Hargrave, però, non sono più la coppia giovane e briosa di una volta: sono vecchi, stanchi di vivere e di litigare tra loro, spossati e dilaniati dentro dal più grande dei lutti.
Loro, insieme a comprimari particolarmente riusciti, sono personaggi assolutamente meravigliosi, con il loro fare burbero, la falsa saggezza portata dalla vecchiaia, gli occhi opachi per la miopia e le inevitabili lacrime. Mettono in dubbio tanto, tutto, a quasi settant'anni: scoprono, infatti, una grande verità. Dio, se c'è, non ha tutte le risposte.
Sono figure composte da piccoli tasselli, e che vivono di piccole cose. E le piccole cose, come direbbe l'anziana e accorta protagonista, sono importantissime. Vivono ad Arcadia, una città in cui tutti si conoscono e in cui tutti, alla lontana, sono imparentati tra di loro; un posto lontano dal mondo, ma non dai meccanismi di uno strano e contorto cambiamento epocale. Vicini alle Sacre Scritture e ai sermoni domenicali, tutti, o quasi, reputano i Redivivi creature del male: Arcadia – insieme al resto del mondo – sta vivendo, infatti, una tragica storia da Antico Testamento. Lazzaro e i suoi figli mai nati sono usciti dal loro sepolcro. Eppure, nonostante la diffidenza, tutti hanno qualcuno da aspettare: aggiungono un posto in più a tavola, tirano la casa a lucido, spolverano il vecchio pianoforte del nonno di turno o il quadro di mamma e papà. La vecchia Lucille ha avuto una vita monotona e tormentata, passata ad addormentarsi in poltrona e a svegliarsi in un ricordo felice di un passato felice, insieme a un bambino brillante e vivace che – con i suoi fortini fatti di giocattoli – da grande sarebbe sicuramente diventato un onesto e ricco architetto. Insieme ai sogni, ci sono anche gli incubi, però: un'altalena vuota che il vento fa cigolare, un nascondiglio da cui non esce più nessun bambino sorridente, un fiume troppo profondo per un bagno benedetto dal sole del 15 Agosto. Il suo, il loro Jacob ritorna, e il suo ritorno è, a tratti, sinistro. A seguirlo, però, non è il tanfo della morte e i suoi occhi dolcissimi non sono destinati a decomporsi barbaramente da un secondo all'altro. E' bello, felice ed è vivo come lo era cinquant'anni prima; non inquietante, solo immensamente tenero e delicato. 
Lo sa sua madre, lo sa suo padre: un uomo duro, cinico e diffidente, che gira sempre con una croce tutta rovinata in tasca, ma che non può dimenticare il naturale, puro amore per il sangue del suo sangue. Imparerà a volere bene ancora – a una moglie splendida e splendidamente irritante e ad un dolce bambino non morto – durante una forzata prigionia nella vecchia scuola elementare di Arcadia: il luogo in cui gente ignorante e divorata dai pregiudizi ha chiuso crudelemente coloro che sono tornati in vita. Un triste e sporco campo di concentramento, alimentato da commoventi storie e ricordi sbiaditi che, forti, si levano al di là del filo spinato e oltre le armi dei soldati. Onirico, intenso, appassionato e credibile, The Returned è un romanzo strano e sfuggente, che si avvale di uno stile maturo e fluido – ho pensato a Stephen King e al Carsten Stroud di Niceville: pensate un po' - e di una sicurezza unica nell'ambito del crossover. Raffinatissimo. Intimista, complicato e sfuggente, lentamente imbocca una nuova strada – meno entusiasmante, o forse solo meno commerciale – e, sempre lentamente, ti imbriglia nelle sue domande senza risposta apparente, nella sua prosa d'altri tempi, nei suoi sentimenti viscerali che ti strizzano tutto quanto come una spugna. Lascia domande, non dà risposte. Eppure domande senza risposta non lo saranno mai per davvero: tocca a noi cercarle. Svegliarci, alzarci sulle nostre gambe e trovare tutte le infinite, sfuggenti e mutevoli risposte possibili. Lascia con sentimenti poco chiari, vero. Ma con una sensazione, allo stesso tempo, che, insieme ai brividi, striscia sulla nostra pelle: sulla nostra scorza dura di genitori, figli, lettori, esseri umani. All'inizio mi piaceva moltissimo, poi mi ha deluso, prendendo una strada tutta sua. Però ho capito che era quella la strada giusta, anche se lungo il percorso non ho trovato scritte – su un segnale stradale o su una corteccia d'albero – le risposte che sempre vado cercando. La ABC, immediatamente, si è ispirata al materiale di Jason Mott per un serial televisivo, dal titolo Resurrection. Il trailer (qui) mostra sequenze identiche, perfette. Ma i sentimenti? Non si sfilacceranno come un gomitolo di lana rossa, tra un episodio e l'altro? Tutta la verità è scritta nelle ultimissime pagine, nella toccante nota dell'autore: The Returned è un libro sul perdono: un libro per perdonarsi, per pareggiare i conti in sospeso; scritto più per sé stessi che per gli altri. Lo vedo fuori posto. Nella collana Harlequin, in TV, sullo scaffale dedicato al paranormal. E' un qualcosa di estremamente personale, ma sono felice come un bambino: l'autore è stato così generoso, infatti, da voler condividere questa sua visione ad occhi aperti con noi. Già la copertina, con quel bambino biondo a testa in giù, doveva farmi pensare a un altro libro altrettanto strano, altrettanto “fuori”: L'età dei miracoli. Dove la fantascienza diventava un'ottima scusa – la migliore - per parlare esclusivamente di noi stessi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Asaf Avidan – Reckoning Song (One Day)

lunedì 18 novembre 2013

Recensione: L'età sottile, di Francesco Dimitri

Ciao a tutti, amici miei. Sicuramente, in queste ultime settimane, girovagando sui vostri blog preferiti, avrete notato uno speciale Blog Tour dedicato a L'età sottile, l'ultimo romanzo dell'italianissimo Francesco Dimitri. Oggi è arrivato il mio turno. Per paura di non riuscire a rispettare la “scadenza”, ho letto il romanzo con qualche settimana di anticipo e, inaspettatamente, nonostante gli impegni, l'ho divorato in una manciata di giorni. Pazzesco. Devo ringraziare l'autrice Bianca Maconero (“Albion”) per aver amato così tanto questo romanzo e per aver dato il via a quest'iniziativa collettiva e la Salani che, gentilissima, ha inviato una copia del romanzo a ogni blogger partecipante. Per conoscere nel dettaglio le altre tappe, fate un salto qui, sul blog della mia amica Denise (scusate, ma sono in ritardo, altrimenti ve le avrei volentieri riassunte io nel post!) e ricordate che, a breve, il 25 Novembre, sul blog Il profumo dei libri partirà un imperdibile giveaway del romanzo. Non mancate. Buona lettura e a presto, M. PS. Scusate per l'ora. C'è stato, nel mio palazzo, un brevissimo black out di oltre tre ore. Cosetta da niente, insomma!
Pensavamo di essere al sicuro. Pensavamo di essere immortaliEravamo molto giovani e non sapevamo molte cose.

