mercoledì 31 gennaio 2018

Recensione: L'età ingrata, di Francesca Segal

| L'età ingrata, di Francesca Segal. Bollati Boringhieri, € 18, pp. 350 |

Julia, pianista vedova, inglese, e James, ginecologo divorziato, americano, si innamorano contro ogni pronostico sfidando il ticchettare dell'orologio. Colti, romantici, presissimi l'uno dall'altra, hanno cinquant'anni e qualcosa di più grande della loro affinità: quei figli avuti dai matrimoni precedenti che all'inizio non si piacciono affatto e malauguratamente, a un certo punto, si piacciono troppo. Egoisti come tutti i punti da Cupido, i protagonisti hanno fatto il passo più lungo della gamba e trascinato Gwen e Nathan – diciassette anni: lei blogger con il sogno dell'arte e lui futura leva, si spera, della blasonata Oxford – a vivere con loro nella stessa casa a nord di Londra, tanto presi da non curarsi del disagio generale. La convivenza pesa. Lo spazio non è mai abbastanza, qualsiasi occasione è buona per darsi addosso. Ma ecco che succede l'inevitabile. Perché Gwen ha questa irresistibile cascata di capelli rossi, Nathan è saccente ma non si può far altro che pendergli dalle labbra, e la paglia, a contatto col fuoco, brucia nel lampo delle tempeste ormonali. Adesso Julia sta con James. Gwen sta con Nathan, e alcuni segreti, si sa, hanno vita breve se schiacciati sotto lo stesso tetto. Era un problema grosso l'antipatia degli inizi, per l'equilibrio di una coppia di mezza età che si sognava già famiglia. Figurarsi l'amore, che crea sceneggiate, imbarazzi a cena e schieramenti inevitabili.

Metti insieme due adolescenti, la curiosità e gli ormoni impazziti, e all'improvviso sembra ovvio.

L'età ingrata è quella dei figli che pretendono continue libbre di carne.
L'età ingrata è quella dei cinquantanenni soli di ogni dove che, abbandonati in un angolo, sfioriti, hanno fretta di trovare compagnia sui siti d'incontri o negli appuntamenti al buio; di essere finalmente felici, convincendosi sia subito amore vero. Uno di quelli post-adolescenziali e totalizzanti, insomma, che rendono ciechi ben prima degli scherzi della presbiopia. Cosa farebbe al posto loro Pamela, la ex hippy di James? Cosa direbbero gli ex suoceri di Julia, Iris e Philip, che eppure in età pensionabile stanno vivendo zitti zitti svolte simili, fra trasferimenti altrove e gelosie fuori tempo massimo? Soluzione ragionevole sembrerebbe proprio separare i novelli Romeo e Giulietta con le cattive, ma come funziona con la felicità, con il batticuore... A chi si e a chi no? C'è in gioco il futuro dei loro ragazzi, affezionatissimi e totalmenente irresponsabili. Li si appoggia, da bravi genitori. Si prendono le parti: guai a chi li fa piangere, guai a chi si frappone fra loro e le loro grandi speranze (l'educazione accademica, l'interrail la prossima estate). C'è in gioco, tuttavia, anche la loro relazione. Si parla di nuove dinamiche e vecchi torti, di fiducia soprattutto. Non abbastanza vecchi da rinunciare alla passione, ma troppo per salire sulla giostra ormonale della loro prole, Julia e James sentono di aver fatto un errore: sentirsi prima persone che genitori, godendosi finché è durato il privilegio di essere egoisti. Essere parner accomodanti, essere guide sempiterne: a cosa dare la precedenza?

L'ira era più sopportabile del rimpianto.

Non fanno una bella figura i giovani: irruenti, sprovveduti, facce da schiaffi che irritano con poco. Ma, a mio dire, non fanno una bella figura nemmeno genitori: fra due fuochi, senza gravi colpe, ma comprendete la prospettiva di un figlio di freschi separati che in questo periodo cova amarezza e musi lunghi; che alla vigilia di Natale ha dovuto fare da ambasciatore che porta pena, da paciere, fra un padre che rivive un secondo tempo delle mele (dimenticandosi chi gli è stato alle costole nel momento del bisogno) e un fratello minore che non lo accetta (dimenticandosi a sua volta quanto doloroso sia stato quel momento, quanto potremmo stare più in pace d'ora in avanti). Primo romanzo che leggo dell'apprezzata Francesca Segal, L'età ingrata è una commedia british, elegante, ciarliera, che non brilla per lo spunto – lasciamo però i paragoni con I Cesaroni alla Garbatella e alle repliche su Italia Uno, per favore – ma per uno stile cinematografico, nelle corde di David Nicholls e Fionnuala Kearney. Scritto benissimo ma con più di qualche pagina in eccesso – troppe, infatti, quasi 400 per raccontare una storia agrodolce, a tratti molto divertente, ma dall'andamento tutto sommato intuibile –, il romanzo colpisce per l'invidiabile accuratezza dei pensieri, dei sentimenti in gioco, delle situazioni scomode. Per l'ambiguità di un titolo, di un tema, che punge sul vivo tanto le scelte degli adulti quanto quelle degli adolescenti.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: OneRepublic – Good Life

lunedì 29 gennaio 2018

Mr. Ciak: Ella e John, La ruota delle meraviglie, Napoli velata, Suburbicon

Lui malato di Alzheimer, lei con tumori dappertutto. Relitti che insieme, suggeriva Michael Zadoorian nel suo bellissimo romanzo, facevano una persona intera. Lui il braccio, lei la mente. Una loquace Mirren fa da navigatore e copilota a un meraviglioso Sutherland nel viaggio della vita. Direzione: la casa di Hemingway. Inseguendo la poesia di un autore immortale, ricordi di famiglia, il mito di un amore che non vuol morire. La meta cambia (tra le pagine si puntava infatti a Disneyland, con un briciolo di nostalgia per quei figli ormai grandi e accasati), si aggiungono segreti e vecchie gelosie strada facendo, ma restano intatti gli equilibri preziosi fra risate e lacrime, la distanza di sicurezza da qualsiasi furberia, certe occhiate tanto sincere da ispirare la commozione. Dopo i fasti della Pazza Gioia, un Virzì sempre in fuga, ma stavolta in trasferta hollywoodiana, ci racconta un altro bel viaggio disperato – l'ultimo, si presuppone – ma di cui, di ritorno dal cinema, non conserveremo né cartoline né ricordi per sempre. Il regista livornese evita i pietismi e il noioso glamour delle Nostre anime di notte, confezionando un romantico Thelma & Louise in cui ogni cosa va, tutto sommato, come dovrebbe. Virzì, regista di cuore e alchimie, dirige però con il pilota automatico. Lascia fare alle sue stelle splendenti. A una storia, comunque assai nelle sue corde, che emoziona da sé, con poco. Si limita perciò a sedere fra il chiacchiericcio irresistibile di Ella e John. Un po' stretto, intimidito ma non troppo, Paolo va in America, e non per fare il logico salto di qualità. Porta con sé uno sguardo sensibile, limpido, ma leggermente spaesato. Parla del mandato di Trump, del melting pot, di minoranze e multiculturalismo. Di una America per sentito dire, con tutti i clichè a fin di bene del caso: quella di chi l'ha vista di passaggio, e soprattutto al cinema – gli sceneggiatori, italianissimi, sono infatti i soliti nomi fidati. Perché meno a suo agio dei colleghi Muccino e Guadagnino in tema di trasferte internazionali, ci si augura per Virzì che The Leisure Seeker – recitato alla perfezione, godibile ma senza sorprese: note di demerito per il montaggio frettoloso e per l'approssimativo doppiaggio italiano – sia stato soltanto una vacanza. Che il biglietto, il suo, preveda un'andata e un ritorno a casa. (6,5)

