lunedì 30 luglio 2018

Recensione: Montpelier Parade, di Karl Geary

| Montpelier Parade, di Karl Geary. Playground, € 17, pp. 234 |

Essere adolescenti nella Dublino del cinema di John Carney e Jim Sheridan. Gli anni Ottanta che si fanno fatica a riconoscere, all'apparenza sbucati dalla miseria del dopoguerra, e le case come nidiate stipate di uccelli emaciati. Sonny, sedici anni, ha la sfortuna di essere il più piccolo della sua famiglia: figlio di due genitori ormai anziani, anestetizzati sempre dagli stessi litigi e dalle false lusinghe della TV; ultimo di una lunga e anonima sequela di fratelli maggiori. Difficile concedersi il lusso della solitudine in una casa affollata quanto la sua. Difficile mettere da parte qualche spicciolo per una fuga verso l'indipendenza. Attraverso il bellissimo impiego di un narratore di seconda persona, leggiamo così degli anfratti segreti in cui il protagonista nasconde risparmi dalla vita assai malsicura; di un personaggio a metà fra il Marcus di Indignazione e Il giovane Holden, che si trascina inquieto in una Irlanda apatica e modesta, con le sigarette e il coltellino a serramanico in tasca, le mani ciondoloni sempre sporche di rosso – inchiostro, sangue, vino, polvere di mattoni. Ruba pezzi di biciclette per assemblarne un giorno una tutta sua, come il risparmio e la piccola delinquenza esigono. S'imbuca in sale in cui proiettano film pornografici, con dell'alcol di contrabbando imboscato sotto il giaccone. Ribolle, sentendosi perennemente fuori posto, e poi in silenzio minaccia lacrime. La faccia serafica che si ritrova non gli calza a pennello, non pare appartenergli. Gli permette però di evitare risse e discussioni all'occorrenza, di fingersi laconico o prestare inosservato ascolto alle parole sconce di adulti che desidererebbero scandalizzarlo parlando di sesso. È una storia di perdita dell'innocenza, la sua: di iniziazione all'amore. Un doppio apprendistato che passa prima dalla macelleria in cui lavora come garzone dopo la scuola, poi da un quartiere residenziale diventato status symbol.

Porti con te il pezzo di carta nel retrobottega, e prima di ripiegarlo con cura e infilartelo in tasca, leggi il suo nome, ma non ad alta voce, perché è qualcosa che desideri tenere per te. Vera.

Ricostruire un muretto in una villa di ricchi lo mette sulla strada di Vera: padrona di casa raffinata e distante, adulta e malinconica come le Malena e Carol degli omonimi film, che brilla di luce propria come una diva hollywoodiana; fuma per il gusto sadomasochistico di autoannientarsi; fa sesso come se non ci fosse un domani, e come se non ci fosse un domani è attratta inesorabilmente dai flaconi di antidepressivi nascosti dappertutto. Innamorarsi di lei, e per di più corrisposto, è un vortice che ora sembra una gita interminabile – i viaggi in macchina, le passeggiate per musei e le letture a voce alta di T.S. Elliot, l'attrazione mista a repulsione per una coetanea così simile alla parte peggiore di Sonny e così diversa dall'ereditiera abbandonata –, ora l'abisso. Quella che sembrava una scorciatoia fortuita è invece l'inizio di una personale via crucis. Quel quartiere, quella casa, no, non fanno la felicità.

«La prima volta che mi sono sposata ero molto giovane, poco più grande di te. All'inizio è stato bellissimo, poi triste. Ma è successo tutto molto in fretta. Anche la seconda volta è stato bellissimo, e poi triste, ma ci è voluto un mucchio di tempo per superarlo.»
«Non sarà mai bellissimo senza essere triste?»

Tutt'attorno, matrimoni precoci perché riparatori; matrimoni finiti, e per ben due volte; matrimoni che si tengono in piedi a stento, con una madre che lava piatti tutto il giorno e un padre incantato dalle malie del tubo catodico. L'amore non esiste, o comunque ci si crede soltanto fino ai sedici anni. Ma non si crede, al contrario, all'istruzione, alla cultura: il protagonista taglia carne e lucida banconi, in fondo, no? Fa carta straccia della sua borsa di studio, della sua seconda opportunità. Andare fuori, lontano: ma dove? Sonny è davvero migliore di tutti loro? E Vera: lei è forse l'eccezione alla regola?

Il tempo guarisce ogni ferita, lo dicono tutti.

Prezioso e struggente, l'esordio di Karl Geary – attore, regista, sceneggiatore – è lo splendido ritratto di un'età in bilico. Di un paese sul precipizio, dove i treni sfrecciano ma non fanno mai tappa. Che ne sanno i piedi, però? Che ancora scalciano per portarti a galla. Che ancora, nonostante tutto, corrono verso il miraggio sbiadito di lei. Non c'è via d'uscita da questa Dublino. Non una che passi, almeno, dal viale dei sogni infranti di Montpelier Parade.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Cat Stevens – The First Cut is the Deepest

venerdì 27 luglio 2018

Mr. Ciak: Oltre la notte, Unsane, Amiche di sangue, Euphoria, Quello che non so di lei

Fanno tenerezza i ribelli che si accasano in nome della famiglia. Fanno tenerezza Katja e suo marito: lei tatuatatissima, sotto i vestiti di tutti i giorni; lui ex spacciatore turco, ex galeotto, che ha scelto infine il posto fisso e un figlio da crescere. Il loro sogno di normalità, purtroppo, è pronto a a scoppiare all'improvviso al tempo degli attentati dappertutto. Una bomba imbottita di chiodi ha ammazzato padre e figlio. Restano una mamma che piange, strepita e non sa andare avanti; un'elaborazione che passa dallo stordimento degli oppiacei alle lamette sui polsi. Oltre la notte, vincitore del Golden Globe per il Miglior Film Straniero e misteriosamente mai arrivato alla prestigiosa cinquina da Oscar, è una tragedia in tre atti: ci sono prima il lutto e le indagini, in una Amburgo piovosa e piena di pericoli (fondamentalisti, neonazisti, usurai, pusher); poi il processo contro la diabolica coppia omicida, che amaramente mette al vaglio il ricordo delle vittime innocenti e non i colpevoli; alla fine un viaggio in Grecia, al mare, in cerca di giustizia quando la giustizia fallisce. Ho pianto lacrime di rabbia insieme a un'incredibile Diane Kruger, confusa e pazza di dolore. E mi sono lasciato scuotere e spossare da un thriller devastante, che si muove fra le notizie allarmanti della cronaca nera e pensieri di vendetta, avendo dalla sua l'intelligenza e lo sguardo del cinema d'autore. La Kruger, così, non diventa mai un'eroina bad-ass in lotta contro il sistema corrotto. L'occhio per occhio, dente per dente resta uno sbocco da film hollywoodiano. Il revenge movie secondo Fatih Akin procede invece inesorabile. Oltre la notte non ci sono schiarite o assoluzioni, non c'è mai pace. Neanche quando il sole a picco del Mar Ionio sembra brillare perfino sulle nostre sciagure. (7,5)

Un film girato con l'iPhone. Dopo Sean Baker, chi era l'ondivago Steven Soderbergh (che senza un preciso disegno passa dagli spogliarellisti ai trafficanti, dai casinò all stars ai biopic di successo) per non provarci a sua volta? Per non mettersi in gioco, e per di più con la complessità del thriller? Nasce così Unsane. Una giovane donna perseguitata, sette giorni di ricovero forzato in un istituto psichiatrico, la scoperta che il suo infallibile stalker si sia infiltrato fra i membri del personale. La vittima e il carnefice si confonderanno nel finale, passando dalla parte del torto. Dalla parte del folle. Chi va con il pazzo, parafrasando il famoso proverbio, impazzisce? Stalking e malasanità: la carne al fuoco è in realtà così poca da non saziare. Ma Soderbergh è una volpe, e sa affascinare e distrarre con un incubo sotto psicofarmaci dai ritmi ossessivi. Bastano uno smartphone. Un'attrice sulla buona strada per diventare grandissima. Un'idea che avrebbe senz'altro avuto bisogno di maggiore appeal. Il mezzo, Claire Foy e la fama del regista, dunque, ora motivano, ora sovrastano un film altrimenti fragile, canonico e frammentario, che sorprende soltanto per l'eleganza e la fermezza della direzione. Unsane, alias lo spot per iPhone più lungo mai realizzato, angoscia e mantiene sempre il controllo, mentre la Foy al contrario sbarella da manuale. Peccato per la banalità della sceneggiatura: scritta con il T9, per amore di coerenza. (6)