Titolo: L'età sottile
Autore: Francesco Dimitri
Editore: Salani
Prezzo: € 15,90
Numero di pagine: 396
Sinossi: Quando Gregorio incontra la Magia per la prima volta ha quattordici anni e l'infanzia gli sta scivolando di dosso come l'acqua del mare del piccolo paese del Sud dove va in vacanza. La proposta che gli viene fatta va oltre ogni immaginazione, e l'idea di diventare più potente di qualsiasi mortale sembra decisamente allettante... Se Gregorio accetta, però, dovrà nascondere a chiunque la sua nuova vita; dovrà tacere e mentire alla famiglia e agli amici di un tempo; dovrà abbandonare la sua normalità ed entrare in un mondo dove la parola è azione, e le azioni sono al di sopra di ogni giudizio. Un mondo di cambiamento costante, di pericoli mortali, di tradimento, ma dove l'amicizia è più potente della morte... Originale, spiazzante, crudo, onirico e realistico al tempo stesso, un romanzo di formazione che ci ricorda che ogni adolescente è mago, perché vuole conservare il potere dell'infanzia e trasportarlo integro nell'età adulta.
                                                    La recensione
Erano altri mondi, quelli. Il mio era fatto di asfalto e sudore e fatica, e di macchine che ti buttano fuori strada, e di malattie che ti uccidono nel giorno del tuo compleanno. Non era un mondo né brutto né bello: era arido. Se solo ci fosse stata una possibilità, l'avrei cambiato volentieri. Se solo.” La chiamano l'età sottile, l'adolescenza. Arriva e subito scappa via, lasciando ricordi agrodolci di impacciate prime volte e foto scattate in riva al mare, con Polaroid passate di moda, familiari che non ci sono più, sorrisi che – senza più il metallo degli apparecchi – sono più ampi, spontanei e sicuri. Passa, e ci lascia con discorsi densi di rimpianti che iniziano tutti con un familiare e puntuale Come eravamo... Tanto tempo fa - in un'epoca lontana dalla nostra, ma poi non così tanto - i giovani intellettuali tedeschi, arsi da fervore politico, smodate passioni e inestinguibile sete di giustizia, avevano coniato il termine Sturm und Drang, Tempesta e impeto. Non avevano Facebook, non conoscevano i miracoli del T9 o l'abominio delle abbreviazioni e, nella loro scrittura tutta bella infiocchettata ed elegante, avevano elaborato questo concetto, che, forse, suonerà altisonante e ostico, ma che – in realtà – non lo è nemmeno un po'. Tempesta e impeto è essere arrabbiati con l'universo; sbraitare contro una ragazza che non ricambia i nostri sentimenti e contro le autorità di genitori sempliciotti e pieni di preconcetti; celebrare la prima notte d'amore, la prima pubblica manifestazione di ribellione, il primo cuore fatto a pezzi. Anima e guida morale degli sturmer era un tale Johann Wolfgang Goethe e, ancora prima degli editor e del passaparola tra lettori, il suo I dolori del giovane Werther era stato elevato a simbolo di un'intera generazione e di un movimento destinato a rimanere, sui libri di testo di infelici studenti e nelle viscere di scioccamente e incomprensibilmente felici appassionati. Il nuovo romanzo di Francesco Dimitri - primo, tra l'altro, che leggo dell'autore - si sarebbe potuto chiamare così: I dolori del giovane Gregorio. Per Gregorio, un tempo erano questi i dolori: il suono della sveglia al mattino, lo stare lontano dalla sua fidanzata Chiara, il dover lottare tutto solo contro il padre, durante i viaggi della sua sorella maggiore, e le giornate noiosissime durante le vacanze estive al mare, passate in un posto da favola. Ma lui ha sedici anni, ricordiamocelo: le favole sono sopravvalutate, e lo stesso vale per Portodimare, una cittadina perennemente sonnecchiante, sulle sponde dello Ionio. Una sera, con le spiagge spopolate e il sole calante, un uomo misterioso e ben vestito gli si avvicina, proponendogli qualcosa di assolutamente imprevedibile e insensato. Levi non è un pedofilo e, soprattutto, non è un folle. Ha gli occhi e le rughe dei saggi, la voce carezzevole di un guro indiano. Eppure, quella sera di fine estate, è convinto che introdurrà il giovane Gregorio alla Magia. Quella curiosa lettera di Hogwarts, arrivata con qualche anno di ritardo, nasconde, però, un ticchettio sinistro. Come un bastardo pacco bomba recapitato a tradimento. E così l'ordigno espolode, nelle mani di un giovane uomo che, sotto sotto, non è poi così tanto infastidito quando gli adulti lo considerano ancora un bambino. 
E così, metaforicamente, un bambino di sedici anni viene fatto a pezzi, dilaniato dall'esplosione di un astro che – Dio sa dove – ha imparato a morire. Gli apprendisti stregoni di Francesco Dimitri sono adolescenti che si consumano. Che imparano sulla propria pelle trucchi mortali che il caro Harry Potter non insegna. Che muiono come animali, e in maniera così poco epica... Così poco nobile. Che, messi sottosopra dall'uso di sostante stupefacenti e droghe pesanti, sono inquadrati in strane riunioni notturne, stretti – completamente nudi e confusi – tra candele, pentagrammi e parole arcane. La chiamano l'età sottile, l'adolescenza. Perché è sospesa. E questa è una storia sottile. Fluttuante, ma tangibile. Dura come il cemento armato. Magica, ma senza avere nulla di fatato, etereo, lontano: la bellezza di essere al centro dell'attenzione, il brivido della truffa, il mare salato del sud dell'Italia... Vive semplicemente qui, tra noi che non possiamo comprendere i sovrumani e sfuggenti misteri del creato. Immersa, da capo a piedi, nel vero. Al centro di una strada immensa, solcata, notte e giorno, da una folla immensa come il mondo. Tra gente di carne e ossa, capace di amare, uccidere, combattere, morire, soccombere miseramente. Tra bene e male, indistinguibili ad occhio nudo per via della naturale miopia del genere umano tutto. Questa strada grandissima è parte di una città ancora più grande, e fatta di strade più grandi ancora: Roma. Eterna, tentacolare, notturna: inospitale nei luoghi oscuri in cui i flash dei turisti non balenano più. Gregorio ha un'idea particolare di cosa sia la magia; un'idea che coincide alla perfezione con quella del lettore medio, abituato a Lady in the Water, Nightmare Before Christmas, Gremlins, Neil Gaiman. Francesco Dimitri, con l'audacia e la leggera presunzione dei più bravi della classe, riscrive ogni regola. 
Indugia a lungo sulle turbe adolescenziali del suo protagonista e, usando alte citazioni dal sapore filosofico, firma un romanzo psichedelico, nero, bizzarro e cucito con immagini fuse violentemente insieme. I suoi maghetti fabbricano in casa le loro bacchette magiche, usando il ramo di un nocciolo cresciuto in un cimitero buio, carta vetrata, forni e phon. I suoi maghetti fanno sesso, sanguinano, sfidano il tabù della nudità a testa alta. Sono personaggi complessi, a tutto tondo. Shakespeariani, quasi. Ossessionati dal potere e intimoriti dal nemico più grande (una vita di solitudine), seguono il motto cane mangia cane... E tiranno mangia tiranno.“La realtà è una prigione, e la vita è una lotta per annientare i carcerieri.”
Tra una canzone cantautoriale e un pezzo dei Pink Floyd, L'età sottile è quello che Non mi uccidere ha rappresentanto nell'ambito dei romanzi gotici di nuove generazioni di vampiri. E' la novità. E' un'eredità da raccogliere, da custodire con gelosia e da tramandare con parsimonia. Intimo, profondo, vero, follemente lucido. Nudo e crudo. Straripante di dettagli morbosi, sbagliati, malati, eppure giustissimi così. Arso dentro, come i neuroni dalla droga, o come una falena divorata da una fiamma alimentata dall'inferno stesso. E' una lezione di stile, è una lezione di vita. Un libro che non va per il sottile. Il suono che ha il fantasy quando diventa poesia, semplice e incontaminata.“E' una teoria in cui credo ancora, quella per cui i posti (e le parole, e le fotografie) si consumano. Se un posto ti piace, non devi tornarci spesso, o la magia finisce. Solo ogni tanto. Quando serve.” Smetto di parlare, adesso. Almeno la magia, o quella cosa misteriosa che ad essa assomiglia, resterà. Vivrà ancora. Magari, vivrà in voi.
Il mio voto: ★★★★ +
Il mio consiglio musicale: Elisa – L'anima vola

