Miglior
sceneggiatura originale. Avere
quindici anni a Santa Barbara, California, con gli anni '70 agli
sgoccioli. La rivoluzione sessuale in atto, fumo di sigaretta ovunque
e, a tavola, conversazioni spudorate a proposito di orgasmi
impossibili, prime volte e mestruazioni. Il technicolor, la musica
punk, gli amabili resti del conflitto generazionale. Jamie vive
quell'anno di transizione in una casa trasformata in una allegra comune. Dalla sua finestra entra ed esce la ribelle e bellissima
Elle Fanning; in una camera data in affitto balla una
scatenata e fragile Greta Gerwig, consigliera dai capelli
rosso fuoco; in un'altra, invece, c'è il sempre affascinante Billy
Crudup, factotum che dispensa attenzioni e tenerezze. Padrona di casa, una strepitosa Annette Bening a digiuno di nomination: mamma single allevata
durante la Grande Depressione, ex aviatrice, si preoccupa
dell'educazione sentimentale del figlio e della ritrovata felicità
di quegli ospiti (abusivi). In un anno sospeso, in cui
ogni cosa sembrava vicina e possibile, far sì che il protagonista si faccia trovare preparato grazie
all'influenza costruttiva di quei parenti improvvisati e di quelle
ninfette magnetiche. Plasmarlo, facendone un galantuomo che crede
nelle pari opportunità, nel punto G e nell'indiscreta
poesia dei sentimenti a senso unico. Nel titolo ci sono le donne, ma
Mike Mills - già autore di quel gioiellino che fu Beginners
- realizza una commedia ad
altezza adolescente in cui gli uomini, pochi ma buoni, pendono dalle
labbra delle loro coinquiline e prendono appunti.
Inutile descrive cosa succeda e cosa non succeda. Superfluo cercare
di suggerire quella leggerezza, quel brio, quella semplicità
intelligente che solo il cinema indie sa. L'ho adorato così, senza
un preciso perché. Resta lo sgomento, quello sì, per la clamorosa
esclusione nelle categorie principali. Nel cast, in equilibrio
perfetto, non c'è un viso fuori posto. Sprizzano tutti confidenza,
armonia, intesa. Sono i compagni che tu, solitario cronico, avresti
voluto con te in un'età sottile. Non ti risparmiano l'imbarazzo,
vero. Il terzo grado. Ma che bella musica, che bella compagnia, che
bel film. Lo sottolineano i narratori onniscienti nel momento di
tirare le redini: anticipandoti le morti, le strade che si dividono,
la vaga amarezza che proverai. Non
senza una certa fretta, ma con la malinconia che rende gli
insegnamenti preziosi e il bicchiere sempre mezzo pieno. (7,5)
Miglior Film d'animazione. Icaro, detto
Zucchina, ha appena nove anni ma conosce la sofferenza.
L'ha sperimentata con sua madre: una donna abbandonata dal marito,
che si è trasformata nell'ombra di se stessa. Presto, però, fa i conti con una sofferenza di altro tipo. Orfano all'improvviso, viene
accompagnato in casa famiglia. Lì non riesce a
dormire. A tormentarlo, i compagni che prendono di mira i nuovi
arrivati e il pensiero di averla uccisa lui, una mamma disattenta eppure
presente.
Finché non arriva la bella Camille, che preferisce la compagnia del
gruppo a quella di una zia opportunista. E le cose, con lei attorno e la neve che cade, cambiano. La mia vita da
Zucchina racconta con onestà le
difficoltà di un'infanzia spesa in orfanotrofio. Tra bambini
abusati, figli di tossicodipendenti, orfani bianchi che non si danno
pace e, quando una macchina parcheggia nel vialetto, scappano
fuori chiamando i loro genitori con la speranza nella voce. Può
esserci un attimo di respiro, il pensiero del domani, dove tutto è
un grigio e provvisorio piano alternativo? Prima il romanzo per
bambini di Gilles Paris, poi le animazioni dell'esordiente Claude
Barras, ci dicono che sì, si può. Per lo straordinario spirito di
adattamento dei più piccoli, che vanno avanti ma senza dimenticare.
Per via di quella sensibilità tipicamente europea, che non tace i
traumi e le ingiustizie pur inseguendo un doverosissimo lieto fine. Applaudito a Cannes, arrivato zitto zitto agli Oscar,
La mia vita da Zucchina ha
uno stop-motion che non mi piace. Lo
popolano pupazzi grotteschi, tozzi e dalle braccia lunghe, che però hanno una luce triste negli occhi. Inespressivi,
tutti bizzarri e tutti uguali, oggettivamente brutti, in realtà gli
abitanti della casa famiglia di Barras hanno quello che non troverai
né in un altro pupazzo di plastilina, né in un altro cartone a tema. Un vissuto che non fa sconti a nessuno, nello stile dello
splendido dramma indie Short Term 12.
Un epilogo non scontato, felice solo a metà, che vìola la regola non
detta dei cartoni animati di ogni dove. Se si parla di bambini ai
bambini, al bando la tristezza. (8)
Miglior
Film Straniero. La visione del
Miglior Film Straniero, solitamente sinonimo di pesantezza,
preferisco rimandarla all'indomani della premiazione: guardo per
dovere solo il film vincente, così, e glisso sugli altri quattro.
L'eccezione: l'anno in cui c'erano Il sospetto
e Alabama Monroe, ma
la spuntò il nostro Sorrentino. Quest'anno, A man called Ove. La commedia svedese,
ispirata al bestseller L'uomo che metteva in ordine il
mondo, parla di vecchietti
burberi e gatti a pelo lungo. Se mi conoscete, sapete che potrei fermarmi qui. A furia di leggere romanzi troppo simili di anziani in
viaggio e seconde opportunità, storie agrodolci che rischiavano di
risultare tutte uguali, nei mesi scorsi mi sono però detto annoiato. Toccava disintossicarsi. La compagnia di questo Ove, però,
è davvero irrinunciabile. Che proprio vecchietto, con i suoi
cinquantanove anni portati con eleganza, non è. Che tiene tutto
sotto controllo – la vita del quartiere, i vicini, le spese mensili
– finché non gli sfugge di mano il senso stesso della vita. Vedovo
licenziato all'improvviso, vorrebbe farla finita. A disturbarlo
dall'intento suicida, ora una corda difettosa e ora una dirimpettaia
che scoppia di gioia. E le giornate si riempiono a dismisura. E la vita,
anche in solitudine, tanto male in fondo non è. Qual è il segreto
del film di Hannes Holm, che con la sua semplicità sembrerebbe stare
agli Oscar come il cavolo a marenda? Una scrittura delicatissima, uno
straordinario Rolf Lassgard e un cuore smisurato – come ci insegna
il protagonista, qualità che è un pregio e un difetto insieme. A
man called Ove vive di risposte
sardoniche, piccoli sorrisi e flashback nei quali si ricercano le
ragioni dei bronci, delle cucine in miniatura, delle culle
impolverate in soffitta. Quanta fatica ci vuole per farsi venire i
capelli bianchi e le rughe d'espressione? Mi direte che la storia del vedovo, classica ma generosa
com'è, non doveva arrivare dov'è arrivata. Ancora commosso, rispondo che non è così. Il film è bellissimo nel suo non essere
esattamente niente di che. Come un Up in
cui Carl e Ellie sono diventati veri e lo struggimento di quei dieci
minuti iniziali si protrae per due ore. (7,5)
Non
ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l’amore può
manifestarsi, né della forza con cui può spingerci in un angolo e
toglierci il respiro.
Titolo:
La vita felice
Autrice:
Elena Varvello
Editore:
Einaudi
Prezzo:
€ 18,50
Numero
di pagine: 190
Sinossi:
Elia
ha sedici anni ed è un ragazzo solitario. Suo padre è stato
licenziato e ha cominciato a comportarsi in modo strano, sparendo per
ore a bordo di un furgone, chiudendosi in garage, scrivendo lettere
che denunciano un complotto di cui si sente vittima. Elia prova a
decifrare ciò che accade, mentre sua madre sembra non voler vedere.