Ha uno scioglilingua per titolo. La distribuzione italiana, per una volta non troppo a torto, ha ribattezzato così Thoroughbreds semplicemente Amiche di sangue. La trama, con quel titolo nostrano che no, non fa misteri di sorta, è presto detta: una casa da rivista, una vicinanza all'inizio poco gradita, un piano criminale un po' per vendetta e un po' per capriccio. Al centro di lunghi piani sequenza che ne accentuano bellezza e bravura, Anya Taylor-Joy e Olivia Cooke sono due diciassettenni al limite. Algide come le vergini del cinema di Sofia Coppola, irrequiete e imprevedibili quanto la strana coppia del recente The End of the Fucking World, scoprono un hobby comune: l'omicidio. Per fortuna, da che costrette a frequentarsi per qualche ripetizione pagata profumatamente, si ritrovano complici contro l'antipatia gratuita del padrigno della Taylor-Joy. Ne abusa, chiederete voi? In una commedia nera che fa il verso a Schegge di follia ma nel mentre sfoggia a sorpresa la raffinatezza di Stoner, gli alibi mancano e lo spunto di partenza è un pretesto come un altro per godersi dialoghi a sangue freddo, l'ultima interpretazione del sicario Anton Yelchin e la prima volta alla regia di Cory Finley, che sa fare la differenza a colpi di innata eleganza. Si desidera la morte di un parente acquisito perché fa un rumore infernale allenandosi in una stanza adibita a palestra. Si confida nella fermezza di una Cooke in cerca di un senso, di un'opera buona, a cui svelarsi a tratti nella verità del pianto o nel bisogno di una compagna sincera. Ma in un ibrido al vetriolo, curato nel dettaglio, le imperfezioni sono mal tollerate. E concedersi un'amicizia elettiva ti rende vulnerabile, ti rende debole: meglio invece restare pazzi, solitari, come dettano rigorosamente la moda e il black humor. (7)

Cosa hanno in comune Alicia Vikander ed Eva Green? Sono entrambe bellissime, bravissime e, europee, hanno conquistato Hollywood a colpi di interpretazioni – moglie da Oscar la prima, femme fatale dal fascino alieno l'altra. Riposto il glamour, sono sorelle ai ferri corti nel primo dramma internazionale di Lisa Langseth. La scusa per riunirsi: un viaggio dalla meta misteriosa. Hanno sei giorni appena per ritrovarsi, magari per ripensarci, in una clinica presso cui trovare ora l'ispirazione, ora la solitudine. Il degente Charles Dance e la direttrice Charlotte Rampling assistono insieme allo spettatore alle liti, alle confessioni, alla ricerca del tempo perso. Sui piatti della bilancia, le responsabilità dei primogeniti e l'egoismo dei figli minori; la verità su una mamma morta suicida. Al centro, e non è uno spoiler, il tema del suicidio assistito: perché in questa ricchezza illusoria, fra orchestre, feste e presunzioni di felicità, ogni giorno suona una campana e le persone sofferenti sono invitate a prendere un pezzo di dolce e un cocktail mortale. La Green, con i suoi famosi seni devastati dalla mastectomia, vuole dire basta e commuove con un intensità che forse soltanto Penny Dreadful aveva rivelato. La Vikander, che ancora una volta conferma la sua sensibilità artistica, pretende di avere voce in capitolo: non vuole abbandonarla, non di nuovo. Il soggiorno farà bene e male a entrambe queste amiche-nemiche, meno allo spettatore: il melodramma esistenzialista, calato nel verde e con un cast tutto al femminile, verrà infatti pure dalla Norvegia, ma ha il rigore della Gran Bretagna. Seduta terapeutica che non manca dunque di dolcezza, che non manca di pena, in cui l'euforia del titolo rima con eutonasia, e la grande discrezione del tutto impedisce che in un certo far cinema si intrufoli controversia alcuna. (6,5)

Lo hanno prima pubblicizzato con malizia a Cannes e poi gli hanno cambiato titolo, fancendo sì Da una storia vera diventasse inspiegabilmente Quello che non so di lei. Al centro, poi, sono arrivate le vecchie accuse per un Polanski forse recidivo, ma qui impegnato a riadattare senza convinzione il brillante thriller di Delphine De Vigan. Una lettura talmente particolare, avevo notato, da non sembrare adatta a farsi film. Posso dirlo? Come volevasi dimostrare. Trasposto, infatti, perde l'originalità, la bellezza conturbante degli incastri metaletterari, i cognomi autentici. Quel gusto perverso ma affascinante nel mescolare forme, registri, storie dentro storie. Resta l'impalcatura, di per sé banalissima. Una scrittrice di best-seller in crisi creativa, il rapporto insano con la sua fan numero uno, una convivenza forzata che vorrebbe ispirare la stesura di capolavori ma regala alla svogliata Seigner soltanto una nuova inquietudine: la musa spettrale di una Eva Green che merita sempre il prezzo del biglietto. Il risultato, a malincuore, è pari a un mystery di Rai Due. Né brutto né bello, compassato, con un regista assente e attrici che possono tanto, ma non i miracoli. Certo, non tutto è carta straccia, ma proprio non gli si perdona il già visto, se la De Vigan al contrario mi aveva fatto sperimentare il mai letto. La delusione è tripla: Polanski non decolla, l'efficacia dell'adattamento fallisce e la sceneggiatura di Assayas, regista di quel mezzo capolavoro che è stato Sils Maria, lascia la sua proverbiale ambiguità per l'immediatezza dei finali copia-incolla. Il collega Ozon, sia in Swimming Pool che in Nella casa, aveva comunque detto già tutto, e per di più molto meglio. Perché non voltare pagina? (5)

mercoledì 25 luglio 2018

Recensione: Orrore, di Pietro Grossi

| Orrore, di Pietro Grossi. Feltrinelli, € 14, pp. 140 |

Gli scrittori e il mistero (del processo creativo, della magione infestata che è la mente umana): cronaca di una lunga e tormentata storia d'amore. Sono autori di best-seller i protagonisti dei kinghiani Misery, La finestra segreta, La metà oscura; altra addetta ai lavori anche Delphine De Vigan, che in Da una storia vera si raccontava in un mystery a tinte saffiche fra autobiografia e finzione. Ultimo nome all'appello, a proposito di variazioni sul tema, è quello del nostro Pietro Grossi: in passato edito dalla selettiva Sellerio, premiatissimo, qui alla sua ottava fatica. È la prima volta con un genere a cui il titolo allude chiaramente: l'horror. È la prima volta che lo leggo, io che a pane e horror sono invece cresciuto. Cosa c'è dietro quella copertina dall'aria spaventosa? Cosa si nasconde oltre l'uscio di una casa nel bosco da esplorare da cima a fondo, mossi dalla stessa curiosità che nei proverbi delle nonne uccide il gatto? Orrore, più vicino all'estensione del racconto lungo che del romanzo, è un'altra storia che parla di ispirazione mancata e scrittura, in cui autore e narratore sin dall'inizio si confondono per precisa volontà. A raccontarsi è un anonimo padre di famiglia felicemente stabilitosi negli Stati Uniti – lo stesso Pietro, vorrebbe dirci la suggestione – che all'indomani della nascita dell'adorato primogenito, di ritorno in Italia per le vacanze di Natale, si mette in cerca di un posto nel mondo, di un obiettivo a lungo termine, dell'idea per un nuovo romanzo. È l'ispirazione stessa, a sorpresa, a raggiungerlo. Galeotta una sera a cena con Diego e Lidia, una storica coppia di amici che fra una chiacchiera e l'altra condivide con il protagonista un'inquietante scoperta: accanto alla loro villetta in alta montagna, un autentico paradiso per villeggianti, c'è una casetta a tratti abbandonata, a tratti in perfetto stato d'uso.

Se solo. Di tutti i momenti per cui da anni mi maledico, questo è l'unico indipendente da me e da qualunque mia volontà. Dunque, il più immacolato. […] Se solo. Tre semplici, striscianti sillabe, capaci di sgretolare esistenze come termiti in una trave di legno.