domenica 17 novembre 2013

Recensione: Shadows, di Jennifer L. Armentrout

Buona domenica, amici miei! Questi ultimi giorni sono stati piuttosto produttivi. Dopo aver letto e recensito l'ultimo capolavoro della Rowling, in treno ho iniziato Shadows, il breve prequel della saga Lux. Romanzo che è piaciuto a tutti, ma a me nemmeno un po', purtroppo. Sarà per il prossimo appuntamento con la Armentrout, o almeno spero: ma sì, sono fiducioso. Ringraziando la Giunti per avermi dato modo di leggerlo, vi auguro una splendida giornata. Un abbraccio.
Siamo diversi solo in superficie. Ma nell'essenza siamo uguali. Ridiamo delle stesse cose, non abbiamo la più pallida idea di cosa faremo in futuro, non ci piace guardare la tv. E ci piacciono un sacco di dolci. E i nomignoli stupidi. E i nostri cuori battono all'unisono.

Titolo: Shadows
Autrice: Jennifer L. Armentrout
Editore: Giunti Y
Numero di pagine: 176
Prezzo: € 12,00
Sinossi: L'ultima cosa che Dawson Black si sarebbe aspettato era Bethany Williams. Come forma di vita aliena sulla Terra, Dawson e il suo gemello Daemon trovano che le ragazze umane siano... un passatempo divertente. Ma innamorarsi di una di loro sarebbe folle. Pericoloso. Allettante. Irrinunciabile. Bethany viene dal Nevada, e l'ultima cosa che cerca nel West Virginia è l'amore. Ma ogni volta che i suoi occhi incontrano quelli di Dawson si scatena un'attrazione innegabile. E anche se i ragazzi sono una complicazione di cui farebbe volentieri a meno, non riesce davvero a stare lontana da lui. Attratta. Desiderata. Amata. Dawson però nasconde un segreto inconfessabile che non solo può cambiare l'esistenza di Bethany, ma rischia di mettere in pericolo la sua vita. Si può rischiare tutto per una ragazza umana? Si può sfidare un destino inesorabile come l'amore?
                                                    La recensione
Di Obsidian non ho ricordi fortissimi, vividi, ma ricordi positivi. Ricordi felici, tutto sommato. Mi piace pensare a Jennifer L. Armentrout, infatti, come all'autrice che diede realmente il via alla mia estate 2013. Era il pomeriggio del primo luglio. Sfinito e felice, ero tornato a casa dopo gli orali della maturità e, prima di salire a casa, avevo trovato questo pacchetto nella mia buca delle lettere. Un libro sottile, leggero, spensierato. Come me da quel momento in poi. L'avevo letto nel mio primo pomeriggio in spiaggia da studente e uomo libero. Il sole batteva, il mare era una fresca tavola da surf e il resto era venuto da sé, così, semplicemente. In un baleno l'avevo finito: un urban fantasy su creature che viaggiavano alla velocità della luce, letto alla velocità della luce, per rimanere sempre in tema. E con un disteso sorriso a mille watt, alimentato dalla leggerezza senza peso di un cervello senza più pensieri e dall'ironica guerra tra sessi combattuta – ad armi impari – da un lui e una lei che facevano scintille. Uno stile freschissimo e una passionale e simpatica love story avevano reso quel particolare romanzo non indimenticabile, ma piacevole e spontaneo: cosa non da poco, in un vortice di storie troppo simili in cui, spesso e volentieri, Obsidian aveva corso il rischio di essere risucchiato. Il successo editoriale era garantito. Prezzo accessibile, protagonisti popolari e belli e tutto decisamente in linea con le mode e le tendenze odierne – tra incursioni su Facebook, Twitter e, soprattutto, Blogger. Il secondo e il terzo capitolo, di cui la Giunti Y si è velocemente accaparrata i diritti negli scorsi mesi, sono già chiacchierati e non tarderanno ad arrivare e, nell'attesa, arriva in libreria questo Shadows, un prequel della storia originale, incentrato su due personaggi minori di cui, indirettamente, i lettori avevano già sentito parlare: Dawson Black e la sua ragazza, Bethany. Daemon e Kathy, la passionale coppia che li aveva preceduti, avevano una spiccata personalità e un'alchimia scoppiettante che li rendeva convincenti protagonisti di un intreccio forse troppo, troppo semplice. Loro erano il cuore, il perché della saga: l'unico, credo. Sprovvisto dell'irriverente, pazza e adorabile narratrice di sempre, Shadows perde tantissimo e, a fine lettura, ho avuto l'impressione fastidiosa che Dawson e la sua lei non meritassero un romanzo – o una novella, perché 170 pagine sono un po' poche – tutta per loro. Sono perfettini, buonisti e scialbi, nel senso culinario del termine, proprio: senza sale, senza pepe, senza un gusto deciso. Sono pesanti, melodrammatici e seriosi, se confrontati con i divertenti, autoironici e sexy protagonisti di Obsidian
