giovedì 24 giugno 2021

Recensione: I buoni vicini, di Sarah Langan

 
| I buoni vicini, di Sarah Langan. Sem, € 18, pp. 392 |

È il quattro luglio. Un buon giorno per sentirsi americani. Siamo a Maple Street, un ridente quartiere di Long Island in cui tutto sembra essere al posto giusto: tranne gli ultimi arrivati in città, i Wilde, che con i loro accento di Brooklyn faticano a integrarsi. I classici festeggiamenti per il giorno dell'Indipendenza, così, li colgono tagliati fuori. In disparte, spiano dalle tapparelle i rituali dei vicini. Perché non li hanno invitati al loro barbecue; si saranno forse dimenticati di avvisare? L'apertura di una dolina, durante un'estate talmente torrida da non avere precedenti, semina il caos in quel luogo perbene. Dalla voragine, un taglio purulento nel cuore della terra, fuoriesce un bitume nauseabondo. Lampante metafora del marcio annidato sotto gli occhi di tutti, l'evento lascerà emergere mostri terrificanti. Il romanzo di Sarah Langan, erede di Shirley Jackson e Ira Levin stando ai plausi della critica statunitense, parte in medias res. Senza indorare la pillola.

I residenti di Maple Street si vestivano business casual. Avevano impieghi affidabili che raggiungevano a bordo di auto affidabili. Erano sempre di fretta, anche se dovevano andare solo al supermercato o in chiesta. Riversavano il senso di inquietudine, insieme a ogni altra cosa, sui figli. I Wilde erano diversi.

Ambientato in un futuro tutt'altro che lontano, minacciato dai mali dell'inquinamento e da continui sconvolgimenti politici, ha un piglio cinematografico e una struttura varia, che anticipa le tragedie che verranno tramite trafiletti di giornali e interviste ai diretti testimoni. I cronisti di di nera parlano di un massacro. Gli psicologici si interrogano sui traumi delle nuove generazioni. A Broadway ne hanno tratto perfino uno spettacolo teatrale. Sappiamo che tutto è partito dalla morte di Shelley, precipitata nella dolina. Si è trattato di un incidente? La dodicenne fuggiva forse da qualcosa, da qualcuno? Se state pensando a un novello It, in attesa di carne fresca proprio sotto la superficie, avete sbagliato storia. I mostri in questione sono il conformismo, l'intolleranza, il pettegolezzo. Il quartiere punta il dito contro Arlo Wilde accusandolo di pedofilia. Il rocker ha un passato di dipendenze, ha le braccia tatuate, è marito di Gertie (benché incinta, veste in maniera troppo sexy), è papà di Julia (adolescente sfacciata) e di Larry (fragilissimo, probabilmente autistico). Comincia una caccia alle streghe che include aggressioni, vandalismo, calunnie, irruzioni notturne. A reggere fiaccola e forcone è il capogruppo, Rhea Shroeder: madre di quattro figli all'apparenza perfetta, custodisce gelosamente un lato oscuro che in passato ha già mietuto una vittima. Gli abitanti del quartiere sono eroi o assassini?

A volte mi immagino di essere un gigante, di spappolare la mia famiglia nel palmo della mano. Vorrei che morissero per poter essere libera. Non posso lasciarli, sono la loro madre, non mi è permesso. E quindi li odio. È una cosa orribile, vero? Dio, sono un mostro?

Mentre gli adulti perdono il controllo, i soli innocenti sono i giovanissimi, capaci di coraggio e solidarietà in un epilogo talmente catartico da commuovere. Al pari di Them, agghiacciante serie Amazon Prime Video che raccontava le disavventure di una famiglia afroamericana in un sobborgo degli anni Cinquanta, I buoni vicini non va per il sottile, ma ha l'insolito pregio di non prendersi troppo sul serio. Macabramente divertente, adotta un filtro grottesco che rende un po' difficile affezionarsi ai personaggi e sceglie i sentieri della satira per raccontare, in quattrocento pagine zeppe di efferatezze, una verità indigeribile. In questo microcosmo corrosivo, fatto di passati desolanti, futuri effimeri e reazioni spropositate, quali ruoli avremmo preso pur di sentirci membri attivi della comunità? E se il nostro dovere civico, in una società alla deriva, fosse scagliare la prima pietra?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Maneskin – Zitti e buoni