Fino alla notte d’agosto dopo la quale nulla sarà piú come prima:
la piccola comunità di Ponte – già segnata dall’omicidio
insoluto di un bambino – si sveglia sconvolta per il rapimento di
una ragazza, salita la sera precedente su un furgone e poi svanita in
mezzo ai boschi. Ma quell’estate per Elia è anche segnata
dall’attrazione per Anna Trabuio, dall’amicizia per suo figlio
Stefano, dalla scoperta lacerante dei propri desideri e dell’istinto
di sopravvivenza. A raccontare tutto questo è Elia trent’anni
dopo: un uomo che tenta di ricucire lo strappo del passato e
illuminare il buio nella mente di suo padre, immaginando cosa sia
accaduto davvero quella notte, e cosa significhi perdere se stessi.
Ma soprattutto tenta di rispondere a una domanda: com’è possibile,
dopo una ferita cosí profonda, sperare di essere felici? Tra La
settimana bianca e Io non ho paura, Elena Varvello ha scritto una
storia di formazione diversa da tutte le altre, che cattura il
lettore con una lingua cesellata, dura e trasparente.
La recensione
Un
groviglio di tronchi e rami ai lati della strada. Un bosco. Gli occhi
di due fari che bucano il buio. Senza soffermarmi sul risvolto di
copertina, non so perché, avevo immaginato un giallo investigativo.
Un poliziesco. Mi sono soffermato sui giovani misteri della Vita
felice in ritardo. Complice un
bellissimo post a tema Stranger Things di
un'amica blogger, Francesca, nel quale si parlava di anni Ottanta e romanzi di formazione. Per gli spettatori incapaci di
attendere il prossimo Halloween per scoprire finalmente cosa ne è stato di
Eleven e del resto della squadra, ingannare l'attesa leggendo avventure dal
sapore rétro: senza tirare in ballo, magari, il classico Stephen
King. Mi sono ricordato del romanzo di Elena Varvello quando l'ho
incrociato in biblioteca. L'ho portato a casa con me senza
tentennare: ad ottobre, infatti, quant'è che manca? Si parlava, a
proposito di John Irving e di proverbi della nonna, di incipit che sono mezza bellezza. Quello della Varvello è di quelli che ti fanno
dannare l'anima. In apertura, subito palesati i sospetti verso un
padre non così irreprensibile: Ettore Furenti, ci racconta in prima
persona il figlio Elia, diede uno strappo a una ventenne e la
condusse nel fitto del bosco.
La stessa estate in cui i carabinieri
trovarono alle cascate il cadavere di un bambino e i
Trabuio, famiglia sulla bocca di tutti, tornarono in paese con la
coda tra le gambe. Elia, all'epoca, aveva sedici anni. Gli anni
Settanta erano lì lì per finire, e anche la sua innocenza. Il
protagonista vive in un paese di provincia, al nord. Non c'è futuro,
non c'è divertimento, non c'è respiro. Solitario e irrequieto,
disobbedisce alle raccomandazioni della madre. La noia e la curiosità
lo portano a farsi amico il ribelle Stefano, figlio della
chiacchierata Anna Trabuio: una donna di mezza età e dalla bellezza
sfiorita, che gli occhi inesperti di un ragazzino trasformano in un mezzo sogno erotico. Elia scopre l'amicizia e l'attrazione verso un'adulta che non è quello che dipingono. Soprattutto, tra
sigarette consumate fino al filtro e altalene cigolanti, il malessere
di un padre che perde il lavoro in fabbrica e, assieme a quello, il
sorriso e la lucidità. Quale interruttore scatta nella testa del
paranoico Ettore Furenti, che d'un tratto farnetica di cospirazioni e cattivi consiglieri? Perché le tante notti passate in
garage, il furgone infangato, i tagli inspiegabili sulle nocche?
Intanto sua moglie, una bibliotecaria paziente e in buona fede, madre
irreprensibile, ignora deliberatamente i segni. La
vita felice, predice Anna a Elia, è quella che verrà. Lo
dice il palmo della sua mano sinistra. Sarà una vita lunga, lunghissima.
Il romanzo di Elena Varvello, graffiante e caotico, in realtà
felice non è. Una lettura cupa e nerissima ma dal fascino
indubbio, in cui la selva oscura della copertina – e
l'impossibilità di sottrarsi ai legami di sangue – toglie il
respiro. Ci sono infiniti spazi aperti, ettari e ettari per
sotterrare cadaveri e sperimentare nuovi giochi, ma ci assale un
profondo senso di claustrofobia. Lo stesso provato, magari, da una
baby sitter che sale nella macchina di un estraneo e si accorge che da quel viaggio in fondo alla notte non ci sarà ritorno. Si gioca a carte
scoperte, eppure il dubbio resta. Si percepisce una certa stanchezza, in
un finale che si dilunga un po' troppo, ma La vita felice è
una di quelle giornate estive in cui a letto arrivi stanco morto.
Ti stendi e crolli. Sogni un romanzo che non ha grandi colpi di scena
o scossoni, vero, eppure è scritto con una ferocia e una precisione
esemplari. Ho pensato a Niccolò Ammaniti. Ai bambini di Io
non ho paura, alla scoperta del
cuore nero dei loro genitori. Al Quattro Formaggi di Come
Dio comanda e a una di quelle notti da lupi in cui un gesto
avventato sconvolge le carte. Qui si collezionano i fumetti di Tex.
Si nuota in specchi d'acqua che sono poco più larghi di pozzanghere.
Si ascoltano i mangianastri e, nottetempo, si presta ascolto ai
movimenti di un genitore che furente lo è diventato di fatto oltre
che di nome. Il bene costruito in sedici anni è cancellato nel giro
(e nel male) di un secondo? La paranoia è un gene recessivo?
L'estate, l'adolescenza e La vita felice sono
un battito di ciglia. Quel lampo fugace, ciò che vedi nel mentre –
a metà dell'autunno, dell'essere adulti, della lettura successiva –, fa la differenza.
Il
mio voto: ★★★½ Il mio
consiglio musicale: Subsonica – Tutti i miei sbagli
Oggi
davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la
salute, un riparo, una certezza.
Titolo:
L'Arminuta
Autrice:
Donatella Di Pietrantonio
Editore:
Einaudi
Prezzo:
€ 17,50
Numero
di pagine: 162
Sinossi:
Ci
sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che
sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L'Arminuta fin
dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e
una sacca di scarpe nell'altra, suona a una porta sconosciuta. Ad
aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce
sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia
dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno
all'altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche piú care,
l'affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che
credeva i suoi genitori. Per «l'Arminuta» (la ritornata), come la
chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa
è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul
tavolo. Ma c'è Adriana, che condivide il letto con lei. E c'è
Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello
sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per
cominciare a ritrovarsi. L'accettazione di un doppio abbandono è
possibile solo tornando alla fonte a se stessi. Donatella Di
Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della
maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva
originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto
alla sua terra, a quell'Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che
improvvisamente si accende col riflesso del mare.
La recensione
Vagando
in biblioteca o in libreria ti imbatti in copertine piene di facce.
Troppe, mi lamento spesso. Quella sulla copertina del terzo romando
di Donatella Di Pietrantonio, candidata al premio Strega per il
precedente Bella mia,
ricambia però il tuo sguardo con aria di sfida. Ha in primo piano una
ragazza scura, spettinata, che sembra dirti: prova a
ignorarmi, su, se ne sei capace. Perché quello sprezzo? Perché
quella rabbia? Ci si inerpica così, tra uno sguardo pieno di cose e
le recensioni giuste al momento giusto, lungo i sentieri che portano
alla porta dell'Arminuta.
La protagonista non ha nome. Ha le forme di una signorina, in autunno
farà la terza media. Le stanno spuntato le prime curve, quei primi
pruriti che distinguono una bambina da una donna. Nuota, balla.
Intelligente e studiosa, sa i verbi a campanello e parla un italiano
senza cadenza. Ma eccola nell'incipit, con una busta piena di scarpe
e il vestito della domenica, sull'uscio di una famiglia sconosciuta
che eppure ha il suo stesso sangue. A tredici anni, la
narratrice sperimenta la superstizione di un paesello che sembra uscito
dal tardo Ottocento, non di certo dagli anni Settanta; un'allegra
camerata piena di bambini e odori sconosciuti; le mani tese di due
adulti estranei, che in realtà sarebbero i suoi genitori
biologici.