Non sono capaci di dissimulare e mettono a nudo una struttura di base fragilissima, effimera, che – senza l'arma a doppio taglio di un umorismo brioso e sornione – è praticamente attaccabile, inerme, sprovvista delle difese necessarie per tenere a bada il cattivo e brutto recensore di turno. Le somiglianze con il più noto Twilight sono insostenibili, troppe, ostentate nemmeno tanto intelligentemente da un'autrice che, insieme ad altre colleghe arricchitesi d'un tratto, sembra non ricordare il significato di una parolina che fa più o meno rima con miraggio, coraggio... formaggio?! Dio mio, non ho idea da dove mi sia uscita, che squallore... Chiedo perdono: mi riferivo a plagio, ovvio. Lei cade, rischia di scivolare sul ghiaccio e lui la salva: ok, cose che capitano. Ma lei ha anche gli occhi nocciola, i capelli castani e lui è – ovviamente – bellissimo, tenebrosissimo e dalla segreta natura luccicante: vi ricorda qualcosa, questo? Si conoscono tra una lezione e l'altra, si dilettano con il trekking (ma perché non ci sono più gli hobby di una volta? E le mezze stagioni?), incontrano le loro reciproche famigliole allargate e, dopo un paio d'appuntamenti, è già vero amore. Un amore proibito: specificarlo è superfluo. Proibito innamorarsi, secondo i fratelli di lui; proibito sbaciucchiarsi, secondo la mamma di lei – un'ex Teen Mom rimasta incinta di Bethany prima del provvidenziale avvento di MTV. Il gemello ribelle, Daemon, compare spesso e, qui, non appare antipatico ma con stile. Appare antipatico e basta. Per fortuna c'è Dee, colei che – tra i tre fratelli Black – ha impiegato più tempo ad uscire dal ventre accogliente e presumibilmente viscido di mamma alieno: la cocca di casa. 
Spontanea, pimpante e acuta come sempre, soprattutto quando – insieme a me – rimane scioccata dalla descrizioen di come l'umana Bethany abbia scoperto il loro segreto di famiglia. A metà del racconto, i preliminari tra Dawson e Bethany vanno a finire maluccio, infatti: non vi intrattengo con quella cameratesca storia delle “basi” che non comprendo e che non ho mai compreso, ma sappiate questo: la cosa più imbarazzante che possa capitare a un sedicenne alieno non è l'eiaculazione precoce. Dawson Black, in quei delicati momenti, si accende... Boom. Come un lampione... Bang. Come un faro-umano-abusivo costruito in camera da letto. Edward, in una foresta nebbiosa, aveva rivelato a Bella, dopo un lungo e vagamente inquietante sproloquio su leoni e pecore, di essere un vampiro: leggendolo prima di aver visto Pattinson in azione, avevo pensato all'affascinante Lestat e all'eterno Dracula. Quando Dawson rivela a Bethany, con lo stesso tono sussurrato e cospiratorio, di essere un alieno, io ho pensato a Stitch. Uno Stitch con il ciuffo biondo, i pantaloni color cachi e le camicie a quadrettoni del James Van Der Beek di Dawson's Creek. Che immagine! Sarà il subconscio che gioca brutti scherzi (ogni tanto) o sarà una mini-trama che, scricchiolando rumorosamente (sempre), lascia disperdere nell'aria qualsiasi eventuale magia. Il primo, ammiccante, conosceva le regole della risata facile. Il prequel, invece, fa ridere quando e dove non dovrebbe – stanco, frettoloso, scritto tanto per... - e non rischia di venire a noia soltanto per l'esiguo numero di capitoli complessivi e per uno stile che, anche se scarno e impersonale rispetto ai fuochi d'artificio dell'altro volume, scorre; almeno quello. Sembra scritto da un'altra persona. Da una fan tutta occhi dolci, cuori, sospiri e zoom ossessivi sugli occhi belli dell'aspirante modello D&G di turno. Il lato positivo del romanzo, dal mio punto di vista, è senz'altro il finale: triste il giusto, vagamente inaspettato, sbrigativo come il resto. Un finale che, grazie ad alcuni dialoghi tra Kathy e Daemon in Obsidian, avrei già dovuto conoscere bene, ma che – per fortuna o per sfortuna, dipende dai punti di vista – non ricordavo. Voi lo sapete: le cose tragiche mi fanno un certo effetto e, quasi quasi, avrei dimenticato gli errori che costellavano tutto il resto. Ma proprio quasi, quasi, quasi. Shadows, ahimè, ha la pecca di essere eccessivamente elementare. Carino, e chi lo nega?, ma di dubbia utilità. La Meyer – onnipresente nel romanzo, onnipresente nei miei riferimenti di oggi – aveva il suo superfluo La breve seconda vita di Bree Tanner. La Armentrout ha avuto questo trascurabile Shadows, alias Il primo breve amore di Dawson Black. A ognuno il suo. La curiosità di leggere Onyx, per fortuna, non è evaporata del tutto. Ma se avessi cominciato con questo prequel, temo che il rapporto tra me e l'autrice sarebbe finito qui: inconcludente, rapido ed indolore.
Il mio voto: ★★ 

venerdì 15 novembre 2013

Recensione: Il richiamo del cuculo, di Robert Galbraith

Ciao a tutti, amici. Dopo quasi una settimana, una nuova recensione. E, questa volta, di non proprio un romanzo qualsiasi. Attendevo "Il richiamo del cuculo" da quest'estate: l'ho comprato, l'ho letto e l'ho amato fino alla fine. J.K Rowling non imbroglia, no: cambia nome, ma non rinuncia alla sua impressionante bravura nemmeno questa volta. Da leggere e da scoprire. Le mie cinque stelline non gliele nega nessuno anche se, per dovere di cronaca, penso che "Il seggio Vacante" mi abbia lasciato un segno più indelebile. Ma sapete come sono: io adoro le cose tragiche e, fortunatamente, questo romanzo mi ha lasciato una sensazione opposta; diversissima. Buona lettura e buon pomeriggio, M.
Quando si è giovani e belli si può essere molto crudeli.

