mercoledì 29 gennaio 2014

Mr Ciak #27: Her, I segreti di Osage County


Lui scrive lettere per lavoro. E nessuno scrive più lettere.
Lui e lei parlano. E nessuna coppia sa parlare più.
Vivono di parole, loro, e attraverso le parole. Quelle la cui importanza è andata perduta, quelle che il vento ha portato via, quelle che il web ha tratto in salvo tra le maglie strette della sua rete. Theodore, il protagonista, passeggia all'ombra di uno skyline che non riconosciamo. Gioca con videogame che sono avanzatissimi e intelligenti ologrammi interattivi. S'innamora follemente del processore del suo portatile. Vive in un mondo di fantasia e quella di Jonze è una piccola cartolina dal futuro, arrivata con largo anticipo da poste, magari, in cui non sarà più necessario fare la fila. Eppure questa è una storia all'antica, costruita secondo un alfabeto che non passa mai di moda e attraverso l'elementare sintassi del cuore umano. Spike Jonze è bravo con le immagini, ma è ancora di più con le parole. Her è infatti un geniale, toccante e delicatissimo paradosso: in un futuro ipertecnologico, preferisce le lettere agli sms, alle email, ai tweet. Quelle romantiche, appassionate, autentiche, che nessuno è solito scrivere più. Her è una lunga lettera aperta, una dichiarazione d'amore a una donna mai nata e a una relazione mai esistita. Un duetto di grandi voci passate alla radio. Anche visivamente, questo, è un film che colpisce. Per quei realistici e sorprendenti effettivi visivi: così inusuali per una commedia malinconica su un malinconico individuo e una malinconica città. Ma avrebbe potuto essere anche un film... cieco. Proprio così, cieco: nuova etichetta, inventata dal sottoscritto tutta per Jonze. The Artist era il ritorno al muto: si parlava con i volti, con l'espressività del primo piano. Her, più che vederlo, lo senti. Perché il protagonista non può vedere la donna che ama, ma la sente, sì. L'ha cercata quando era solo e depresso. E lei l'ha fatto ridere, emozionare, sospirare; l'ha cullato e, con la stessa voce, gli ha offerto una strana notte d'amore. Theodore è circondato da donne, nella sua vita ci sono troppe “lei”. Ha un animo sensibile, da ragazza. Sarà per questo che non riesce a farsi amare con facilità? Una lei l'ha lasciato. Un'altra gli ha chiesto quello che non poteva darle. Un'altra gli ha fatto compagnia, ma solo come amica. Scarlett Johansson è l'ultima lei, quella del titolo. Una voce e basta. Sembra sempre che si sia appena svegliata da un lungo sonno, o che abbia pianto. Quando smette di parlare ti spezza il cuore. Ti senti solo come un cane. Più solo di prima. Grande protagonista, un Joaquin Phoenix spontaneo e convincente, con gli occhialetti da intellettuale, i capelli spettinati, la barbetta sfatta. Lo immaginavo come un impiegato insoddisfatto pieno di nevrosi, solo e disperato. Vagamente patetico. Invece va oltre. Fa del suo personaggio un Romeo a metà. Lui fa vedere il mondo a Samatha, lei insegna a vedere il mondo a lui. Tra loro, una storia d'amore bellissima come in fondo lo sono tutte le storie d'amore impossibili. Una barriera insormontabile a dividerli – la realtà stessa –, ma i momenti familiari di una coppia normale, che ha un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine, con tanto di sesso, gite, gelosie e amicizie in comune. Her , sapete, è un film che mi preoccupava un po'. Non ero sicuro che facesse al caso mio. Temevo qualcosa di sperimentale, cervellotico, intellettuale: una pellicola alla Gondry. Di Gondry, forse, ha i colori accesi, la fotografia impeccabile, ma non la leziosità. Jonze firma un piccolo capolavoro, pieno di saggezza e di grazia. Poetico e geniale, indipendente senza essere chiuso a riccio. Un film assoluto, da vivere in prima persona. Un film raro sul Red Carpet di questo 2014, dove tutti fanno troppo chiasso. DiCaprio e Scorsese urlano, la Blanchett e Allen piangono e ridono come pazzi, la Streep e Wells si danno a rumorosi virtuosismi. Poi arriva dal nulla una commedia che dice tutto, ma sottovoce, e tu piangi e dici wow.

La famiglia è un disastro che costruiamo con le nostre stesse mani. E' una sostanza chimica pronta a infrangere la sua ampolla di vetro e ad esploderci in faccia, se non leggiamo attentamente le istruzioni prima dell'uso. Chi non ha mai assistito a scenate isteriche, con tanto di  piatti in frantumi? La famiglia del Mulino Bianco è da lasciare alle pubblicità. La verità è brutta da guardare, vergognosa da ammettere, noiosa da mostrare. Per fortuna c'è chi ha fegato e, nel giorno più sacro e ipocrita dell'anno, non si accontenta di mostrare cartoline riciclate in cui tutti sorridono: a pochi giorni dal Natale, in America, è uscito I segreti di Osage County. Wells, sempre con un piede in una pozza di follia e l'altro in un mare di cinismo, porta sul grande schermo la pièce di Tracy Letts, e lo fa potendo contare su un cast stellare e su uno script ai limiti della perfezione: senza intoppi, senza pause, senza pudore. La sua, infatti, è una commedia familiare al vetriolo. Si ride, ci si dispera, si urla come pazzi, si piange per l'imprevedibile onda d'urto di brutte parole non misurate. Siamo in presenza di una commedia borghese, realizzata negli interni di una casa troppo grande e troppo vuota. La famiglia Weston si è riunita a forza, per il funerale di un patriarca che ha tirato la cuoia. A capotavola Violet, che ha il cancro alla bocca, fuma come un turco, spara proiettili di malignità e, come scusa, tira in ballo le pillole da cui dipende. Passa dalle lacrime alle risate, da un'isterica gioia alla disperazione più nera e lo fa con un'incredibile maestria ormai assodata: le dà il volto Meryl Streep e, ancora una volta, è da Oscar. Il set è un tavolo senza spigoli e i punti di vista si moltiplicano ogni volta. Non c'è una sola scena madre. Tutti sono protagonisti. Nello stesso film, la resurrezione del “mito” Julia Roberts: finalmente in un film degno d'attenzione, giustamente nominata agli Oscar. Potranno risultare antipatiche e troppo sicure, loro due, ma mostrano cosa sia recitare. Cosa significhi versare sangue, sudore e lacrime su un copione pieno di battute memorabili. Il grande cinema è per i migliori. Il soggiorno a Osage County è divertentissimo, struggente, emozionante. Tra il migliore (o il peggiore?) Polanski, il melò vecchio stile, il Tornatore di Stanno tutti bene. Imperdibile. Un incantevole calvario.


Il capitale umano (2/5): un film che ha fatto parlare tanto e bene di sé. Secondo me, troppo. L'ultimo film di Virzì – regista di cui ho adorato La prima cosa bella e Tutta la vita davanti – è strutturato meravigliosamente, ma il risultato finale è arrangiaticcio e scialbo. Lo stampo è televisivo, i personaggi sono semplici caricature. Si parla della nostra Italia, con finta ferocia e toni vaghissimi: è ambientato da noi, ma poteva svolgersi anche a Londra, per quel che valeva. Tanto, stiamo tutti sulla stessa barca che va alla deriva. Irritante Bentivoglio.
Last Vegas (2,5/5): dopo Il grande match, arriva questa versione di Una notte da leoni per pensionati. E che pensionati: quattro grandi attori che, anche se in un film semplice e divertente, si mostrano perfettamente all'altezza delle aspettative. Sono autoironici, si prendono in giro, prendono parte a un film che scorre piacevole, ma si dimentica. Tra anni e anni – spero per loro che siano secoli – quando queste quattro stelle non ci saranno più, magari, riguarderemo questo Last Vegas e ci emozioneremo un po'.
Bad Grandpa (3/5): in lizza agli Oscar per il miglior trucco, Bad Grandpa è una commedia originale e esilarante, in cui il limite tra genialità e idiozia non c'è. Il viaggio per l'America di un nipotino sveglio e di un nonno oscenamente brontolone, in realtà, è realizzato attraverso una serie di bizzarre candid camera legate tra loro, fino a formare un racconto, capace di far ridere tanto e riflettere sui lati di un'America che difficilmente viene mostrata. Il protagonista – il mitico Johnny Knoxville della squadra di Jackass – è irriconoscibile, ma idiota e simpatico come sempre. Ovvio!

lunedì 27 gennaio 2014

Recensione: Requiem, di Lauren Oliver

Chi salta può cadere, ma potrebbe anche volare. Abbattete i muri.