Fare irruzione è un gioco da ragazzi – anche se sono lontani, ormai, i tempi dei giornaletti per adulti rubati in edicola e poi letti di soppiatto sull'argine del fiume. Il vecchio mulino è una costruzione in pietra, con all'interno un tavolino da caffè tirato a lucido, nonostante l'usura generale, e un giornale di dieci anni prima; un disegno infantile sul frigorifero lasciato acceso e una serie di maschere di cartapesta, a tema satanico, in esposizione; un bagno pieno di materiale ospedaliero, come il laboratorio di un moderno Dottor Frankenstein. Il narratore si improvvisa investigatore privato. Chi sono i proprietari di quel casolare che confina con un fiume, e con l'incubo? Dopo l'effrazione ha allora inizio la parte difficile: osservare, aspettare. In nome dell'ossessione. In nome delle ombre che l'uomo si porta dentro, e che all'improvviso lo rendono tutt'uno con la natura del bosco: la pazienza del predatore, lo sguardo attento del detective, risvegliano presto un morboso istinto animale. Metafora, forse, della fatica dello scrivere – un abisso in cui guardi, per dirlo alla Nietzsche, a costo che l'abisso guardi poi a sua volta dentro di te?

Sei soltanto curioso, ecco cosa sei. E lo sei sempre stato, questo te lo concedo. Hai sempre voluto guardare cosa c'è un po' più in là. E qual era il più naturale luogo in cui guardare oltre la luce che circondava la tua casa e la tua famiglia? Il buio. Vedevi luce e felicità ovunque e ti sei fatto incuriosire dalle ombre.

La missione notturna dell'alter-ego di Grossi corrompe i sogni e i ricordi, rovina le feste a una famiglia altrimenti realizzata; prevede nomi rigorosamente puntati, per proteggere la privacy di figuranti che si confondono fra veri e fittizi, e il rivolgersi a un tu (il figlio del protagonista) nella tipica prassi delle lettere aperte. Spettava a un autore affermato, a un editore importante, liberare l'horror dalla presunta serie B? Orrore è in realtà una lettura da ombrellone rapida e piuttosto accattivante, che lascia misteri irrisolti e qualche sincero dubbio sulla propria efficacia. Scritto sì bene, ha un paio di ottime intuizioni, ma risulta senza infamia né lode. I personaggi ci restano pressoché sconosciuti; le pagine, già poche di per sé, si concedono un paio di attimi di lentezza di troppo. Lecito aspettarsi di più. Da quella Feltrinelli che non tratta narrativa di genere, di solito, e che a scatola chiusa faceva confidare in una giustificata eccezione alla regola. Da uno scrittore, benché da me scoperto soltanto ora, che sulla fiducia ho immaginato qui non al suo meglio. La nebulosità e la confusione, infatti, sono quelle degli incubi di cui al risveglio facciamo fatica a ricordare il finale; quelle di esperimenti, di piccoli brividi, dal successo frammentario.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro - Sing-hiozzo

lunedì 23 luglio 2018

Recensione: Sotto il falò, di Nickolas Butler

| Sotto il falò, di Nickolas Butler. Marsilio, € 17,50, pp. 236 |

Ero qui e lo aspettavo, come aspetto l'inverno quando fuori è troppo caldo. Peccato, un po', che lo scrittore proveniente dal Wisconsin con amore abbia deciso di tornare a farmi visita in piena estate. Gli si addicevano di più i giochi di luce del caminetto, le camice di flanella a quadri, la barba incolta sulle guance e l'indie folk in cuffia. Ma quando un ospite d'eccezione come Nickolas Butler ti si presenta alla porta, sebbene fuori stagione, con quale coraggio non gli dici prego, entra pure, il mio divano è il tuo divano? In te, l'eccitazione mista a curiosità di chi non lo leggeva da un anno e mezzo: prima ancora ce n'erano voluti a loro volta due, di anni, affinché Il cuore degli uomini raggiungesse Shotgun Lovesongs sul mio scaffale – accanto, come fossero vecchi amici al bar, gli si stringono Kent Haruf, Tom Drury, i nostri Cognetti e Camurri, e quel Raymond Carver a cui una specie di timore reverenziale mi impedisce ancora di approcciarmi. Sono tutti parte, alla lontana, della stessa scuola: uno stile frugale, minimalista, ridotto all'osso e al cuore dell'emozione; la condivisione con i lettori di aneddoti, suggestioni sparse e tranche de vie dal retrogusto dolce-amaro. Scrivono romanzi in serie e autobiografie mancate, in molti casi, ma appartengono per indole alla dimensione della short story: dove l'essenzialità è la risposta. Non sorprende, perciò, che il ritorno di questo cowboy romantico avvenga proprio all'insegna del racconto – forma narrativa mai particolarmente apprezzata con cui tuttavia, prestando fede ai buoni propositi per l'anno nuovo, sto prendendo pian piano confidenza.

«Nonno, che sapore ha la pioggia?» domandò il ragazzino.
«Di nuvole, immagino. La pioggia sa di nuvole.»

In un bosco in prossimità di una chiesa sconsacrata, la notte più lunga viene illuminata con le cataste di legname della "festa della motosega": fra violinisti e tossici, si consumano tradimenti e porzioni di maiale arrosto. E nel mezzo di una natura rischiarata, violata, ci sono due hippy che si sono scelti a vicenda un nome nuovo, ma non il destino spaventoso di genitori. Mamme e padri: si nasce o si diventa? E nonni affettuosi, se una figlia inaffidabile ci lascia in custodia un nipote semisconosciuto e un pomeriggio di pioggia da bere, di venerdì, dimenticandosi poi di passare a riprendere il bambino? Sven e Lily si fanno compagnia e si traviano a vicenda, invece, secondo i dettami di un codice tutto al maschile; altri tre amici per la pelle – due coltivatori in via di estinzione e uno yuppie che torna a trovarli solo nei fine settimana – sognano funghi, sorgenti artesiane di birra e, nella follia di una notte alcolica dalle conseguenze tragiche, si scoprono intimiditi dalla doppia natura e dalle smanie borghesi di un topo di città nella sua ora d'aria; una coppia ai ferri corti, il rito del frigo da svuotare all'indomani della scomparsa della madre di lui: davanti ai Tupperware, agli avanzi e ai ricordi a sprazzi, si celebra allora anche il funerale della loro relazione. Cosa ne è il primo gennaio degli alberi di Natale da buttare? Una pira da accendere sulla superficie ghiacciata dei laghi, mentre due giovani amanti alle prese con le prime idiosincrasie si danno a un'immersione nel buio fisica e metaforica. Un anziano ecoterrorista allo stadio terminale tiene in ostaggio uno spietato imprenditore: l'inquinamento sta divorando le acque, la colpa è sua, e la espierà sorbendosi bicchieri di petrolio e vecchie poesie; la commessa di un negozio di animali vittima di violenza domestica e un'agente malata di Alzheimer fanno squadra contro lo strapotere dell'universo maschile; un uomo, per amore di una donna in fuga perfino da sé stessa, si prende cura delle figlie di lei e di un gatto randagio, nonostante la legge e l'allergia dicano il contrario; un diabetico in pensione, per sfuggire alla noia della terza età, cerca un senso alle proprie giornate in un frutteto: una mela al giorno toglie il medico di torno, e a sorpresa aggiunge dolcezza al matrimonio.

Quelle notti, quando le dicevo che l'amavo, pronunciando parole che facevano quasi male per quanto erano vere e grandi, credevo in loro quanto credevo nel fiume. Ma non credevo in Sunny. Non credevo, per esempio, che mi sentisse davvero, quindi la maggior parte delle volte in cui le dicevo che l'amavo era come parlare a qualcuno che è già morto e ti manca da impazzire, qualcuno con cui vuoi ancora confidarti ma ha lasciato il mondo, tranne che nel ricordo o nell'idea che ne hai tu, e ti assale come un fantasma.