La ribattezzano l'Arminuta: vale a dire la ritornata. In
quelle stanze ci è nata, ma è stata affidata a dei parenti lontani
affinché alleggerissero quella famiglia disgraziata di un'altra
bocca da sfamare. La ragazzina ci fa ritorno con l'adolescenza a un
passo, quando i genitori adottivi – che lei ha sempre chiamato
mamma e papà, all'oscuro dello scambio clandestino – la rimandano al mittente
come fosse un giocattolo guasto. Non abbastanza
perfetta per loro, comunque, topi di città fatti e finiti. Sua
madre, o almeno quella che credeva tale, soffre. L'ha allontanata da
lei in attesa di guarire? E se da quella patologia non si riprendesse
mai più, e se si fosse semplicemente stancata di averla attorno?
Succede tutto in fretta, dal giorno alla notte. Lo stesso succede al
lettore. Spiazzato dalla durezza dell'inizio e da pagine rade, che
scorrono tra le dita in poche ore. L'Arminuta non
ti dà il tempo di prendere appunti, di pensarci su, ti provare a
stare nei panni della protagonista. Grazie al trucco che soltano gli
autori bravissimi possiedono, a quella prima persona che favorisce
l'introspezione e una totale identificazione, tu diventi lei per il
tempo che serve. Sballottata, insofferente e profondamente
amareggiata nell'età in cui è troppo presto per angustiarsi.
Poi
ti guardi attorno, torni in te. Cosa le hanno negato i genitori
putativi? E cosa le hanno donato, nel mentre? La compagnia di cinque, sei
fratelli. E di quei fratelli, per rispondere alla seconda domanda, la
grettezza e la fame insaziabile. In una massa traboccante di esigenze, strilli e
gorgoglii, ne spiccano due: lo scapestrato Vincenzo, che frequenta
giostrai assai sospetti e guarda con desiderio sconveniente quella
sorella acquisita; la fedelissima Adriana, che pende dalle sue
labbra, la invidia e la aspetta come un cagnolino alla fermata dell'autobus. Tra le righe della Di Pietrantonio, quasi una mia vicina di
casa, l'Abruzzo ha due volti: così diverso sulla costa e
nell'entroterra. Da un lato il mare, che ispira pace; dall'altro la
prigione angosciante delle montagne. L'autrice ha una scrittura
essenziale, che bada alla sostanza. Pastosa, caldissima, ha un che
dell'infanzia secondo Elena Ferrante. Il fascino sospeso dell'Italia
centro-meridionale, le adolescenti “geniali” e
l'immediatezza del dialetto. A occhio e croce ho indovinato i posti
e le scenografie naturali. Ho familiarità con l'accento e con una
specie di abbandono. L'Arminuta racconta
il lento assestamento, la nuova normalità. I libri di scuola di
seconda mano, il pane cotto, il letto bagnato di pipì, la
speranza di un liceo altrove. Il reinventarsi nel tempo delle mele,
vivendo un'adolescenza ben più turbolenta di altre. Anche se, di per
sé, è una fase che significa scoprirsi cambiati: dentro e fuori. Anche se il distacco del cordone, le novità belle e
brutte, non sono che una improrogabile tappa del percorso. Lo
sappiamo: l'Abruzzo e le scuole medie sono terra sismica. Tremano
insieme a questa bambina forte. Orfana, nonostante conosca due madri e nessun posto da chiamare casa.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Maldestro – Canzone per Federica
Tu
eri il sole, Simon, e prima o poi ti sarei finito addosso. Mi
svegliavo ogni mattina e pensavo: “Finirà tutto in fiamme”.
Titolo:
Carry On
Autrice:
Rainbow Rowell
Editore:
Piemme
Numero
di pagine: 538
Prezzo:
€ 17,00
Sinossi:
«Mi fissa ancora negli occhi.
Inchiodandomi con lo sguardo come ha fatto con quel drago, con il
mento in alto, immobile. «Io non sono il Prescelto.» Ricambio il
suo sguardo e sorrido. Il mio braccio lo stringe. «Be', io ti
scelgo, Simon Snour.»
Simon
Snow è il peggior prescelto di sempre. Questo è ciò che sostiene
Baz, il suo compagno di stanza. Baz potrà anche essere un vampiro e
un nemico, ma ha probabilmente ragione. Per la maggior parte del
tempo infatti Simon non sa far funzionare la sua bacchetta, oppure
non sa controllare il suo inestinguibile potere mandando tutto a
fuoco. Il suo mentore lo evita, la sua ragazza lo ha lasciato, e un
mostro con la sua faccia si aggira per Watford, la scuola di magia in
cui frequentano l'ultimo anno. Allora perché Baz non riesce a fare a
meno di stargli sempre intorno?
La recensione
Ricordo
il mese di novembre. La tesi da scrivere in quattro e quattr'otto,
l'acqua alla gola. La sensazione di affogarci, negli impegni, nelle
scadenze, nelle cose da fare. Per fortuna avevo Fangirl. Un
mattoncino il cui dorso verde smeraldo, neanche troppo a sorpresa,
faceva capolino nella foto di gruppo in cui avevo impilato le mie
letture preferite di un anno di libri. C'erano le saghe familiari e
la Trilogia della Pianura, la scoperta tardiva di
Philip Roth, ma le risate di Rainbow Rowell non avrei mai potuto rineggarle. Pena per i traditori: un temporale senza fine sopra la testa. Quand'è che un romanzo si merita il nostro
stupidissimo entusiasmo? Sentirsi bene, forse, ha meno valore che
riflettere leggendo? L'effetto benefico di Fangirl,
una commedia brillante sull'identità e l'amore smisurato per la
finzione letteraria, aveva lasciato strascichi e tanta curiosità per
i piani della protagonista, Cath. L'universitaria misantropa, al
centro di un triangolo sentimentale non pianificato e di una
starordinaria notorietà sul web, aveva una cotta mostruosa per le
storie di Simon Snow. Un personaggio fittizio, incensurato fac-simile
di Harry Potter, protagonista di otto romanzi che per Cath erano il
mondo. La protagonista trattava i personaggi come fossero amici, li chiamava
per nome; scriveva per loro nuovi sviluppi, intrecci alternativi,
svolte liete. Tutto per non crescere. Tutto per far sì che, almeno
nella sua versione della storia, Simon e Baz – suo coinquilino e
nemico giurato – fossero una coppia. Il mondo delle fanfiction,
forse lo saprete, mi ha sempre trovato scettico. Da ragazzino trovavo
strana questa tendenza ad accoppiare personaggi a caso – ricordo
il divertito sconcerto quando scoprii che c'erano spettatrici che
fantasticavano su una inquietante relazione incestuosa tra i fratelli
di Supernatural – e
se saltava fuori il termine “shippare” il pensiero andava alle vecchiette speronate all'uscita dell'ufficio postale per
arraffarne la pensione. Questo Carry On è
il romanzo nel romanzo. La fanfiction a cui Cath lavorava giorno e
notte, lasciandocene sbirciare qualche passaggio nel mentre. I suoi
pensieri segreti poteva leggerli solo la Rowell, che conosce bene i propri polli: compreso quel Simon Snow abbozzato
lì per lì e spunto, infine, per un romanzo autoconclusivo.
Carry On è in teoria l'ottavo
capitolo di una saga ambientata in quel di Watford: in realtà,
sappiamo noi, è il primo e anche l'ultimo. Cosa ci siamo persi, se
la narrazione ha inizio in medias res e delle puntate precedenti è a
conoscenza solo Cath? Ci si affida a occhi chiusi a chi ha
l'arcobaleno nel nome.
E dalla porta principale si entra in una
scuola di magia in cui si aggirano con occhi tristi i diplomandi:
dispiace abbandonarla, infatti, e c'è una preoccupazione diffusa per
le sorti di quel mondo sconosciuto ai Normali. La minaccia è il
Tedio Insidioso, ma anche il dissidio in corso tra l'Arcimago e le Antiche Famiglie dà da pensare.
Simon Snow, orfano troppo pasticcione per essere il Prescelto,
ha perso il sonno a furia di rimuginare sulle sorti altrui. Ci si
mette, a inizio anno, anche l'assenza di Baz: il vampiro
doppiogiochista che ha lasciato un letto vuoto e che, forse
dall'altra parte della barricata, medita complotti. Gli ha
già soffiato la ragazza e, stando all'amica Penelope, è
diventato il loro solo argomento di conversazione. Finché Baz non
fa il suo ingresso plateale a mensa, pallido e inquieto,
coinvolgendolo in una caccia ai beoti, al mostro che
sta divorando l'incanto, alla verità. Quella sulle loro
madri, che dall'aldilà sussurrano. Quella su di loro, che si beccano
nascondendo la sconsiderata voglia di baciarsi per non implodere.
