giovedì 28 giugno 2018

Mr. Ciak: Ogni giorno, Stronger, La terra di Dio, Tulip Fever

Un altro Young Adult sceglie il grande schermo. Questa volta, però, tocca a una storia che qualche anno fa avevo consigliato in lungo e in largo: Ogni giorno, diventato un piccolo film da un momento all'altro, in sala trova il regista della Memoria del cuore e l'autore di Quel fantastico peggior anno della mia vita. Nonostante l'affidabilità dei nomi coinvolti e un cast freschissimo, l'impresa era difficile se non impossibile. A conti fatti, non è stata persa in partenza. Scoprire al suono della sveglia di essersi svegliati in un corpo diverso: spunto abusatissimo. Ogni giorno, eppure, fa eccezione. Perché A. è un'anima antica che si sveglia ogni giorno, appunto, in un corpo estraneo. Qualche male intenzionato parla di lui come di uno spirito demoniaco, ma il protagonista non ha cattive intenzioni. Soltanto tanta voglia di restare, quando osa innamorarsi di Rhiannon, diciassettenne con due genitori in crisi e un fidanzato che la dà per scontata. All'inizio è arduo credere alle parole di uno sconosciuto che a volte è il ragazzo dell'armadietto accanto, altre un'aspirante suicida; a volte un orientale obeso, altre un'adolescente transessuale; alcune maschio, altre femmina. Quanto è difficile, infatti, andare oltre il guscio esterno per ricordarsi che lì sotto c'è chi ci ha regalato momenti perfetti? Quando è difficile pensare un dramma sentimentale in cui il protagonista cambia faccia a ogni stacco di montaggio? Sucsy e la sua squadra di attori – segnaliamo Lucas Zumann da 20th Century Women – ci provano, prediligendo la prospettiva del personaggio femminile e facendo una cernita doverosa delle infinite storie di A. Ne viene fuori una produzione forse non all'altezza dello spunto vincente, ma d'impatto. Il film sceglie la via più onesta. Non strappa lacrime con furberia, non si concede effetti speciali o una chiusa meno agrodolce, e ci ricorda con delicatezza il suo messaggio. Da dove nasce l'attrazione? Dalle tracce dei vecchi innamorati che ricerchiamo nelle fotografie, negli hashtag, nel gesto di riavviare una ciocca di capelli. Come ti rapporteresti con il prossimo, se l'empatia fatta sostanza ti avesse fatto soggiornare per un po' nella sua esistenza? Considerando tutto il mondo casa, ribadisce David Levithan, e l'amore un'esperienza trasversale. (6,5)

Ha promesso di aspettarla al traguardo. Voleva farsi perdonare le mancanze, i ritardi. Sostenerla con un cartellone impiastricciato alla maratona di Boston. Fra i due è tutto un tira e molla. Colpa di lui, che non è pronto a crescere, a impegnarsi, ad abbandonare il pollaio. Perciò Erin corre e Jeff, che non sta mai fermo, che si sbraccia e si sgola come un bambino cresciuto, la aspetta come prova di fiducia. Un'esplosione. Il fumo. La caccia istantanea agli attentatori. Jeff li ha visti e sopravvive: può denunciare. Jeff si sveglia nel sangue e non ha più gli arti inferiori: tranciati di netto sotto il ginocchio. Stronger, ritorno al cinema e alla serietà di David Gordon Green, ne racconta la caduta e la risalita. Biografia di un uomo e di un Paese – patriottica alla Eastwood maniera, ma piuttosto onesta; commovente ma lieve –, restituisce la verità, l'energia, gli sbagli, a un trentenne trasformato dai media in simbolo istantaneo. Uscito dall'ospedale, il protagonista ha le telecamere sbattute in faccia: due occhi che dicono tanto, un sorriso tirato, il pollice all'insù. L'America, come lui, è forte. Non viene vinta, non si arrende. Spente le luci, il ragazzo era soltanto un sopravvissuto bocconi, che reclamava il suo spazio per soffrire e guarire. Il bambinone irrequieto dell'inizio, a cui toccava dipendere dalla pietà degli altri; a cui toccava dare l'esempio che non era in grado di offrire. Un Gyllenhaal straordinario si strugge in solitudine, si ubriaca coi compagni di merende, si trascina nella polvere per scongiurare Tatiana Maslany – stanca delle sue continue bizze, di mamma Richardson che deve metter sempre bocca –, e infine si rialza. Lui, molto meglio di un ritratto a modo, godibile, a cui manca la spinta decisiva. Per imporsi presso un Academy che non troppo a sorpresa l'ha ignorato, e all'inizio ci si chiedeva il perché. Per metterci in ginocchio con la sua tragedia, e poi tenderci la mano. (6,5)