Allen, il cinema d'autore sotto l'albero di Natale, film belli e brutti ad anni alterni. Cosa ci saremmo dovuti aspettare, lo scorso dicembre, dopo quel Cafè Society che qualcosa di buono l'aveva? Si arriva nella Coney Island di vent'anni dopo, la guerra passata da pochissimo, con un titolo e soprattutto un cast che promettono meraviglie. Ci si aspettava il Blue Jasmine secondo Kate Winslet, l'en plain. La sua Ginny – i mal di testa, la bottiglia sempre vicina, gli abiti di scena rispolverati a ogni piccola occasione – si sognava attrice e, a quarant'anni compiuti, si è svegliata cameriera. Accanto a Belushi, marito giostraio che forse non la merita, e a un bambino piromane. All'interno di un parco divertimenti che mette tristezza profonda suggerendo allegria a tutti i costi. Qualcosa cambia con il ritorno a casa della fatale Juno Temple, figliol prodiga in fuga dall'amante gangster. Qualcosa, nelle speranze di una protagonista illusa ed esasperata, va irrimediabilmente in tilt quando Timberlake – il bagnino/drammaturgo che ce li racconta dal primo all'ultimo – si accorge di quanto carina sia, sotto la pioggia, la sua figliastra. Il cielo minaccia acquazzoni sui caroselli. E un Allen sulle orme di Tennessee Williams, quantomai rigoroso e teatrale, minaccia invece tragedia. Misurato e strabordante insieme, vecchio ma nuovo, Wonder Wheel è un melodramma che scorre leggero pur portandosi appresso il peso di colpe, amarezze, rimpianti. Gli attori lo fan da padroni, su tutti una arcigna Winslet che con i suoi monologhi, con i suoi travasi di bile, ci sta così bene da non sorprendere più. La scrittura si regge – la si fa reggere, soprattutto: merito degli interpreti in parte – ma non resta impressa. Se non alla Winslet, se non a un Allen bravo a metà, la meraviglia è tutta da imputare allora alla fotografia dell'immancabile Storaro: capolavoro di spiagge assiepate e giostre malinconiche, di luci al neon che illuminano diversamente ogni angolo del film, per regalare a una donna sull'orlo di una crisi di nervi squarci di libertà e riflettori fissi. Il tutto, a bordo di una giostra che piace nonostante gli alti e bassi. Di una ruota – come quella della fortuna – che a volte gira, altre ti schiaccia. (7)

Ferzan Ozpetek, isolata certezza di buon gusto quando il cinema italiano puzzava ancora di delusione, torna nella terra che l'ha accolto dopo la pare non riuscitissima parentesi turca. Cambia genere, cambia città. Il regista di Mine Vaganti spegne gli arcobaleni ed esplora la Campania più segreta. Napoli, come l'argentiana Torino, ha i suoi coni d'ombra, i suoi misteri. Se ne accorge il medico legale interpretato da una ritrovata Mezzogiorno – invecchiata negli anni lontano dal set, ma sempre intensa, sempre bella –, che frequenta antiquarie streghe, saltimbanchi, sconosciuti destinati ad andare incontro a morte certa. Dopo una notte di passione, in quella scena lunga e bollente che già fa discutere, il suo fascinoso amante – un Borghi senza accento romano e senza vestiti addosso – viene ritrovato assassinato. La protagonista, che deve aver perso il contatto coi vivi a furia di interrogare cadaveri e di rivangare il passato di una mamma morta d'amore, si spinge insieme al regista fuori dal seminato; nei territori dell'esoterico. Il capoluogo campano, animale notturno e a sangue caldo, offre lo scenario più suggestivo. I protagonisti, nudissimi, si svelano con generosità. Abbiamo il doppio di Ozon, le follie fra sconosciuti di Bertolucci, le scale a chiocciola e i sosia di Hitchcock, le sale autoptiche di Argento. E di Ozpetek, uno chiede, che c'è? Il gusto per il kitsch, che però a piccole dosi piace. La colonna sonora con quel neomelodico tanto orientaleggiante di per sé. La mano di chi manovra meglio la macchina da presa che i fili delle sue troppe trame. Napoli velata ha infatti in una scrittura approssimativa, confusa, a metà fra il melodramma e il mistery, i suoi difetti peggiori. L'autore italo-turco, cantore di storie e sentimenti vecchio stampo, non sa gestitire gli omaggi e la tensione. Certamente nel suo se alle prese con il percorso psicologico di un'amante ossessionata, smarrisce la bussola alla ricerca di un'improponibile dimensione corale – qualche figurante rischierà di risultare ridicolo (la poliziotta Calzone, la medium Santella, il passepartout Barra), qualcuno messo in un angolo (la Ranieri, la Ferrari), pochissimi figure chiave (la teatrale zia di Anna Bonaiuto, solita garanzia di eleganza). Cala un velo nero, insomma, su un mélange di generi che resta parzialmente riuscito. Su un epilogo enigmatico o incompiuto quanto il resto, che però suggestiona. Nonostante le sbavature, insomma, il velo dell'insolito Ferzan non è di quelli troppo pietosi. (5,5)

I favolosi anni Cinquanta, lindi e pinti proprio come nelle réclame. Un quartiere idilliaco, super-esclusivo, che da una réclame sembra saltato fuori. Gli immancabili colori pastello, il giardino curato di tutto punto, le cerimonie d'altri tempi fra buoni vicini di casa. In quel microcosmo, nel cuore della notte, si consuma un delitto nell'indifferenza generale: una rapina finita male e la famiglia Lodge – padre, figlio, cognata – seppellisce la matriarca e in fretta trova una nuova formazione. Le cose non sono come sembrano. Lo capisce presto, e a sue spese, il piccolo di casa. Dirige Clooney, recitano un subdolo Damon e una doppia Moore, soprattutto scrivono i fratelli Coen. Che quasi mai mi piacciono, a onor del vero, ma che indubbiamente brillano per scrittura e ironia. Suburbicon, commedia nera a metà tra Hitchcock e il loro Fargo, delude il Festival di Venezia la scorsa estate e in sala, per quanto curato e godibile, perfino divertente, si rivela un intrattenimento innocuo e senza grande mordente. Purtroppo, negli esiti e nei moventi, prevedibile come immaginate tu e l'assicuratore di un Oscar Isaac baffuto e sopra le righe. Troppo presi a protestare con schiamazzi e vandalismo gratuito contro il trasferimento di una famiglia afroamericana, gli abitanti del quartiere – ipocriti, benpensanti, subito pronti a puntare il dito verso la pagliuzza del diverso – non si accorgono della trave nei loro occhi. Della cattiveria a un passo, nascosta neanche troppo accuratamente sotto la superficie – questione di una sceneggiatura di un nero sbiadito, che non punge, non graffia e purtroppo superficiale resta. Come in Carnage, soltanto i bambini sanno andare oltre: tendere la mano al di là del buio oltre la siepe. Tanto quanto nello sfarzoso ma vacuo Ave,Cesare!, l'omaggio non ha gambe proprie su cui camminare. L'erba del vicino, la linfa dei Coen, in quel di Suburbicon l'avremmo immaginata molto più verde. (6)

venerdì 26 gennaio 2018

Recensione: Il mare dove non si tocca, di Fabio Genovesi

| Il mare dove non si tocca, di Fabio Genovesi. Mondadori, € 19, pp. 318 |

Da tre romanzi a questa parte, ricorro alla compagnia di Fabio Genovesi contro la tristezza. Forse saprete già come va: acquisto e metto da parte, da brava formica, per i giorni più freddi. L'ho rispolverato e tenuto con me, stretto stretto, in un gennaio buio che non vuol finire mai. Anche se la copertina, il titolo, mi parlavano in anticipo o in ritardo d'estate. Anche se, forse, questa volta la tristezza aveva messo radici profonde e a Genovesi – l'ultimo, non il migliore – sentivo di chiedere l'impossibile. Fabio, pensaci tu. Tu che, come Jeeg Robot, qualcosa puoi. In risposta, in aiuto, le parole fantasiose e pulite di un bambino che non cambia ancora voce, che non cambia ancora sguardo sul mondo. Un altro Fabio, o magari lo stesso. Un Fabio del passato che, a bordo della macchina del tempo, ci porta nella Versilia dei primi anni Ottanta. Dove ha una schiera di nonni con nomi che iniziano rigorosamente per “a”, tutti pazzi monchi e scapoli, e a scuola gli insegnano sin dal primo giorno che c'è vita, c'è normalità, al di fuori della loro cerchia ristretta: il Villaggio Mancini.

Perché mi sa che al Villaggio Mancini, e in tutto questo mondo che gira e traballa nell'universo, la normalità è la stranezza più grande che ci sia.