giovedì 17 giugno 2021

Recensione: Il buio non fa paura, di Pier Lorenzo Pisano

 
| Il buio non fa paura, di Pier Lorenzo Pisano. NN Editore, € 16, pp. 176 |

Sembrerebbe lo scenario di una favola d'altri tempi, fumoso ed indefinito, se non ci fossero piccole indicazioni a dare un passato a quel luogo: per il resto, un presepe in rovina con ancora i segni delle bombe lungo le strade crepate e una paura diffusa verso il nemico tedesco. Gli uomini, incorniciati dalle finestre, osservano tutto e tutti con sospetto. I fucili sempre a portata di mano, per ogni evenienza. Laggiù c'è violenza. Ma c'è anche tanta tenerezza, tantissima. Di questo si sono nutriti i protagonisti: tre fratellini di età diverse che condividono il letto a castello, le storie della buonanotte, le arrampicate su un vecchio faggio e le corse a perdifiato nei campi di granturco. Il loro idillio è guastato all'improvviso da un colpo di vento; dal sopraggiungere di un'oscurità così fitta da avere corpo, e mani. Il buio inghiotte la donna di casa, che sparisce all'improvviso senza lasciare traccia. L'hanno uccisa i lupi? I simpatizzanti nazisti? Il suo stesso marito? Pier Lorenzo Pisano, finalista presso quel Premio Calvino che sforna talenti su talenti, cerca le risposte sulle rive del ruscello; nel folto del bosco. Il suo è un esordio convenzionale, ad altezza bambino, caratterizzato da una lingua colta e infantile allo stesso tempo, intessuta di onomatopee, vezzeggiativi e incanto. A dispetto del linguaggio originalissimo, è la storia in sé a non serbare grandi sorprese. A sembrare già raccontata altrove, in variazioni sul tema ora più entusiasmanti, ora più deludenti. C'è una presenza mostruosa in paese. Gli animali vengono trovati barbaramente uccisi, le campane suonano a morto, i capifamiglia hanno conti in sospeso con il bosco.

Gabriele è quasi sotto le braccia nere, che gli si avvolgono attorno e lo sollevano piano, ma non ha più paura, non sente più nemmeno il freddo, e adesso che sono così vicini gli sembra di riconoscerla. Sussurra: ma’. 

Mentre il papà si sfoga accumulando cataste di legna, i piccoli si stringono in unico giaciglio e si fanno coraggio. Guidati da Gabriele, il fratello di mezzo, giungono presto a una conclusione tanto spiazzante quanto dolorosa: e se il mostro cacciato da tutti fosse proprio la loro mamma? Se il buio l'avesse fatta sua – un tutt'uno indistinguibile? Dalle parti di Sette minuti dopo la mezzanotte (senza la stessa devastante carica metaforica) e del film La madre (senza sprazzi horror), Il buio non fa paura racconta la goffa convivenza tra quattro piccoli uomini, impreparati all'elaborazione del lutto. E di una creatura alta come un albero, nera come la notte, che tuttavia ha le braccia accoglienti di un genitore. Si respira aria di fiaba e di tragedia. Ma non tutto, anzi quasi niente, viene chiarito in un epilogo che giunge troppo in fretta ma lascia sensazioni più durature del previsto. Sono i misteri della vita e della morte. E di alcune opere prime dalle ginocchia sbucciate, in cui l'originalità non è di casa, ma l'emozione – dei legami familiari, delle narrazioni di matrice orale – è un prezioso lumicino a cui affidarsi.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Roberto Vecchioni – I colori del buio