La storia di un amore omosessuale tra le nebbie dello Yorkshire. Si parla di braccianti e mandriani, di bestie da far nascere o macellare, e la cupezza delle atmosfere e l'alta quota richiamano subito Brokeback Mountain. Si parla di giovani uomini sporchi, incolti, laconici, agli antipodi rispetto agli innamorati elitari di Chiamami col tuo nome. Lassù ci si capisce con il linguaggio dei gesti, o così sembra. Sullo sfondo di paesaggi mozzafiato, la regia spartana dell'inglese Francis Lee – vincitore a sorpresa agli scorsi Satellite Awards accanto a Tre manifesti a Ebbing, Missouri – segue la routine di due personaggi ridotti all'osso, che passano dal reciproco fastidio all'attrazione senza quasi bisogno di parlarsi. Lo scapestrato Josh O'Connor e il solerte Alec Secareanu si trovano a collaborare fianco a fianco per mandare avanti l'azienda agricola del primo: nonna Gemma Jones che sa tutto ma non dice, un padre disabile in fondo interessato alla felicità dell'unico figlio, la difficoltà immane di farsi andar bene una vita imposta da qualcun altro. Quella terra non può domarla nessuno, se non il Padreterno. Il piccolo God's Own Country, approdato anche in qualche coraggioso cinema italiano con il titolo La terra di Dio, è un'educazione alla natura e ai sentimenti. I corpi pelosi, nudi, che nell'unica scena di sesso si limitano a toccarsi. I parenti che tacitamente acconsentono. Una discrezione scambiata per indifferenza soltanto in principio: non ci si chiede scusa, lì, e non si dice né grazie né prego. Manca loro, purtroppo, la testardaggine che una fattoria da mandare avanti e una relazione sentimentale inevitabilmente presuppongono; non di certo la tenerezza che non ti aspetteresti, benché agli agnelli e agli amanti si riservino le stesse cure spicce. God's Own Country è lento, crudo, secco. Sarà per questo che sorprende in punta di piedi quell'intensità finale, quel trasporto emotivo fortissimo, in un melodramma bucolico per il resto pieno di spifferi e violenza. Il lieto fine, raro e meritato dopo una giovinezza di compromessi e sacrifici. I colpi di testa e di cuore, i sorrisi stentati, in terre a picco in cui gli innamorati fan da padroni, andandosene via, infine, perfino il Creatore. (7)

Nella cornice dell'Olanda seicentesca, una serva impertinente – Holliday Grainger, innamorata del pescatore Jack O'Connell – racconta con un inglese perfetto la corsa all'oro, anzi ai tulipani, e le sfortune della famiglia Sandvoort. Lei moglie bambina, lui scafato mercante, in attesa di un erede o di una tentazione da cogliere: a strappare una Vikander bellissima e annoiata dal cupo castello di Waltz, cattivo al solito ma con qualche sfumatura in più, arriva così il pittore di un anonimo DeHaan. La loro passione clandestina: fragile quanto quei fiori di cui qualcuno vive e qualcuno muore. Tulip Fever si poggia sull'intrigo, sull'inganno, sul malinteso. Dramma della gelosia e della sorte, ha un clima ben reso – la regia moderna e il montaggio concitato suggeriscono il fervore, il respiro affannoso della corsa e del sesso – ma svolte macchinose e dialoghi a tratti ridicoli. Se non fosse per la scarsa fretta nel trovargli una distribuzione in Italia e per la fredda accoglienza, se non fosse per il romanzo piacevole e poco più alla base, sarebbe stato lecito nutrire alte aspettative. Con quel ricco cast, tra protagonisti e figuranti (ci sono anche la badessa Dench, il giullare Galifianakis e la prostituta Delevingne). Con quell'aria giusta, a scatola chiusa, da film assai caro all'Academy. Ma, guardando il bicchiere mezzo pieno, l'ultimo film di Chatwin poteva risultare altresì noioso, pesante, ingessato. Leggero e sensuale, dai ritmi vorticosi e caotici, Tulip Fever è invece una visione che si affronta con leggerezza e con altrettanta leggerezza si dimentica. Una febbre lunga un pomeriggio appena, con i sintomi di una sfarzosa mise-en-scène, di un inutile impiego di nomi e mezzi, di una bellezza formale (nei costumi, nei luoghi, nei nudi) che a malincuore subito sfiorisce. (5,5)