Mascotte assoluta della famiglia, il piccolo e contesissimo narratore si barcamena fra battute di caccia, porcini e pesca, gare per il miglior presepe in chiesa e chiacchiere da comunisti infervorati a cena. Cresciuto in un mondo popolato da soli adulti, un Fabio che sogna la beatificazione scoprirà a scoppio ritardato che i coetanei poco ne sanno di maledizioni secolari (pare che i Mancini senza amore siano infatti destinati a impazzire al compimento dei quaranta), papà dalle mani miracolose tali e quali a Little Tony (il suo, Giorgio, è partito sfortunatamente per una lunga tournée dal ritorno assai incerto: il coma), impieghi sottopagati come raccattapalle in country club che fanno l'affronto di rubarci certi begli anni (quell'estate in particolare il nostro protagonista perderà più di qualche tappa, e dei misteri della masturbazione sentirà parlare per la prima volta alle scuole medie: il sesso, "copiato" come le risposte del compito di matematica). Insomma, cos'ha da spartire con gli altri? In difetto lui, di un candore straordinario, o loro?

Viaggia così, quel treno assurdo, si ferma e riparte quando gli pare, niene avvisi né orari stabiliti. Magari sta piantato nello stesso posto così a lungo che credi di restare lì per sempre, poi dal nulla fischia e riparte a razzo, e in un attimo ti trovi in una stazione nuova e misteriosa dove ogni cosa è diversa, soprattutto te: sei andato a letto che eri tu, ti svegli che sei qualcun altro.

La pecora nera del romanzo non sa se uniformarsi o uscire dal gregge. Se provare vergogna o gratitudine per i pomeriggi sul pattìno, per il braccio e per la TV rotti: una giovinezza strampalata che fa venire un po' il mal di mare, e privazioni, mancanze d'altri tempi, che formano – chissà – gli scrittori di domani. Il tubo catodico guasto: Fabio racconta  allora storie nell'entusiasmo generale. Un genitore che dorme ma ascolta: Fabio gli legge ad alta voce opuscoli, manuali, per la gioia di una libraia che minaccia sempre di mollare le bancarelle per le Hawaii e delle arzille signore della casa di riposo all'ultimo piano (peccato premano, però, per romanzi rosa che fanno diventare la faccia del mal capitato cinquanta sfumature di bordeaux). Fabio ci dà fra le pagine lezioni di nuoto; lezioni di vita. Ma non sa nuotare fino agli otto anni e della vita, che scorre veloce quanto un treno, lui è un passeggero clandestino senza biglietto.

La mia famiglia è così, dietro ogni scemenza c'è una storia che non finisce mai, milioni di racconti che schizzano fuori da ogni millimetro del nostro cammino tutto storto, con particolari precisissimi a tonnellate. Delle cose veramente importanti, invece, non si sapeva mai nulla. Nessuno ne parlava, e a forza di non parlarne si smetteva di saperle, così da segreti diventavano misteri.

Chi insegna le canzoni agli uccelli, ci si domanda in un capitolo? E questa leggerezza, queste immagini, a un Genovesi che stavolta convince a metà – troppo aneddotico, troppo naïf: proprio non amo i narratori bambini, poco da fare – restando comunque irresistibile? Il mare dove non si tocca, purtroppo, non mi ha toccato. Non ho toccato io, soprattutto, in giorni in cui mi limito ad annaspare: qualche sorriso strappato con le tenaglie, figurarsi salpare. La colpa: più mia che sua, probabilmente, ma pace. Ai maschi della famiglia Mancini manca qualche rotella in zucca e il gene dei colori. Daltonico anche lui, senza eccezioni, Fabio – autore e narratore, vuoi l'omonimia, per me ormai sono tutt'uno – dipinge però ora con sfumature delicate, ora con colori sgargianti, le avventure tragicomiche di un'infanzia sopra le righe eppure profonda come il mare. 
Dove non tocchi capisci di essere vivo. Dove ti scacciano ti accorgi della meraviglia di essere maledetti. E delle famiglie così, più a modo loro di altre. Quelle che crescendo ti danno le gioie. I dolori. Le storie.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Jovanotti – L'estate addosso

mercoledì 24 gennaio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Chiamami col tuo nome (2017), Luca Guadagnino

Le persone che si vogliono bene sono tutte belle. 
Ho ribattuto così, una volta, a un'affermazione convinta di non suonare discriminatoria soltanto perché estrapolata in una chiacchierata da bar. Me l'hanno insegnato i cinque anni al liceo classico, in cui ho scoperto che Achille amava Patrocolo e che, nella storia delle anime gemelle secondo Platone, l'uomo – all'alba dei tempi, un tutt'uno con quattro gambe, quattro braccia, due teste e un unico cuore – poteva trovare la propria metà soltanto in un altro uomo. Me l'ha cantato Your Song, forse la canzone d'amore più onesta mai scritta. Me l'hanno raccontato, fra gli altri, romanzi come quello di André Aciman: l'autobiografia di un colpo di fulmine, di un'estate italiana, pronta a farsi cinema nell'anno in cui Moonlight trionfava agli Oscar per i motivi sbagliati – vinceva infatti la politica anti-trumpiana fra le righe, non la delicatezza di due uomini che in una Miami difficile, in una vita difficile, sapevano bastarsi. Dirige un Luca Guadagnino a proprio agio con le star, a bordo piscina, che finalmente trova pienezza nella sceneggiatura del veterano James Ivory – in passato mancava la sostanza, vero, ma il cinema dell'esteta siciliano era comunque apprezzatissimo da queste parti. 
Presentato dappertutto, bello senza misteri, l'atteso Chiamami col tuo nome dipinge un'altra famiglia, un altro luogo di villeggiatura sospeso nella canicola, un'altra passione che sconvolge corpo e mente. Nell'Italia del miglior Bertolucci, il sole picchia forte, il cloro si incrosta nei capelli, il sesso è negli occhi di chi guarda. Elio, diciassettenne prodigio, si scopre attratto dai modi di Oliver, studente universitario in ritiro – si parla sempre di privilegiati, si parla ancora di innamorati. Hanno camere adiacanti, balconi confinanti, un bagno in comune. Non c'è privacy e, in pieno agosto, tanta pelle in vista – un efebo pallidissimo il primo, un marcantonio in costume giallo il secondo. Ma si sta a distanza di sicurezza, non ci si tocca direttamente per paura di prendere la scossa (a un certo punto, i due si porgono però la mano che resta di una statua sommersa; un ramoscello d'ulivo). C'è la curiosità iniziale, sporgersi dalla finestra e spiare il nuovo arrivato. Poi l'astio, perché tutti pendono dalle sue labbra. Infine la rassegnazione, ammetterlo a denti stretti: quella tensione non è invidia, ma gelosia. L'amore, come il lutto, ha le sue tappe: è un'esperienza universale. Richiede elaborazione. Uno straordinario Timothée Chalamet, giovane e sconosciuto padrone di casa, si masturba con una pesca, balla come un pazzo, piange inconsolabile. Quel suo viso ancora imberbe, protagonista assoluto dei minuti conclusivi. Puoi leggerci tutto Aciman lì: il rimpianto, e l'illusione delle stelle.
Armie Hammer, affascinante invasore americano, ha il compito non da poco di insegnare l'essenziale al ragazzo che pensava di sapere tutto. E di metterci l'assennatezza e la pazienza, di fare piano. Nonostante la differenza d'età, l'imbarazzo degli inizi, si baciano con la tenerezza di chi si ama davvero. Si abbracciano come chi sa che prima o poi dovrà perdersi. In una casa di campagna che è una comune anni Ottanta, sfilano le domestiche e i giardinieri, i commensali inferociti con Craxi, le adolescenti francesi che promettono altra bellezza aggiunta, papà dai monologhi commoventi come l'intenso Michael Stulhbarg. Con un indefinibile senso di meraviglia, Guadagnino ci lascia allora assistere al risveglio della loro natura. In un melodramma intriso di classicismo e grazia, epidermico ma angelico insieme, che spiazza, spezza e spazza via. Partecipano Madre Natura: lussureggiante per non sfigurare, complice accorta. I cinque sensi: la testa contro il petto, i piedi e le mani che si sfiorano in strada, le echimosi di primi dolori che non si scordano mai. Lo spettatore, che non vorrebbe cacciarli mai da quel Paradiso su misura indicando la prima nuvola di pioggia nel cielo; dire che l'autunno, la fine, sta per arrivare. 
Le persone che si vogliono bene sono tutte belle. Queste, un po' di più. (8,5)