Rainbow Rowell è una personcina intelligente e adorabile, poco da
fare. Non conosce gli insuccessi o il cattivo tempo. Nei suoi romanzi
è tutto una schiarita, una lunga primavera. Speravo di rileggerla
prima di subito ma, in fondo, non troppo. Parlandone, infatti, ho la
tendenza a ripetermi come una radio scassata.
A sorpresa, Carry
On è un romanzo diversissimo
dai precedenti. Affiorano ugualmente i cuoricini, sì, e il
raziocinio si scioglie davanti a una tenerezza che non conosce
eguali, però l'avventura e gli amori di Simon Snow sono al centro di
un fantasy – genere che non apprezzo, chiusa la parentesi Rowling –
avvincente e solido. Ci sono i colpi di scena, le grandi emozioni,
perfino i draghi sputafuoco. I punti di vista,
innumerevoli, si alternano come in una partita a ping pong. Insomma,
lo si prende sul serissimo. Più istintivo e colloquiale del suo
modello di riferimento, più vulnerabile, Carry On ha
vacanze di Natale passate in case stregate, una scuola in cui vige una specie di comunismo, locali notturni alla Guy Ritchie frequentati da fratelli ripudiati. Come ci si sente a essere l'erede dell'Arcimago e a
non essere all'altezza del ruolo? Come si vive la propria sessualità,
le zanne acuminate e la scortesia innata, se troppo presi a farsi
temere nel nome dei Pitch? In aula si studia tanto, soprattutto
dizione. L'efficacia dei sortilegi sta nell'intenzione. Gli incantesimi sono infatti filastrocche, tormentoni
di vecchi film (A qualcuno piace caldo è
meglio del microonde per scaldare in fretta gli avanzi della cena
prima), ritornelli di canzoni (U can't touch this
come protezione e Bohemian Rhapsody,
a cui il titolo stesso allude, per amuleto). Simon e Baz si passano
la magia toccandosi le mani: insieme fanno scintille. All'unisono gli incantesimi risuonano
potenti, la magia è parola. E la Signora Arcobaleno, a proposito di parole magiche, la sa lunga, la canzone.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Queen – Bohemian Rhapsody
Con
una videocasetta tutta consumata della Bella e la Bestia scoprii che per i film si poteva piangere. Il
capolavoro Disney è tra quelli che ho visto e rivisto fino a distruggere il nastro. A ventidue anni, perciò, faccio parte di quei nostalgici che,
sospirando, dicono: ai miei tempi le favole erano tutte un'altra
cosa. Con la scusa pronta ho seguito quelle
stesse storie farsi film. Nella moda del retelling ci ricasco volentieri. Ultima ma non ultima, è arrivata la trasposizione del mio cartone preferito. Restano le battute, perfino le
canzoni, e il minutaggio sfiora le due ore con l'aggiunta di nuove
sequenze – il passato dei protagonisti svelato in flashback, quel LeTont omosessuale che ha fatto scattare la censura
in paesi da cancellare dalle carte geografiche. La
Bella e la Bestia vorrebbe porsi sulla
scia dell'incanto di ventisei anni fa. Gotico e
opulento, è un conto alla rovescia che spiega il valore del tempo,
l'importanza della bellezza interiore, il temperamento di un'eroina
femminista venuta prima di qualsiasi Moana.
Lo fa cantando e ballando, e con una morale
nascosta prima dei titoli di coda. Purtroppo, però, il film di
Condon ha difetti che lo rendono godibile il minimo. La pochezza interpretativa di Emma
Watson: una Belle con un cachet stratosferico e la perenne
espressione da prima della classe, in quel di Hogwarts. I consueti
disastri che combina l'edizione italiana quando si parla di musical, tra una metrica sconosciuta e un doppiaggio che
cancella le prove vocali degli interpreti (con immenso disappunto,
della partecipazione della Thompson, McKellen e McGregor non resta
quasi traccia).
La sostanziale inutilità di copie carbone come questa. Nella
prima parte lo si guarda con un occhio sì e un occhio no, disturbati
dalle modifiche dei ritornelli più memorabili. Qualcosa, poi, cambia nella
seconda, complice un ottimo Luke Evans e i passi dello
storico valzer. Ma nel castello della Bestia ci si innamora in fretta
e senza un vero perché. La rosa sfiorisce. Si bruciano le tappe -
quel significativo sono amici e poi, uno dice un noi - e la
poesia, il senso, si perdono in un compitino copiato al compagno di banco. Quanto impiego di mezzi e figuranti, quanta
attesa mal riposta, per una costosissima recita scolastica e poco più. (5,5)
Puntualmente,
quando la Marvel torna al cinema, ci pensa la critica a presentare il
film di turno come fosse l'eccezione alla
regola. Ed eccomi lì a parlarne sempre nei soliti termini,
sempre con gli stessi pregiudizi. Applauditissimo in un clima festivaliero, Logan è
l'ultimo capitolo della saga del mutante di Jackman. Ho accompagnato mio
padre a vederlo più per scommessa che per voglia. Neanche troppo a
sorpresa, sono uscito dalla sala toccato e convinto. I mutanti sono costretti a
vivere come clandestini. Appartengono a una razza dai giorni contati,
o così credono. La piccola Laura è una di loro. Tocca caricarla in macchina verso
un Eden che non c'è. Dei supereroi che il mondo conosce non sono
rimasti che gli albi. Wolverine pensa al suicidio e fa da badante a
Xavier – un Patrick Stewart commovente –, che ha bisogno di aiuto
per sedersi sulla tazza. Il suo cervello è un'arma di
distruzione di massa, eppure ha i segni debilitanti dell'Alzheimer. Ne viene fuori un western on the road splatter e tenerissimo, che
mescola polvere e malinconia. Un Léon che
passa il testimone a una nuova generazione. In due ore, botte da orbi e l'introspezione che ti piace.
Tempo necessario affinché i personaggi non si affrettino nel momento
dei saluti. Mi ci sono affezionato nel
mentre, io. Cose che suggeriva il titolo,
perfino, con quel nome di battesimo che è sintomo di
maggiore intimità. Jackman è granitico, ma
mostra delle crepe. Si comporta da figlio e ricerca in sé l'istinto paterno. Vive e fa più in queste poche ore che
in una vita eterna, testimone di un tempo qualitativo e non
quantitativo. E quando il nostro insieme a lui finisce, calati i
titoli di coda, si è incerti se abbandonare la sala o meno. Ci si assiepa alla
porta, un piede dentro e uno fuori. E Logan
è così che mi piacerà
ricordarlo. Con un
assurdo senso di attesa, Johnny Cash e l'usciere spuntato dal nulla. Un
omino olivastro, straniero, che ci assicura: finisce qui, così. (7,5)
Per
anni io e Xavier Dolan ci siamo studiati a distanza.
Poi è successo Mommy. Una visione è bastata
per trasformarlo in uno dei film del mio cuore. Come tornare al cinema dopo una epifania?
Il sesto film del regista franco-canadese è ispirato alla pièce di
Jean-Luc Lagarce. La mia tesi faceva tappa anche lì. Louis fa ritorno all'ovile in punta di piedi.
Lo accolgono Léa Seydoux, sorella minore che pende dalle sue labbra;
una remissiva e farfugliante Cotillard; Vincent Cassel, prepotente capobranco; infine, l'appariscente mamma chioccia di Nathalie Baye. E' Gaspar Ulliel, il
viso spigoloso e la fronte imperlata di sudore, a guardarsi intorno
spaesato e a cercare spesso l'orologio. C'è chi vuole fare colpo,
chi mostra il lato peggiore. Nel bel mezzo di una guerra in corso, il
protagonista deve dire loro che ha l'Aids. Meglio
aspettare il dessert per stemperare l'amarezza?