Si passano la staffetta uomini d'altri tempi e donne che o s'impuntano caparbiamente, o tagliano la corda. Dal finestrino dei pick-up in corsa sfilano i silos, i campi coltivati, le rapide del Mississipi, gli Amish in calesse, i reduci delle guerre di ieri e di oggi, i cieli pieni di nuvole e di lucciole. Le volute dense di quel fuoco che scalda, libera, distrugge. 
Le fiamme guizzanti disegnano, così, storie che a volte piacciono da impazzire (Petrolio dolce, Nelle contee occidentali e Acqua piovana), altre meno (Sven e Lily, La gente dei treni va piano). Ma Butler, in pillole, sa preservare per fortuna lo stesso calore, lo stesso colore. Ti emoziona sempre, a modo suo. Anche se narrazioni ad ampio respiro, guai a dirmi che non ho provato a ricredermi, fanno comunque più fumo, e più luce. 
È il mese di luglio. Negli stabilimenti balneari, volendo, sopravvive qualche sparuto jukebox. Sotto il falò è recuperare monetine di rame dal fondo della tasca dei jeans e concedersi così la quiete di dieci canzoni, di dieci storie. Cantano di paternità, amicizia, memoria, coppie in crisi e vendette trasversali. Suonano all'orecchio ora malinconiche, ora feroci. Da centellinare con parsimonia nell'arco dell'intera giornata. Da regalare a sé stessi quando ci si vuol concedere qualcosa per volersi bene – anzi, volersi meglio –, con i turisti che sciamano via in massa, allarmati da lampi in vista che a te ispirano invece buonumore.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Passenger – Heart's on Fire

venerdì 20 luglio 2018

I ♥ Telefilm: Glow S02 | The Generi

Si ritorna sul ring. Si ritorna a parlare di Glow: la comedy che a sorpresa, lo scorso anno, aveva spinto alle corde gli spettatori e gli Emmy. Di nuovo gli anni Ottanta, così abusati da essermi venuti a noia. Di nuovo una serie di donne, sulle donne, con le femministe di ogni dove sul piede di guerra all'indomani dello scandalo Weinstein. Trash per finta, tutto costumi sgambatissimi e brillantini, lo show sul mondo del wrestling femminile riempiva letteralmente gli spalti – vuoi per Alison Brie, amica detestabile ma ottima padrona di casa, o per una carrellata di comprimari sopra le righe a cui ci si affezionava presto. O meglio: questo è capitato ai più, nel mentre, ma non a me. Glow, carino e tutto, senz'altro ben fatto, proprio non mi aveva conquistato. La parte di me che seguiva gli incontri commentati da Luca Franchini e Michele Posa da bambino, con The Rock, Bautista e John Cena ancora lontani dal grande schermo, voleva dargli una seconda opportunità in nome di una specie di nostalgia: era la scusa buona, almeno, per commentarlo con un fratello minore altrove, indipendente, che poco sente il bisogno di farsi vivo al telefono. Il discorso non cambia: purtroppo, nel mio caso; per fortuna, invece, per chi Glow l'aveva apprezzato a colpo sicuro. Le lottatrici hanno conquistato il loro spazio sulle televisioni locali, ma la strada per la vittoria è piena di accidenti: da sceneggiatura, sono sempre a rischio sabotaggio, sempre a rischio cancellazione. Da una parte scontentano le casalinghe americane, che le ritengono diseducative e discinte. Dall'altra, danno grattacapi ai responsabili dei palinsesti: meritano la seconda serata, l'oblio, soprattutto se Ruth – anima del gruppo condannata a essere sempre fraintesa per un'immutabile antipatia di fondo – non cede alle avance di uno dei piani alti? Come contrattaccare? Si mettono meglio a punto sigle d'apertura, maschere, drammi, mosse. Ci si picchia con maggiore convinzione, a costo di una gamba rotta. Si mettono in mostra più carne, più glitter. Qualcuna di loro si sposa in diretta, qualcuna sbarella pubblicamente, qualcuna si scopre mamma, figlia, fidanzata. I picchi di inaudita genialità: tutti stipati nell'ottavo episodio. Ma, a proposito del resto, mi sono trovato mio malgrado a fare lo stesso gioco degli spettatori della finzione. Che fraintendono lo show. Che non lo trovano affatto indispensabile. Che, se non cambiano canale, non è per le vicende personali delle ragazze – di cui, onestamente, continua a importarmi poco e niente – ma per un peccato veniale che mi porta ogni volta a promuovere l'accuratezza della messa in camera; l'acume di qualche trovata metatelevisiva; la grande bravura di belle che ballano, e qui picchiano. (6+)

Maccio Capatonda: non lo conoscevo, se non di nome. Qualche sketch comico ai tempi di Mai dire e un fratello minore che, da adolescente, ripeteva per casa i suoi più famosi tormentoni a mo' di mantra. Pur avendo sempre un occhio di riguardo per il cinema italiano, commedie comprese – mai recensite ma mai disdegnate, per dire, quelle di un Checco Zalone – non ho visto nessuno dei suoi due film. Galeotta è stata un'intervista radiofonica condotta da Alessandro Cattelan, in cui il comico abruzzese aveva parlato di questo progetto strano e ambiziosissimo che, non senza un iniziale scetticismo, aveva trovato infine il lasciapassare di Sky. È scattato da sé, all'istante, il recupero di The Generi. Il protagonista è Gianfelice Spagnagatti: uno come me, come te. Blogger sottopagato che fa il suo mestiere semplicemente per passione, troppo impegnato tutto il giorno sul divano per pensare all'amore della vicina di casa. È per sfuggire alla dichiarazione di lei, al suo abbandono, che da bravo fannullone imbocca la porta del bagno. Non sapendo che quello, per un moderno inetto che deve ancora scoprire sé stesso e prendere coscienza delle proprie zone d'ombra, è in realtà il portale per un universo metacinematografico da esplorare. Finisce ora nello scontro fra sceriffi e indiani di un western d'essai; ora in un esilarante slasher anni Ottanta, con il meglio e il peggio dei cliché della cultura americana; a volte in un fantasy alla Garrone, con una principessa che non ride mai e un giullare pettoruto che deve imparare a farlo, e altre in una commedia sexy con Alvaro Vitali, in cui tette, culi, reggicalze e verginità da barattare sono il vademecum. Senza dimenticare, poi, gli eroi ipodotati di un cinecomic tutto da ridere; un quiz con la conduzione di Nino Frassica, che fa il verso a The Millionaire; un noir fumoso, in bianco e nero, con i bulli, le pupe e i colpi di scena. La fotografia si adegua ai temi, ai toni, al registro. Cambiano l'aspect ratio e la cura insospettabile che c'è dietro. Non si disdegnano il sangue, le panoramiche a volo d'aquila, la computer grafica. La scrittura si scopre così piena di rimandi interni, dotata di una coerenza da rivelare soltanto nel finale. C'è un po' di genio nel nonsense di Maccio Capatonda, sì. Nella sua recitazione amatoriale, svogliata, eppure naturalissima, da uomo medio alle prese con una situazione paradossale. Nelle freddure gratuite, che fanno ridere per quanto volutamente infelici, e nelle trovate a cui ho pensato e ripensato, trovandomi sempre a sogghignare. The Generi è nuovi tormentoni per i fratelli minori e nuovi personaggi vincenti: per me, una nuova scoperta. (7)

mercoledì 18 luglio 2018

Recensione: La vita sessuale delle sirene, di Andrea Malabaila

La vita sessuale delle sirene, di Andrea Malabaila. Clown Bianco Edizioni, € 17, pp. 254 |

Sembra proprio una sirena, Ilaria, il giorno delle sue nozze. Una raggiera di capelli biondi, il viso a cuore alla Scarlett Johansson e un tuffo proibito, a bomba, nella piscina del ristorante. Dall'acqua piena di cloro, però, riemerge mezza svestita e in compagnia. Lo realizza amaramente Leo, lo sposo tradito a tre ore di distanza dall'agognato sì: sua moglie gli ha messo le corna, e per di più con quel pallone gonfiato del cognato. Hanno ancora il riso impigliato nei capelli, i regali degli invitati da scartare, tutta la vita davanti. Ci si può separare in tempo record, sulla soglia dei trent'anni? Soprattutto, ci si può reinventare dopo un ego platealmente infranto? È da queste premesse che parte La vita sessuale delle sirene, ultimo romanzo arrivato in libreria di Andrea Malabaila – e del fondatore di Las Vegas Edizioni, lo scorso anno, vi ricordo di avere già letto e apprezzato l'altrettanto adorabile Green Park Serenade. Questa volta non siamo a Londra, bensì nella Torino bene. I protagonisti si sono conosciuti e innamorati lì, un lustro prima, durante un pomeriggio di primavera in cui l'incanto era nell'aria e la cupola della Mole somigliava al cappello di una fata. Ilaria e Leo sembravano affiatatissimi, sembravano a casa. La loro rottura è così la scusa buona per spostarsi, allontanarsi, viaggiare, ritornando comunque al punto di partenza. Forse, alla stessa magia a cui obbediscono le forze centrifughe di una piccola epopea lunga l'arco di una commedia romantica – agrodolce, un po' glamour, in perfetto stile Harry ti presento Sally. Anche la fine è infatti questione di punti di vista, e il tracollo tragicomico dei due altro non è che un nuovo inizio.

Se fossi obbligato a non rivedermi mai più oppure a rimanere con me per sempre, cosa sceglieresti?