Titolo: Requiem
Autrice: Lauren Oliver
Editore: Piemme “Freeway”
Numero di pagine: 336
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Mi chiamo Lena e sono infetta, perché mi sono innamorata di Alex in un mondo in cui l'amore è considerato una malattia, e come una malattia viene curato. lo e Alex siamo scappati, ma poi ci hanno separati. Io sono andata avanti, ho incontrato Raven e gli altri ragazzi della Resistenza. Ho imparato a combattere per quello in cui credo, a lottare per essere davvero me stessa. E ho incontrato Julian che è il ragazzo più dolce del mondo e mi vuole con sé. Poi però Alex è tornato, quando pensavo di averlo dimenticato, quando mi ero convinta di riuscire a fare a meno di lui. E ora, mentre il mondo attorno a noi cade a pezzi, io sto male, e penso che forse avevano ragione loro: l'amore è davvero una malattia!
                                                  La recensione
L'ultima domenica di gennaio l'ho trascorsa in compagnia dell'ultimo volume di una trilogia che ho amato tanto, e a lungo. Per due anni, o qualcosina di più. C'era una certa simmetria, in quella giornata di pioggia senza fine e lampi lontani. O almeno, la scorgevo io, sui vetri rigati dall'acqua e tra pagine che scorrevano lentamente, come quella pioggia tardiva nelle grondaie. Ma a me, in realtà, piace ricercare sempre piccole simmetrie, ovunque: solo così mi sembra che per tutto ci sia un disegno superiore; solo così mi illudo di riuscire a trovare un posto nel mondo tutto per me. Ho avuto Delirium, in libreria, per mesi. Ho aspettato che arrivasse il momento giusto, ho aspetto l'avvicinarsi del mio diciottesimo compleanno; poi l'ho letto. Sulla Oliver – un'autrice che non conoscevo, ma che avrei imparato ad amare e odiare a giorni alterni - era ricaduto l'importante compito di scortarmi in un'irripetibile fase di passaggio. Era diventata, così, la mia madrina: testimone silenziosa dei preparativi di una festa tra amici che mi aveva inutilmente logorato i nervi e prosciugato le forze; mia personale traghettatrice verso le ultime spiagge dell'adolescenza. Pensavo, allora, che tutto sarebbe cambiato e che del vecchio me non sarebbe rimasta che l'ombra di un tempo. Pensavo, allora, che sarei diventato grande in un colpo solo. Dovevo fare diciott'anni, ma quelli, paradossalmente, erano i pensieri di un bambino piccolo. I grandi, infatti, lo sanno bene: sanno che non si cambia mai per davvero. In quell'aprile di dubbi e ansie, l'ho iniziato a sospettare per la prima volta. Nel marzo dell'anno successivo, galeotto il Chaos più affascinante che si potesse immaginare, l'ho saputo con certezza. Io ero rimasto lo stesso, e la stessa era rimasta Lauren Oliver: una dolorosa, superba garanzia. Per conoscere la fine della sua distopia, ho dovuto aspettare meno del previsto: il nuovo anno mi aveva portato l'ultimo capitolo sul palmo della mano, generosamente in anticipo. Le campane da poco avevano rinunciato a svegliare tutti con l'allegria, spesso fastidiosa, dei canti natalizi, e ora era tempo di Requiem. Il titolo non diceva niente. Il titolo diceva tutto. Bisognava stringersi nei banchi di legno gelido e prestare attenzione all'ultima liturgia: i toni funesti, fatali e luttuosi di una messa funebre. Ero pronto al peggio, aspettavo il meglio. Ho trovato una Oliver altra, diversa da come l'avevo lasciata. Forse un po' stanca, perfino. La sua voce spaccata in due, come davanti a un bivio impossibile da aggirare: un sentiero verso l'inferno, un altro verso il paradiso. Ma come riconoscerli, come distinguerli? Nessun angelo a indicare il cammino corretto, sotto la fulgida luce della provvidenza. Nessun diavolo visibile da cui fuggire a gambe levate, saggiamente. Troviamo due punti di vista diversi e uno sguardo nuovo sul contagio. 
Hana Tate – la migliore amica di Lena - è salva, è imperturbabile, è lontana: i ricordi della sua ultima estate di libertà a Portland e l'orribile rimorso di un segreto che non riesce a confessare nemmeno a sé stessa fanno capolino appena, tra le nebbie della sua mente tirata perfettamente a lucido, come fosse un'altra delle superfici immacolate e bellissime della sua futura villa. Quella Hana che si deve sposare, che ha subito la procedura, che sorride a comando, ma che – pur nelle fila dei Curati – appare più viva e umana della protagonista stessa, per la maggior parte del tempo. Risulta, infatti, più intrigante la sua voce che quella di Lena che, dopo due libri, è familiarissima, ma anche un po' noiosa. Come se non avesse più nulla da dirci su sé stessa. Nel punto di vista della protagonista di sempre, poca introspezione: racconta le sue esperienze in prima persona, ma con monotonia, descrizioni oggettive e fredde, senza lirismo di nessun tipo. Sembra una narratrice esterna - nel modo in cui descrive assedi e spedizioni, fughe e scontri; nel modo in cui parla troppo degli altri e raramente di sé. Non c'è il suo solito io, forte, egoista, assoluto. E' rigida, schematica, meccanica, confusa e, stranamente, risuona più robotica la sua voce che quella della sua amica così lontana. C'è più metodo, in Hana. Più ordine. Lena è un proliferare di sensazioni opposte, fastidiose. L'altra protagonista, invece, tra stanze vuote e segreti inquietanti, si trova a vivere nella più pericolosa delle favole - quella di Barbablù – e in una casa in cui, come nel capolavoro di Daphne du Maurier, aleggia l'ombra di una prima moglie, messa misteriosamente a tacere. Dovrebbe essere un'automa, ma ha sentimenti che la cicatrice della procedura non ha annullato: nel suo petto, il suo cuore continua a pulsare forte, anche se – con i suoi battiti – rischia di mettere in allerta orecchie sospettose.
Lei è l'omino di latta di Oz in abito nuziale, è impeccabile. Lena, invece, vive nelle Terre Selvagge, in un luoghi sporchi e desolati in cui sopravvivere è una lotta continua contro la fame. Quegli scenari sembrano saccheggiati dalla realtà, dai campi rom, dai barconi della speranza. Ciò che è selvaggio non è allettante, ma difficile. Perché la libertà ad ogni costo è anche quello. E Lena lo pensa, mentre anche noi ce lo chiediamo sottovoce... E se l'amore fosse davvero una malattia. E se fossero più zombie quei manipoli di ribelli – sfollati come terremotati, senza aiuti e senza più speranze – che i curati, coi loro completi puliti e i loro sorrisi cordiali da pubblicità? Insieme all'amore, una semplice e ordinaria operazione potrebbe rimuovere l'odio, la gelosia, il dolore. La capacità di fare del male, la capacità di farsi del male. La Oliver, in tre libri, parla di tre lati di uno stesso cuore – anche di quelli nascosti nel conforto dell'ombra. Nel caso di Requiem, coerentemente, parla anche dei più brutti. Lena si è innamorata di Alex: il suo primo, grande amore è stato un dolce tormento. Poi ha corso, ha sofferto, ha urlato, ha combattuto il dolore insieme al delicato Julian, mentre tutto sembrava perduto. Il passato, quando pensava di averlo sepolto, è ritornato per lei: si è sollevato da terra, nel sangue e nella sabbia, e ha percorso chilometri e chilometri per raggiungerla, pensando di trovare sollievo a tutta quella sofferenza tra le braccia di una ragazza che, ormai, si era messa l'anima in pace. In questo terzo romanzo si parla di Lena e della sua scelta; di un inevitiabile triangolo sentimentale che, per quanto intelligente, l'autrice non ha saputo o potuto aggirare. Requiem non mi ha addolorato, non mi ha intontito: non mi è piaciuto al pari dei precedenti volumi. Non è mai un peso, scorre alla perfezione, ma esattamente che dice per 200 pagine e oltre? La Oliver, come la Roth in Insurgent, intrattiene non dicendo niente, argomentando sul nulla - sarà che vogliamo un bene dell'anima ai suoi protagonisti, sarà che la sua trilogia ha rappresentato tanto per tanti, sarà che è brava e che il suo talento è lampante da sempre. 
Mi è sembrato, tuttavia, che non sapesse come farlo finire: non sapeva cosa fare di Lena e del suo mondo matto. La sua prosa è scorrevole, elegante, ma tra le righe – questa volta – ho percepito una certa difficoltà, fastidiosa come un ospite sgradito. I suoi personaggi, due libri fa, le avevano detto ciao. Quello era un addio definitivo. La conclusione, invece, così definitiva non lo è. Lo sciogliemento non è studiato con la consueta lucidità che, spesso, ho scambiato per sadismo gratuito. Non c'è premeditazione, non c'è un piano. Giungere a quella fine è un colpo di stato, una presa di forza: si prende un martello, un bastone, un osso e si distrugge quello che non va. Con furia, rabbia, qualche sorriso di speranza. Lei distrugge, insieme ai suoi personaggi, tutte le sovrastrutture che ha creato, abbatte ogni relazione e intreccio, spiana a forza l'eccessivo, il superfluo, l'aggiunto. Non si crea mai una perfetta livellatura, ci sono crepe e spuntoni, i segni forti di una violenza, eppure sembra giusto così. Anche perfetto. Per tutta la lettura, sono andato in cerca di un'immagine che mi rimanesse impressa: in Delirium, la parola Amore tappezzava le pareti di roccia, la “o” diventava la bocca di un tunnel verso la libertà; in Chaos si iniziava con una corsa cieca verso l'ignoto, passo dopo passo, e con la costruzione di una torre, altissima, d'indifferenza e gelo. Per tutta la lettura, mi sono chiesto di questo cosa avrei ricordato. L'illuminazione è arrivata all'ultimo capitolo, il colpo di scena è giunto all'ultima pagina: avrei ricordato quelle parole, tenuto a mente quella scena. Quei passi che, tanto belli, valevano più di un intero libro, purtroppo, deludente. L'epilogo, vago e universale, è quello di una fiaba. Fa di Requiem una parabola. Peccato per le parole di troppo, per le pagine in più, per alcune dinamiche senza importanza alcuna. Lauren viene a tirare le fila, a sciogliere tutti i nodi, a salvarci da quella collana di perle e parole che poteva stringerci la gola fino alla morte. Parla Lena, ma io so che era lei. Era il suo congedo, il suo chiederci perdono per tutto, prima di dirci – alla pagina successiva – grazie per esserci stati. La dea Lauren Oliver – che a lungo ha giocato con la vita e la morte dei suoi figli – si scopre meno memorabile e, nel bene e nel male, più clemente. Una Oliver imperfetta, dunque, ma comunque da leggere: non sarebbe giusto, infatti, lasciare Lena, Hana, Alex e Julian sospesi per l'eternità. Avevano bisogno di un finale che fosse loro. L'autrice che ha frantumato milioni di cuori, infine, sceglie di frantumare barriere. E invita i suoi lettori a fare altrettanto, nell'ultima pagina. Un'ultima pagina da fotografare, da incorniciare, da ricordare, insieme all'imagine di una sposa che va chissà dove e di un ultimo, sfuggente bacio tra le macerie. Intorno a me, a fine lettura, mucchi di libri come mattoni divelti: ho scavato un buco tra i dorsi dei volumi più disparati, affinché Requiem potesse unirsi agli altri lavori della sua creatrice. Ora ha il suo posto. Li vedo tutti insieme, lì, e capisco che un'altra cosa ha avuto fine, nella mia vita. Una fine che, per Lena, è un altro inizio.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Jovanotti – Tutto l'amore che ho 