venerdì 11 giugno 2021

Recensione: Loro, di Roberto Cotroneo


| Loro, di Roberto Cotroneo. Neri Pozza, € 17, pp. 190 |

È una ghost story classica. Non c'è niente, dunque, che manchi all'appello. Dal prontuario dei gotici ottocenteschi Roberto Cotroneo ha preso in prestito: le proverbiali notti buie e tempestose, le ville fuori città dalla fama sinistra, le istitutrici dal curriculum perfetto ma dai punti di vista non sempre affidabili. Non siamo nella brughiera inglese sferzata dal vento, però, ma alle porte di Roma: da lontano s'intravede il profilo della cupola di San Pietro. Quando Margherita arriva a Villa Alessandra – senza cognome, con un trolley a buon mercato, ottime referenze e poco altro a proposito del suo passato –, sembra lo scenario di un sogno inconfessabile, al punto che la giovane, davanti a cotanta magnificenza, ribattezza la residenza Camelot. È tutto perfetto: dai cespugli pieni di rose agli anfitrioni ospitali, dai comfort innumerevoli alle prodigiose bambine di cui dovrà prendersi cura. Lucrezia e Lavinia, bionde e indistinguibili, gemelle, sono principessine beneducate che si destreggiano tanto come fantine quanto come pianiste. Ma sul viso hanno un'espressione greve, che stona profondamente con i loro soli dieci anni.

So che è difficile accettare quello che viene raccontato. Ho corretto poche frasi: qualche data errata, qualche riferimento inesatto. Nient’altro. Glielo affido con la speranza che la sua saggezza possa rischiarare le tenebre di questo orrore.

Sono proprio piccoli dettagli stridenti di questi a mettere sul chi vive Margherita. Perché le due bambine sembrano gestire gli equilibri della casa al pari di navigate direttrici d'orchestra, fino a prendere le parti dei genitori spesso assenti? Come mai Gaetano, il giardiniere claudicante, ha occhi dappertutto? L'ultimo interrogativo, il più importante, riguarda infine un tempio pagano al principio del bosco: qual è il legame tra Ecate, l'antica dea dei crocicchi, e una residenza progettata da un rinomato architetto contemporaneo? Le case nuove non hanno storia, giura a un certo punto uno dei personaggi: non possono dimorarvi fantasmi. Loro smentisce quest'affermazione, raccogliendo i ricordi di una protagonista pietrificata dall'orrore. Scritto sotto forma di memoriale, il romanzo è il diario psicoanalitico di una studentessa brillante e razionale, solitamente estranea alle farneticazioni melodrammatiche, che presto abbandonerà l'asciuttezza iniziale per lasciarsi andare a un delirio in cui si mescolano visibile e invisibile, realtà e paranormale.

L’inferno ti segue dappertutto, perché l’inferno ci appartiene, l’inferno è preistorico: quando lo vedi, e basta una volta sola, puoi anche riuscire a dimenticarlo per anni, per decenni, ma quando non te lo aspetti, quando pensi che il cielo e la terra possano essere tutto quello che desideri, l’inferno si riapre.

Elegante, colto e divertito, Roberto Cotroneo adotta un filtro color seppia per rendere le ambientazioni sospese nel tempo e, nel colpo di scena conclusivo, semina più di qualche brivido lungo la schiena nonostante i primi caldi di giugno. Quali fiabe ci raccontiamo contro la vertigine dell'abisso? Ognuno dice una bugia. Ognuno serba una verità. I confini si scopriranno labili, come quelli per distinguere le due gemelline dallo sguardo torbido. Omaggio a Henry James non senza una propria identità – c'è perfino qualcosa dell'ultimo Charlie Kaufman –, il romanzo è una partitura ora cristallina, ora infernale, che nelle ultime pagine rievoca le note più raccapriccianti di Skrjabin. Somiglia a Villa Alessandra: interamente vetrata, presenta una struttura semplice ed essenziale, invisibile, ma è frutto in realtà di un'architettura laboriosa. Loro è un gioco al suon di citazioni raffinate: una ghost story classica, che a sorpresa sa come non diventare una classica ghost story.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Aleksandr Nikolaevič Skrjabin – Sonata n.9 