lunedì 22 gennaio 2018

Recensione: Fiori sopra l'inferno, di Ilaria Tuti

Fiori sopra l'inferno, di Ilaria Tuti. Longanesi, € 16,90, pp. 366 |

Un paese di montagna, terra di confine. La neve che, col suo gelo, preserva i corpi e i segreti. Il candore mette in risalto il sangue copioso di un crimine violento. Un uomo ammazzato – gli occhi strappati a mani nude, un inquietante fantoccio a pochi passi – porta l'antiquata Travenì ad aprirsi alla città, allo straniero, affinché non succeda ancora. Gli interessi di un paese che vive di poco, di turismo soprattutto, tremano di paura. Quelli, e le lunghe bugie di chi si è nascosto ora nella consolazione della fede, ora nel profondo della foresta per non essere smascherato. Lassù, ad alta quota, perenni sanno essere certe nevi. Perenni sanno essere certi misteri, che il tempo trasforma poi in leggenda. Aperte le porte alla morte, tocca accettare sull'uscio di casa la presenza indiscreta di Teresa Battaglia. Sessant'anni mal portati, il corpo stanco per l'insulina, una mente che all'improvviso prende a dimenticare nomi e dettagli, ma che ha paura di fare diagnosi fatali. Il commissario che non ha il physique du role conquista per questo: la minaccia dell'oblio, un fisico e un carattere tutto storture. Una nuova leva, Marini, non a caso la scambia a prima vista per una testimone oculare. Fa l'errore di sottovalutarla. La sua vita professionale, fra battute sardoniche e occhiatacce, diventerà un piccolo calvario in un'indagine spesa fianco a fianco. Su un assassino seriale che strappa alle vittime i cinque sensi. Su un passato, un mutismo, che nel provincialismo generano mostri. Su una sbirra che, con le unghie e con i denti, difende e cela il proprio orgoglio; la propria dolcezza.

Forse loro vedono il mondo meglio di noi. Vedono l'inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno.

Il segreto del successo della giovane Ilaria Tuti – allieva degli intrecci di Carrisi (Travenì come Avechot) e delle belle pagine di Zilahy (la ricercatezza dello stile), nonché ultimo acquisto della premiata ditta Longanesi – non è certamente da ricercare nella novità del soggetto. Nel romanzo sono tre le vicende che si intrecciano. Abbiamo gli orrori autentici di una scuola austriaca – un edificio di spifferi e porte chiuse a doppia mandata, uscito quasi da una storia di fantasmi – in cui, nei primi anni Settanta, si credeva a una cattiva educazione per bambini cattivi; i piccoli amici di un borgo di peccati e peccatori, gli unici realmente innocenti, che come i Perdenti di Stephen King si fanno scudo contro le disattenzioni delle rispettive famiglie e gli sguardi di un gigante bestiale che, ai margini della natura, ne spia i gesti e le parole; le ricerche delle forze dell'ordine, infine, all'alba della suggestiva festa di San Nicola (la avevamo già vista nel thriller italiano In fondo al bosco, che sempre di montagne, sempre di oscurità parlava: i cittadini vestiti da Krampus, l'illuminazione al bando). A legarle: una protagonista che crede in Freud, nelle statistiche, e un assassino che sfugge a qualsiasi classificazione – senza un preciso modus operandi, a volte sadico, altre sorprendentemente misericordioso, scrive dal niente una nuova pagina del Profiling italiano.

La criminologia è un'arte. L'arte di imparare a scrutare cose che uno come te neanche intravede. Ma non è magia: è interpretazione. E' probabilità, statistica. Mai certezza.

Sull'esordiente friulana pesano la fama dei best-seller annunciati, le pubblicità dei romanzi contesi ancor prima dell'uscita. Grandi responsabilità non disattese in partenza, però, per via delle nostre grandi aspettative. Battuta di caccia scritta forse meglio di quanto sia stata pianificata, Fiori sopra l'inferno si fa apprezzare ma senza brividi e senza vertigini. A convincere, infatti, è più l'umano che il mostruoso. Uno sguardo sensibile, tutto al femminile, che ci regala scorci pittorici, personaggi sfumati e un'eroina fragilissima con il destino di martire, di guerriera, in un cognome che parla. 
L'apertura delle piste sciistiche semina il discontento in quella Travenì che vorrebbe preservarsi bella e primitiva. I fastidi dell'andirivieni, la concitazione generale, spingono cervi e cacciatori oltre i limiti. 
D'inverno, il male arriva a valle. Sarà la primavera, forse, a restituire la speranza di fiori nuovi. Di Ilaria Tuti, autrice in boccio, vedremo allora meglio i germogli con il secondo romanzo. Con il primo sole.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Negramaro – Fino all'imbrunire

venerdì 19 gennaio 2018

Recensione a basso costo: Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon

| Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon. Einaudi, € 5, pp. 247 |

Christopher Boone, quindici anni, ha un mistero da risolvere e la sindrome di Asperger. Una forma di autismo ad alto funzionamento che, il più delle volte, lo rende un mistero per se stesso e il prossimo – un altro, ancora. Odia il giallo e il marrone, mentre considera il rosso di buon auspicio. Non sa interpretare le espressioni dei volti altrui, sciogliere frasi idomatiche o doppi sensi, ridere di una semplice barzelletta. Orfano di madre, impenetrabile, sta scrivendo però un mistery. Editor d'eccezione: la sua psicologa scolastica. Quello che stiamo leggendo noi, sì, con i capitoli che seguono l'ordine inconsueto dei numeri primi e problemi matematici, digressioni cervellotiche, negli intermezzi. Christopher, prodigio delle scienze, vuole fare l'astronauta ma intanto fa un apprendistato gratuito come detective fai-da-te. Qualcuno, nel cuore della notte, ha ammazzato con un forcone il cane della vicina. E Christopher non parla con gli sconosciuti, non ficca facilmente il naso, ma deve sapere chi è stato e perché. Soprattutto, deve capire di chi fidarsi in un intrigo di bugie non sempre a fin di bene; di facce che mentono senza che lui se ne renda conto. Il suo eroe, Sherlock Holmes, d'altronde vorrebbe così. E lui, che conosce a menadito i risvolti del Mastino dei Baskerville ed è un acuto osservatore per natura, non vuole deluderlo. 

Non pensavo di essere intelligente: guardavo le cose per quello che erano, e questo non voleva dire essere intelligenti. Significava semplicemente essere dei buoni osservatori. Essere intelligenti vuol dire guardare le cose per ciò che sono e utilizzare l'evidenza dei fatti per elaborare qualcosa di nuovo.

Leggo solo adesso, pescato a poco prezzo su una bancarella dell'usato, un best-seller da anni in classifica e sulla bocca di tutti. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ho subito pensato, me lo figuravo diverso. Più infantile. A tratti cupo e amaro, raccontato da un adolescente pragmatico e senza poesia ma dolce a modo suo, stupisce invece per la cattiveria di alcuni personaggi e l'accuratezza con cui Mark Haddon, al tempo semiesordiente, racconta il mondo interiore di un protagonista che a un certo punto parte all'avventura (destinazione: Londra, o forse l'ignoto), con un coltellino svizzero e un topo addomesticato nelle tasche. L'indagine a cui il titolo allude è in realtà un piccolo pretesto. Passepartout per un soggiorno angusto e affascinante, interessantissimo, in una testa che segue leggi tutte sue. Come in Room, voce credibilissima di un bambino cresciuto in cattività, la verosimiglianza è totale. Si ha l'impressione che Christopher Boone esista davvero. A differenza dei protagonisti di Atypical e Big Bang Theory, dell'altro investigatore speciale di Siobhan Dowd, non è soltanto lunghi silenzi, accortezze che fan simpatia, modi freddi ma gentili. A volte perde le staffe. Ha scoppi di violenza e finisce in una sorta di trance in cui la famiglia non lo può raggiungere e i minuti, le ore perfino, perdono di significato. Se la gente è troppa, si accuccia a terra, urla e strepita. Se la fa addosso, e non ha più l'età.

Penso che i numeri primi siano come la vita. Sono molto logici ma non si riesce mai a scoprirne le regole, anche se si passa tutto il tempo a pensarci su.