mercoledì 22 gennaio 2014

Recensione: Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini

Ciao a tutti, amici! Dopo una settimana d'assenza, torno per parlarvi delle prime cinque stelle assegnate in questo 2014 appena cominciato. Per recensire un romanzo meraviglioso, che non ha bisogno di presentazioni e da cui, quasi due anni fa, è stato tratto un film che vedrò presto, finalmente. Parlare di Venuto al mondo non è facile, sarà che Margaret Mazzantini non è un'autrice facile. Ho fatto quello che potevo, ma avrei voluto riportarvi interi passi del romanzo: io non sono solito sottolineare i miei libri, ma, se usassi un evidenziatore ogni volta, il romanzo della Mazzantini sarebbe tutto un colore. Come quella copertina tanto significativa. Vi auguro una buona lettura, quindi, e fatemi sapere cosa ne pensate - se conoscete l'autrice, se avete visto i film tratti dai suoi scritti. Un abbraccio e a presto, M.
Quanta vita c'è in quella guerra?
Quanta morte c'è in questa pace?

Titolo: Venuto al mondo
Autrice: Margaret Mazzantini
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 530
Prezzo: € 14,00
Sinossi: Una mattina Gemma sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico, fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una guerra che mentre uccide procrea. L'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti noi, perché questo è un romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra. La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi, perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa. L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa vicenda di non eroi scaraventati dalla storia in un destino che sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Un romanzo-mondo, di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematico come una parabola.