Un profumo, il vento, una canzone – l'improponibile Dragonstea
Din Tei, che eppure il montaggio
sa incasellare a regola d'arte – lo
portano lontano stando fermo. Ulliel fa da testimone muto, da padre confessore, a questo cast di
comprimari in stato di grazia. A tavola siede
l'incomunicabilità, il non detto, e le parole sperperate, dette a
sproposito, ti prendono a schiaffi in faccia. Fedele alla natura del
testo, Dolan realizza un dramma che bello lo
è, ma non nella tipica maniera clamorosa. L'impianto è
collaudato e il regista, castigato, ci si
muove piano. Il suo ego, tra quattro mura, non ci sta. E a
volte, sotto la sua pressione, la casa esplode in parentesi
suggestive in cui trovi il solito guizzo. Altre, invece, Xavier si
stringe nelle spalle, addomestica la vanità, e cela al meglio il
disagio di chi ama troppo qualcosa per stravolgerla, ma intanto
scalpita nel vestito della domenica. Come a dire: vedete, sono un
ragazzo educato se mi applico. Non datemi più del bambino prodigio. Però ora mi chiudo la porta alle
spalle, c'è Moby in cuffia, e da domani vado a raccontare a modo mio le famiglie infelici a modo loro. (7)
Mai
avuto paura delle apparizioni di Samara. La bambina con i capelli in
faccia non esercitava timore su un ottenne dei
primi anni Duemila. Ho visto il primo The Ring quando
non avevo l'età. Lo ricordo con affetto, ma senza brividi. Il
cerchio sembrava essersi chiuso con la riscossa di Naomi Watts. Si
riapre, inatteso, più di qualche anno dopo. Nel mentre sono
cresciuto, i videoregistatori si sono estinti e la mania del sequel a
tutti i costi impazza. Ne è passata di acqua sotto i ponti e nei
pozzi sperduti. Incurante, ci riprova Javier Gutiérrez. La storia
di Rings vede la classica coppia di innamorati –
la lei del duo è l'italiana Matilda Lutz, di cui abbiamo visto il
potenziale e gli occhi da cerbiatta nell'ultimo Muccino – cercare
un'altra via di fuga dalla maledizione. La tecnologia favorisce la
scoperta di una traccia segreta: un video nel video. La protagonista,
guidata dalle visioni, si lascia condurre dove tutto ha avuto inizio.
Teen ma non troppo, Rings ha protagonisti più
freschi e una struttura schematica che non si allontana dai sentieri
passati. Le svolte non sono tra le più imprevedibili, ma la ricerca
non annoia, il mistero irretisce e la regia curatissima offre pochi
spauracchi, al solito, ma immagini interessanti: il prologo in volo,
la pioggia che scorre al contrario, gli spezzoni mai visti del
filmato originale. Rings, come da previsione, non è
indispensabile, ma in un panorama di seguiti tanto brutti da non
crederci – il pensiero va proprio a Blair Witch – la
spunta facile. Diverte e intrattiene l'essenziale, soprattutto se
l'effetto nostalgia e i primi piani della bella Matilda possono più
dello sguardo che uccide dello spettro orientale. La morte correva
sul filo del telefono. Colpiva in sette giorni. La sentenza, persasi
nei bombardamenti dei call center e nella progressiva comparsa dei
telefoni wireless, si fa perdonare con poco e niente il ritardo. E, a
sorpresa, non suona come la morte dell'horror. (6+)
Ci sono tre motivi per cui vale la pena andare. Il primo è perché si mangia bene. Il secondo è perché ci si può andare solo in due. Il terzo è perché laggiù ci impari a vivere. E quindi, anche, a morire.
Titolo:
La locanda dell'Ultima Solitudine
Autore:
Alessandro Barbaglia
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 163
Prezzo:
€ 17,00
Sinossi:
Libero
e Viola si stanno cercando. Ancora non si conoscono, ma questo è
solo un dettaglio. Nel 2007 Libero ha prenotato un tavolo alla
Locanda dell'Ultima Solitudine, per dieci anni dopo. Ed è certo che
lì e solo lì, in quella locanda arroccata sul mare costruita col
legno di una nave mancata, la sua vita cambierà. L'importante è
saper aspettare, ed essere certi che "se qualcosa nella vita non
arriva è perché non l'hai aspettato abbastanza, non perché sia
sbagliato aspettarlo". Anche Viola aspetta: la forza di
andarsene. Da anni scrive lettere al padre, che lui non legge perché
tempo prima, senza che nessuno ne conosca la ragione, è scomparso,
lasciandola sola con la madre a Bisogno, il loro paese. Ed è a
Bisogno, dove i fiori si scordano e da generazioni le donne della
famiglia di Viola, che portano tutte un nome floreale, si tramandano
il compito di accordarli, che lei comincia a sentire il peso di
quell'assenza e la voglia di un nuovo orizzonte. Con ironia leggera,
tra giochi linguistici, pennellate surreali e grande tenerezza,
Alessandro Barbaglia ci racconta una splendida storia d'amore.
La recensione
In
equilibrio su uno scoglio sperduto tra cielo e mare sorge una locanda
che più esclusiva non si può: il posto più bello del mondo.
Da quel legname un manipolo di soldati avrebbe dovuto
intagliare una nave per scappare in America. Un bambino
assennato, però, aveva preferito la terra ferma al rischio dell'alta marea.
Adesso ci lavorano il fondatore, Enrico, e un ometto baffuto.
Ci si può soggiornare in pochissimi per una cena
romantica. Il locale non ha che un tavolino con due sedie. Possono
prenotare solo due persone. O due persone sole. Il telefono squilla e sì, si accettano prenotazioni. Ma la voce dall'altro capo del filo è di
un giovane uomo, Libero, che riserva un posto con dieci anni
d'anticipo. E' il 2007 e lui, inghiottito da un'anonima e tentacolare
metropoli, non ha ancora nessuno con cui andare. Confida nel tempo e
nella venuta dell'anima gemella. Libero di nome ma, nei fatti,
prigioniero del suo stesso senso di attesa. Nel mentre divide un
appartamento vuoto e dipinto di blu con un cane, Vieniquì, e un
baule con un singolo biglietto sul fondo.
Al di là delle colline, in
un posto incantato che si chiama Bisogno, c'è l'irrequieta Viola.
Vive in una casa preclusa al sesso maschile ed è l'ultima di un
albero genealogico in cui, oltre ai nomi floreali, ci si tramanda
l'arte di accordare i fiori scordati. Nel caminetto imbuca lettere a
un padre che si è allontanato per non mostrarsi sofferente e
l'arrivo del nuovo parroco, Piter, accresce in lei il connaturato
desiderio di altrove. Libero e
Viola sono i protagonisti principali di un esordio italiano subito candidato
al Premio Bancarella. Sappiamo che la storia parla di loro, ed è una storia d'amore. Però, a lungo, vivono lontanissimi e in
capitoli alterni. Quanti chilometri li separano, quali scelte, se lui
va a convivere con un'altra donna e lei rischia di abbracciare
passivamente un destino prestabilito? Come ci cambiano dieci anni?
Soprattutto, si può avere nostalgia delle cose che non sono
mai accadute? In un attimo lungo una vita ci si trova protagonisti di una
relazione sbagliata, della routine, di un rapporto affettivo che non
sa emozionare. Della pianificazione di una fuga perfetta che, dopo
mille tentativi vani, diventa frustrante.
Sono un lettore impaziente,
facilmente annoiabile, d'indole poco poetica. Non ho mai apprezzato fino in fondo, per dirvi, le rose e le volpi del Piccolo principe: letto
forse quando era troppo presto o forse no. Precisazione doverosa se
si parla di un romanzo leggero, onirico e delicatissimo come questo. Se, come ho
fatto io, si entra nel favoloso mondo di Alessandro Barbaglia con un
vago scetticismo di fondo. La locanda dell'Ultima
Solitudine non era la mia tazza
di tè. Lo prendo nero, meno zuccherato possibile. Centocinquanta
pagine dopo i miei gusti non sono cambiati. Però Alessandro e i suoi
innamorati sui generis, che si cercano ma non lo sanno, sono davvero
dei bei tipi. Surreali ma belli, come diceva qualcuno nella commedia
in cui il libraio s'innamorava della principessa di Hollywood.
Anche se alle perle di patate preferisco una saporitissima carbonara.