mercoledì 9 giugno 2021

Le serie TV di aprile/maggio: Anna | Them | The Great | Halston

La piccola Anna viene alla luce nel momento giusto o forse in quello sbagliato. Insieme a lei, anche la serie TV che porta il suo nome. Quant’è macabro, infatti, con il Covid ancora in atto, vedere sul piccolo schermo un’Italia silenziosa, deserta e dalla mortalità alle stelle? Il futuro post-apocalittico di cui parla Niccolò Ammaniti, realizziamo con un brivido di sconforto, è già arrivato. Tratto da un buon romanzo pubblicato nel 2015, l’intreccio si amplia e s’infittisce fino a trasformarsi in un capolavoro della serialità nostrana. Il merito spetta all’amatissimo Ammaniti, qui anche regista di folgorante intuito, sempre apparso avanti coi tempi rispetto ai colleghi: questa volta è addirittura profetico. Ambientati in una Sicilia come non l’avete mai vista, trasfigurata in un incubo grazie al lavoro certosino di costumisti e scenografi, i sei episodi seguono il viaggio della protagonista: sopravvissuta a una pandemia che lascia scampo soltanto ai bambini, ha lo scheletro della madre in camera da letto e un fratellino da salvare. Durante il suo cammino, metafora del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, si imbatterà in una corte spaventosa popolata da sadiche principesse, spregevoli talent scout, ermafroditi leggendari. Il regista, come recita il titolo di un altro suo famoso romanzo, non ha paura: né dei tabù, né delle svolte poco consolatorie, né degli accostamenti visionari. Acuisce a dismisura la crudeltà e la tenerezza. Anna è violenza, Anna è grottesca, Anna è imprevedibile, con i suoi bambini che a volte ammazzano e altre vengono ammazzati. Anna è l’intentato. E, dal basso della sua statura e dall’alto della sua saggezza, fornisce strumenti per trasformare l’incubo del virus in un’indimenticabile fiaba della buonanotte. Con i delfini nei campi di grano, gli elefanti in spiaggia, i pedalò contro la corrente. (9)

La famiglia Emory si trasferisce in un sobborgo bianco nella Los Angeles degli anni Cinquanta. In fuga da una perdita indicibile, si imbatte nella scortesia del vicinato. Popolato da mogli perfette e mariti spavaldi, il quartiere alto-borghese si mette all'opera per rendere un incubo il soggiorno dei protagonisti. L'incipit ci svela che resteranno lì dieci giorni appena. Cos'è accaduto? I pericoli sono al di fuori dei confini del loro giardino, ma soprattutto dentro di loro. Ciascuno dei membri della famiglia, logorato dalle conseguenze della discriminazione, convive con un demone da domare. Come in It, il terrore assumerà di volta in volta forme personali e ancestrali. Serie antologica destinata a raccogliere con successo lo scettro di American Horror Story – da qualche anno a questa parte scivolata nel baratro del cattivo gusto –, Them è un horror sociologico che affronta la tematica razziale senza l'ironia del cinema di Peele. Qui la crudeltà è una maledizione antica quanto gli Stati Uniti. Potentissima e disturbante, questa prima stagione sceglie un approccio scioccante e una deriva sanguinosa come in Tarantino. Di puntata in puntata – da incorniciare la nona, girata in uno straordinario bianco e nero –, trabocca di rabbia cieca, disperazione e violenza. Anche troppa, a detta di coloro che hanno abbandonato la nave davanti alla crudezza dell'episodio numero cinque: un apposito disclaimer, tuttavia, ci avvisava sulla portata degli abusi (fisici, psicologici, sessuali, su minori e animali). Peccato però che Them non vada troppo per il sottile e che molte sottotrame – ad esempio quella di una bravissima Alison Pill, mogliettina modello dagli istinti omicidi – vengano chiuse frettolosamente. Fa più paura il destino di un neonato o la sequenza in cui un'adolescente camuffa il colore della pelle intingendosi nella vernice? Fa più paura il già iconico Da Tap Dance, ingegnosa personificazione del fenomeno del blackface, o la consapevolezza che i mostri reali siano ben altri? Autoconclusiva, coloratissima nella vezzosa messa in scena ma intrisa di profonda inquietudine, la serie Amazon vi farà tremare. Oltre che per spavento, per l'indignazione. (8)