                                                  La recensione
"Un giorno sono passato accanto a un prato rosso di papaveri e per la prima volta non ho pensato al sangue, mi sono incantato su quella bellezza così fragile. Bastava molto meno di un'ascia, di maljutka, bastava un colpo di vento. Era fermo lì per noi, quel prato, in attesa dietro quella curva. Un immenso campo punteggiato di lingue rosse, come cuori caduti dal cielo nell'erba. Ero in macchina con mia moglie. Ci siamo fermati e abbiamo cominciato a piangere. Prima io, poi, dopo un po', anche lei mi è venuta dietro come un torrente. E' stato un pianto che lentamente ci ha svuotati, ci ha risarciti. E da quella sera abbiamo ricominciato a respirare con il petto. Riuscivamo a sopportarlo. Per anni il nostro respiro è stato fermo alla gola, non poteva andare oltre... Due mesi dopo mia moglie era incinta." Brividi. Brividi ovunque. Brividi dappertutto. Nelle ossa. Tra i denti. Sulla pelle, sotto la pelle. Brividi anche nei capelli, come pidocchi. Brividi come perle. La puntina salta, il vinile s'inceppa, il giradischi muore. Va via la voce di Gemma, torna il presente. Torno al presente. Si ci alza in una stanza che non ha pareti, come in una canzone vecchia e bellissima di Gino Paoli. Si cerca la forza aggrappati alla tastiera del letto, alle coperte azzurre. Il letto ha un'anima di legno e non è vero che il legno galleggia. Io sono di legno, e io non galleggio. Vado a fondo, mentre i muri diventano mare e la mia stanza una placenta. Intorno, pesci che nuotano. 
Non nell'oceano, non nel fiume: nel golfo calmo del liquido amniotico. Verrebbe istintivo rannicchiarsi lì, tra il letto e il mare, come virgole sghembe disegnate da un bambino che, per gioco, ha provato a scrivere un pensierino con la mano sinistra, l'altra: la mamma stira, io leggo. Le gambe tirate al petto, le braccia che riconosco le ginocchia come loro fratelli e le cingono, e le abbracciano, e non le mollano più. Si diventa, così, segni di punteggiatura imperfetti. Feti perfetti. Invece non c'è compostezza, non c'è grazia, non c'è parola che basti a rimetterti al mondo. Lo strazio è una bolla di lacrime concentrata tra fronte e naso, una ruga sulla fronte che prima non c'era. Il dolore pulsa lì, ma non esce: non scorre giù dagli occhi. Ho chiuso il mio libro e ho nuotato fino al bagno, strusciando i piedi sulle mattonelle e su quel familiare fondale di ceramica a rombi. 
Mi sono seduto sulla tavoletta del water perfettamente chiusa e ho aspettato l'infinito, guardandomi i piedi scalzi, pensando. Credo che fosse il primo liceo e credo che fosse Ariosto: ricordo con certezza di non ricordare bene. Si parlava di struggimenti d'amore, nobili contese, affronti e galantuomini pazzi incapaci di piangere: erano tanto forti i sentimenti provati dal protagonista da non riuscire a trovare una via di fuga tra lo sterno stretto, la cotta di maglia opprimente, la faretra pesante. Orlando – se di Orlando si trattava – non riusciva a imporre una graduatoria ai suoi dolori: a dare il primo posto al tradimento, il secondo alla disfatta, il terzo all'orgoglio ferito. Perciò duellavano, facevano invano a gara per emergere, si annullavano senza saperlo. Dopo una storia come Venuto al mondo ti senti un po' così: dilaniato, esaurito, emotivamente costipato. Senti di non sapere a quale sentimento dare la precedenza, ma sai che qualsiasi emozione arriverà prima – che si tratti di compassione o amore, sofferenza o vergogna non importa più – ti farà male, ti trancerà le gambe, come un pirata della strada con un cieco in mezzo al traffico. E non parlo di cuori spezzati, singhiozzi affranti, trascurabili fitte. Leggi Venuto al mondo e pensi che un calcio nelle palle t'avrebbe fatto meno male. L'autrice colpisce dove sa strapparti un urlo, una bestemmia, il fiato. Al centro della mascolinità, nel primordiale segreto del divenire padre. Fa un male cane e, se sei uomo, ti toglie la virilità. Anestetizza la tua identità, nega il cromosoma sbagliato che ti rende quello che sei. Ti fa sentire donna, ti fa sentire mamma. Io e Margaret Mazzantini avevamo una questione in sospeso chiamata Non ti muovere: quella bella signora dagli occhi blu, infatti, d'impatto, non mi era stata simpatica. Ero il lettore imperfetto io, ed ero in quell'età sospesa e ingenua in cui i pensieri più brutti e vili di un uomo mi sembravano alieni. Io che, ancora piccolo, conoscevo giusto quelli del mio papà. L'ho riletta adesso – con il diploma del liceo appeso al muro, la patente nel portafoglio e una certa maturità aggiunta – e abbiamo fatto la pace e la guerra, sotto il fuoco incrociato delle sue parole d'acciaio arrugginito. Io ero Pietro. Io ero suo figlio. La sua prosa, un grembo materno: buio, misterioso, avvolgente, grande, caldo. Una casa che resiste, con il ritratto di Tito al muro e pentole in cui nuotano pesci rossi scacciati dal loro acquario frantumato, ai bombardamenti. Margaret ha uno stile corposo, purulento, meravigliosamente ricco, che si spezza ora in una poesia dai versi sciolti, ora in una lettera improvvisata, ora in una pagina di un diario d'ossessione. 
Ha il naso per percepire l'odore intenso delle spezie e della carne arrosto e un fetore acre che sa di formiche bruciate; ha la bocca per baciare, urlare contro un Dio che forse è morto, dire una verità scomoda; soprattutto, ha gli occhi, occhi che immortalano quello che non dimenticherai mai. Cose brutte e cose belle in un rullino fotografico lasciato alla polvere. La Mazzantini vive d'amore e di guerra e va in cerca di vita, in mezzo a quella morte inspiegabile che gela il sangue. Oscilla, affascinante, su un'altalena librata sugli opposti: a tempi alterni, la testa rivolta verso il confine della fine e i piedi verso il tunnel di una nuova nascita. Spia i movimenti di vittime innocenti dal mirino del fucile di un cecchino; qualche volta fa fuoco, qualche volta è clemente e ti salva la vita. Costruisce il passato di una famiglia mancata attraverso ecografie piene di ovuli ciechi e figli che, forse, non dovevano venire. La superba storia d'amore tra tre destini e una città maledetta dalle stelle. Sarajevo ha il nome di un tango. Sarajevo – schifosa, suggestiva, unica - è gelosia e passione, morte e vita. Sarajevo, che potrebbe essere il nome di un transessuale triste con il trucco sciolto e l'attesa di un cambiamentocontronatura. Tutte le strade, nell'arco di trent'anni, portano e riportano Gemma, Diego e Gojko lì, dove la guerra e una Madonna punk hanno generato Pietro – estroverso, moderno, ruvido, un'adolescenza pronta a sbocciare. 
A Pietro, Margaret ha dato i tratti e gli occhi del maggiore dei suoi quattro figli: ha scritto tanti libri, ha avuto tanti parti, lei. Ha messo al mondo quattro volte la vita perché lei ne è perdutamente innamorata, in fondo. Lo si percepisce da quello che fa, nella cura impressionante che deve richiedere: penso a una mamma che, di domenica, nel suo unico giorno di riposo, mette la sveglia alle sei per mettere la bolognese sul fuoco, preparare le lasagne fatte in casa, far odorare la casa di buono. Lei, che sa cosa significa crescere quattro figli sani e forti, sa anche cosa avrebbe significato non averne: sa descrivere il vuoto cosmico che Gemma sente nella pancia con passaggi fortissimi e pieni di verità. La protagonista è complicata, come tutte le donne; anche di più. Gemma si sente una donna a metà, ma è sfuggente il doppio, il triplo, il quadruplo. Il suo desiderio di diventare madre diventa ossessione, odio verso eserciti di donne con i jeans premaman che affollano le strade, gli uffici, i bar. Tutte insieme. Quasi a voler sventolare le loro forme, morbide come il pane, e i loro ventri accoglienti davanti a una Gemma fredda, triste, spezzata, inutilizzabile. Le donne della Mazzantini sono fortissime, mentre gli uomini sono troppo buoni e troppo stupidi, leggeri come quei mazzi di fiori di carta venduti quando le rose hanno preso lentamente a morire. Diego ha la testa tra le nuvole, il cappello da Puffo, i pantaloni a sigaretta colorati, un sorriso enorme e storto sul volto piccolissimo, una macchina fotografica – al collo – che è la croce che si porta appresso. Per fotografare neonati nelle cassette della frutta, nuche e ombelichi di donna, pozzanghere. Gojko, invece, ama due donne – la mamma, che somiglia a Lady D, e la sorellina, che vuole andare, da grande, alle Olimpiadi – e le corteggia tutte quante: beve, fuma, compone sinfonie a suon di rutti, scrive poesie dedicate a Sarajevo e ai grazie, gioca a calcio con la testa mozzata di un nemico per vendetta, sporcandosi i jeans buoni di sangue. Margaret Mazzantini rievoca, tra le sue pagine, un conflitto vicinissimo, nel tempo e nello spazio, di cui, se solo volessimo, potremmo ancora sentir risuonare gli echi, al di là del mare. Ma la domanda è una: vogliamo? La risposta mi sfugge, come mi è sfuggita, per troppo tempo, la reale identità di questo secondo olocausto. I programmi di storia, a scuola, parlano sempre di bambini col pigiama a righe, mai di Pietro, mai di Sebina, mai del bambino blu scorto da Gemma sul tavolo dell'obitorio, accanto al cadavere rattrappito di un povero vecchio morto insieme alla sua povera dignità. Un'amica, Elisa, mi ha detto che siamo tutti responsabili dei drammi che accadono nel mondo, siamo tutti complici. E siamo tutti Diego, anche se nessuno lo ammette. Perché lui è cordardo, mentre tutti – fregati da un'inconsistente presunzione – si credono eroi. La verità è che tutti avrebbero scelto la sicurezza dello stanzino delle scope, interrogandosi a lungo su cosa sarebbe successo se avessero fatto altrimenti. Non si sarebbe risolto niente, si sarebbe risolto tutto. Crudo, scomodo, atroce, capolavoro. Grandi personaggi, gran libro, brutta storia. Un libro da leggere a voce alta, un libro che ti sbudella il cuore. La Mazzantini come una paladina della memoria, Margaret come una regina della narrativa. E' stato più facile prima correre sotto le granate che dopo passeggiare sulle macerie.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Fontana di Sarajevo – Eduardo Cruz

martedì 14 gennaio 2014

Recensione in anteprima: Le ossa della principessa, di Alessia Gazzola

Ho imparato che tutto ha un prezzo e che quella dolce quiete che mi sembrava noia... è quella la serenità. Bisognerebbe pensarci prima di gettarla nel piatto, in una partita a carte con la sorte, al prezzo di un'emozione che non vale nulla.