Accasarsi quando non si ha l'età: quante possibilità, quanti sogni può precluderci? Si rischia di lasciarsi sfuggire le tappe, i colpi di testa, gli sbagli della gioventù, le discoteche e la leggerezza del sesso occasionale. Leggiamo dunque della trasformazione di Leo, che s'imbarca da solo per la luna di miele – direzione gli Stati Uniti, tra escort di lusso, poker e fiumi di alcol riparatore – ed evolutosi, al ritorno, da mediocre impiegato a spregiudicato yuppie. Il vecchio sé stesso ci è annegato per sempre, in quella piscina: la versione aggiornata si è indurita, instronzita, e cerca simpaticamente vendetta verso chi ha osato sottovalutare la sua creatività e il genere femminile tutto. Cos'è al contrario del destino dell'impenitente Ilaria, moglie fedifraga che si è attirata per forza di cose il biasimo della famiglia perbenista? Un taglio netto – ai capelli lunghi, al passato –, un modesto appartamento in proprio e un lavoro che poco rispecchia la sua laurea in Psicologia. Si aggrappa al palo della lap dance, attratta dal potere della bellezza, dalle doppie identità dei locali notturni, dal mostrarsi senza darsi: un talent scout d'eccezione, tuttavia, potrebbe farla svoltare nello showbusiness.

Non si parla di divorzio ma di annullamento. Come se si potesse annullare qualcosa che non è mai esistito, pensa Leo. Si possono annullare i draghi, le chimere, le sirene, i centauri, i grifoni? Si possono annullare i personaggi dei romanzi? Stabilire con un decreto che Anna Karenina, Holden Caulfield, Jay Gatsby e Emma Bovary non sono vere persone? Che il suo – il loro – non è un vero matrimonio?

I protagonisti, ora depressi, ora impegnatissimi, si danno il cambio. Si mostrano contraddittori e onesti, fra pregi, difetti ed errori condivisi. Invecchiati precocemente, allontanatisi in fretta, sperimentano il giro delle prime volte nella seconda parte della loro vita. In tre anni, in queste 250 pagine, si penseranno spesso, si incroceranno in città e cambieranno strada all'ultimo; accetteranno di rivedersi, infine, una volta e basta. Come sarebbe stato se, si domanderanno? Come sarebbe stato, soprattutto, senza
Fa loro eco un Malabaila fresco e puntuale, dai sorrisi diffusi, che qui si interroga di miti e leggende in divenire. Di relazioni che non vogliono scadenze, ma una macchina del tempo sì. Non tutti i tradimenti vengono per nuocere. Sono il la, a volte, per una personale rivoluzione. Basta percorsi prestabiliti. Basta routine. Al giorno d'oggi, non ci si trasforma più in spuma davanti al mancato lieto fine (ma, mi raccomando, non ditelo ad Ariel).
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: TheGiornalisti – Questa nostra stupida canzone d'amore

lunedì 16 luglio 2018

Recensione: Le ferite originali, di Eleonora C. Caruso

| Le ferite originali, di Eleonora C. Caruso. Mondadori, € 19, pp. 352 |

Inutile stare qui a pesare e soppesare. Le parole, i pensieri, li formulo e li risputo: ridotti all'osso, all'inutile, come noccioli di ciliegie di stagione. Ci sono quei romanzi, infatti, per cui è fatica sprecata, tempo perso in partenza, cercare a tavolino perifrasi, aggettivi o avverbi di modo con cui parlarne. Significherebbe semplificarli. Significherebbe mettere nero su bianco cosa ti è piaciuto, cosa no, e soprattutto spiegare il perché. Impossibile con un animale a sangue caldo come Le ferite originali: lo tengo qui con me mentre scrivo, accanto al mouse, ed eccolo che ancora scotta, che ancora non si cheta. Troppo intricato l'intreccio, che in due cartelle Word non vuole stare? No, se si parla di poligoni sentimentali senza peli sulla lingua né tabù. Troppo celebrata l'autrice, forse? Tutto il contrario, trattandosi di una trentenne al secondo romanzo che si è fatta le ossa scrivendo fanfiction, leggendo il leggibile, e che per la sua inesperienza, per la sfacciataggine dei giovanissimi, avrà senz'altro attirato su di sé l'infondatezza di qualche pregiudizio perbenista. Non si tratta di una lunga epopea: appena 350 le pagine. A intimidire di certo non è la scrittura, affatto pretenziosa, bensì mirata come un pugno in pancia. E allora cos'è, cosa, a farmi sentire impreparato come davanti all'ultimo Paolo Giordano? A ben vedere, non sono di certo personaggi con cui è facile andare d'accordo questi Dafne, Dante e Davide: ciascuno con le proprie mancanze e le proprie manie da abbandono; ciascuno prigioniero di un capoluogo tentacolare e ipnotico, gelido, come la miniatura di una boccia di vetro. Vicini ma distanti, cosa lega allora la figlia di papà con la vocazione per lo shopping e il volontariato, l'uomo d'affari che mostra tenerezza solo alla figlia, lo spilungone occhialuto che ha paura di ingrassare di nuovo e ritornare a una provincia che non sa quanto ambizioso e prezioso sia? Cardine arrugginito e marcescente di una storia altrimenti senza intoppi, Christian: bipolare, bisessuale. L'aria da angelo, l'anima da puttana, con un fratello minore per traviare il quale farebbe carte false – nel rapporto di dolcezza e sopraffazione con Julian, custode involontario dei segreti dei Negri, ci sono delle ombre che ricordano molto quelle fra Fassbender e la Mulligan nello splendido Shame – e una schiera di amanti da usare e gettare come fossero profilattici.

Ho provato a inglobarti, ma non ne ho avuto il coraggio. Ho provato a proteggerti, ma non ne ho avuto la forza. Hai detto che non mi lascerai solo, e siccome io non posso uscire, tu verrai con me.

I tre protagonisti sono i fortunati eletti. Una donna e due uomini che gli aprono le porte di casa, la bocca e le gambe, assecondando il suo desiderio ora di turpitudine, ora di familiarità. Spezzerà il cuore a tutti: perché Christian vive di cocci e di bellezza, di rese. Vorrà essere il solo, il sole. Terrà i piedi in tre scarpe, il coltello dalla parte del manico: cresciuto senza madre né padre, libero e arrabbiato, come una pianta infestante malata sin dalle radici. Lasciarsi tuttavia avviluppare dalle sue braccia lunghe, dai suoi garbugli spinosi, significa circondarsi ora dalla sua bellezza, che in strada farebbe voltare perfino le statue invidiose, ora dal suo disagio, a cui tentare di rimediare per sentirsi illusoriamente felici. L'autrice indugia sui corpi: aperti, esposti, messi all'ingrasso su letti che sembrano tavoli autoptici. A pezzi, inservibili, eccessivi. Diversi da me e da te, troppo, con il rischio di apparire quasi irreali, d'altri mondi – l'eccezione è Davide, che ha gli organi speculari e la mia stessa insicurezza. I dolori, invece, a sorpresa si somigliano sempre. Lividi di diverse sfumature di viola che fanno pendant con gli occhi di chi la malinconia proprio non può scollarsela via dalle ciglia umide di pianto. Tutti con qualcosa da perdere, tutti affamati d'impossibile, tutti in un bolla sul filo del baratro. All'interno si intravede una metropoli un po' paese dei balocchi, un po' sagra della perdizione, con le simmetrie dello skyline modificate dall'Expo e dappertutto giocolieri, musicisti, venditori ambulanti di mostri e magia. Una Milano bellissima, ma scrutata attraverso una vetrata, dall'alto, a distanza di sicurezza. Qualcuno, chissà dove, intanto ascolta ad alto volume Luci a San Siro.

A tutti piacciono le cose strane, sofferenti, imprevedibili, ma se diventi troppo strano, troppo sofferente, troppo imprevedibile, si spaventano e vanno via.

La ragionevole tentazione è quella di distogliere lo sguardo per pudore, perché l'onestà del sangue vivo spaventa. Mi sono ritrovato tuttavia a pensare a loro quattro anche a libro riposto, a luci spente: con o senza, comunque non riuscivo a starci. Le ferite originali è i suoi protagonisti, i buchi neri che hanno al posto del cuore: zavorre cariche, pesanti, che non si sa come sorreggono anziché buttar giù. Non vedi l'ora di arrivare alla fine, e non per sapere cosa sarà di loro. Ma per liberartene in fretta e dimenticarlo, anche se non è mica detto ci riuscirai. Per lavartene le mani, di questa sporcizia, di questa strana bellezza. Non che sia una brutta lettura, anzi, l'opposto. Assoluta, ingombrante, scomodissima, suscita una fascinazione istantanea e nel mezzo mette a disagio. Ci vuole coraggio per scriverlo e pubblicarlo, lasciandolo scabroso e incontaminato come lo troviamo in libreria. Ci vuole coraggio a leggerlo, a tratti, ma più coraggio ancora a regalarci un po' di speranza all'ultimo; una specie di lieto fine.