Chi è il responsabile dell'assassinio del povero Wellington? La domanda, si diceva, diventa presto secondaria. Christopher vive al di fuori di questo minuscolo giallo che innesca l'azione, la coscienza. E Christopher, ogni tanto, si perde. In una città sconosciuta. Nei segreti terribili di chi gli sta accanto. In una testa un po' matta – ma siamo matti noi, piuttosto – che ci regala inquietanti sogni apocalittici, sorrisi stentati e preoccupazioni diffuse, pagine bellissime in cui ci si scopre smarriti, boccheggianti, esattamente come lui.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Blink 182 – Adam's Song

mercoledì 17 gennaio 2018

I ♥ Telefilm: Black Mirror - Stagione IV | The End of the F***ing World

Specchio, specchio delle mie brame, qual era la serie più attesa del reame? L'ho trovata per fortuna già lì, senza aspettarla quasi. Sei episodi – geniali al solito, si sperava – caricati a cavallo fra l'anno vecchio e il nuovo. Tempismo sbagliato per pensare ai listoni, già chiusi e fissati su carta, ma non per darsi all'abbuffata – saltando le feste e i loro banchetti da mille portate, scarsi sensi di colpa da parte mia. Qualche boccone, qualche episodio, mi è andato però di traverso. Ma andiamo con ordine, partendo da una stagione fa: la terza – la prima che ho visto in realtà – magistrale sì ma, con il senno di poi, già in procinto di allontanarsi dall'umorismo british, dalla satira rivoluzionaria delle prime due. Preferendogli qualche volto noto, mano fermissime alla regia e gli amori dell'indimenticato San Junipero. L'impressione va accentuandosi nel corso della quarta. Riflesso confuso di una serie antologica che questa volta ha troppe eroine e pochi spunti vincenti. Di quelle puntate divorate per foga, per curiosità, poche non lasciano l'amaro in bocca. Si apprezzano l'aria vintage e il cast della prima – regata virtuale in stile Star Trek, capitanata da un frustrato e onnipotente Jesse Plemons – ma la fantascienza anni Settanta, forse limite mio, annoia un po' (6,5). La seconda, diretta da una Jodie Foster assolutamente fuori forma, racconta le ansie di mamma Rosemarie DeWitt, diventate ossessione nell'attimo in cui le nuove tecnologie le permettono di spiare costantemente l'unica figlia: una protagonista insopportabile e il taglio da giallo di Rai Due non aiutano (5). La terza, un Fargo al femminile, è la mattanza a opera di un'ottima Andrea Riseborough per proteggere interessi personali, segreti e lacrime di coccodrillo (6,5). La quarta, splendido fiore all'occhiello a metà tra 500 giorni insieme e Equals, ha finalmente del capolavoro: lui incontra lei, si piacciono, ma una società che monitora i cittadini, gli amanti, ha piani imperscrutabili per la loro relazione (8,5). Della quinta, survival horror in un rigoroso bianco e nero, si salva la regia di David Slade: la storia della donna braccata da un cane robot, in un anonimo deserto, non volevamo sentirla, almeno non qui (5,5). Per fortuna, qualche lampo di brillantezza nella chiusa metatelevisiva, in cui però l'ennesima femminista, l'ennesima vendetta, giustificano la grande stranezza, e la riducono ai minimi termini (7). Charlie Brooker è stanco. Lo Specchio Nero, nella stagione che ha meno colpi di scena, meno cose su cui spingerci a riflettere, è appannato. Se contro l'opacità non basta il Vetril, qualcosa possono la straordinaria delicatezza dell'inconsueto invito a cena di Hang the DJ; un museo degli orrori, in memoria dei Black Mirror presenti e passati, in cui non vorremmo che i cimeli esposti fossero vestigia di un futuro che già non c'è più. (6,5)

Dopo tanto, iniziare come preferisco io. Il ragazzo incontra la ragazza. James, seduto da solo al tavolo della mensa, conosce la scostante Alyssa, ultima arrivata. Lei, annoiata da tutto e tutti, da una famiglia allargata di cui non può sentirsi più parte, vorrebbe fuggire via – e nel silenzioso coetaneo dalla macchina perfettamente funzionante ha individuato un ideale compagno di viaggio. Lui, psicopatico senza se e senza ma, dopo un'infanzia passata a seviziare animali randagi, ha deciso di passare agli esseri umani: perché non partire proprio da quella ragazza che, dal nulla, gli si è gettata fra le braccia? Succede che partono, sulle tracce del papà truffatore di lei. Succede che il male, prima in teoria e poi in pratica, lo sperimentano davvero strada facendo. Assieme a quella tenerezza, a quella specie d'amore che amore non è, che né l'uno né l'altra – troppo anaffettivi, troppo fuori – contemplavano in partenza. Alyssa, alla cieca, si affida a un aspirante serial killer. James, somigliante al protagonista di Atypical ma con in aggiunta la vena di sadismo di Bates Motel, sente presto di non poter fare a meno della compagnia di un'attaccabrighe per natura. Acuto, violento, dolcissimo, The End of the F***ing World è la commedia adolescenziale che si veste di nero. Una scoperta su ruote divorata in tempi record, con i personaggi assurdi a cui mi affeziono per principio, le tavole calde dei boy meets girl di cui non avrò mai abbastanza, una sognante colonna sonora sottratta per rapina a mano armata alla grazia degli anni Cinquanta. Bonnie e Clyde, al giorno d'oggi, hanno grosse questioni irrisolte con mamma e papà. Sfoggiano camicie hawaiane super kitsch e tinte biondo platino. Hanno i volti freschi degli ottimi Jessica Barden e Alex Lawther, il pulp del fumetto d'origine, il mondo intero contro. Se si innamorano, complici d'omicidio e braccati, chi lo sa. Ma di loro, strambi e adorabili, mi sono innamorato un po' io. Perché fanno ridere, fan preoccupare, dall'inizio alla fine: la stessa che purtroppo cala presto dall'alto, sorprendendoli come a metà della corsa. In patria, hanno fatto poco rumore per disseminare veleni, cadaveri e cuori infranti. Le cose, da questo mese, potrebbero andare diversamente su un Netflix non sempre all'altezza delle proprie produzioni originali, vero, ma generoso Mecenate. Sperando vivamente che la fine del titolo sia soltanto l'inizio della loro avventura. E, sì, di una c***o di fantastica storia d'amore. (7,5)

lunedì 15 gennaio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Tre manifesti a Ebbing, Missouri | Coco

Alle porte di Ebbing, Missouri, non esiste giustizia. Non cresce l'erba, su una strada di campagna percorsa o dagli idioti, o da quelli che si son persi. Dove il terreno è più scuro, cicatrice di un crimine già vecchio di un anno, qualcuno ha arso il cadavere di una diciassettenne. Questa, però, non è la sua storia. In città i più hanno finto di dimenticarla: abili a distogliere lo sguardo, meno a porgere l'altra guancia. Alle porte di Ebbing, Missouri, così sorgono dal nulla tre manifesti rossi come il peccato, sui cui campeggiano domande senza risposta. Le accuse pesantissime di una mamma coraggio che, a colpi di intraprendenza, disturba il sonno di forze dell'ordine che non prendono né pesci né assassini impuniti. Questa è la sua storia, e parte dai sentieri sterrati, dalle voci di corridoio, dalla fine. Quando purtroppo non esiste altro scopo nella vita e la furia prende di mira l'immobilismo – alla cieca però. Una granitica McDormand, a cui è impossibile strappare gentilezze o sorrisi, gioca a fare la vandala in una gara già persa contro il dolore più devastante: le restano i dubbi del figlio Lucas Hedges, gli approcci galanti dell'insolito Dinklage, gli sfottò verso un ex traditore e tante di quelle parolacce, tanti di quei debiti, da costringere magari la verità a palesarsi. Lo sceriffo in fin di vita di Harrelson, insospettabilmente dolce e abile con le parole, cerca di non prenderla troppo sul personale. Ma al suo vice, un Rockwell smidollato, razzista, strepitoso, piace essere il braccio violento della legge: nella stessa casa, ha una mamma insopportabile che lo rimbecca di continuo. Se autore e regista è Martin McDonagh, mente folle dei per me poco memorabili In Bruges e 7 Psicopatici, le conseguenze saranno disastrose e tragicomiche. Ci faranno un po' ridere e un po' piangere del destino di queste tre anime derilitte in cerca di moventi, seconde chance e premi Oscar. Three Billboards, commedia di un nero senza fondo con dialoghi da manuale e interpreti al meglio, è un bagno di male da cui si esce annaspanti, grati, toccati – colpiti in pieno petto. Difetto isolato, tocca riconoscerlo: ci si rischia di trascinare in un epilogo dilungato, ripetitivo, che tuttavia fa stringere i denti e le dita. Si perdona, ci si vendica. Si piantano i fiori, e una donna in tuta da meccanico se ne prende cura, perché ha un cuore nero ma il pollice verde. Si aspetta che un cerbiatto – un segno, diremmo, se solo si credesse ancora nei miracoli – torni a brucare. Alle porte di Ebbing, Missouri, finché c'è rabbia c'è speranza. (8)