Titolo: Le ossa della principessa
Autrice: Alessia Gazzola
Editore: Longanesi
Numero di pagine: 346
Prezzo: € 17,60
Data di pubblicazione: 16 Gennaio 2014
Sinossi: Benvenuti nel grande Santuario delle Umiliazioni. Ossia l’istituto di medicina legale dove Alice Allevi fa di tutto per rovinare la propria carriera di specializzanda. Se è vero che gli amori non corrisposti sono i più strazianti, quello di Alice per la medicina legale li batte tutti. Sembrava quasi che la sua tormentata esistenza in Istituto le avesse concesso una tregua, quanto bastava per provare a mettere ordine nella sua sempre più disastrata vita amorosa, ma ovviamente non era così. Ambra Negri della Valle, la bellissima, brillante, insopportabile e perfetta Ape Regina, è scomparsa. Difficile immaginare una collega più carogna di lei, sempre pronta a mettere Alice in cattiva luce con i superiori, come se non ci pensasse lei stessa a infilarsi nei guai, con tutti i pasticci che riesce a combinare. Per non parlare della storia di Ambra con Claudio Conforti, medico legale affermato e tanto splendido quanto perfido, il sogno proibito di ogni specializzanda… E forse anche di Alice. Ma per quanto detesti Ambra, Alice non arriverebbe mai ad augurarle la morte. Così, quando dalla procura chiamano lei e Claudio chiedendo di andare a identificare un cadavere appena ritrovato in un campo, Alice teme il peggio. Non appena giunta sulla scena del ritrovamento, però, mille domande le si affollano in mente: a chi appartengono quelle povere ossa? E cosa ci fa una coroncina da principessa accanto al corpo?
                                                        La recensione
La gente sbaglia, sbaglia di continuo. Si può perdonare, finché non uccide.
Se c'è una cosa bella della fine delle vacanze di Natale - quando riponiamo il nostro albero spelacchiato nel ripostiglio, e chiudiamo in uno scatolone palline, ghirlande e la nostra solita serie di lucine Led, e lasciamo che le statuine sbeccate del presepe dormano tutte insieme, per dodici mesi ancora, nella stessa busta (le Sacre Scritture condannerebbero questa promiscuità, ma amen!) – è il ritorno alla pace. Perché, sebbene a Natale siano tutti più buoni e le pubblicità dei Panettoni mostrino bambini di Paesi diversi tenersi allegramente per mano e girare in tondo fino al mal di mare, le feste sono l'occasione perfetta per cantare senza ritegno alcuno le canzoni di Michael Bublé e Mariah Carey, ospitare in città inquietanti orde di Babbi Natale armati di trombetta e barba sintetica, chiamare amici a cui per 365 giorni non avevi mai pensato e far sgradite viste a sorpresa a familiari, strizzati in imbarazzanti pigiamoni, che - l'elegante mise lo dimostra - non aspettavano te. La Befana, quest'anno, messa con le spalle al muro insieme al nostro Paese in gran completo, non mi ha portato niente di niente, ma – come dicono le frasi da cartolina – ha portato via con sé, al suo frettoloso passaggio, le feste in gran completo. Almeno quelle. E i telefoni che squillano per le chiamate di nonni un po' lontani, i postini che recapitano cartoline arrivate in ritardo, le visite di cortesia di adulti che non conosci, ma a cui sorridi con accondiscendenza, anche se l'unica cosa che vorresti fare è cedere al raptus omicida che, in cruciali momenti, ti suggerirebbe di pugnalarli con una stecca di torrone al limoncello: colpa di osservazioni inopportune su una fidanzatina che non c'è, sul mancato 100 all'esame di maturità, sull'impressionante differenza d'altezza tra te, nano da giardino in incognito, e il tuo pantagruelico fratello minore. Da tre anni a questa parte, ho una cara amica che mi viene a far visita. Per due anni, l'ha portata con sé la primavera: guance rosse, occhi limpidi, frangetta al vento, fiori di pesco tutt'intorno. In Sindrome da cuore in sospeso, invece, è venuta a trovarmi, inaspettatamente, sotto l'albero di Natale. Quest'anno è in anticipo. Bussa alla porta quando non aspettavo più anima viva. L'epifania è passata da un paio di giorni appena e il silenzio tanto sperato è durato, alla fine, meno del Governo Prodi. Alice Allevi entra, ma non mi saluta. Mi schiva; ha una borsa più pesante del solito, i capelli più spettinati di sempre, gli occhi più vecchi di secoli. Lei, che è sempre stata golosa, non vuole il dolcificante nel suo tè: lo beve amaro, quasi per punire piano sé stessa, rinunciando a quelle zollette di zucchero che, come insegnava la saggia Mary Poppins, potrebbero cancellare ogni amarezza. O questa sua risoluta rinuncia è forse da attribuire a una qualche nuova variante della dieta Dukan che le ha rifilato la melodrammatica Cordelia, sua coinquilina, nonché sua ex-quasi-futura-cognata? Non le ho chiesto se era quel periodo del mese e, giuro, non ho fatto collegamenti di nessun tipo – sebbene sia contro la mia idiotissima natura – sulla concomitanza dell'arrivo suo e della Befana, quest'anno. Cosa c'è che non va, Ali? Mi rivela che è triste, e divento triste anch'io: il malumore, grigio, non è tra i suoi colori. Mi avverte di stare attento a quello che desidero, perché potrebbe avverarsi, un giorno: i moniti, paternalistici, non fanno parte della sua personale filosofia di vita. Ambra Negri Della Valle – la sua rivale in amore, il braccio destro della Wally, la sua più acerrima nemica - è scomparsa nel nulla: questo è il guaio. 
Tante volte, in ispirate invettive piene di fantasia, Alice le ha augurato di andare a cogliere fiori in un campo minato, di essere colpita da un fulmine a ciel sereno, di cadere nella tana senza fondo del Bianconiglio e di essere giustiziata, nel Bronx del Paese delle Meraviglie, dalla simpatica Regina di Cuori. Ma lei è l'immortale Ambra e quelle sono solo parole. Senza le sue chiacchiere e la sua voce da orticaria regna il silenzio, all'Istituto, e Alice non ha più muse che la ispirino nella coniazione di inespressi e nuovi insulti, o scuse per isolarsi con le sue cuffiette buone e ascoltare i Coldplay anche a lavoro. Senza Ambra, con la mano dalle unghie smaltate sempre alzata e la risposta sempre pronta, Alice – tragedia delle tragedie - è, indifesa e sola, nel mirino di una Wally che, puntualmente, perde la pazienza e che, crudelmente, con i suoi richiami lunghi e noiosi come sermoni domenicali, fa perdere ad Alice quei begli stivali in saldo, adocchiati in una vetrina del centro, di sfuggita, con il medesimo fiuto infallibile di un'eroina di Sophie Kinsella. L'Istituto è un regno. Lo spietato e affascinante Claudio Conforti è il principe, il dottor Malcomess è il vegliardo re, Arthur è un Lancilotto in visita ufficiale, la Wally è la matrigna brutta e cattiva. E Alice, un tempo, avrebbe voluto per sé il ruolo di principessa, ma i suoi piccoli disastri le hanno valso, suo malgrado, il pittoresco cappello del giullare di corte: colpa di quella volta in cui ha accidentalmente smarrito un cadavere, o quasi raso al suolo un bosco protetto con una sigaretta, o divelto la portiera dell'auto di Claudio, o risolto fortunosamente due casi e mezzo. In quell'autentico microcosmo, tra il tavolo autoptico e la macchina del caffè, gerarchie e lotte per il potere, passioni e tradimenti, dittature lampo e misteri sepolti.
Anche se nessun mistero è abbastanza grande per l'allieva e nessun segreto è destinato, come Alessia Gazzola ci ha insegnato, al per sempre. Quel regno moderno, costruito sotto il reale sigillo di Ippocrate e che ha, per segrete, camere mortuarie con prigionieri destinati a non avere più libertà, è scosso dal ritrovamento dei resti di una principessa senza nome. Ossa dimenticate, sepolte secondo un antico rituale proveniente da lontano, di cui restano giusto brandelli di un maglione rosso, una moneta per pagare Caronte, una macabra coroncina di plastica. Quel cadavere, un tempo, era una ragazza, con ricordi in comune con l'enigmantica Ambra e una vita sentimentale similissima a quella di Alessia: stessi amori sbagliati, stesse indecisioni, stessi cuori ulcerati e sospesi. Una ragazza che sognava il lavoro di Lara Croft, la felicità, l'Oriente. Questo nuovo caso - immancabile la supervisione del mitico ispettore Calligaris, ovvio - farà vivere ad Alice un'altra vita, diversa dalla sua, ma non troppo. Aprendo dispersivi messaggi di posta elettronica e le pagine di un'agenda piena di criptici indizi, la protagonista lascerà che le parole della vittima e i suoi occhi d'innamorata ormai chiusi, la guidino verso la verità, in un funzionale intreccio a più voci che si snoda tra dune, scavi archeologici e grandi ed infelici amori, dove colpi di scena, di testa e di cuore fan da padroni assoluti. 
Questo Le ossa della principessa è l'ultima avventura semi-seria di Alice Allevi: il risultato di una mattina, un pomeriggio e poco più trascorsi meravigliosamente in sua compagnia. Un resoconto - ora avventuroso, ora esilarante, ora insolitamente mesto – di un lungo anno trascorso lontano da noi lettori. Lontano da me. Ci siamo trovati cresciuti, cambiati: più adulti, ma con lo spirito amichevole e cordiale di sempre. La vita, nel frattempo, le ha portato tanti amici e qualche nemico; un po' di saggezza aggiunta, consapevolezze agrodolci, altri baci dati per colpa del cuore a un immaturo ranocchio che non è pronto ancora a diventare il suo personale principe azzurro. Misteri nuovi. Scoprire se i più sfuggenti siano quelli sulle scene del crimini o quelli raggomitolati, con cura grande, nel suo petto, richiederebbe la più approfondita delle indagini. E caccia spietata a Cupido sia! Alice, davanti a quel famoso té amaro, mi ha raccontato questo e altro, ma non dopo essersi alzata, aver aperto il mobiletto sopra il lavandino, messo a soqquadro biscotti, succhi e pacchi di cereali, e agguantato – tra pollice e indice – una zolletta di zucchero. Minuscola, ma in grado di far ingoiare aspre pillole. La Allevi è un po' così: stempera il giallo con una dolcezza che non fa danni, arriva senza invito, si muove tra le tue stanze come se fossero parte di casa sua, va via quando il suo compito è giunto al termine: magica, inaspettata, buffa, leggiadra come un elefante in un negozio di fragili bomboniere. L'ho adorata incondizionatamente, ancora una volta. Per i capitoli che, con grande originalità, hanno – per titolo - frammenti di canzoni di Adele, Mika, De André, Gotye, perfino Britney Spears; per nonna Amalia e le sue intuizioni, Cordelia e la sua “vuotite” acuta, Yukino e le sue comiche traduzioni dal giapponese, Claudio che le dà un'autopsia come regalo di compleanno e Arthur che, invece, non le regala proprio nulla. E ho adorato, ancora una volta, Alessia Gazzola. Non l'ho dimenticata. E' che finisco per confondere il nome del suo personaggio con il suo, la verità e la finzione. Le adoro per questo. Soprattutto per questo. Mi era mancata Alice. Mi eri mancata, Alessia.E io non riesco a resistere all'impulso di approfondire: è come una forma di cleptomania intellettuale. O di incontinenza emotiva. O entrambe.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lorde – Royals

sabato 11 gennaio 2014

Mr Ciak #26: Carrie, How I Live Now, The Spectacular Now, I sogni segreti di Walter Mitty

Ciao a tutti, amici! Come state? Dalle mie parti, tutto bene: in panico per il primo esame, come sapete, ma per il resto non posso lamentarmi: questa mattina, pieno di buone intenzioni, mi sono svegliato più presto del solito, ma, trascinato dei miei genitori, sono andato a fare spese. Impossibile trovare una M – chiedere una S sarebbe tanto, lo so – tra le T-Shirt e le camicie, ma sono stato fortunato nel reparto calzature e giacche: viva Piazza Italia! In anteprima, per tenervi aggiornati, sto leggendo l'attesissimo Le ossa della principessa – a breve la mia recensione - e, anche se in questi primi giorni di gennaio le mie letture procedono un po' lentamente, sto guardando tanti, tanti film. E quasi tutti degni di nota. Oggi, ho deciso di parlavi di quattro trasposizioni cinematografiche: Carrie – tratto dal primissimo romanzo del Re – non ha bisogno di presentazioni e arriverà nei cinema proprio la settimana prossima; How I live Now è tratto da Come vivo ora, un discusso young adult edito dalla Feltrinelli; The Spectacular Now – il titolo in assonanza è una coincidenza, giuro – è L'attimo perfetto, portato in Italia dalla Piemme Freeway. Questi ultimi, purtroppo, non hanno ancora una distribuzione da noi. Ultimo ma non ultimo, I sogni segreti di Walter Mitty, basato sull'omonimo romanzo di James Thurber, edito dalla Bur. In attesa delle vostre impressioni, vi saluto. Un abbraccio, M.