Titolo: Il richiamo del cuculo
Autore: Robert Galbraith
Editore: Salani
Numero di pagine: 550
Prezzo: € 16,90
Data di pubblicazione: 4 Novembre 2013
Sinossi: Il primo caso per Cormoran Strike in questo romanzo di esordio di Robert Galbraith, pseudonimo di J.K. Rowling, autrice della serie di Harry Potter e de "Il seggio vacante". Londra. È notte fonda quando Lula Landry, leggendaria e capricciosa top model, precipita dal balcone del suo lussuoso attico a Mayfair sul marciapiede innevato. La polizia archivia il caso come suicidio, ma il fratello della modella non può crederci. Decide di affidarsi a un investigatore privato e un caso del destino lo conduce all'ufficio di Cormoran Strike. Veterano della guerra in Afghanistan, dove ha perso una gamba, Strike riesce a malapena a guadagnarsi da vivere come detective. Per lui, scaricato dalla fidanzata e senza più un tetto, questo nuovo caso significa sopravvivenza, qualche debito in meno, la mente occupata. Ci si butta a capofitto, ma indizio dopo indizio, la verità si svela a caro prezzo in tutta la sua terribile portata e lo trascina sempre più a fondo nel mondo scintillante e spietato della vittima, sempre più vicino al pericolo che l'ha schiacciata. Un page turner tra le cui pagine è facile perdersi, tenuti per mano da personaggi che si stagliano con nettezza. Ed è ancora più facile abbandonarsi al fascino ammaliante di Londra, che dal chiasso di Soho, al lusso di Mayfair, ai gremiti pub dell'East End, si rivela protagonista assoluta, ipnotica e ricca di seduzioni.
                                                    La recensione
Chiudo gli occhi e immagino. Inizio a vedere. Una stanza buia, piena di libri polverosi che toccano quasi il soffitto; un tavolino basso su cui una tazza di té bollente getta tutt'intorno sbuffi caldi che sanno di zucchero, arancia e cannella; due occhi mai stanchi che illuminano un foglio e le infinite traiettorie della penna. L'ispirazione è arrivata con il crepuscolo fuori. Non vediamo il viso dello scrittore, solo lo schienale di una poltrona color malva - sobria, elegante, comunissima. Una vestaglia di ciniglia contro l'aspro freddo londinese, il fantasma di una pipa che non c'è: perché, nei noir, il fumo ha il suo fascino; nel quotidiano – invece – uccide. Il fumo, come la fama. Messi ad asciugare accanto ai piedi leonini della poltrona, un paio di stivali zuppi d'acqua e fango, testimoni di una gita nel parco all'avventurosa ricerca di idee. Quella sera, la Città aveva il suono di un concerto rock. Cantava di modernità, traffico intenso e luci che non si spengono mai: lo stridere dei freni a tamburo faceva da batteria, i leggeri tonfi delle auto sui dossi artificiali da grancassa, il frusciare delle foglie secche da chitarra, la foschia che si alzava piano da immancabile ghiaccio secco. Lo scrittore, seduto su una panchina con un trench antracite, aveva aspettato al gelo, in solitudine, fino a quando il freddo pungente non si era deciso ad esplodere in una piccola tempesta di neve. E fino a quando, come le vetrine di un centro commerciale nel giorno di Natale, non si erano accese le luci del lussuoso condominio affacciato sul parco. Riflettori puntati sulle cucine, i salotti e le esistenze di attori inconsapevoli, alle prese con il copione più difficile e imprevedibile: quello che la gente saggia chiama vita. Sono come pesci tropicali in un immenso, gigantesco acquario suburbano e, a loro insaputa, una persona appunta da giorni, su un taccuino, i loro peculiari corteggiamenti, le loro liti e i loro riti, i loro drammi, le loro ordinarie storie d'amore e le loro inquietanti storie di violenza domestica. 
Lo scrittore non ruba nulla, no: lui prende semplicemente in prestito, come ha fatto con altre storie e con altri nomi, una vita fa. Si volta e – colpo di scena più grande di quello contenuto nel finale di Psyco o I soliti sospetti – quel lord inglese con la sua tazzina di porcellona e il suo cappotto pesante si rivela essere una lei.
J.K Rowling, la sola e unica: mamma di Harry Potter, di tre figli e di generazioni di lettori ormai cresciuti, ma sempre affezionati a lei, come se il tempo non fosse passato. La donna che riuscirebbe a rendere avvincente anche un elenco del telefono; la sola che farebbe di un incalzante e sicuro best-seller anche la lista della sua spesa e di ammorbidente, dentifricio, pane, acqua e verdure da acquistare gli ingredienti di un accattivante mistero grande quanto il mondo. Lei è zia J: la mia adorazione per lei è l'unica cosa, forse, a non essere un mistero per nessuno. Ho cercato il suo nuovo nome e il suo nuovo romanzo tra gli scaffali; l'ho accarezzato nel breve tragitto tra il reparto libri e le casse e, ancora, nel meno breve tragitto tra la stazione e il mio appartamento; mi ci sono fatto, insieme, anche una foto ricordo. L'ho venerato come un buon cristiano, probabilmente, farebbe con una copia della Sacra Bibbia, e con una copia della Sacra Bibbia autografata. Storia vera, giuro. Tanta adorazione non è stata buttata alle ortiche: l'avevo riposta, sin dall'inizio, in ottime mani. In mani di cui mi fido ciecamente. Perché, che si chiami Robert Galbraith o Giovanni Esposito, Nicolas Sarkozy o Jane Doe, lei è sempre lei. Classe allo stato puro. Dopo il meraviglioso Il seggio vacante, in Il richiamo del cuculo fonde insieme, con la sua maestria senza uguali, la magia del racconto e l'arte dell'indagine. Torna con un intrigante pseudonimo maschile e con un giallo con la lettera maiuscola: struttura dalle linee che più classiche non si può, stile impeccabile, intreccio sinuoso, personaggi credibili ed incredibili al tempo stesso. Pieno di autentica bellezza, limpida grazia e fumoso charme anche nella tragedia, anche nella morte. Non c'è sangue, non