lunedì 25 giugno 2018

Recensione: Paesaggio con mano invisibile, di M.T. Anderson

| Paesaggio con mano invisibile, di M.T. Anderson. Rizzoli, € 16, pp. 160 |

Adam Costello, diciotto anni, ha una famiglia che se la cava così così, una ragazza che non lo merita e grossi problemi di meteorismo. Sua madre, ex impiegata in banca senza uno straccio di entrata fissa, non ha l'età per rimettersi in gioco nello spietato campo del lavoro né per ricostruire un'autostima malandata dopo la scomparsa del marito, forse morto suicida o forse semplicemente scappato in un posto in cui sono maggiori la domanda e l'offerta. La sorella minore, Nattie, mette invece all'asta l'infanzia e i peluche di sempre nella speranza di crescere in fretta, di dare loro una mano in più. Le soluzioni, se vittime di una crisi economica senza precedenti e abili con tempere e carboncini, sono due: affittare l'altro ramo della casa ai membri superstiti della famiglia Marsh, altrettanto al verde e con una secondogenita la cui vista ci fa battere fortissimo il cuore; iscriversi a un ricco concorso su consiglio di un insegnante d'arte pieno di spirito d'iniziativa, probabilmente il solo vero adulto in un mondo di gente che confonde la maturità anagrafica con la saggezza. Dissacrante, agrodolce, senza una facile morale di fondo o un finale netto, Paesaggio con mano invisibile racconta gli amori brevissimi, la prigionia di mutui lunghi tutta la vita, le famiglie allargate ai tempi di una recessione che fa strage dei proverbiali sogni americani. È l'equivalente su carta di quegli adorati film indie – un ritorno al neorealismo, se vogliamo – che parlano con leggerezza degli attimi insignificanti, degli istanti risolutivi, di noi ai margini. Quello realizzato dal bravissimo Matthew Tobin Anderson, non a caso autore cult dell'introvabile Feed, è il ritratto di un'adolescenza con variazione sul tema: l'apocalisse fuori.

Sii te stesso. Racconta la nostra storia. Di' la verità. È questo che vince nell'arte: la verità.

Ve lo avrà giù annunciato la copertina: gli extraterrestri sono in mezzo a noi. Sono venuti a invaderci, sì, ma in pace: civili, diplomatici, geniali. Sinistre presenze che assomigliano più agli eptapodi di Arrival che agli usurpatori dell'Invasione degli ultracorpi, hanno promesso agli uomini cure prodigiose, autentici capolavori dal riciclo dei rifiuti e una tecnologia che farebbe apparire obsoleto perfino Steve Jobs. Negare all'umanità i loro servigi, o assecondarli nonostante l'altezza del prezzo da pagare? I vuuv ci hanno reso in fretta tutti inutili, tutti disoccupati: si pensi per analogia all'avvento delle catene di montaggio, alla forza-lavoro del proletariato rimpiazzata infine dall'efficienza delle macchine. All'ordine del giorno, così, gli attentati contro le autorità e le proteste; una competitività maleducata che, in una guerra fra poveri, dà la colpa alla concorrenza dell'immigrato messicano (lo sa bene, da sotto il toupet paglierino, Donald Trump). C'è qualcosa, però, che l'infinita conoscenza degli alieni non contempla: l'amore, e la perdita di tempo che comportano le passeggiate romantiche, i tramonti per due, baciarsi alla francese. Che ne sanno loro, che si riproducono per gemmazione e hanno una passione esagerata per gli anni Cinquanta? Adam e Chloe, la fidanzata-coinquilina, si sono ingegnati: dare in pasto ai vuuv la loro relazione, mostrandosi innamoratissimi sotto lauto compenso in una sorta di reality show a tema Grease. Le macchine con gli alettoni, i drive-in, i frappé condivisi e le smancerie abbondano: anche quando l'amore passa – lei si invaghisce di un bellimbusto all'ultimo anno di liceo, che scolpisce statue a colpi di motosega e non la imbarazza con le conseguenze tragicomiche della Sindrome di Merrick –, ma il bisogno di sbarcare il lunario, di fingersi coppia, resta.

A volte si crede che la vista dall'alto possa infondere un senso di dominio e di potere; e poi invece scopri che ti fa soltanto capire quanto in realtà è stata piccola la tua vita.

Il povero Adam, spesso farneticante per la febbre a quaranta e il bisogno urgentissimo della toilette, è impegnato su un doppio fronte. Da un lato, combattuto tra intimità ed esibizionismo, truffa gli spettatori extraterrestri accanto a quella coetanea che d'un tratto non gli appare più incantevole come una Madonnina rinascimentale. Dall'altro, lo tenta l'idea di dipingere per quel concorso intergalattico l'America com'è e non come sarebbe bello che fosse: anche se i vuuv, turisti in un paese straniero, ne sanno poco d'amore, di religione, e meno ancora di arte. 
I capitoli di Paesaggio con mano invisibile avranno perciò i titoli o le didascalie dei lavori del protagonista: dipinti alla Hopper, intrisi di solitudine, per cogliere a colpo d'occhio il cambiamento tutt'attorno – i ricchi sulle case fluttuanti delle fiabe, i poveri che elemosinano il lieto fine su cumuli di curricula e pattume. Nel tentativo di familiarizzare con il capitalismo del futuro, allora, finire per somigliare ai membri della classe dominante – imparare la loro lingua di fruscii impercettibili, imitarne le brutte teste glabre –, o opporsi?