Sul poster americano, a grandi lettere, sul viso insanguinato di una ragazza dagli occhi profondi come l'abisso, capeggia una scritta che dice così: Tu conoscerai il suo nome. E il suo nome lo conosciamo, tutti. Escludendo le poche e (im)perdonabili spettatrici che, probabilmente, penseranno, in prima battuta, alla trasgressiva e nota protagonista di Sex & The City, tutti tengono bene a mente il nome di battesimo di questa adolescente, così timida e così incredibilmente potente. Viene naturale: uniamo Carrie al sottotilo Lo sguardo di Satana quasi istintivamente. E' così da quanto, nel 1974, un giovincello ancora sconosciuto pubblicò un romanzo destinato a lunga vita e due anni dopo, Brian De Palma – uno dei più grandi cineasti viventi – lo portò al cinema, con una giovanissima Sissy Spacek, nei panni della protagonista assoluta, e uno scrittore destinato a una carriera leggendaria nei titoli di testa. Stephen King. Da allora, Carrie è di continua ispirazione per registi e romanzieri. Conosciamo la storia un po' tutti e, sotto altri nomi e in tutte le salse possibili, le vicende talora tristi e talora terrificanti di Carrie White sono state più volte riprese. Un remake, dunque, era l'ultima cosa da proporre. Semplicemente, non era indispensabile. Il film di Kimberly Peirce indispensabile, effettivamente, non lo è proprio, ma – su molti fronti, tutti – è validissimo. Riproposta ai giorni nostri, infatti, una delle storie più note in assoluto risulta attuale e verisimile come non mai: sarà che i capolavori veri non invecchiano e che King è sempre King. Un re, punto e basta. Non vi nascondo che non ho mai apprezzato la versione di De Palma fino in fondo, proprio come non ho mai visto nello Shining di Kubrick una trasposizione degna di un altro grande horror, perciò, per me, il lavoro del regista del recente Passion e dell'intramontabile Gli intoccabili, perdonate il gioco di parole, non era propriamente intoccabile. Il film originale, diretto da un uomo, calcava molto sui toni più cupi e orrorifici della storia e, a mio parere, lasciava percepire poco il dramma dell'adolescente e il suo rapporto malsano con la figura materna. Kimberly Peirce, donna, dirige un film che ruota attorno a due donne, solide figure chiave di una casa degli orrori. Reduce dai trionfi ottenuti col suo controverso Boys Don't Cry, con forza e sensibilità, torna a parlare d'adolescenza, facendo del romanzo di King un manifesto – attuale come mai prima d'ora – contro il bullismo e la violenza. Gli aguzzini di Carrie, in questo remake, sono ancora più crudeli, perché ne hanno i mezzi: hanno telecamere con cui riprendere le umiliazioni subite dalla povera protagonista, proiettori portatili con cui farle rivivere i momenti più atroci, social network sui quali diffondere le sevizie con le quali la perseguitano. Inoltre, l'impeccabile e diretto incipit, con la giusta brutalità, porta lo spettatore nella mente deviata e confusa di una madre bigotta, con le fattezze di una Julianne Moore, come sempre, in stato di grazia, piena di tic, fobie, manie. E' trasandata, è struccata, è grigia e, sotto i suoi vestiti neri, nasconde i tagli che, a causa di un forte senso del peccato, si auto-infligge. La Chloe Moretz di Kick Ass e Lasciami entrare, con i suoi soli sedici anni e una biografia di tutto rispetto, è sua figlia; una sua vittima. La nuova Carrie, quindi, ha un volto più bello e tratti più dolci della precedente, ma l'aver scelto Chloe non è stata poi una tale scommessa: è bella, vero; ma convince immediatamente con le sue insicurezze, con i suoi occhi bassi, con la sua timidezza, con la sua rassegnazione muta che è pronta ad esplodere in una furia senza fine. Diventerà una grande attrice. Espressiva e convincente, porta sullo schermo una Carrie che, in maniere saggia, non è stata resa a forza, da truccatori e sceneggiatori, un caso umano: lei è una di quelle ragazze inconsapevolmente splendide, ma che – riflesse negli occhi degli altri – si sentono brutte e fuori posto. Perché non sono su Facebook, perché non hanno una mamma al passo coi tempi, perché non hanno i jeans a vita bassa, un fidanzatino e il cellulare di ultima generazione. Pur con i suoi poteri paranormali, in realtà, è la protagonista di uno dei troppi casi di cronaca nera: un'adolescente messa con le spalle al muro che si arma e, nei corridoi del suo tranquillo liceo, mira e fa fuoco. Bang! Gli effetti speciali sono utilizzati con un'insolita intelligenza e il gore è presente, ma nei momenti giusti. La famosa strage del ballo di fine anno, cruda e brutale, è perfetta. Ottimi, per un teen horror, anche i comprimari: una nota positiva, infatti, per l'angelica Gabriella Wilde (prossimamente, in Un amore senza fine), la frizzante prof. Judy Greer e la rivelazione Ansel Elgort. Rivelazione perché il suo è uno dei pochi personaggi autenticamente buoni della storia e rivelazione perché – con la sua naturalezza appena scoperta – in questo 2014, reciterà nelle trasposizioni cinematografiche di Divergent e Colpa delle stelle. La struttura ad anello del film, infine, è studiata in maniera particolarmente meticolosa ed efficace. Nota leggermente stonata, l'ultimissima sequenza: ma è pur sempre un horror prodotto dalla commercialissima Screen Gems, quindi è nei patti. Due magistrali interpreti femminili, dunque, per una storia che, anche se nota dall'inizio alla fine, sa sorprendere sempre, dare nuovi brividi e nuovi spunti su cui riflettere. Tutti, alla fine, vorremmo per Carrie un finale diverso e vorremmo vederla protagonista di una di quelle commedie sentimentali in cui il brutto anatroccolo diventa cigno. Qui, diventa uragano. Stephen King, onnipresente e leggendario, da maestro dell'orrore indiscusso, si mostra, quindi, anche un acuto conoscitore di quei mostri spietati che la società odierna chiama adolescenti.