ci sono sudate corse a perdifiato o sparatorie da gangster, non ci sono figure che rinunciano facilmente al loro aplomb – nemmeno in caso di omicidio doloso. Lula Landry - ventitrè anni vissuti da bellissimo angelo dalla pelle coloro cappuccino - finisce i suoi giorni sulla terra perdendo la sua polvere fatata e schiandosi al suolo senza più le sue ali di seta pregiata a mantenerla a una spanna dal suolo, lontana da fan asfissianti, paparazzi inopportuni, parenti serpenti, viscidi opportunisti. Cade dal cielo e, leggera come una piuma, non fa rumore: un tappetto di neve attutisce il rumore, non l'impatto. Muore sul colpo, con addosso il suo vestito nuovo. I flash, per l'ultima volta, le illuminano il viso: Lula non sorride. Un magico filo di serendipità conduce il lettore alla scena successiva, ricordando a tutti che, anche se nascosta sotto falso nome, la Rowling è ovunque. Il richiamo del cuculo ha, infatti, un fascino tutto femminile; un ritmo che sembra una danza. A condurti è una lei che potrebbe portarti anche in capo al mondo, se solo volesse. Ci sono sfilze di particolari a cui noi uomini non faremmo mai caso, e tutti prendono magicamente vita sotto i nostri occhi. Ricchezza, salotti lussuosi, palazzi antichi, strade buie, gossip che uccidono. L'autrice porta al banco degli imputati un mondo intero, oscuro per quanto sfavillante, e mette alla berlina un sistema che sempre ispirerà repulsione e fascino. Come il lettore comune, anche la Rowling lo condanna, pur essendone visibilmente e irrimediabilmente affascinata: quasi fosse una gazza ladra che, senza pensarci, si fionda sul primo luccichio avvistato. Un gioiello, forse. O forse una tagliola in cui lasciare le penne. Lula – come Marilyn, Amy, Whitney – è il simbolo della desolante solitudine del vincente. Tutti che la vogliono, nessuno che le vuole bene per davvero. 
Riempie di una sottile tristezza - anche se non ha una voce sua, non più – e, grande personaggio “in assenza”, riportata in vita dalle voci, dai racconti e dai rumors più disparati, sembra condurre le indagini camminando, sui suoi invisibili tacchi alti, accanto agli straordinari protagonisti: per vedere se le lacrime macchiate di rimmel del suo sregolato e fragile fidanzato - un riuscito e originale incrocio tra Kurt Cobain e Johnny Depp - siano reali; per sentire ancora l'adorazione nelle parole di un fratello adottivo in cerca di giustizia e di un simpatico amico stilista; per cercare le sue radici perdute. 
Tutti sono colpevoli, tutti sono innocenti. Le tante, ma impercettibili sfumature tra innocenza e colpa sono difficili da cogliere, mai come in questo caso. Io potrei riassumere l'intera trama qui, in appena due parole. Onestamente, infatti, questo intreccio che si dipana per cinquecento pagine e oltre potrebbe essere mostrato senza troppo sforzo in appena quaranta minuti di un poliziesco alla TV. Eppure, sarebbe un errore mortale ritenere questo romanzo dal titolo sfuggente un giallo come tanti. Eppure, saltando le sontuose descrizioni e i miliardi di dialoghi a piè pari, vi perdereste tutto il resto. Un resto frastagliato, dinamico, palpitante, irriverente e mordace. Favoloso. L'esperienza più bella in assoluto è stata conoscere Cormoran Strike: la sgraziata, ingombrante, incredibile e impresentabile nemesi di La signora in giallo, Sherlock Holmes, Poirot
Non ha nemmeno i tratti orientali del Detective Conan, disegnato da un abile fumettista giapponese: lui, casomai, è un bozzetto di Picasso. Soprattutto, non ha pareti piene zeppe di foto di cadaveri sanguinanti, nel suo piccolo studio che profuma disgustosamente di deodorante al lime: ci sono un sacco a pelo, un bollitore, un set di tazzine spaiate, uno zaino che – dalla zip – vomita vecchie cravatte, camicie sporche, cicche di sigaretta. Ha la sua personalità; è la sua casa improvvisata. Con il suo brutto nome e il suo brutto aspetto, Strike è uno dei personaggi più belli e completi incontrati da alcuni mesi (o anni?) a questa parte. Ogni Sherlock ha il suo Watson, poi; ogni Batman ha il suo Robin. E lei si chiama così, Robin: adorabile, gentile, trasognata e piena di risorse, sembra la protagonista di un brillante chick-lit. La Andrea Sachs di Il diavolo veste Prada con un brillante all'anulare, coraggio da vendere e un lavoro precario come segretaria che la spaventa e la esalta in egual misura. Questa strana coppia regala costantemente sorrisi, dal momento del loro imbarazzante primo incontro fino al toccante e delicato congedo: complici, professionali, rispettosi. Quasi amici, quasi. Il richiamo del cuculo ha la scorrevolezza e la leggiadria del Joyland di Stephen King, lo svolgimento perfetto di un giallo in piena regola, personaggi che impari a chiamare per nome come fossero tuoi amici, o nemici, di sempre. E' grande e funzionale in tutto, senza mezze misure. La prova "inchiodante" è contenuta alla fine, come accade per ogni mistero che si rispetti: lo chiudi e sai che è un libro da leggere, consigliare, regalare. Te lo suggerisce il sorriso vagamente ebete che ti è spuntato in faccia nel frattempo. Mentre, alla stazione, vedi il treno partire – lo stesso treno che ti ha portato per sette volte a Hogwarts e, lo scorso anno, nell'inospitale e bella Pagford – e vorresti egoisticamente che questo ambiguo e imperdibile viaggio per Londra iniziasse da capo, senza nemmeno fare tappa per casa tua. Aspetto un altro treno, aspetto un altro caso: prometto. Aspetto di conoscere un altro volto ancora di un'autrice che sempre saprebbe reggere il confronto con i nomi più grandi: questa J.K Rowling, mai così vicina all'immensa Agatha Christie, è un'esperienza da non perdere. Garantito.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Lady Gaga - Paparazzi (Piano Version)