Anche se alle fiabe e alle prose così mi abbandono in ritardo, ma de gustibus. Nella Locanda dell'Ultima Solitudine,
fatto sta, c'è una serenità straordinaria: ti disturbano solo le
onde e il vento. Servito e riverito, attorniato da un interessante
cicaleggio, ne guadagni in ottimismo e buonumore. Ti godi le
sensazioni lievi, le suggestioni sparse, gli spunti. La tintarella di
luna di un gioco immaginifico ed esistenzialista. Il menu è
semplice, la compagnia è buona, lo scenario affascinante. Il
pernottamento confortevole e, al mattino, il tremolar della marina invoglia a fare il bagno nudi. Lasci una mancia abbondante
alla cassa. Arrivi solo e riparti in coppia. Magari, ti dici, prima o
poi ci torno.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Ermal Meta – Ragazza Paradiso
La
vita fa così. Non avverte mai, porca la miseria puttana. Picchia
all'improvviso, perché lo sa, lo sa che fa male il doppio.
Titolo:
Orfani bianchi
Autore:
Antonio Manzini
Editore:
Chiarelettere
Prezzo:
€ 16,00
Numero
di pagine: 256
Sinossi:
Mirta
è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro.
Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e
soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le
dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per
primo Nunzio poi la signora Mazzanti, "che si era spenta una
notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato
all'albero ai regali e al panettone", poi Olivia e adesso
Eleonora. Tutte persone vinte dall'esistenza e dagli anni, spesso
abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirle c'è lei, Mirta,
che non le conosce ma le accompagna alla morte condividendo con loro
un'intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane. Ecco
quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo sorprendente
e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e
bellezza, in lotta contro un destino spietato: il suo, che non le dà
tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla
fine. "Nella disperazione siamo uguali" dice Eleonora,
ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con
tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità
per sé e per il figlio, nell'ultimo, intenso e contraddittorio
rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per
somigliarsi. Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una
società che sembra non conoscere più la tenerezza.
La recensione
Il
desiderio di leggere Manzini c'era dallo scorso inverno. Da
quanto, in ritardo, ho scoperto le
famigerate rotture di coglioni di Schiavone. Tra una cosa e l'altra,
infine, leggerlo per la prima volta con l'ultimo romanzo arrivato in libreria. Uno dei
pochi, forse l'unico, senza la Sellerio e le
risoluzioni poco ortodosse del vicequestore romano. Orfani
bianchi, ad occhio, ha il
Manzini che gli orfani del dissacrante Marco Giallini non si
aspettavano. Alle prese con un convincente punto di
vista femminile e una storia che, purtroppo, non vuole
conoscere leggerezza. Ho iniziato a leggere di Mirta e dei suoi
infiniti dispiaceri sull'autobus. Da quando faccio il pendolare ho un
libro sul Kindle che mi accompagna nella traversata e un altro a
casa, in versione cartacea. L'ebook di Orfani bianchi,
in teoria, era il mio libro da mezzi pubblici. Ma ho preferito
leggerlo tutto in una volta, anche da fermo, perché con il dolore è
così. Meglio sentirlo tutto insieme anziché spezzettarlo. La storia, quella di tante donne
dell'est. Di quelle che, borbottano, ci rubano il lavoro. Di quelle
che, ribadiscono, dovrebbero tornarsene al loro paese. E che intanto si assumono le responsabilità che nessuno vorrebbe. Guadagnano e mettono tutto da parte, come formiche.
In una giungla di razzismo, si erge Mirta: eroina
incontrastata nella cronaca di un viaggio a senso solo, di una
fatica immane, di una profonda solitudine. E' ancora giovane, ha un
figlio di dodici anni per cui stravede nonostante la lontananza.
Pensa al passato, ma soprattutto al futuro, e scrive lunghe email
all'amica del cuore, al figlio Ilie, al parroco che si prende cura
dei suoi cari. La chat e Manzini ne custodiscono i sogni, le
confidenze, le promesse. I bocconi amari. I pesi sull'anima, lo
stomaco a brandelli.
Dopo avere perso il lavoro, la protagonista
trova prima impiego in un'impresa di pulizie e poi, con l'inganno,
presso una ricchissima famiglia della capitale: duemila euro al mese
per accudire la capricciosa signora Eleonora, paralizzata da un ictus
in un castello in cui aspettare invano una morte rapida.
Da casa, però, arrivano brutte notizie. Ilie non ha nessuno che si
prenda cura di lui e Mirta, a fin di bene, lo affida a un internat:
un collegio che puzza d'ospedale, in cui ci sono altri orfani bianchi come
lui – figli con genitori in vita, vale a dire, ma incapaci di
allevarli. Gli fa una promessa: dovranno
resistere altri tre mesi. C'è una vecchia che implora la morte, un
galante polacco che chiede invece la sua mano, un appartamento
abbastanza grande per stare finalmente insieme. Mancano ancora
i soldi necessari, serve giusto un altro po'. Manzini
descrive con occhio clinico il Tevere ribollente, i quartieri
residenziali, i tram stipati di accenti diversi e speranze in
assonanza. Donne forti, come l'intensa Mirta, che scendono a
compromessi in una guerra fra poveri, si piegano, (non) si spezzano. Lontano dalle nevi del
settentrione, l'autore ti tiene compagnia con gli invisibili, i
diseredati, i moderni miserabili. Dà visibilità, mai giustizia, a
un mondo da cui distogliamo distrattamente lo sguardo.
Il compito di
uno scrittore è però limitarsi a prenderne atto? Riportare le
sofferenze in fila indiana, non concedendoci né un giudizio né una
speranza? Mi prendo in giro spesso. Ricordo più i mancati happy
ending che il resto. I miei romanzi preferiti, i film che guardo e
riguardo, non finiscono bene. Però Orfani bianchi è
disperato in maniera inderogabile, perfino per i miei parametri.
Tristissimo, soprattutto nella prima parte e in un epilogo così
drammatico da avere dell'inverosimile. Buca lo stomaco, minaccia
lacrime a non finire e, anche se a volte stai meglio, ti rinfaccia la
lontanza. Lo finisci, così, con un senso
d'angoscia crescente. Fissi il muro per mezz'ora. Conseguenze di un
libro tragico e senza respiro, verghiano, con un intreccio che ha il
sapore della verità. Misteri di una lettura ben scritta,
pesantissima, che si fa leggere in una giornata. Con più di qualche
passo ispirato, molti luoghi comuni, troppi drammi. Che accalcati in
duecento pagine appena, in un pomeriggio, fanno stringere i denti sì,
ma anche storcere il naso.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Les Misérables – I dreamed a dream
Sono
tra quelli che in foto fanno sempre la stessa faccia. Trattenuto e riservato,
mi lascio andare quando mi riempiono il bicchiere o nessuno mi
guarda. Oppure il mercoledì sera. Quando non c'è romanzo o
contrattempo che possa salvarmi dalle sensazioni che soltanto questo
This is us sa. Sono
tra quelli che usano l'aggettivo strappalacrime come fosse una
parolaccia, infatti. Eppure quante lacrime che ha saputo strapparmi,
parlando fuori dai denti, la storia dell'ordinaria famiglia Pearson. E così io, che alla faccia di pietra ho fatto l'abitudine, sul mio divano scomodissimo rido e frigno con tutta una serie di gradazioni intermedie. E
quanto mi è piaciuto abbandonarmi, per una volta, ai colpi di cuore di una serie bellissima perché semplice in
maniera disarmante. Diciotto episodi complessivi e, più o meno in
tutti, mi sono dato generosamente allo stesso terremoto emotivo. Sono
masochista, continuando con la lista, ma non mi affido a
cose o persone che esercitano su di me il bello e il cattivo tempo.
Da This is us, eppure, sono
tornato settimana dopo settimana. In attesa che facesse la
prima mossa, e la sua magia. Qual è la particolarità di un telefilm che, ancora lontano dal concludersi, si
era guadagnato una pioggia di nomination ai Golden Globe e un posto
d'eccezione sul podio, nei listoni di fine anno? This is us
è un family drama modesto,
con attori visti qui e lì e uno spunto che si esaurisce dopo il pilot.