«Se non avessi paura, ti lascerei adesso […] Perché non ci siamo visti per sei giorni e mi mancavi. E adesso che sto per andarmene mi mancherai.»
«Questo sarebbe un buon motivo per lasciarci?»
«Sì.»
«Puoi anche restare, sai?»

Dafne non si trasforma in una pianta di alloro, no. Dante non esce dalla selva oscura di una mezza età che gli ispira bilanci amareggiati. Davide, aspirante ingegnere, non scopre sui libri una formula matematica per stare improvvisamente bene. E Christian, incostante e bisognoso alla stregua di un bambino abbandonato: meglio perderlo o trovarlo? Cosa fa più male? Eleonora C. Caruso colleziona tagli sanguinanti, amori purulenti, schegge e tessuti. Non cuce, non guarisce, non soffia sul bruciato. È un nervo scoperto, un tasto dolente: un fantasma che si trascina in giro il suo lenzuolo forato, le sue catene, per chiederti in pegno anche il resto. Infine ti grazia, però. Insegnandoti a contare fino a cento per sbollire, e a tendere l'orecchio a destra se in un abbraccio manca il battito. C'è infatti gente che ha cisti piene di denti e capelli, come se nascendo avesse fagocitato in un moto cannibale qualcun altro. C'è gente che ha il cuore dalla parte sbagliata. Lo intravedi pulsare dai labbri profondi dei tagli sul petto, prima che il chirurgo Eleonora ci getti dentro una generosa colata d'oro liquido. Per suturarle e farle risplendere, le crepe delle Ferite originali, come in una pratica giapponese – il kintsugi – che tramuta in arte il secco non riciclabile.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Woodkid feat. Elle Fanning – Never Let You Down

sabato 14 luglio 2018

I ♥ Telefilm | The Handmaid's Tale - Stagione 2

Tremate, tremate, le ancelle son tornate. Quanta strada hanno percorso, da dietro i paraocchi della loro inquietante tonaca rossa. Quanti consensi hanno mietuto, imponendosi nella stagione dei premi e in cima al meglio della scorsa annata. Si aveva sinceramente paura, dopo un ciclo di episodi perfetti, di scoprire quale sarebbe stato il passo successivo; come sarebbe stato, staccarsi dalla mano di una Margaret Atwood che ormai aveva finito il suo lavoro lì – il finale della prima stagione corrisponde infatti al finale del romanzo: dunque cosa inventarsi dopo? C'era tutto un mondo da scoprire, e l'impiego della prima persona ne limitava di molto fra le pagine gli scorci, i punti di vista, le vedute panoramiche. C'era da domandarci cosa sarebbe stato della tribolata protagonista dopo quell'ultimo sguardo in camera, all'indomani della fuga. Ci aspettavamo la rivalsa, per quanto banale potesse suonare; la ribellione. La disobbedienza di June, nella serie televisiva che avuto il buon cuore di regalarle un nome di battesimo, purtroppo dura poco: giusto il tempo di pentirsene, di piegarsi. Riposta la sua luciferina aria di sfida, di ritorno a casa Waterford, diventa Offred. Stanca di fare del male agli altri per colpa dell'egoismo di chi si è scoperta intoccabile, galeotta la pancia miracolosa che cresce e cresce. Stanca di scalpitare. Sembra vinta, a tratti, e dire che in chiusura avevamo fantasticato sulla sconfitta dei bastardi. La fuga, poi il ritorno. Le Colonie, poi il ritorno. La ribellione, poi, complice il senso di colpa, sempre e comunque il ritorno. Il fuori resta perciò poco esplorato. Le sollevazioni grandi e piccole non sono che tappe che riportano con violenza aggiunta allo status quo. Ancora meno agevole, ancora più provante che in passato, si ha l'impressione che ci sia troppo in soli tre episodi aggiuntivi che fanno la differenza, che pesano sulla bilancia. I piatti, così, sono meno in equilibrio. Oscillano sotto un peso che quest'anno non conosce nemmeno la tendenza a sdrammatizzare della voce off; l'ironia o il lirismo della colonna sonora rock 'n roll. Una volta pesavano ogni sopruso, ogni abuso, ogni perdita. Adesso si perde il conto dei cambi di ruolo e di umore di una Elisabeth Moss non così amabile; il numero dei tentati suicidi in nome della disperazione, dei falsi allarmi della gravidanza, dei personaggi introdotti e mai più rivisti, di Colonie sbirciate (con tanto di cameo della rediviva Marisa Tomei, a proposito di personaggi inutilizzati) ma alla fine inservibili a livello narrativo. Mancano all'appello i parenti, i mariti, le amiche che ce l'hanno fatta a raggiungere il confine canadese. Gli autentici momenti da brivido, le scene madri, se tutto ambisce invano a restare impresso – sulla pelle d'oca, nel Gotha della TV. Il ritorno di The Handmaid's Tale è ad ampio respiro, e forse per questo più romanzesco, più dispersivo, con sceneggiatori indecisi su quali dettagli o emozioni concentrarsi davvero. Arriva sempre forte, ma purtroppo meno chiaramente. Per le interferenze di storyline senza sbocchi e, tocca ammetterlo, di immani aspettative. Qualcosa cambia in positivo, a ben vedere, dall'ottavo episodio in avanti. Merito della lenta metamoforfosi di una Yvonne Strahovski da Emmy, combattuta fra la fedeltà alla Repubblica e la solidarietà femminile, fra orgoglio e sottomissione (è proprio lei a impugnare una penna rossa, infatti, e a porgerla a Offred, chiamandola finalmente June); delle sfide di una Bledel che non si spezza e della maternità dell'instabile Brewer, che mi ha commosso con una tenerezza che qualche volta guarisce; della fragile e crudele Eden, andata in moglie all'autista Nick, con un falso bigottismo a nascondere tutto l'avventato ardore dei suoi quindici anni. Le ancelle – non soltanto bestie da monta ma anche vacche da latte, in caso il Signore abbia fatto schiudere il loro frutto benedetto – si scambiano i nomi sottovoce. E ammettono fra le proprie fila quest'anno non soltanto il rosso, ma anche il blu, colore delle mogli trofeo di Galaad. Tutte insieme, allora, se vanno in schieramenti compatti e ordinati oltre il punto fermo messo trent'anni fa da una profetica Margaret Atwood. Ma a malincuore non riescono né a superarlo, né a superarsi. (7)

mercoledì 11 luglio 2018

Recensione: Meglio sole che nuvole, di Jane Alison

| Meglio sole che nuvole, di Jane Alison. NN Editore, € 18, pp. 264 |

Qual è il colmo per un romanzo che ha il sole nel titolo, verrebbe da chiedersi col senno di poi? Rovinarsi irrimediabilmente, se non abbastanza al sicuro nello zaino, durante un acquazzone estivo che mi ha colto di sorpresa a metà strada verso il cinema. Il cattivo presagio, forse, doveva farmi riflettere. Sul fatto che quella copertina bellissima ormai sgualcita, che un editore infallibile che sempre e comunque mi tenta in libreria, questa volta non mi avrebbero accontentato. Con un romanzo, fra titolo e grafica, che in realtà si presenta meglio di quanto non sia. Con una storia che parla di donne, stagioni oziose e letteratura latina, a te che al liceo classico eri uno dei pochi maschi a lezione, che dicevi in fondo di preferire i greci e la quiete delle mezze stagioni agli eccessi di quest'afa qui. Siamo a Miami, isola da film. Siamo nei pensieri di una protagonista dal nome puntato – J come Jane Alison? – che fa un bilancio della propria vita sentimentale all'alba di una pubblicazione ambiziosa.

Non è un paese per vecchie. Io non sono ancora vecchia, ma ho il cuore malato di un vecchio desiderio.