Ammetto subito la mia colpevolezza. State leggendo, infatti, l'unico parere così così su quel Coco apprezzato in lungo e in largo. La sola persona al mondo, forse, ad essere rimasta impassibile davanti alle emozioni annunciate di un capolavoro Pixar che tale, purtroppo, non mi è parso. Ma sì, resto uno che crescendo si è scoperto inspiegabilmente scettico davanti alle prodezze della favola: le eccezioni esistono, vedasi le lacrime copiose versate per la bellezza del sottovalutato Il piccolo principe. Gli spettatori, lo so, per Coco si struggevano. I critici, anche loro in preda al pianto, si davano a lodi sperticate. Un po' come accaduto con Inside Out di cui almeno riconoscevo l'originalità dello spunto – la visione dell'ultima fatica di Lee Unkrich mi ha lasciato amareggiato e con gli occhi asciutti. Come se, in difetto io, non avessi saputo apprezzarlo. A metà fra La musica nel cuore e La sposa cadavere, ma con le insolite ambientazioni del Libro della vita, il film racconta l'avventura del piccolo Miguel – aspirante chitarrista in una famiglia di calzolai che la musica l'ha messa al bando – e il suo viaggio ultramondano, durante il Giorno dei morti, alla ricerca del beneplacito di un trisavolo celebrità. Lo accompagnano un amico a quattro zampe, che non a caso si chiama Dante, e un musicista senza arte né parte che ha paura di scomparire se dimenticato. Intuibilissimo dall'inizio alla fine per via delle incertezze della sceneggiatura, Coco trova nelle indiscrete gioie del comparto tecnico e nella tenerezza verso una vecchina che somiglia tanto alla nonna che non ho più (lei, la donna di cui il titolo parla) motivi per perdonare la banalità del villain, il ruolo lampante di alcuni comprimari e perfino quella chiusa già scritta in partenza, che eppure ha toccato le anime sensibili. Coi suoi colori accattivanti e una colonna sonora in forse, perché maltrattata impunemente dalla solita edizione italiana, parlando di morte e memoria, la Pixar convince senza rischiare. Ponte che non si è mai aperto, almeno non del tutto, fra una dimensione e l'altra; fra me e un'animazione che ogni anno sembra passare a timbrare il cartellino, sotto le feste, consegnando il compitino corretto e convenzionale che non conquista. (6,5)

venerdì 12 gennaio 2018

Recensione in anteprima: Il sole è anche una stella, di Nicola Yoon

|Il sole è anche una stella, di Nicola Yoon. Sperling & Kupfer, € 18,90, pp. 348 |

Non aspettavo di ricevere bozza del Sole è anche una stella, o comunque non tanto in anticipo (uscirà, infatti, il prossimo 16 gennaio). Meno ancora il ritorno di Nicola Yoon, dopo le belle idee di quel Noi siamo tutto di cui non aveva saputo purtroppo mostrarsi all'altezza. Su carta, questa volta, la storia interraziale dell'autrice Young Adult non chiamava. Quante probabilità c'erano di cambiare idea? Se i toni sono di quelli che facilmente incantano, se lui incontra lei come in una commedia di Richard Linklater, tutto è possibile. Ne sanno qualcosa i protagonisti, di risvolti inattesi e magia – ma tu chiamala, se vuoi, serendipità. Le strade di Manhattan, due adolescenti con in ballo interessi opposti, un giorno per sfidare il conto alla rovescia che li vorrebbe sconosciuti. Natasha e Daniel corrono in una marasma di newyorkesi indifferenti, con appuntamenti di vitale importanza fissati per il primo pomeriggio. Lei, pragmatica e disincantata, le cuffie rosa shocking e un cespuglio di capelli indomabili, è un'immigrata clandestina: cresciuta in America, a fine giornata dev'essere rimpatriata in Giamaica per l'ennesimo errore del padre – attore senza speranze che ha alzato il gomito una volta di troppo. Cerca una scusa buona, un avvocato agguerrito, per fermarsi un altro po'. Lui, poetico e sognatore, il completo elegante e una vistosa cravatta rossa, è diretto dal barbiere e dall'uomo da cui dipende il suo destino di studente: di famiglia coreana, con un fratello espulso da Harvard, ha sul collo la spada di Damocle delle esagerate speranze di mamma e papà.

Forse innamorarsi di qualcuno significa anche innamorarsi di se stessi.

Vanno di fretta, ma inciampano l'uno nell'altra. Con i loro vestiti grandi, da adulti. Con la pelle di colore diverso, un diverso sguardo sul mondo, e un destino apparentemente contro. Non si scambiano il numero di cellulare. Non conoscono i loro reciproci cognomi. Non sputano una parola: si sfidano. Tutt'altro che agli antipodi, danno semplicemente nomi diversi alle stesse cose: lo suggerisce il titolo, che spiega che il sole in cui crede lei altro non è che una delle tante stelle vagheggiate nei versi di lui.

Dati Osservabili: non credo nella magia.
Dati Osservabili: noi siamo pura magia.

A sorpresa, succede l'esatto contrario che in Noi siamo tutto. U'idea impercettibile e una storia che avrebbe forse meno da raccontare vengono valorizzate da protagonisti facili da voler bene, riflessioni attuali su un'America trumpiana che erige barriere fra gli uomini, un'intelaiatura insolitamente raffinata – punti di vista a capitoli alterni, e qui e lì digressioni di una narratrice onnisciente che spiega concetti inconsueti, la versione dei fatti dei personaggi secondari (raccontare i dolori del padre di Natasha, ad esempio, con le battute di una pièce teatrale), l'agire provvidenziale di comprimari invisibili (una malinconica addetta alla sicurezza che scopre Cobain e l'attaccamento alla vita, le lacrime di una segretaria cotta del capo sposato). Tra ristoranti etnici e karaoke, la ritrovata Yoon parla con i suoi protagonisti del futuro e degli sgambetti che a volta ci mette questa stessa vita, di un sogno americano che prende e dà, di generazioni lontane come certi astri nel cielo. Al dramma di non sentirsi appartenenti a nessun luogo – prendete Daniel, troppo poco coreano e troppo poco americano insieme – si affiancano attimi fortuiti, questioni di tempismo sbagliato, la magia dell'inatteso e di una mattina a passeggio fra i grattacieli del centro.

Secondo me è proprio il buono che c'è in noi che in qualche modo ci unisce gli uni agli altri. Quella parte di noi che condivide l'ultimo biscotto con le gocce di cioccolato o fa beneficenza, regala un dollaro a una musicista di strada, lavora come volontaria in ospedale, piange guardando la pubblicità della Apple e ti dice ti voglio bene o ti perdono. Secondo me Dio è questo. Dio è il legame tra tutte le parti migliori di noi.

Ci si può innamorare con metodo scientifico, se il formarsi di un sentimento non è poi così diverso dal Big Bang? Fare ciò che si desidera o ciò che è meglio? Per un giorno, soprattutto, o per sempre? Si fanno scelte, e le scelte ci fanno, in uno Sliding Doors multietnico, intergenerazionale, in cui – banalmente ma non troppo, fidatevi di me – è la porta scorrevole del cuore quella giusta. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Ed Sheeran – All of the Stars

mercoledì 10 gennaio 2018

Recensione a basso costo: Il postino suona sempre due volte, di James M. Cain

| Il postino suona sempre due volte, di James M. Cain. Adelphi, € 9, pp. 122 |

Ha suonato due volte, al cinema. La prima con John Garfield e Lana Turner, l'altra con Jack Nicholson e Jessica Lange. Il postino – anche se il titolo, da prendere non alla lettera, pare si riferisca alla puntualità del destino secondo un proverbio – portava i grandi divi, l'erotismo, il mistero. Ho aperto loro la porta anni dopo. Facciamo quasi novanta, considerando che questi amanti diabolici – con i loro misfatti, con la loro passionalità feroce – scandalizzarono in principio l'America dei tardi anni Trenta: galeotta la scoperta di James M. Cain che, lo scorso novembre appena, mi aveva incantato con un ritratto femminile umano e spregiudicato, a cavallo fra i generi e le generazioni. Il postino suona sempre due volte, senz'altro più noto di Mildred Pierce, sembra portare i suoi anni peggio della bellissima signora che seppe reinventarsi all'indomani della Grande Depressione – scoprendosi ora imprenditrice di successo, ora pessima madre. La trama la conoscete a grandi linee. Frank, autostoppista con la strada come casa, fa tappa presso una taverna di provincia: vigoroso e amichevole, scafato, trova presto lavoro come factotum. Ad allettarlo, non tanto le offerte del proprietario – un generoso e sfortunato immigrato greco – quanto le grazie della giovane moglie di lui, Cora. Reginetta di bellezza che ha abbandonato l'Iowa inseguendo la gloria, cacciandosi però nel vicolo cieco di un matrimonio infelice. Nel nuovo arrivato, l'irrequieta casalinga trova l'amore. Soprattutto, un complice. Per la perfetta relazione clandestina, e per il delitto perfetto.