mercoledì 13 novembre 2013

Mr Ciak #22: Questione di tempo, Separati Innamorati, Carnage

Ciao a tutti, amici miei. Oggi, anche se a distanza di pochi post rispetto all'appuntamento precedente con la rubrica, torno ad essere Mr Ciak e a parlarvi di tre film che meritano moltissimo. Quindi, non perdeteli. Tre film sui sentimenti – e sui sentimenti più disparati – che vantano cast fantastici, grandi registi e piccoli colpi di genio. Per una volta, potete – rullo di tamburi! - trovarli tutti in italiano. Questioni di tempo è al cinema dalla settimana scorsa e, mi raccomando, non perdetelo: altrimenti si vede che non ci meritiamo Checco Zalone, mah! Separati Innamorati, invece, è passato parecchie volte su Sky, mentre l'ultimo – Carnage – non è propriamente una novità e anche sui canali del Digitale Terrestre, precisamente su Iris, l'hanno dato più volte. Io vi abbraccio tutti e vi do appuntamento ai prossimi giorni, con la recensione di Il richiamo del cuculo. Lo sto leggendo lentamente, con la speranza di godermelo come si deve. A presto, M.

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, come molti lettori ormai sapranno, è praticamente il mio libro preferito. Il mio libro preferito in assoluto. Molti, quando mi domandano di cosa parli, si sentono rifilare una risposta ambigua, ma che, secondo me, rispecchia perfettamente il meraviglioso esordio della Niffenegger: quel romanzo, infatti, è l'amore vero. Punto. E io, romantico in incognito, amo l'amore. E amo i viaggi nel tempo. E' per questo che so che avrei amato dal primo istante About Time – Questione di tempo. Finalmente l'ho visto e, come da programma, l'ho adorato senza riserve. Sarà che a me questi film fanno sempre un certo effetto, bho. Anche Click – con quello scemotto di Adam Sandler, infatti – mi aveva emozionato non poco. Questa delicata e brillante commedia britannica vive, respira, ride. Pulsa di ricordi, emozioni, gioie, dolori e momenti irripetibili. Ha un cuore che pulsa e che batte, in cui scorre, senza freno, vita pura. E poi fa ridere, ma tanto: adorabile, adorabilissimo, adorabilerrimo. Mi verrebbe voglia di fare un salto a ieri sera e di rivederlo tutto da capo, come se fosse la prima volta; il primo colpo di fulmine. Coglierei tanti dettagli, appunterei tante piccole perle, mi godrei meglio ogni momento. Guarderei il protagonista e, con un moto di riconoscenza, affetto e stima verso l'ex Bill Weasley, direi: Ah, però. Guarda. Sono più bello io, quasi quasi! Domhnall Gleeson, oltre ad avere un nome di battesimo impronunciabile, non è bellissimo, vero. Alto, dinoccolato, magro come un chiodo. Ma è convincente, bravissimo, fresco come un verde filo d'erba appena raccolto. Nuovo, genuino, buono. Similissimo a me, con il suo fare sbadato e insicuro che lo rende maestro di brutte figure; imperfetto, con quelle mani che non sa mai dove mettere e quelle parole che, pur essendo un avvocato dilettante, non sa dosare, e nemmeno un po'. Mi lamenterei della presenza di Rachel McAdams e dei suoi ruoli sempre uguali – vedi La memoria del cuore e The Notebook, Un amore all'improvviso e questo - ma vederla accendersi come per magia e illuminare il buio mi ammutolirebbe all'istante: per questi ruoli è perfetta. Sarà merito del suo sorriso bellissimo: uno dei più incantevoli di tutta Hollywood... uno dei più dolci del mondo. Mi perderei sulle note della delicata How Long Will I love you dell'angelica Ellie Goulding e mi stupirei nuovamente davanti all'ingresso trionfale di una sposa in rosso, con Il mondo di Jimmy Fontana come marcia nuziale e una pioggia da antico testamento a far volare addobbi, fiori, vestiti; addirittura invitati. Mi godrei la regia aggraziata, matura e impeccabile del grandissimo Richard Curtis, papà di Mr Bean e di gemme quali Love Actually e Nothing Hill. Il tutto sullo sfondo di un'Inghilterra grigia, piovosa, ma di uno splendore raro e abbagliante. Questione di tempo si avvale di una struttura che gioca con le ripetizioni, che fa stringere i denti, inumidire gli occhi, vibrare le corde giuste. Parte come una commedia brillante e originale e, nella seconda parte, vira verso il film sentimentale, ma con una naturalezza che lascia storditi, meravigliati. Senza fiato. Le cose capitano e basta. Il destino non si cambia: la persona giusta s'incontra, i veri amici restano, i genitori vanno via, noi cresciamo anche se fuggiamo dalla maturità e dal dolore a gambe levate. Bisogna vivere dell'oggi e del domani, mai diventare schiavi di ciò che faceva parte del nostro ieri. Mi ha ricordato un po' One Day: stesso invito al carpe diem, stesso romanticismo fatto di mille parole di troppo e di pochi gesti, stesso immancabile umorismo british, stesse segrete verità. Basta un armadio per viaggiare nel tempo. Basta un film per portarci lontanissimi dal pianeta terra. Niente effetti speciali, niente magie: i miracoli della vita, i miracoli dell'amore. I miracoli del buon cinema. 