Traduce le Metamorfosi in inglese, le riadatta soprattutto in chiave contemporanea, e davanti a fanciulle che scappano e si trasformano, a un genere femminile capace sempre di reinventarsi, si domanda fra le pagine se sia tardi o presto per cercare l'uomo giusto. Vive al ventunesimo piano di un condominio che si chiama Love Boat, con una piscina (non a norma) a forma di clessidra e sfondi che le rinfacciano continuamente la solitudine della mezza età e l'incessante scorrere del tempo. Unica single su un'arca per privilegiati, si divide così fra la scrittura creativa, qualche preoccupazione per una genitrice che non si arrende all'idea dell'ospizio, le cure affettuose per un gatto cieco che ha spento diciotto candeline e un'anatra ferita che proprio non vuole farsi aiutare. Nel mentre, spia senza malizia chi le sta accanto, e cerca l'ispirazione. I cascamorti nei lounge bar, l'andirivieni sospetto dalla spa per soli culturisti, le liti e i piccoli sabotaggi alle riunioni condominiali, l'amore vero che lega un moderno commesso viaggiatore e una consorte affetta da un dolore cronico che né la premura del marito né la salsedine possono guarire.

È sufficiente avere ricevuto un po' di amore, un tempo. Anche se non ha funzionato a lungo. Forse è sufficiente averne ricevuto in passato, e adesso vivere solo con i suoi frammenti, e non c'è proprio niente di male se dedichi l'amore che ancora ti resta a un vecchio gatto o a un'anatra, ai pochi cari amici, a tua madre. Sull'arca non sono tutti coppia.

Ci sono avvistamenti misteriosi a largo: ammucchiate e cadaveri, perfino sirene impossibili, se di miti si parla. Ci sono gli SMS, i sogni erotici a occhi aperti, una narrazione nella narrazione, fiumi di prosecco: caratteriste di una narrativa non-narrativa che ha lo stile fresco e sincopato, un po' social, di una Chiara Gamberale più colta, più poetica, più leziosa. Le alte citazioni, infatti, non bastano a cancellare l'impressione di una commedia rosa come tante che vorrebbe avanzare pretese autoriali che scontenteranno sia chi chiedeva leggerezza assoluta sotto l'ombrellone, sia chi si era fidato ciecamente del buon gusto della NN – non messo in discussione, eppure, neanche da una lettura che questa volta non mi sento di consigliare – o delle parole lusinghiere dell'autrice di Fato e furia. Insomma: Meglio sole che nuvole non sfigurerà sulla sdraio di quella vicina in là con gli anni che invecchia con stile, lo smalto rosso sulle unghie, una vaga puzza sotto il naso e mille pretese radical chic, e di radicale felicità. 
Sarà che mi sono scoperto una persona sensibile, ma pur sempre proveniente da Marte; un appassionato estimatore di Ovidio, sì, da ex classicista modello, comunque più vicino alla malinconia delle nuvole che a questo sole che ha già stancato. Nonostante l'estate appena inaugurata.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Robbie Williams – Love My Life

lunedì 9 luglio 2018

Mr. Ciak - Flaiano Film Festival: Figlia mia, La terra dell'abbastaza, Sono tornato, Youtopia

Dal 29 giugno al 6 luglio, con una cerimonia finale sullo sfondo di Piazza della Rinascita, si è tenuto a Pescara il quarantacinquesimo Flaiano Film Festival. Il primo per cui ho timbrato il biglietto. Diciotto film divisi in quattro categorie, Riccardo Milani come direttore artistico e un red carpet aperto ad alcuni fra i migliori volti di casa nostra: il tre volte Premio Oscar Vittorio Storaro, Ferzan Ozpetek, Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Greta Scarano, Filippo Timi, Massimo Popolizio, Francesco Montanari, Ennio Fantastichini, Rolando Rovello, il trio Ward-Conticini-Muniz, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, Alessandro Cattelan.

La Sardegna è quella brulla e ancestrale di Michela Murgia. Lì si raccontano leggende e bugie. Ci si scambia i figli. Si vive di quel che porta a riva la benevolenza del mare. Valeria Golino, con una tinta scura che le fa più bella e i vestiti dei giorni di festa, ha affidato le sue preghiere prima alla Madonna, poi ai lombi della Rohrwacher: tanto bene integrata la prima, quanto sciagurata la seconda, non avrebbero in comune niente, se non un segreto con i capelli rossi; un patto da violare nel momento in cui la derelitta Angelica, tutta abitini inguinali e lingua impastata, non avanza una pretesa prima di lasciare l'isola per sempre. Conoscere un po' per capriccio, un po' per desiderio, la bambina che ha partorito e subito ceduto a una genitrice migliore di lei. La piccola Vittoria non conosce la verità sulla propria nascita, ma è troppo selvatica, troppo curiosa in fatto di baci e imprese impossibili, per appartenere a una famiglia dalle discrete possibilità economiche che le impone gli abiti da signorina, il costume intero in spiaggia, gli orecchini meno appariscenti e animali domestici che non somiglino a scrofe, galline o cavalli. Il sangue chiama. La bussola interiore porta sempre e comunque alla fattoria fuori mano dell'irresponsabile madre biologica; mentre colei che l'ha cresciuta, in paese, si strugge per diritti che non le spettano, la torta di compleanno intonsa, un letto vuoto. Dopo Vergine giurata, Laura Bispuri torna al cinema con un melodramma al femminile con i colori accesi, la telecamera a mano impegnata a seguire le protagoniste in piani sequenza impressionanti, una storia di maternità salveggia. Figlia mia è una carnale romanzo di formazione fra due fuochi, sotto il sole a picco, con affascinanti sprazzi kitsch e interpreti al loro meglio. Disarmante per immediatezza e generosità, è il rito iniziatico di una bambina contesa, voluta allo stesso tempo da tutti e da nessuno. Come succede alle anguille, stando ai racconti dei padri pescatori, viene partorita al largo per poi raggiungere il punto di partenza. Perché le bestie dalla natura acquatica e le figlie della Bispuri, tagliato il cordone, trovano sempre la strada di casa: a guidare le due litiganti, colei che dall'alto del suo sfacciato metro e trenta se ne frega della buona educazione e delle leggi degli uomini. In terre, in film, in cui raddoppiano l'emozione, le mamme, l'amore. (7,5)

Mirko e Manolo frequentano la scuola alberghiera, ma non vogliono essere camerieri. Proprio non se ne parla, di servire. Si desiderano padroni. All'inizio pensavano a un'attività in proprio, ma il destino ha piani alternativi. Hanno avuto la fortuna di investire l'uomo giusto: ricercato da un clan del posto, il latitante è stato freddato per caso da due ventenni su di giri, che fanno di quell'omicidio preterintenzionale una merce di scambio; un modo per svoltare. Il clan vuole sdebitarsi, li vuole a bordo. Perché se uccidere viene loro sorprendentemente facile, il malaffare è la via. Siamo nell'immancabile provincia romana di Garrone, Sollima, Caligari: volgare, stagnante, miserabile. Le femmine sognano i talent show alla TV; i maschi di continuare a giocare alla guerra. Qualche mamma nel frattempo fa i salti mortali per sbarcare il lunario e qualche padre – un inedito Tortora – liquida la morte come fosse un hobby. Applaudito all'unanimità al Festival di Berlino e vincitore della Migliore opera prima ai Nastri d'argento, l'esordio dei fratelli D'Innocenzo è una tragedia urbana pesantissima e potente. A sangue freddo. Non lascia scampo con i suoi schiaccianti primi piani e una scrittura in caduta libera, che da candida si fa efferata. Nuovo capitolo da inserire con successo nel filone dei drammi criminali, quelli che più ci riescono ma che più annoiano, La terra dell'abbastanza racconta sempre la stessa storia, sì; mostra sempre il solito sesso squallido e i soldi sporchi; tutto già detto, tutto già visto. Eppure, guardandolo, ho avuto la sensazione di assistere alla nascita di qualcosa di significativo: sentiremo parlare presto dei D'Innocenzo, che hanno un taglio indie come marcia in più, e degli scapestrati Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, che ricordano Marinelli e Borghi (amici-nemici al limite nello speculare Non essere cattivo) non solo per la fisicità o gli accenti. Anche se tra te e te credevi in fondo di averne avuto abbastanza, di spari a tradimento e ragazzi interrotti. (7)