Ma che cosa ci resta? Eravamo in cima ad una montagna. Eravamo così in alto, Frank, quella notte! Non avrei mai creduto di poter sentire nulla di così meraviglioso. Ci siamo baciati; e quel bacio aveva saldato un patto, tra noi, che sarebbe dovuto durare eterno, qualunque cosa accadesse. Nessun’altra coppia di amanti al mondo poteva dire d’aver avuto altrettanto dalla sorte. E invece siamo caduti. Tu per primo; poi io. Sì, siamo pari. Tutti e due quaggiù, insieme. Non siamo più lassù, in alto. E la nostra bella montagna è sparita.

Uccidere un marito senza il senso degli affari, intascare i soldi della solita assicurazione sulla vita, farla franca. Se la gatta ci lascia lo zampino, però, non tutto va come da piano. Colpa di un uomo che non vuole farsi ammazzare al primo tentativo, di una giustizia che non ci crede, di un rapporto troppo morboso per rimanere in piedi. Il crimine logora tutto, e Frank e Cora perdono di vista il punto. Si sporcano, si pentono, si perdono, e se ne rendono conto soltanto dopo. Legati a doppio nodo dalla stessa cosa che potrebbe dividerli. Lui vorrebbe fuggire dai fantasmi di una notte di sangue, lei vorrebbe restare per diventare finalmente qualcuno. Lacrime di coccodrillo, allora, su un bene che vive di sesso riparatore e sbornie, del male fatto agli altri. Sull'illusione di ammansirsi a vicenda. Duro e laconico, senza fronzoli, Il postino suona sempre due volte ha la dimensione del racconto e, per forza di cose, personaggi più stilizzati – lui semplice faccendiere, lei femme fatale con qualche guizzo di umanità. I moventi nudi e crudi del noir in bianco e nero, i risvolti stucchevoli del mèlo.

L’amore, quand’è mescolato alla paura, non è più amore. È odio.

Colpa di una parentesi giudiziaria cavillosissima, finita troppo tarallucci e vino; dei troppi finali, e di quell'epilogo da tragedia greca che gioca con le spirali di ricatti e false redenzioni, con il karma, esagerando spesso. Può forse nascere un sogno d'amore da un incubo? 
Per rispondermi, al citofono ha suonato per la seconda volta James M. Cain. Senza purtroppo cogliere di soprassalto come in passato, senza rinnovare una sorpresa che mi figuravo senza tempo.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: No Doubt – It's My Life 

lunedì 8 gennaio 2018

Blogversary | Sei anni

Sei anni. (Ieri.)
Quando un bambino comincia le elementari.
Quando ho imparato a leggere e scrivere.
Quando il liceo finisce, e il primo anno senza – la sveglia alle sette, i sorrisi della compagna di banco, i trucioli sulla fòrmica azzurrina – ci si sente soli e sperduti.
Quando un blogger – dipendente sì, ma troppo dagli altri, troppo da queste vacanze che lasciano in giro ghirlande e tristezza, tappi di vecchio spumante – sente di non sapersi godere niente, nemmeno la sua festa.
Sarà l'amarezza che non mi scollo di dosso, gli strascichi di due anni fa.
Sarà che, questa volta, mi è difficile raccontarmi in una lista di cose belle per dire che tutto passa, che poi sto meglio anch'io – una c'è stata, c'è, così bella da credere di meritarla a giorni alterni. 
Sarà che ho questa cosa, dentro, in ballo, che mi rende stanco e irrequieto. Sempre in dubbio. Neanche con un libro in mano, davanti a un film, pare di trovare più pace. Che quest'anno – non in un post di compleanno, ma in un augurio per me e per voi – ce ne porti almeno un po'.
Di persone, di libri, di film che restano.
Scusate.
Grazie, perché scegliete me.
Anche quando a dormire, a fantasticare, non restano che Ryan Gosling e Emma Stone lassù, in un header fuori stagione. Diamo la colpa all'influenza, al raffreddore, per questa pagina di caro diario che in fondo suona un po' brutta. Non badate a una voce roca che avrebbe voluto dirvi di meglio. Domani, magari, mi ritorna in gola. E potremo cantare i folli e i sognatori, e tanti auguri a me.
Sei anni. (Ieri.)

sabato 6 gennaio 2018

Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Blade Runner 2049 | Dunkirk

La curiosità mancava. Questa fantascienza ad alto budget non mi piace, e i seguiti fuori tempo massimo meno ancora. Del primo capitolo, noir sui generis visto per dovere di cronaca anni fa, ricordo la straordinaria colonna sonora e il celebre monologo sotto la pioggia che, da profano, mi ero figurato più lungo. Per fortuna, alla regia, quel Villeneuve che non sbaglia. Per fortuna, in rete, amici blogger pronti a parlarne indistintamente bene – mezzo flop al botteghino, forse perché troppo lungo, forse perché troppo serio, conquistava a sorpresa anche gli scettici, gli spettatori più annoiabili e la maggioranza dei nostalgici, fanatici per partito preso di un Ridley Scott invecchiato ben peggio delle sue fantastiche creature. Ho fatto di Blade Runner 2049 la mia ultima visione dell'anno per scongiurare il rimpianto di essermi perso qualcosa di importante; per un posto vacante a metà del listone, accanto all'Arrival di un Villeneuve per questo doppiamente vincente. Pensavo di seguirlo in comode rate; pensavo di non stare al passo con un universo – cinematografico, letterario – che mi risulta ostico. Gosling, replicante di ultima generazione con il distintivo appuntato al bavero della giacca a vento, ha il compito di mettersi sulle tracce dei suoi vecchi simili, di disattivarli ammazzandoli – così comanda almeno Robin Wright, suo superiore; così pretende, per interessi economici, l'inventore cieco di un Jared Leto che gioca a fingersi Dio. La scoperta di un cadavere, di un segreto sepolto: una replicante morta di parto, per dire che le eccezioni esistono; per dire che quella creatura venuta al mondo, braccata per diventare cavia, potrebbe essere più di un robot, più di un uomo. Cos'è di quel bambino trent'anni dopo? E di una coppia che si è sciolta tragicamente, con lui – proprio Harrison Ford, richiamato all'appello tutto grigio e spiegazzato – che ora vive nascosto in una Las Vegas deserta, splendida e radioattiva? Gli uomini d'azione, anche se in definitiva all'azione si preferisce l'accomodante lentezza di certi polizieschi, si inseguono in lungo e in largo; indagano rischiando di prendere troppo a cuore i loro casi (di coscienza). Ma sono le donne, semisconosciute, a conquistare – l'implacabile Sylvia Hoeks, la prostituta dalla chioma rosa di Mackenzie Davis e l'incantevole ologramma di Ana de Armas, protagonista di un poetico ménage à trois contro cui quasi nulla possono la spettacolarità delle dighe straripanti, dei voli a mezz'aria, delle scenografie ipnotiche. A caccia di replicanti e della loro progenie segreta – un po' frutto dell'amore, un po' dei calcoli della scienza – ci si scopre così incantati, emozionati. A caccia di sequel felici e di film da guardare con occhi grandì così – che non siano poi miracolosi come gli eredi di Deckard e Rachael, troppo perfetti per scoprirsi anche densi, poco importa se al cospetto di un simile capolavoro visivo – viene da dirlo ancora, sì. Ho visto cose che. (7,5)