Se l’avessi vista rispettando la tabella di marcia prefissata, The Great sarebbe finita nel meglio della scorsa annata. Nominatissima alla stagione dei premi, benché rimasta ingiustamente a bocca asciutta, è trainata da grandi nomi – lo sceneggiatore è lo stesso della Favorita – e da un cast che include due degli attori più versatili delle nuove generazioni. La penna affilata di McNamara si riconosce sin dall’inizio e contribuisce a rendere irresistibile la serie anche per chi, come me, non ama i period drama. Ritratto pop, grottesco e deformante dell’imperatrice di Russia, The Great a ben vedere è più fedele del previsto nel delineare l’intelligenza rivoluzionaria di Caterina II. Giovane candida e speranzosa, finita nella corte promiscua di Pietro per via di un matrimonio combinato, ordisce un colpo di stato per rendere la Russia moderna. Compagna, amante e spia, persuade il marito con le lusinghe e con le cospirazioni. Prima vorrebbe ucciderlo. Poi, confusa dall’insorgere di un nuovo sentimento, cambia idea. Ama più il suo Paese, però, o il consorte? Elle Fanning, radiosa come una giovane Kidman, ha tempi comici strepitosi e primi piani intensi: distribuisce macaron sul campo di battaglia e porta l’Illuminismo a palazzo (con tanto di innesto del vaiolo). Accanto a lei, Nicholas Hoult: bello come il sole e stupidissimo, si rivela una spalla preziosa grazie al dono dell’autoironia. Storia dei vent’anni della Grande andata in moglie a uno zar fanfarone, la serie Hulu è una commedia nera scritta meravigliosamente. Una riflessione sul potere, e sulle donne al potere, al passo coi tempi nonostante le guance incipriate e i sontuosi abiti d’epoca. Dunque: huzzah! (7,5)

Anno che vai, Ryan Murphy che trovi. Instancabile, prolisso, sempre uguale a sé stesso, lo sceneggiatore e regista americano è uno di quelli che critico sempre ma che sempre, poi, finisco per guardare con puntualità. Dopo l’horror, il musical e le pièce teatrali, questa volta produce una miniserie su Halston: stilista a me sconosciuto – divenne famoso per i cappelli confezionati per Jackie Kennedy, ma realizzò perfino jeans, profumi e costumi per il teatro –, morto di Aids nel corso della parentesi più triste degli anni Ottanta. Nonostante Murphy si limiti a starsene dietro le quinte, porta con sé la solita fotografia noiosamente laccata; il solito trinomio queer di sesso, droga e disco music; un attore di richiamo – un Ewan McGregor molto manierato: a tratti convincente, a tratti pigro – a fare da traino per Emmy futuri. Schiacciato dalla propria fama, inglobato dalla monotonia dei meccanismi aziendali, lo stilista nutriva pessimi rapporti con la critica e aveva per musa l’emergente Liza Minelli. Gli eccessi consueti, ossia amanti e cocaina a gogò, con orchidee dappertutto e incursioni frequenti allo Studio 54, non mancano. Ma a sorpresa mancano i pasticci. Meno dispersivo di altri lavori passati, meno kitsch, il lineare e gelido Halston ricerca in cinque puntate di lunghezza variabile l’uomo dietro il marchio. Riesce nell’intento? Nì. La sceneggiatura, che sembra letteralmente una pagina di Wikipedia, ne descrive infatti vita, morte e miracoli con attenzione cronachistica, ma purtroppo manca il guizzo. Evitabile, fatta eccezione per le emozioni nascoste nel terzo episodio o per la saggezza dell’epilogo. (5,5)