Se mi leggete, saprete già che i protagonisti sono in realtà
parte della stessa famiglia. Tra passato e presente, Dan
Fogelman ci racconta due generazioni di Pearson. I bravissimi Mandy
Moore e Milo Ventimiglia, forse la coppia più bella del mondo, sono
i capostipiti. Poi vengono i gemelli diversi Chrissy Metz e Justin
Hartley – lei in sovrappeso, lui attore corteggiatissimo in cerca
di ruoli importanti – e Sterling K. Brown, figlio adottivo, che
riallaccia i contatti con il suo padre biologico scoprendolo in fin
di vita e bisessuale. Il creatore di Crazy
Stupid Love coglie l'esistenza
del gruppo in presa diretta. Ce ne mostra gli amori all'apice e al
tramonto, i lutti inevitabili e le scelte esistenziali senza fuochi
d'artificio. La televisione imita il cinema, ed è allora che
stupisce: la NBC non ci prova neppure. This is us
non conquista per la fattura, ma
per quei protagonisti di cui senti di non poter fare a meno. Sono tutti belli e premurosi, fanno buone azioni. Solo
qualche volta, cose che capitano, volano parole pesanti di cui ci si
pente. Ventimiglia alza il gomito, e quanta ansia per il suo destino.
Il papà hipster di Ron Cephas Jones (il mio personaggio
preferito) ha i giorni contati, la coscienza un po' sporca e, a
un certo punto, si teme sia caduto di nuovo nel tunnel della droga. Ma,
acciaccato e tutto, prende un treno e macina chilometri ogni mattina
per dare da mangiare a un gatto che ha preso possesso del
suo balcone. Sulla scia dello stesso candore che non biasimi ma spii,
eccole lì le dichiarazioni plateali, i fratelli che vengono al primo posto, quei viaggi in macchina che sono il migliore
commiato. Anche se hai una famiglia sfasciata, tu, e a un freddissimo
dicembre siete sopravvissuti giusto in due. Però quel chiasso a cena
lo sogni prima di alzarti di soprassalto alle sei e quaranta in punto. Ora che
è finito, con ascolti che non calano di una virgola, lascio sfitti i
miei dotti lacrimali fino a un nuovo ciclo di episodi.
Convinto che il prossimo autunno, in loro compagnia, troverò altri
spunti per riconciliarmi con le emozioni che non sentivo. (9)
Ci
vuole un po' per rendersi conto che quelli non sono gli anni '80 che
sul piccolo schermo, tra Stranger Things e un Red Oaks, vanno per la maggiore. L'impressione nasce dal
poster vintage e dal guardaroba dei giovani protagonisti
di una comedy un po' gialla e un po' nera, che ha fatto il suo
debutto lo scorso inverno rischiando di passare sotto silenzio.
Neanche i subber, pensate, si sono adoperati troppo in fretta. Hanno
caricato gli episodi in ritardo, in disordine, sapendo che li
attendevamo in pochi. Ho scoperto Search Party in mancanza di qualcosa di meglio. La serie, ambientata in una New York che
più indie non si può, prende avvio con le scomparsa di una ragazza,
Chantal. Nei boschi viene ritrovato un suo indumento insanguinato. Ad
arrovellarsi sulla sua sparizione, mentre la famiglia la piange già,
una compagna di corso di nome Dory che l'ha ignorata platealmente in
tutti gli anni di università. Come mai quella curiosità,
quella preoccupazione, per il destino di una mezza sconosciuta? La
protagonista, che si chiama come il pesciolino smemorato di Nemo, è convinta di averla vista a qualche giorno di
distanza dal suo presunto omicidio. Chantal è viva, ma si nasconde.
Da chi, e perché? Ci sono la Grande
Mela alternativa di Girls e, su carta, la
variante hipster della rimpianta Veronica Mars. L'improvvisata
detective di cui ogni riccio è un capriccio coinvolge nella
ricerca il fidanzato di lunga data, nuotatore allampanato e
fedelissimo; l'esilarante e inaffidabile amico gay, uscito da
un episodio di Will & Grace; la classica amica bionda e
viziata che, pur senza un briciolo di talento, vorrebbe sfondare in un improbabile poliziesco per il
piccolo schermo. La situazione si ingarbuglierà con la comparsa di
un investigatore privato – terzo incomodo in un potenziale
triangolo amoroso -, culti misteriosi e testimoni suicide. Per
scoprire la verità: dieci puntate di venti minuti ognuna. Nel
mentre: più di qualche sorriso, un rapporto di amore-odio verso
l'altrimenti adorabile Sarah-Violet Bliss, un epilogo soddisfacente
ma non troppo (una seconda stagione è stata già
confermata, sempre in sordina). Search Party è un fumetto impensato e freschissimo. Pieno di misteri irrisolvibili e di presenze care a me, al Sundance e dintorni. (7+)
Sono
i nostri desideri a plasmarci. In un minuto scarso di accese, inconfessabili
fantasie ho desiderato di diventare scrittore e di fare sesso con
Miss Frost, non necessariamente in quest'ordine.
Titolo:
In una sola persona
Autore:
John Irving
Editore:
Rizzoli.
Prezzo:
€ 20,00 € 10,00
Numero
di pagine: 552
Sinossi:
Quando
Billy, a tredici anni, entra per la prima volta nella biblioteca
della sua cittadina del Vermont, è in cerca di libri su ragazzi che
si sono presi "una cotta per la persona sbagliata": nel suo
caso il futuro patrigno Richard, il crudele compagno di scuola
Kittredge e la stessa bibliotecaria Miss Frost, statuaria, con le
spalle larghe, i bicipiti robusti e un seno da adolescente. Figlio di
un crittografo da cui la madre si era subito separata, cresciuto in
una famiglia di uomini eccentrici e donne puritane, circondato da un
cast di amici, amiche, amanti, travestiti, transgender che rifiutano
di farsi incasellare in una categoria o in uno schema, Billy racconta
oltre mezzo secolo di avventure tragicomiche alla ricerca di sé (e
del padre). Attraverso le sue parole, John Irving mette in scena una
toccante epopea sul terrore di essere diversi, sulla profonda verità
delle passioni che ci abitano, sulla felice impossibilità di essere
altro da sé.
La recensione
L'incipit
è mezza bellezza, ho scritto qualche giorno fa, postando una foto con
le prime righe di In una sola persona. Se l'artefice è il
magistrale John Irving, incrociato spesso al cinema – suoi,
infatti, Le regole della casa del sidro e The Door in the
Floor – e solo adesso in libreria, quanto di vero c'è nel
luogo comune così caro ai lettori di ogni dove? Ho lasciato questo
romanzo in attesa per un anno buono. Preso a metà prezzo tra i Remainders, aspettava
me e il momento propizio. Il destino dei tomi corposi e dall'aria
impegnativa, che incastro come posso nei rari giorni che si
frappongono tra la fine della sessione invernale e l'inizio del
secondo semestre. Quest'anno, però, di giorno ne ho avuto uno
soltanto. E passando più tempo sull'autobus che a casa, come vi
dicevo, temevo di aver fatto la scelta sbagliata. Le quasi
seicento pagine di Irving erano la compagnia che volevo dopo una
giornata di pasti veloci, ombrelli rotti e sbadigli nei quaderni?
A sorpresa, non ne ho sentito il peso. Anzi, ho letto il
romanzo in sei giorni, sulla scia di quell'inizio splendido, da
manuale. Basta poco per capire i toni – tutt'altro che
pruriginosi, ma senza peli sulla lingua – e l'affascinante
mondo interiore del protagonista, Billy.
La sua prima cotta,
confessa, risale a quando aveva tredici anni. Allora sognò di
diventare scrittore e di andare a letto con la chiacchierata Miss
Frost, la bibliotecaria del suo paesello nel Vermont. Ad
aprirgli le porte dell'ambizione e della modesta biblioteca comunale,
il suo patrigno: un attore amatoriale che Billy guardò, per un certo periodo, con occhi
adoranti. Infatuato anche del genitore acquisito, farà presto i
conti con i suoi sentimenti e si angustierà con letture di
intramontabili classici a tema: dalle sorelle Bronte a Flaubert, su
consiglio di una bibliotecaria che ricorda la Fenech,
esplorerà in lungo e in largo gli amori impossibili e le cotte per
le persone sbagliate (sempre, appunto, che esistano).Billy
cresce in una famiglia a metà, divisa tra donne bigotte – compresa
una mamma amareggiata per via del dongiovanni che la sedusse e la
abbandonò – e uomini sensibili, in pace
con loro stessi. Un nonno tragicomico, ad esempio, che di giorno
gestisce una segheria e la sera fa furore a teatro, en
travesti. I seni posticci, i
lustrini e le parrucche, però, rispondono alle esigenze di copione o a inclinazioni rinnegate, lasciate poi in
eredità al nipote?