Questo non è il solito film da cinema. E questo film, almeno da noi, al cinema non ci è mai arrivato. Non so quanta gente avrebbe richiamato in sala e non so la modesta posizione in cui si sarebbe piazzato al botteghino. Perché, se il titolo italiano promette una simpatica commedia romantica all'americana, Jesse & Celeste Forever, in realtà, è tutt'altro: un film sull'amore che non diventa un film d'amore. Tutto qui. Se non sbaglio, in Italia, il film dev'essere passato – per la prima volta – su Sky, con il titolo Separati Innamorati, nel tentativo disperato di destare l'attenzione di un po' di pubblico: gli attori non erano tra i più noti o amati del mondo e, soprattutto, gli sceneggiatori avevano messo a punto una trama che portava ad essere il loro film una strana creatura inclassificabile. C'erano la storia di Ti odio, ti lascio, ti..., ma l'amarezza struggente di Blue Valentine. C'erano i sorrisi, ma la dura verità che faceva puntualmente capolino giusto dietro l'angolo. C'era una trama che si sarebbe fatta o amare o odiare, senza mezzi termini. Ho scritto che questo non è un film da cinema, perché nessuno andrebbe a vederlo con gli amici o, tantomeno, con la fidanzata di turno. Non si ride, non si piange, ma si pensa. E per la riflessione, vi dico la verità, il salotto di casa nostra mi sembra pensatoio più adatto di una sala strapiena. E' il silenzio che serve, in giuste e dosate proporzioni. So che state pensando: Ma gli italiani s'impegnano per trovare titoli tanto brutti?! Separati Innamorati suona stupido, discordante, paradossale. Ma Jesse e Celeste sono esattamente così, per me: stupidi, discordanti e paradossali allo stesso modo. Si divertono come vecchi amici, si stuzzicano, cantano a squarciagola in macchina con complicità e armonia, vivono più o meno nella stessa casa, si salutano ogni mattina e ogni sera con un sonoro Ti Amo. La coppia perfetta, e invece no! I nostri protagonisti non stanno più insieme da un bel po'. Si sono conosciuti all'università, si sono sposati e, con un solo balzo, hanno saltato la temuta crisi del settimo anno: non ci sono mai arrivati. Si sono separati prima e adesso, come se nulla fosse successo, con le carte del divorzio ancora da firmare ufficialmente, sembrano vivere un secondo, platonico innamoramento. Sembrano amarsi più di prima, senza più il matrimonio – tomba dell'amore? - ad unirli. Loro sono felici e per nulla confusi da quella strana situazione, ma non tutti capiscono il gioco infantile a cui stanno giocando senza stancarsi mai. I loro amici di sempre, a un passo dal commettere il loro stesso errore (sposarsi!), li invitano a cominciare a vivere nuove vite, a incontrare nuova gente. Jesse e Celeste si promettono che non ci saranno gelosie, rimpianti, scenate patetiche; si promettono che rimarranno amici. Fino a quando uno dei due si scoprirà felice accanto a un'altra persona e l'altro, colui che rimane, cercherà in tutti i modi di trovare, a sua volta, la stessa felicità perduta: in una sorta di stupida gara da bambini già persa in partenza. Separati innamorati è una commedia indipendente atipica, onesta, realistica e agrodolce. Una commedia americana spogliata di ciò che tanto piace alla gente: un lieto fine, uno svolgimento ovvio, un amore riconquistato a suon di grandi ed eclatanti gesti, romanticismo. E' la vita – quella vera – non contemplata dalle sceneggiature odierne. Tutto è retto da lunghi dialoghi e, anche senza l'ausilio di flashback banali e fumosi, gli attori sono tanto bravi da lasciar percepire cos'era di quella coppia prima dell'avvento imprevisto e drammatico del “disinnamoramento”. Tutto è molto ordinario e tutto è molto originale, come la scelta di non affidarsi ad attori apparentemente nati per quei ruoli: Rashida Jones e Andy Samberg non sono i bellissimi Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt, no, eppure sono perfetti così, nella loro imperfezione. Sorprendenti. Perché lui, con quella faccia da scemo che mi fa sempre ridere in Brooklyn Nine-Nine, sa essere sorprendentemente intenso, dolce, sensibile, serio. Perché lei, vista accanto allo stesso Samberg in I love you, Man, sa essere spietata, inerme, allegra, triste, umana. Significative le preziose comparse di Elijah Wood e Emma Roberts, due strane figure che orbitano, con la loro allegria e le loro debolezze, attorno ai frantumi del cuore di Celeste: lui, nei panni di un frivolo e volgarotto amico gay; lei, una delle attrici più convincenti e complete della sua generazione, nei panni, invece, di una pop-star preoccupantemente simile a Kesha. Per ricordare che l'amore è anche altro, e non una sdolcinata commedia di Garry Marshall. Per ricordare che l'amore – alla fine – è anche questo casino qui...

Brutta bestia, i critici cinematografici. Tra me e loro, solitamente, c'è un tacito patto: siamo d'accordo, infatti, sul fatto che non andremo mai d'accordo. Mai, o quasi. Più esaltano un film, più stento a farmelo piacere. Più tessono le lodi smaccate di un regista, più tendo a trovare ostici e oscuri i film di questi cineasti tanto amati universalmente. Ma, mentre Kubrick è un mistero che ancora non capisco come risolvere e la Coppola è – per me – ancora la regina incontrastata di pellicole pretenziose e sopravvalutate, il rapporto con un altro mostro sacro del cinema, Roman Polanski, ha conosciuto i suoi momenti decisamente positivi. Carnage è uno di questi momenti positivi; un film che mi è piaciuto, sì. La staticità mi snerva, la monotonia logora ogni mia resistenza e – con chissà quali pregiudizi – ormai due anni fa, nel 2011, non misi in cima ai film da vedere l'ultimo lavoro del regista di Il pianista, La nona porta, Rosemary's Baby. Non c'era niente che mi attirasse. Non quattro attori grandissimi rinchiusi tra le quattro mura di un appartamento piccolissimo. E poi, vista la mia tipica sfiga, avevo scommesso che il film sarebbe durato la bellezza di tre, quattro ore. In due anni sono cambiate tante cose, e sono cambiato un po' anch'io. Dopo averlo nominato in una lezione di Storia del cinema e su consiglio della mia fidata amica Silvia, mi sono seduto in poltrona – una domenica sera – e mi sono dedicato alla visione di questo film. Un film piccolo, che – con mia grande gioia e sorpresa – durava appena un'ora e sedici. Un film d'autore. Tralasciando la prima e l'ultima scena, ambientate nel verde di un parco newyorkese, tutto il resto si svolge tra il salotto e la cucina, il bagno e l'ingresso di un appartamento arredato con classe e gusto. Due coppie di genitori hanno deciso d'incontrarsi lì, davanti un caffé e un pezzo di torta, per parlare dei loro figli turbolenti: uno di loro, infatti, ha spaccato una mazza di legno sul viso dell'altro, rompendogli labbro e denti. Che disdetta! Cose che capitano, tra bambini svegli! Per fortuna, tra persone civili, tutto si può risolvere, con un richiamo o un semplice ammonimento. Tra persone civili, però... Dietro i loro sorrisi bianchi, i loro vestiti cuciti alla perfezione, il loro fare lezioso, quei quattro adulti per bene sono pronti a far esplodere in mille pezzi le loro maschere fasulle. Sono, in realtà, belve in incognito. Polanski porta sul grande schermo Il dio del massacro, una commedia della scrittrice Yasmina Reza, e lo fa mescolando orrore, ironia, inquietante realismo. Il suo film è una bomba ad orologeria, i cui disastrosi e stranamente comici effetti sono praticamente assicurati. Fa uno strano effetto, regala sensazioni completamente contrastanti: fa ridere, fa pensare, lascia attoniti, spesso. In questo gioco di vizi privati e pubbliche virtù, in questa foto della moralità e dell'immoralità borghese, si lasciano guardare ad occhi sbarrati quattro attori meravigliosi. Credibili ed incredibili, convincenti e sconvolgenti: Jody Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly. Tutti li conosciamo, tutti li associamo sempre ai ruoli che li hanno resi grandi. Eppure la Winslet non è più l'angelica fanciulla di Titanic; la Foster – la più grande del cast, per me – non è la coraggiosa psicologa di Hannibal Lecter; Waltz non è il soldato cattivo di Bastardi senza gloria o Reilly il fedele e sciocco Amos del musical Chicago. Sono quattro pazzi furiosi, senza freni e senza grazia. Quasi senza copione. Mitici loro, incredibilmente affascinanti le alleanze e le gelosie che – in poco tempo – si creano tra le coppie. Carnage è una commedia teatrale, tesa, nerissima, grottesca eppure realistica. Un horror in abiti borghesi con prove attoriali da Oscar.