lunedì 7 giugno 2021

Recensione: Un bacio dietro al ginocchio, di Carmen Totaro

 
| Un bacio dietro al ginocchio, di Carmen Totaro. Einaudi, € 18, pp. 176 |

Da grandi inizi derivano grandi responsabilità. E l'inizio del secondo romanzo di Carmen Totaro, accolto con entusiasmo dagli addetti ai lavori, è una folgorazione. Fino a pagina cento, le avrei gridato amore grande. Merito di uno stile senza fronzoli, implacabile come quello di un'altra bravissima: Nicoletta Verna. Merito di due protagoniste feroci e imperscrutabili, che a lungo si inseguono – anzi, si braccano – nell'impossibilità di capirsi reciprocamente. Ada ed Elisa sono mamma e figlia. Nemiche per la pelle, al centro di uno di quei rapporti familiari disfunzionali con cui da sempre vado a nozze, si danno appuntamento in un modesto ristorante milanese per festeggiare i ventidue anni di Elisa. Il vino rosso scorre a fiumi, la conversazione è agitata: Elisa vorrebbe cambiare corso universitario a un passo dalla laurea; trasferirsi all’estero. Il ritorno a casa è surreale. Stranamente accondiscendente, la giovane si offre di preparare un bagno ristoratore alla madre che si appisola presto in vasca. Qualche ora dopo la donna si sveglia: la chiave non è più nella serratura, il condominio è messo in allarme per ragioni che non vi svelo, Ada viene guardata con sospetto, Elisa è scomparsa. 

Forse, se ne avesse avuto coscienza, avrebbe potuto confessarle che la ammirava in un modo strano e terribile, perché può arrivare il momento in cui si dive avere il coraggio di bruciare tutto, anche la propria madre.

A dispetto di titolo e copertina, che lasciano immaginare una vicenda familiare agrodolce, Un bacio dietro al ginocchio ha l'andamento criptico di un thriller dei sentimenti: ho pensato a Domenico Starnone. I misteri e i non detti abbondano, con tanto di denunce di scomparsa alla polizia e di cronologie setacciate a fondo. La protagonista deve fare infatti i conti con il dubbio, con l'assenza di una ventiduenne ribelle, intemperante, scostante: un'assassina mancata. La curiosità cresce di pagina in pagina, mentre Totaro descrive senza nessuna indulgenza il senso di smarrimento vissuta da Ada; le bugie a fin di bene che a lungo si è raccontata a proposito marito defunto – traditore –, della madre – appena accennata, è descritta come un'anziana sgradevole –, della figlia – studentessa in realtà tutt'altro che brillante –. Elisa è un personaggio immensamente interessante finché si limita a essere un punto interrogativo, un nodo da sciogliere. È un'attrice non protagonista che brilla soprattutto nell'assenza. Quando nella seconda metà emerge il suo punto di vista – piuttosto banale, è il classico ritratto di una ragazza di buona famiglia dedita agli eccessi e ai colpi di testa –, il romanzo cambia taglio e scenario. Si guasta. Con l'espediente di un viaggio on the road, la ricerca della protagonista si sposta in una Sardegna brulla e polverosa, tanto cara alla narrativa italiana. E l'inquietudine degli inizi viene tradita bruscamente da una resa dei conti – porterà forse alla riconciliazione finale? – che rende gli interrogativi vani, la morale nebulosa, la costruzione incoerente. Non all'altezza delle aspettative, per via di due parti antitetiche che collimano più che incastrarsi, il bacio di Elisa lascia un fastidioso senso d’amaro in bocca.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Kasabian - Goodbye Kiss