Christopher Nolan non è mai entrato nelle mie grazie. Questione di generi distanti che me lo lasciavano godere a metà. Di durate sostenute che, nonostante i buoni propositi, mi hanno puntualmente impedito revisioni con occhi più svegli. Non amo, si sa, un cinema grande che non per forza è grande cinema; rifuggo dal gregge, dai commenti mossi a priori. Di Christopher Nolan, purtroppo, non mi piacciono i fan – quelli che parlano della persona in sé, delle mancate vittorie agli Oscar come di un DiCaprio, lasciando da parte l'essenziale. Loro – anche se di lampante c'è al solito la tecnica sopraffina, l'impiego dell'angosciante colonna sonora del solito Zimmer – probabilmente avrebbero acclamato questo Dunkirk, già presentissimo all'alba della stagione dei premi, a prescindere. Sempre in tempo di bilanci, di listoni, l'ho recuperato in ritardo – mai sentito il bisogno di correre in sala, infatti – ma molto fiducioso. Questa volta durava un'ora e quaranta appena. Questa volta meno garbugli, meno manierismi, se si parlava di storie e di morti veri; di guerra. Cercavo uno dei film più belli dello scorso 2017. Ho trovato, con sommo disappunto, il più sopravvalutato. Cosa sto guardando io e cosa hanno visto tutti gli altri?, mi domandavo nel mezzo di una visione che non appassionava né interessava. Si combatte il nemico tedesco – mai nominato e mai mostrato, per un'imperscrutabile scelta stilistica – in terra, in mare, in cielo. Confinati sulla spiaggia, sullo sfondo del piano sequenza più struggente di Espiazione, un manipolo di giovani tenta invano di cercare una via di fuga – il protagonista dovrebbe essere Fionn Whitehead, ma alla curiosità piace soffermarsi sull'esordiente Harry Styler, da cantante ad attore senza difficoltà. Con una barca da poco, invece, il patriottico Mark Rylance e suo figlio superano la Manica per rendersi utili sotto il fuoco nemico. Vola alto Tom Hardy, nascosto da una maschera, e fa fuoco. C'è chi va, c'è chi viene, c'è chi spara. Storie che non si incrociano come potrebbero, no, e che troppo concitate, troppo motorie, fanno fatica a lasciarti affezionare ai protagonisti sotto assedio. Dunkirk non è un dramma corale, perché i personaggi non hanno un'identità o una voce propria – quando e se parlano, in una pellicola che forse avremmo preferito muta, l'ipocrisia e la retorica sono in agguato. E' un film storico, ma che alle storie rinuncia – sequenze spettacolari ma giustapposte, fredde, che potrei paragonare a quelle di una ricostruzione, di un documentario, se non fosse che Dunkirk e il suo rumore non fanno gran chiarezza nemmeno sui fatti, sulle dinamiche del conflitto. L'ho trovato anonimo, disumano e impeccabile. Un film, e una guerra, di nessuno. (5,5)

mercoledì 3 gennaio 2018

I ♥ Telefilm: The Marvelous Mrs. Maisel | Big Mouth

Miriam, detta Midge, è bella, spiritosa e, nonostante la rigida educazione ebraica, ancora capace di sorprendere il marito Joel a letto. Madre di due bambini, ossessionata dalla perfezione degli arredamenti e della messa in piega come ogni angelo del focolare dei tardi anni Cinquanta, si alza ogni mattina dal letto per truccarsi e profumarsi prima che il marito si svegli, e per gli amici e i capi di lui – che fa un lavoro d'ufficio noioso ma remunerativo e che, un paio di sere a settimana, si esibisce come comico nei cabaret – sforna a comando leccornie dagli ingredienti super segreti. Midge lo supporta. Annotata battute, applausi e fischi sul suo prezioso taccuino rosso. Ancora: si fa bella con l'aerobica e i trucchi, cucina, si presta e si prostra. Midge viene lasciata così, su due piedi – da cliché, per la segretaria oca di turno. Tornare a vivere dai genitori con la coda tra le gambe, trovarsi un impiego come commessa ai grandi magazzini, dividersi fra l'orgoglio ferito e la vergogna dei pettegolezzi alltrui. Midge alza il gomito, con indosso l'equivalente chic del pigiama felpato di Bridget Jones, e nello stesso cabaret in cui il marito miete tiepidi consensi dà spettacolo di sé: letteralmente. Le confessioni della casalinga disperata, e i suoi naturali tempi comici, le procurano consensi, l'irresistibile Alex Borstein per manager e qualche innocuo arresto per oltraggio al pudore. All'improvviso la vita in solitaria e la scoperta di un talento, di una vena creativa, sempre stata lì. Sotto i vestiti impeccabili, pastello. Sotto i modi leziosi, che però fan tanta simpatia. Lei è la vera anima di una coppia che, forse, tale non è più. Lei è la voce squillante che dell'Upper West Side racconta le ipocrisie a cena, i segreti, le donne – il tradimento di quel Michael Zegen che già sotto sotto si è pentito, le famiglie uscite dal miglior Woody Allen con il Detective Monk, un bravissimo Tony Shalhoub, per patriarca. Mildred Pierce trovava sé stessa accanto alla vetrina di un ristorante. La a me sconosciuta Rachel Brosnaham, rivelazione dello scorso anno al pari dell'intensa Elisabeth Moss, ha bisogno di un'asta e un riflettore fisso. Per farci ridere e riflettere, con una parlatina travolgete che non si insegna né si imita. Per renderci ancora più sfavillanti, ancora più memorabili, quegli anni di abiti eleganti, disparità affrontate con il sorriso, femministe che non si fanno sentire solo marciando. Come fosse un musical, ci si rifà gli occhi con la bellezza di costumi e scenografie. Come in un period drama, la storia e la politica ci mettono lo zampino. Mai quanto i coniugi Palladino – la rima è presto servita –, che non sono soltanto Rory e Lorelai, pomeriggi in replica su Italia Uno, ma anche questi sorprendenti dialoghi fiume e una protagonista, sì, meravigliosa proprio come da titolo. (7,5)

Non sono tipo da cartoni. Semplice compagnia per pranzi in solitaria, dicevamo, con la TV accesa in sottofondo fra i silenzi della casa e l'acqua che gorgoglia sul fondo della pentola. A farmi cambiare idea, prima l'esistenzialismo secondo il nichilista BoJack Horseman; infine, in cerca di titoli degni di nota con l'anno bello che agli sgoccioli, il sesso spiegato a (da) un gruppo di tredicenni allo sbaraglio nello sfrontato Big Mouth. A lezione di educazione sessuale sul solito Netflix perciò, puntata dopo puntata. Come compagni di banco, Nick (ancora in attesa della pubertà), Andrew (già uomo su carta, ma dubbioso verso tutti quei peli, le basse prurigini, chi gli piaccia o non gli piaccia), Jessie (il primo ciclo mestruale in gita, all'ombra della Statua della Libertà, con quei pantaloncini bianchi che in definitiva sono stati una pessima idea). Sviluppo ormonale, masturbazione, omosessualità. Quanto ne sapete di. Sono bene accette domande di ogni sorta. Eccole, le mani che si alzano. Anche le ragazze si eccitano? Come vanno le cose in camera da letto fra mamma e papà? Se sono geloso del mio migliore amico, sarò mica innamorato di un maschio? Insegnanti d'eccezione, i mostri degli ormoni di lui e di lei – sobillatori, onnipresenti, prontissimi a far finire ogni appuntamento galante in tragedia e a trasformare i genitori in nemici giurati. Se di lezioni interattive si tratta, tutto è lecito: siparietti musicali compresi. I tampax cantano allora allegramente, i peni vanno ghiotti di capesante, i fantasmi di Freddie Mercury e Duke Ellington ti istruiscono duettando. Non tutti i cartoni sono una buona compagnia durante i pasti. Senz'altro non questo, inadatto alla fascia protetta e alla corretta digestione. Si ride moltissimo. Ci si disgusta un po'. Come quando, alla stessa età dei personaggi, con tutto quanto da imparare, American Pie e le sue torte di mele profanate generavano alzate di ciglia e sghignazzi nel bel mezzo della lecità curiosità dei miei compagni di classe. In onda: il risveglio dei sensi, l'esplorazione del corpo proprio e altrui, le insidie del mondo del porno e della prima adolescenza. Il sesso, in una serie animata con la bocca larga e la lingua biforcuta, scandalizza e diverte. Il nonsense e l'intelligenza della scrittura volano alte. E' da lassù, probabilmente, che Big Mouth ti sta mostrando il dito medio – o, conoscendolo, peggio. (7,5)