Con l'ironia e l'eleganza di chi ci è
già passato, il narratore si mette a nudo e tappa dopo tappa racconta disordinatamente la difficoltà dell'essere accettati e
dell'accettarsi. Tra gli Stati Uniti e l'Europa più libertina,
abbozzondo epitaffi per i caduti in Vietnam e per le innumerevoli
vittime dell'Aids, In una sola persona racconta
a distanza di sicurezza la sessualità e le disavventure di un
accademico attratto parimenti dagli uomini e le donne, destinato a un
mare più ampio in cui pescare e, per questo, a doppi
dolori. A Billy piacciono le signore mature e i ragazzi vulnerabili.
Perde l'innocenza con Miss Frost, divide il letto ora con la sua
migliore amica Elaine e ora con il bisognoso Tom, si strugge appresso
a un giovane lottatore (Kittredge, bullo conteso da tutte le sue
compagne di corso) che renderà un inferno e un paradiso i suoi
anni liceali. Le pagine di John Irving sprizzano intelligenza,
tolleranza, armonia. Scorrono come fossero un film. S'intravedono i
boa di piume, i reggiseni di pizzo sganciati con più di qualche difficoltà, le lenzuola sfatte in cui si sono rotolati gli atleti, le poetesse e le drag queen. La bisessualità
è una leggenda? La teoria del gender è tabù? In
una sola persona, paragonato al più noto Middlesex,è l'autobiografia fittizia di
un romanziere settantenne, che si guarda alle spalle e fa una
rocambolesca conta degli amanti, delle perdite, dei personaggi veri o presunti che l'hanno segnato. Il sesso è nella testa, suggerisce
Irving, e non nel corpo, che a una certa età si risveglia a comando. Ognuno è a modo suo. Ognuno, in un mondo
bello perché vario, è perfetto così. La vita è lunga per
stabilire in anticipo chi diventerai. Forse troppo, per illuderti di trovare te
stesso - e il dolce e il salato, e il sesso e l'amore - in una sola
persona?
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Rocky Horror Picture Show – Don't Dream It
Laggiù
è un viaggio senza fine. Non credere a chi ti dice il contrario.
Titolo:
Il viaggio di Caden
Autore:
Neal Shusterman
Editore:
Hot Spot – Il Castoro
Numero
di pagine: 294
Prezzo:
€ 16,50
Sinossi:
Caden
Bosch ha 15 anni ed è sempre stato un ragazzo estroverso, pieno di
amici e di talento. Da qualche tempo però ha cominciato a sentirsi
inquieto, a fare strani sogni e sentire sensazioni ossessive,
maniacali, compulsive. Sempre più spesso si ritrova su un galeone
che solca il mare alla volta della Fossa delle Marianne, tra tempeste
e mostri marini che non riesce a controllare. Caden va in crisi, non
distingue più reale e irreale. Da una parte si ritrova in ospedale,
accanto al dottor Poirot e agli amici Hal, Carlyle, Skye e Callie.
Dall’altra parte è combattuto tra la lealtà verso il capitano
della nave e il fascino dell’ammutinamento. Il fondo della Fossa
delle Marianne è sempre più vicino e Caden deve scegliere:
lasciarsi andare o cominciare la risalita?
La recensione
Caden,
quindici anni, vive in un mondo pericoloso. I suoi genitori,
impostori, non sono chi dicono di essere. I delfini disegnati sui
muri della sorella minore hanno sorrisi minacciosi quando cala il
buio. A scuola, nei corridoi, ci sono studenti che attentano alla sua
vita e progettano massacri a mano armata. In realtà, la sua famiglia
è piccola e fortunata; gli schizzi sulla carta da parati non
hanno né sorrisi sghembi né una volontà propria; i compagni di
liceo che tramerebbero complotti si limitano a
incrociare il suo sguardo e a passare oltre. Caden progettava
videogiochi con i suoi migliori amici, era uno studente piacente e
brillante, aveva speranze e un perfetto equilibrio interiore. A un
certo punto qualcosa nel suo cervello ha fatto crack. Un corto
circuito, un allagamento. Un diluvio universale. I pensieri positivi,
il raziocinio, non hanno avuto scampo. L'immaginazione ha rotto gli
argini: i sogni straripano, così, e la lucidità annaspa.
L'adolescente rischia la morte per annegamento, la pazzia. Il
viaggio di Caden è un romanzo
interamente ambientato nella sua testa. A pubblicarlo,
l'interessantissima Hot Spot.
A mostrarci come funziona – e
cosa, soprattutto, non funziona – l'acclamato Neal Shusterman. Un
autore che mi hanno consigliato spesso, in particolar modo per via della
saga interrotta di Unwind, e
leggendolo ho capito perché. Pane per i miei denti, lui, con una
lingua originalissima e young adult insoliti A prima
vista mi ha ricordato Patrick Ness: lo stile frammentario, le
illustrazioni a china a bordo pagina, una penna che sa trasformarsi di storia in storia. La nota dell'autore, a fine romanzo, mi
ha lasciato intuire quanto di vero ci sia nella sua spaventosa
odissea interiore. Shusterman ha un figlio che ha mostrato forti segni di
squilibrio ma che, per fortuna, è riuscito a stringere a sé l'ultimo
pezzetto di cielo; un amico che, da giovane, perse ad armi
impari la guerra contro il mal di vivere. Quanta sofferenza, quanto
autobiografismo, dev'esserci dietro queste pagine. E quanta ricerca,
quanta elaborazione. Me ne sono reso conto soltanto con il senno di
poi. Ho letto i vaneggiamenti e gli squarci del Viaggio di
Caden alla ricerca di un
senso, se c'era. Lì per lì mi ha dato il mal di mare: esercizio di stile troppo cervellotico per i miei
gusti. Dove
inizia la realtà e dove finisce l'incubo? Cosa succede se
la depressione è un vortice che ti tira giù, e tu non sai neanche
nuotare?
La schizofrenia, per un quindicenne, è un galeone su un
oceano di mostri marini e insidie. Le pagine, che si rivelano essere
piene di personaggi allegorici e doppi significati, si dividono tra
terapie di gruppo e cospirazioni. Da una casa in cui i parenti sono
percepiti alla stregua di alieni, Caden – d'un tratto un pericolo
per se stesso e per gli altri – viene trasferito in un reparto
psichiatrico. Dagli infermieri ai medici, dai compagni di stanza alle
ragazze interrotte, ognuno trova una puntuale
corrispondenza nei deliri privati del narratore. I suoi incubi,
intanto, si intensificano. Hanno la meglio. La nave veleggia verso
l'abisso, popolata da spettri e stranezze – romantiche gomene,
cervelli in fuga, saltatori nel vuoto –, e la ciurma minaccia un
ammutinamento in piena regola. Il capitano, che ha un nocciolo di
pesca al posto dell'occhio, rischia di essere scalzato dal suo
pappagallo parlante, passato dal trespolo alle cospirazioni
shakespeariane. Personalmente non sono mai stato un amante dei mondi
meravigliosi di Lewis Carroll, e qui spuntano le stesse filastrocche
in rima baciata, gli stessi oggetti parlanti e, da lettore semplice e
pragmatico, non ho avuto voglia di cercare chiavi di lettura sotto
coperta né pozioni a poppa. Altrettano poco nelle mie corde, poi, le
immagini marinaresche: ponderate e calzanti, in questo caso, ma con
sedicenti Capitani Nemo e Moby Dick di cui ho patito la
compagnia, ora come in passato. Che ruolo avrà il protagonista in
quella desolante deriva? Si salverà dalle stanze con le pareti
imbottite e, dunque, dalle angosciose profondità marine? Caden
immagina di potere avvertire i pensieri di gente dall'altra parte del
mondo. Si preoccupa di provocare terremoti in Cina, e controlla
ossessivamente le news del giorno. Sente il suo corpo abbandonarlo,
diventare quasi pura energia. Insieme a lui, come per osmosi, il
periodare si fa più astratto e discontinuo. Surreale. E la potenza
del flusso di coscienza, spesso, mi ha stancato e sopraffatto.
Il
mio voto: ★★★ Il
mio consiglio musicale: Green Day – Basket Case