Come vivo ora è un romanzo di Meg Rosoff. Uno young adult controverso che, nei primi tempi, aveva fatto tanto parlare di sé: alcuni lo avevano amato, altri odiato, altri abbandonato, altri mal digerito. Era una confusione di periodi e di pensieri slegati, caratterizzati da una quasi totale assenza di segni di punteggiatura. Il diario segreto di un'adolescente e il suo resoconto su un'estate da ricordare, o forse da dimenticare: la peredità della verginità, dell'innocenza, dell'infanzia su uno sfondo vagamente distopico, a metà tra Alba Rossa e Il domani che verrà. Non ho letto il libro, ma voglio farlo. E volevo aspettare, per vedere il film, ma non l'ho fatto. Senza poter parlare delle differenze e delle analogie con il libro omonimo, vi parlerò di How I live now come fosse un film comune, non una trasposizione. E, immediatamente, vi dirò, così, che mi è piaciuto. Molto, anche. Si parla di adolescenti, è raccontato da adolescenti, ma – sin dai titoli di coda, rossi e ingombranti – si capisce che non è una produzione esclusivamente per i più giovani. Alla regia c'è lo scozzese Kevin McDonald, autore di L'ultimo re di Scozia e The Eagle, e, nei panni della sedicenne Daisy, c'è Saoirse Ronan: sempre in ruoli impegnatissimi, sempre in parte, sempre impeccabile. Il suo personaggio, complesso e articolato, è simbolo di un'intera generazione, summa dei pregi e dei difetti dell'adolescenza di oggi: il trucco pesante, la frangia biondo platino, le cuffie perennemente premute nelle orecchie, l'incomunicabilità con gli adulti e il cattivo rapporto con la natura, nonostante le infantili e fasulle pretese di essere una vegetariana convinta. Non sappiamo quando, non sappiamo perché, ma lei, dall'America, prende un aereo per l'Inghilterra: che qualcosa non quadra lo comprendiamo all'istante. Controlli di sicurezza eccessivi agli aeroporti, aeri di guerra che squarciano il cielo nuvoloso e la pace della brughiera inglese, servizi ai telegiornali, in sottofondo, che parlano di attentati e stragi. Non sappiamo quanto sia lontano il futuro in cui Daisy vive, ma sappiamo che il mondo è in guerra – ancora – e che tutto fa tanta paura – ancora. Abituata a vivere in città e abituata a litigare con un padre che non la tiene in considerazione, la sedicenne si trova in un luogo sospeso, dov'è sempre estate, i più piccoli portano avanti le faccende di casa e si vive in stretto contatto con una natura da cartolina. Vive con i due cugini più piccoli, un loro amico d'infanzia, e con Edmond, il più grande della famiglia. Gli adulti non ci sono, non più. Lei s'innamora, fa l'amore sotto le stelle, ride, ignara dell'arrivo imminente della catastofe. Perché la guerra li separerà, tutti; la guerra la porterà lontana da Edmond. How I live now è un film molto personale, dal carattere spiccato e pieno di complessità notevoli. Il caos nella mente della protagonista è reso in maniera giovanile e originale e, spesso, i protagonisti, grazie a una fotografia sublime e cristallina, sono inquadrati in scene visivamente perfette. Curatissimo sotto questo punto di vista, il film di McDonald sa essere anche incisivo e brutale, in alcune scene in cui il candore viene macchiato dal sangue, la brughiera bombarda dal nulla e la purezza di un giovane amore messa a dura prova dalle mille avversità della vita. Magnifica e impressionante la sequenza in cui una Ronan turbata e in lacrime cerca il viso del suo Edmond in una pila di piccoli cadaveri, in balia degli agenti atmosferici. Mi ha fatto pensare. E ho pensato un po' a Il canto della rivolta, soprattutto nel finale, e un po' a Espiazione; un po' a Never Let me go e un po' al Leone, la Strega e l'Armadio, perfino. How I live now è la guerra vista dagli occhi di una ragazza, che impara ad impugnare una pistola, ad essere altruista, a riflettere prima di parlare. Un romanzo di formazione ricco ed intimista, che sa di vita vera, mai di fantascienza, con attori credibilissimi e pieno di scelte sagge. Nel cast, accanto a un Ronan sempre magistrale, il quattordicenne Tom Holland, con i suoi occhialetti alla Harry Potter e le sue premure infinite: piccolo, grande protagonista di The Impossibile. Un pugno al cuore, che parla di quelle forme d'amore che sanno condurti sempre a casa. Un film da Giffoni Film Festival, quasi. Interessante su molti fronti, importante su tutti. Lo farei vedere, nelle scuole, in occasione della Giornata della Memoria: per vedere qualcosa di diverso, su una guerra terribile che forse accadrà o forse è già accaduta troppe volte.

Alcuni film sai che ti piaceranno. Lo sai a pelle. Anche se hai visto trailer in cui hai colto appena qualche parolina di sfuggita, anche se la trama promette poco e niente, anche se sembrano raccontare storie come tante. Pensavo che The Spectacular Now – con quel titolo stupendo e quella copertina vaga, comune e bellissima – fosse tra quelli. Decidermi a vederlo è stato un dramma, però. Letteralmente: perché The Spectacular Now altro non è che la trasposizione cinematografica di L'attimo perfetto, di Tim Tharp. E io volevo aspettare, volevo leggere il libro, ma volevo tanto guardare, e così tanto, anche il film. Così – dilemma dopo dilemma – l'ho visto e basta. Purtroppo, pur essendo nelle mie corde, pur avendo quel ritmo e quello spirito che piacciono particolarmente a me, non mi è arrivato. L'ho trovato distaccato, freddo, distante. E ho trovato distante i protagonisti: tra loro, da me, dalla fresca storia d'amore che stavano vivendo. I personaggi – tutti liceali – sanno di vecchio, come le fiaschette piene di liquore che si portano dietro. E Miles Teller, alto e dinoccolato, nato nel 1987, non ha più l'età e il volto per interpretare un diciottenne. Accanto a lui, Shailene Woodley, a breve onnipresente sui nostri schermi: lei, che di anni ne ha ventidue, è appena un po' più credibile, col suo viso acqua e sapone e ancora punteggiato da qualche persistente brufolo, ma – come il suo partner – non ha fascino. I due attori, infatti, per quanto discreti, non hanno quei volti capaci di bucare lo schermo, e non mi riferisco al loro aspetto fisico. Non sono due bellezze, vero, ma a me piace vedere la normalità arrivare nelle produzioni americane. Il difetto è che non hanno brio, grinta, feeling. Carisma: zero. Sono sfocati, incompleti, e passano inosservati ed in secondo piano, anche se quello dovrebbe essere il loro film. Il loro spettacolare adesso. Reggono bene i tanti dialoghi, risultano buffi nella sequenza che li vede a letto insieme per la prima volta, ma non suscitano né emozione, né empatia. Come personaggi secondari, spalle di attori più noti, che si trovano ad avere, tra le mani, il copione con il ruolo più ambito. Sfocati loro, sfocati i comprimari: palesemente adulti nell'aspetto, palesemente fuori posto. La trama è sottilissima, il ritmo è piuttosto lento, il cast non convince. Potrebbe risultare carino, magari, ma non mi spiego la media altissima che vanta su Imdb: 7.5 al pari di grandi commedie indipendenti di cui quella di questo James Ponsoldt (Smashed) non è decisamente all'altezza.

Un film per coloro che vivono avventure più belle nella loro mente che nella realtà.
Un film per coloro che, anche a quarantadue anni, si sentono ancora ragazzi da parete, dentro. Un film per coloro che, anche se in piena mezz'età, vivono le svolte di un emotivo e divertente romanzo di formazione. Questo è I sogni segreti di Walter Mitty. E io, un po', sono Walter Mitty. E lo siamo tutti, quando lasciamo che i buoni propositi rimangano propositi e basta; quando facciamo sì che la paura ci impedisca di partecipare al “gioco”; quando lasciamo che “Baby sia messa in un angolo” e non mandiamo al diavolo una canaglia di datore di lavoro, e non diciamo alla ragazza che ci piace che oggi è uno splendore assoluto, e non prendiamo un aereo per i confini del mondo e dell'avventura. E' definito “il nuovo Forrest Gump”, l'ultimo film di e con Ben Stiller, ma non ne ha la complessità, le sfumature, la storia, i bagagli pieni di ricordi. Ma, che il paragone sia valido o meno, il remake del Sogni Proibiti datato 1947 risulta una commedia efficace e funzionale, utile e ottimista, con un budget da autentico action movie hollywoodiano, scenari mozzafiato da film d'avventura, misteri da spy story, sorrisi e respiri a pieni polmoni da rom com. Con la fantasia si può fare tutto e l'immaginazione può costruire i migliori paesaggi, articolare gli intrecci più floridi, coreografare i combattimenti più distruttivi e spettacolari. La fantasia e l'immaginazione, o la 20th century fox di Vita di Pi a produrre e il regista del costoso Tropic Thunder a dirigere il tutto. Ho scoperto un Ben Stiller dallo sguardo limpido e acuto e dalla sensibilità spiccata, lontano – ma non troppo – dagli strafalcioni dei suoi più noti film comici e vicinissimo, invece, a qualcosa che ha il sapore della vita vissuta. Simpatico e romantico, imbranato e con la testa letteralmente tra le nuvole, interpreta un uomo che, solo quando è troppo tardi, si accorge che è tempo di cambiare. Che è giunto il momento di diventare protagonista del romanzo più importante e chiacchierato: la sua vita. Paesaggi lontani immortalati da una fotografia splendida, vette altissime e popolate da animali invisibili agli occhi, una misteriosa foto mancante e la voce di un operatore telefonico, insieme al viso della sempre adorabile Kristen Wiig, scandiranno le tappe di un viaggio fisico e spirituale, in cui uno sfuggente Sean Penn gli farà da guru, la dolce Shirley MacLaine da mamma e l'indimenticabile Space Oddity di David Bowie da leitmotiv. Ben Stiller si dimostra un bravo regista e un bravo attore e il suo ultimo lavoro, così pieno di saggezza, ottimismo, speranza, grazia, fantasia, è una bella botta di vita. Perché, sì, ogni tanto ci vuole.

mercoledì 8 gennaio 2014

Recensione: Albion, di Bianca Marconero

Buongiorno a tutti, amici miei! Ufficialmente, diamo il via all'anno nuovo con la prima lettura di questo lungo 2014. Un romanzo che mi hanno consigliato tanti colleghi e che, spesso e volentieri, mi avete consigliato tanti di voi: sono arrivato tardi, lo ammetto, ma l'ho letto. Quello è l'importante! La recensione, purtroppo, arriva più tardi del solito: causa studio. Presto, inoltre, vi aggiornerò sugli ultimi film visti: mi ritengo fortunatissimo. Tra il remake di Carrie e Saving Mr Banks, Blue Jasmine e How I live Now, mi sto imbattendo solo in cose belle. Buona lettura e un abbraccio, M.
Sconfiggere un nemico non significa sconfiggere il male. E suo nonno sapeva che il male non muore mai. Ma per fortuna anche la sua antitesi è immortale. Il bene è un'araba fenice che risorge dalle proprie ceneri.