Dici Miniero, e pensi subito ai remake su misura d'italiano. Dici Sono tornato, e ti vengono in mente il best-seller tedesco che non sei riuscito ad avere o la trasposizione che non ti ha mai interessato troppo. Vedi Popolizio, con una voce e una presenza sceniche straordinarie, e pensi che sia perfetto per il ruolo di colui che ingannava e incantava il gregge. Vedi Matano, ancora, e ti domandi cosa ci faccia in un film semiserio, e pensi che peccato: ti è sempre stato simpatico, sì, ma non che come attore convinca granché. Comunque poco male. Perché combattuto tra pro e contro, tra il desiderio di recuperare l'originale e la consapevolezza che questo aggiornamento potesse cogliere più nel (nostro) segno, sono andato a vedere la commedia satirica in cui a tornare non è il famigerato baffone, bensì il socio. Letteralmente piovuto dal cielo, si fa seguire da un aspirante documentarista – e a Matano, con il ruolo giusto, male non si può volere – in giro per uno Stivale da riconquistare. Gli extracomunitari, le unioni civili, la destra e la sinistra che non esistono più: a detta sua, il nostro disonore. Gli italiani lo trovano spassoso e affascinante, lo scambiano per un comico: gli danno un programma che fa ascolti, e tutte le ragioni. Miniero prende senz'altro il meglio dal film originale, sferza e smuove, ma il politicamente corretto resta – a sorpresa, direi, se parte di un Paese di spettatori permalosi, di gente più colpita dall'uccisione di un cagnolino in CGI che dalle persecuzioni razziali. Si ride dunque moltissimo, ma a denti serrati. Si ha paura, sotto sotto. Lo share, la popolarità, dicono come i più trovino il Duce non soltanto simpatico, ma una soluzione necessaria. Voce della ragione, una nonna smemorata che mette la pelle d'oca con i suoi ricordi shock. Al suo arrivo in sala, eppure, Sono tornato non ha fatto gran rumore. Troppo intelligenti gli italiani, o troppo punti sul vivo per proferire verbo?  Si ride nerissimo, ci si guarda indietro e avanti. Dove eravamo. Dove andremo. In una Italia su ruote, sui canali della TV trash, che spererebbe di riprendere tutto ciò che è suo. Un nulla di fatto, sublimato dalla peggiore forma di nostalgia. (6,5)

Si è riso più che con Favola. Si è storto il naso più che per la mancanza di carattere di Dopo la guerra. La soglia della credibilità, abbassata più che nella fiaba Tito e gli alieni. Ma non parliamo di una commedia grottesca, di un dramma politico che non sa bene che pesci prendere, di fantascienza per bambini; piuttosto della disperazione per la crisi economica, di sesso e potere, del lato sporco di internet. Di una ragazza che a diciott'anni mette all'asta la propria verginità per salvare la casa dal pignoramento. Lei è una De Angelis tutta tette a vista e bronci, che nella sua cameretta chatta con il romantico avatar doppiato dall'attore di Mommy e si concede un paio di topless davanti alla webcam. Donatella Finocchiaro, qui mesta e avvinazzata, è sua madre: ci prova anche lei a spogliarsi, a un certo punto, ma alla fine cuce alla figlia un vestito da Cenerentola per la temutissima notte con Haber: farmacista pescarese vizioso e repellente, con un improbabile sottoposto che conosce il Deep Web e una schiera di prostitute a cui proporre i peggiori giochi di ruolo. Vuole la carne fresca, adesso, di un'adolescente che non contempla altra via, che un lavoro non sembra mai cercarlo davvero, che ha fatto del proprio status la versione sozza di Ready Player One. Vorrebbe essere un dramma di denuncia ma ha gli scivoloni delle commedie sexy, questo Youtopia. Indifendibile su ogni fronte, brutto e immorale, ridicolo per sbaglio – vedasi i ben poco ammiccanti pruriti anali di una escort impegnata a flirtare col farmacista sbagliato o un annuncio che, nonostante le lacrime esagerate della Finocchiaro, genera l'ilarità in sala. Di cattivo gusto, senza uno sguardo o un briciolo di sex appeal, Youtopia è risate incerte a scena aperta e una bella De Angelis che, purtroppo, si perde nelle maglie della rete, e della bruttezza. (4)

Ho rivisto: Favola (7,5); Tito e gli alieni (7,5).

giovedì 5 luglio 2018

Recensione a basso costo: Bilico, di Paola Barbato

| Bilico, di Paola Barbato. Pickwick, € 9,90, pp. 320 |

Ho letto per la prima volta un romanzo di Paola Barbato, sceneggiatrice d'eccellenza dell'intramontabile Dylan Dog, giusto la scorsa estate. Erano giunti infine i tempi dei bilanci, e ritrovando Non ti faccio niente nel meglio della passata annata (limitante l'etichetta di thriller al cospetto di quello stile materno e ricercato, di un'emozionante avventura a cavallo fra le generazioni) mi ero detto che sarebbe stato l'inizio, quello, di una lunga conoscenza. Benché tornata in libreria con il capitolo introduttivo di una nuova trilogia di successo, dalla mia ho ingranato la retromarcia e rispolverato il controverso esordio, galeotta la ristampa in edizione tascabile. Bilico arriva sugli scaffali nel 2006. In anticipo rispetto a personaggi femminili volitivi, distaccati, sdegnosi, che vincono con un clamoroso colpo di stato la guerra dei sessi; prima che il best-seller di Gillian Flynn facesse carta straccia della struttura compassata del giallo tradizionale. I membri delle forze dell'ordine non saranno allora senza macchia. I criminali non avranno metodo, colpiranno alla cieca. I colpi di scena, non riservati a una chiusa a effetto. La giustizia che non vince mai. Protagonista all'avanguardia, Giuditta Licari: anatomopatologa e psichiatra, quarant'anni portati a fatica, detentrice dello strano fascino esercitato dalle donne di potere – né belle né brutta, infatti, viene idealizzata in nome di una reverenza che spaventa l'altro sesso. Sgradevole, distaccata, e forse proprio per quello irresistibile, fa un lavoro da uomini, e dagli uomini è guardata a occhi bassi. Come fa a ostentare una calma perfetta davanti allo scempio di scene del crimine che richiedono guanti in lattice, cuori saldi e uno sguardo clinico? Perché è sfida aperta fra lei e il serial-killer che la stampa ha chiamato il Seviziatore – omicida disordinato ma implacabile, che sembra mietere vittime senza un disegno preciso e accanto ai cadaveri lascia un trailer, un piccolo indizio del male che farà?

Giuditta sa cose che nemmeno immaginavo... mi ha insegnato che dalla morte si può imparare a vivere... sì, ecco, che dalla morte si può imparare a vivere.

Personaggio amorale e borderline di quelli che piacciono a me, a tratti perfino più pericolosa dell'assassino da braccare, la Licari non prova niente, se non il brivido della caccia; a smuoverne l'animo imperturbabile è la curiosità antropologica dell'osservare, dell'indagare. Single, vergine, è la regina di chat erotiche in cui veste un'identità fittizia nonché una mezza habitué dei locali fetish. In ufficio assoggetta l'infatuato Miglio, dolcissimo sottoposto dal pollice verde, alimentando una frustrante e continua tensione sessuale. Flirta con il dirimpettaio sedicenne, soprannominato Tadzio in onore dell'efebo del capolavoro di Visconti, e all'occorrenza copre i misfatti di Alessandro, ex (fidanzato, agente di polizia) dalla spiccata vena pazza. Ma Giuditta non si dà, non si affeziona a nessuno, non si rivela. In intimità com'è con la morte, con i segreti. Queste pagine sono il suo esatto riflesso: eccessive, divertenti, politicamente scorrette. Scritte da un'autrice che, pur di seguirne le mosse e gli sbalzi d'umore, rischia di calcare spesso e volentieri la mano. Esagerando con lo splatter, i vizi del privato, il nero a profusione. Questa volta, gli equilibri non sono dei più perfetti: errori imputabili alla gioventù. Questa volta, il sangue a fiumi, i travasi di bile e le sfumature labili fra buoni e cattivi vorrebbero purtroppo graffiare più della scrittura: così bella, in realtà, da non avere bisogno dei trucchi gore di Sergio Stivaletti. Paola Barbato gioca sporco e, cosa strana, gioca a carte scoperte.

In fondo la morte è un grande mito. Prenderla, darla, che differenza fa?

Da metà in poi sceglie di svelare l'identità del Seviziatore, ed ecco allora giustificati i toni grotteschi, l'ironia tragica, le stranezze – all'autrice fanno un baffo, infatti, le regole del quieto scrivere, e il fastidio, l'antipatia, non risparmiano né la protagonista né i comprimari. 
Il twist al centro, all'inizio chiave di lettura utile a comprenderne le pessime intenzioni, è però un'arma a doppio taglio: se da una parte scagiona il romanzo da qualche esagerazione di troppo, dall'altra fa in modo che la lettura si trascini più o meno prevedibilmente verso un epilogo di inaudita e pregevole cattiveria. 
Cronache di un thriller pionieristico che non ha morale, che non le manda a dire, e in bilico fra il sì e il no si lascia leggere.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Cure – From the Edge of the Deep Green Sea