giovedì 3 giugno 2021

Recensione: Mare aperto, di Caleb Azumah Nelson

| Mare aperto, di Caleb Azumah Nelson. Atlantide, € 16, pp. 198 |

Ci sono romanzi che vorresti amare, ma con cui non scatta la scintilla. Ci sono libri con pagine meravigliose, ma che faticano ad amalgamarsi con il resto della narrazione. Mare aperto, nel mio caso, è stato uno di quelli. Storia d'amore e razzismo nello stile di Se la strada potesse parlare e Un matrimonio americano, rinfresca il genere sposando il punto di vista di un giovanissimo. L'autore, classe 1993, è più vicino alla generazione di Sally Rooney che a quella James Baldwin. Al pari di Connell e Marianne, idoli istantanei dei miei coetanei, i protagonisti di Caleb Azumah Nelson – per tutto il tempo senza nome – si amano, s'inseguono, ma faticano ad ammettere i propri sentimenti. Artistici, irrequieti e indecisi, sono amici e molto più che faticano a fare il passo successivo. Agli occhi degli altri, tuttavia, appaiono già una coppia. Cosa li separa? Da un lato, la distanza geografica: lei, ballerina, studia a Dublino; lui, fotografo, vive nella periferia di Londra. Dall'altro, invece, le inibizioni del protagonista maschile: troppo pensieroso, guarda con paura crescente gli attacchi della polizia alla comunità nera e non riesce ad aprirsi con sincerità alla partner.

Tra voi due c’è qualcosa. Non so cosa, ma tra voi due c’è qualcosa. C’è chi la chiama una storia, chi amicizia, chi amore, ma tra voi due, tra voi due c’è qualcosa.

Com'è innamorarsi all'epoca del Black Lives Matter? Cosa significa commuoversi guardando un film di Barry Jenkins o indignarsi con una pellicola di Spike Lee? Quant'è importante coltivare un senso d'appartenenza, le proprie radici, tra club affollati e concerti martellanti? Abbondano i cenni, urgenti, alla cronaca nera. Ma anche le citazioni di saggi che non ho letto, di canzoni che non conosco, di lungometraggi che non ho visto. La cultura “black” straborda e, impreparato, ho forse colto la metà delle troppe citazioni presenti. Emotivamente poco ho colto, purtroppo, anche dei drammi del protagonista: vittima di un razzismo ormai connaturato e destinato alla perenne insicurezza, viene raccontato con uno stile che all'inizio ho trovato poetico e infine lezioso. Costituito da squarci sparsi di violenza e bellezza, il romanzo sceglie la seconda persona singolare. Brevissimo, propone pagine introspettive e intrise di lirismo, vicine al gusto della slam poetry, ma non sempre adatte a costruire una vicenda compiuta. Per via della ricerca costante della frase a effetto, ho fatico a scorgere sviluppi significativi.

Ti sei interrogato sul rapporto che hai con il mare aperto. Ti sei interrogato sul trauma e sul fatto che riesce sempre ad affiorare in superficie, e a galleggiare nell’oceano. Ti sei interrogato su come potevi fare a proteggere quel trauma dal logoramento. Ti sei interrogato sulla partenza, sull’essere altrove. Avevi sempre creduto che se aprivi la bocca in mare aperto saresti annegato, ma se non aprivi la bocca saresti soffocato. E allora eccoti qui che anneghi.

Profondamente contemporaneo ma con uno stile rarefatto, sospeso nel tempo, il romanzo parla di tanto e di poco al tempo stesso. Mi piacevano moltissimo, eppure, questi protagonisti intrecciati stretti come succede ai fili delle cuffiette. Mi piacevano i dialoghi fitti fitti, in quei primi appuntamenti che ci trasformano tutti in ragazzini timidi e smaniosi; i passi coordinati; le playlist condivise. Mi piacevano le linee e i sentieri che tracciavano l'uno verso l’altro, inconsapevoli delle biforcazioni impreviste con l'avvicinarsi di un'estate crudele. Peccato che lui la allontani spesso; peccato che, così facendo, allontani anche il lettore. Non mi sono sentito a mio agio nel bozzolo di lenzuola della coppia protagonista; nei gorghi del loro mare immenso. Sfortunatamente deve essermi sfuggito qualcosa, e mi dispiace sinceramente. Il rollio delle onde lontane e la voce calda di Nelson facevano un rumore bellissimo.

Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Bee Gees - How Deep is Your Love