Titolo: Albion
Autrice: Bianca Marconero
Editore: Limited Edition Books
Numero di pagine: 398
Prezzo: € 14,90
Sinossi: Cresciuto senza madre, e dopo aver perduto il fratello maggiore - morto in circostanze misteriose -, nel giorno del funerale dell'amatissimo nonno, Marco Cinquedraghi riceve la notizia che gli cambierà la vita: deve lasciare Roma e partire per la Svizzera. È infatti giunto il momento di iscriversi all'Albion College, la scuola in cui, da sempre, si diplomano i membri della sua famiglia. Ma il blasonato collegio riserva molte sorprese. Tra duelli di spade e lezioni di filologia romanza, mistici poteri che riaffiorano e verità sepolte dal tempo che riemergono, Marco scoprirà il valore dell'amicizia e capirà che l'amore, quello vero, non si ottiene senza sacrificio. Nelle trame ordite dal più grande dei maghi e nell'eco di un amore indimenticabile si ridestano legami immortali, scritti nel sangue. Fino all'epilogo, tra le mura di un'antica abbazia, dove Marco conoscerà la strada che le stelle hanno in serbo per lui. Il destino di un re il cui nome è leggenda.
                                                        La recensione
E' un'impresa non da poco giudicare coloro che conosciamo. E' difficile dire alla nostra migliore amica, ad esempio, che il suo ragazzo è un impiastro totale, o far sapere al nostro amico d'infanzia che quel taglio alla moicana così audace decisamente non era quello di cui i suoi capelli impettinabili avevano bisogno. Ci si sente combattuti. Ci si sente... infami. Da quando il blog ha vita, tra le mie amicizie, sono entrati, con mia grande gioia, a far parte anche autori pubblicati; cosa che – appena due anni fa – non avrei immaginato nemmeno nelle mie più rosee e lontane aspettative. Solitamente, però, queste amicizie virtuali sono esclusivamente nate dopo le mie recensioni. Difficile, infatti, che resistano a un parere educatamente onesto, ma categoricamente negativo. Storia vera. Così, le mie amicizie di Facebook diminuiscono tristemente, diplomatica stroncatura dopo diplomatica stroncatura. E' difficile avere una donna per amico, cantava Battisti. Ancora più difficile, aggiungerei io, è avere uno scrittore per amico. Questa lunga e vaga premessa, per dire che conoscevo virtualmente Bianca Marconero ben prima di leggere il suo Albion. Avevo letto, fino ad ora, soltanto i suoi resoconti delle gite di famiglia al cinema, i suoi stati spesso brillanti e pungenti, i suoi commenti sempre puntuali ed approfonditi sui romanzi che aveva letto e sui film che aveva recuperato: piccole e spontanee cronache delle sue giornate di mamma e autrice a tempo pieno. Insieme, inoltre, abbiamo parlato a lungo delle nostre dipendenze più dolci e irrinunciabili e preso parte ad iniziative su libri che avevamo puntualmente adorato. Lei e il suo romanzo sono stati il mio piacevole strappo alla regola. Ho conosciuto, infatti, prima la persona e poi l'autrice e, paradossalmente, ho preso in mano il suo libro d'esordio, sicurissimo che non mi avrebbe deluso, solo dopo tutto il resto - consapevole della nostra smodata venerazione per J.K Rowling, e le felpe sformate con gli smile disegnati sopra, e i romanzi per ragazzi; ma quelli belli, belli, belli. Ho domandato a me stesso “E se poi non mi piace...?”, troppo tardi, quando già avevo chiuso il romanzo, tutto sorridente e soddisfatto. Il dubbio, infatti, con una storia così ben scritta e dinamica, non aveva ragione d'essere, e ho avuto la fortuna di capirlo dal primo di ben settantasei, velocissimi capitoli. Quei capitoli numerosi, vero, ma che - brevi, affilati e celeri - erano esattamente del tipo che piacciono a me, sebbene, spesso e volentieri, non abbia apprezzato, in verità, la scelta di dar loro un titolo: unica pecca. Mi sono imbarcato in questa avventura ad occhi chiusi, non sapendo assolutamente dove mi avrebbe portato. In dorso a un destriero bianco, su una bicicletta sgangherata, a bordo di un treno arrivato in ridardo... ma verso dove? Il titolo parla chiaro e parlano chiaramente i personaggi, con i loro cognomi altisonanti e i loro destini indissolubilmente annodati. Albion, una scuola esclusiva e antichissima, costruita nel verde fitto della Svizzera odierna, è la cornice suggestiva e riccamente intarsiata in cui, insicuri e agili, romantici e agili, si muovono questi eterogenei cavalieri in erba, perennemente a rischio di bocciatura. Albion è il nome dimenticato della Gran Bretagna e, in questo racconto che parla di leggende nuove e antiche, ogni cosa ha il suo perché: il Caso, sappiatelo, non esiste. E io, dal mio canto, non pensavo potesse esistere qualcosa capace, dopo anni e anni di vani tentativi, di farmi andare a genio gli intrighi e le magie del ciclo arturiano: ho abbandonato Merlin alla seconda stagione, ho rinunciato ai primi piani mozzafiato di Eva Green in Camelot, ho visto secoli fa La spada nella roccia e la saga di Marion Zimmer Bradley, stranamente, è una delle poche a non essersi mai affacciate nella mia wishlist. 
Il segreto è da cercare, con tutta certezza, nella freschezza unica dell'intreccio della Marconero. Bianca ha spolverato vecchie, spettrali e cigolanti armature; ha fatto dell'arcaica Tavola Rotonda molto più che un monumento dedicato alla tradizione; ha fatto incontrare, su un terreno neutrale e tutto nuovo, i mitici personaggi del ciclo bretone e gli altrettanto mitici personaggi della saga di Harry Potter. Ha unito, con passione grande, due sue grandi passioni. E l'ha fatto tra le righe, in filigrana, con rispetto e inventiva, originalità e spigliatezza da vendere. Tra un genitore e un'insegnate, tra una spadaccina modello e una critica d'arte, si muove morbida e sicura, senza intoppi, tra rievocazioni di curatissimi dettagli architettonici e duelli, lotte e liti tra futuri migliori amici. Si avvale di una sintassi perfetta e ha un linguaggio – talora forbito, talora simpaticamente vivace - che sa adattarsi straordinariamente ad ogni situazione. I dialoghi sono realistici e i toni, mai forzatamente epici o inutilmente sensazionalisti, sono quelli giusti. Giocosi, ma adulti, a volte, nella descrizione di un'adolescenza vista senza “lenti rosa”, in cui gruppi di studenti chiacchierano, con normalità assoluta, davanti a una pinta di birra gelata, si stuzzicano con classici doppi sensi, discutono verosimilmente di sesso, vita, amore. 
Mi è sembrato di sentirli parlare, di udire le loro voci risuonare nelle mie orecchie, a lezione, a letto, al bar: la loro simpatia e i loro accenti tanto diversi mi hanno conquistato. Il plurilinguismo suggerito da Bianca, infatti, mi ha profondamente divertito e tutti i fanatici dei serial in lingua, come il sottoscritto, avranno pensato al fitto e biascicato accento irlandese dell'adorabile Deacon, all'irrinunciabile r alla francese del galante Lance, ai musicali risultati dello spanglish dell'indefinibile Helena, alla fortissima cadenza romana dell'odioso Marco Cinquedraghi. Si salta da un punto di vista all'altro e, nonostante i tempi siano piuttosto dilatati, i risultati sono brevissime e affascinanti soggettive dal sapore cinematografico che non disorientano, catturano. Come ogni romanzo introduttivo che si rispetti, Albion concentra i suoi colpi di scena migliori negli ultimi capitoli e, nel frattempo, dà vita e infinite gradazioni di colore ai riuscittissimi personaggi che incontreremo nei volumi venturi. Compreso Marco, e non ho intenzione di rimangiarmi quello che ho detto: perché lui è odioso, con fastidiosa consapevolezza. Ma mi ci sono affezionato, e non come si fa con un'unghia incarnita o una pustola purulenta con cui impari, tuo malgrado, a convivere. La voglia di prenderlo a botte con una padella rovente, pian piano, diminuisce; e quella padella rovella diventa, gradualmente, una scarpa, una ciabatta, un cucchiaio di legno, un pugno... un leggero schiaffetto. Niente sconti di pena, però: un manrovescio è il minimo sindacale! Rende Helena collerica, instabile, irascibile e le procura dolorosi incubi. E dà filo da torcere a Deacon: magro come un chiodo, alto come un armadio, con un trench larghissimo che, nel vento, sembra il mantello di un impavido supereroe, e un fare da nerd che lo rende universalmente piacevole. Albion è uno young adult con cappa e spada, in cui l'impresa più eroica che un futuro cavaliere possa compiere è quella di barattare un Rolex per una bici: tutto pur di raggiungere la sua amata dama, in balia non di un drago cattivo, ma dei mezzi pubblici e di una compagnia a cui, altrimenti, mancherebbe l'obbligatorio attaccabrighe di turno.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Coldplay – Clocks