La mano invisibile che guida le nostre opere, le nostre azioni, i nostri mercati non potrà raggiungergi laggiù. Fuori dallo spazio e dal tempo, dal tempo e dallo spazio, non ci sarà più alcuna distanza tra noi e i nostri desideri.

La mano invisibile: quella di cui parlavano gli economisti settecenteschi; quella di dio, forse, che ha lasciato la terra sfitta, a beneficio di nuovi e molesti ospiti (che maggiorano i prezzi, sporcano, fanno i loro porci comodi). Cosa ci rende incontrovertibilmente umani? 
Non siamo solo rock 'n roll: c'è, infatti, chi osa ballare su un ritmo alternativo, il proprio. 
Non siamo tutti natura morta su tela: c'è chi sceglie la realtà, non l'evasione delle bugie. Pur scrivendo di semplice – be', si fa per dire – fantascienza.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: 4 Non Blondes – What's Up

venerdì 22 giugno 2018

Recensione: Guasti, di Giorgia Tribuiani

Guasti, di Giorgia Tribuiani. Voland, € 14, pp. 128 |

Plastinazione. È così che si chiama il processo che permette ai corpi umani di essere conservati. Senza liquidi, sostituiti con polimeri di silicone. Senza il cattivo odore della morte. I cadaveri – imbalsamati, levigati, sezionati – sono esposti come bronzi greci nei templi della dea scienza. Gli organi all'aria, preziosi camei. Le cavità interne, i genitali e i difetti, sotto gli occhi di tutti, a portata di flash. Se non fanno troppa impressione è perché sembrano statue di cera. Se non ispirano grandi interrogativi etici, un po' di empatia, è perché delle statue non inventi mica le carriere, gli affetti, un cuore congelato. Immaginate, adesso, un museo imprecisato.
Le pareti candide, l'illuminazione dei faretti strategici, il vociare di un pubblico eterogeneo tra lo stupito e l'inquieto: queste sculture di carne, fisse al centro della sala nelle loro pose plastiche, saranno per un mese l'attrazione principale. Il dottor Frankenstein che le ha plasmate e radunate si chiama Tulp. Il compagno di Giada, che di arte è vissuto ed è morto, ha promesso al luminare della plastinazione la sua salma: diventato uomo da piedistallo, dunque, per una tanto precisa quanto imperscrutabile volontà testamentaria.

Ogni uomo uccide la cosa che ama.

Nel museo di cui vi parlavo, a questo punto, aggiungete una presenza ricorrente. Una donna che tra me e me mi sono figurato di mezza età, con un vestito fuori contesto, il rossetto ripassato di fresco sul sorriso tristissimo, un bicchiere di spumante fra le dita guantate. Si intromette nelle chiacchiere dei critici, dei laureandi in Medicina, delle coppie innamorate. Stringe mani, rifiuta dichiarazioni, timbra biglietti d'ingresso per trenta giorni complessivi. Lì festeggia i compleanni in solitaria, sollevando il calice verso una mummia con la Nikon al collo. Lì pianifica i potenziali flirt e le interviste. Ogni tanto qualcuno la riconosce e le chiede con sincera afflizione come sia essere lei, strana vedova incapace di andare altrove. È proprio la ragazza dell'altalena, immortalata di spalle in uno scatto apprezzatissimo? È lei la moglie – si correggono, poi: la donna – del fotografo di risonanza mondiale famoso per i capelli lunghi, le bandane e la scarsa voglia di accasarsi? Rare, invece, le occasioni in cui la visitatrice infastidisce il prossimo: vaneggiando, alzando la voce contro i vivi o i defunti, cercando di coprire le vergogne del compagno con un berretto di lana. Sì, è lei in persona: Giada. Nessun cognome, nessun dato anagrafico e nessun hobby che non sia orbitare notte e giorno attorno a un sole da tutti compianto. Con quale cuore, infatti, non custodirlo?

No, non lo abbandono. Voglio continuare a pronunciare il suo nome perché resti vivo.

Voltargli le spalle, finché è in esposizione, sembra un tradimento. E rassegnarsi all'idea che lo spirito di onnipotenza di un misterioso acquirente possa portarlo via, in una casa in cui lei non è invitata a entrare? Il grande amore della protagonista, fatto sta, è morto: non sappiamo né quando né perché, come sia nata e come finita la loro relazione da rotocalco. Su un piedistallo, nudo, non può temere più l'imbarazzo o crucciarsi per il bozzo sulla testa che i maligni additano. Il dottor Tulp ne ha scolpito lo scheletro in modo che reggesse l'inseparabile macchina fotografia e ha trasformato un cimitero in una galleria; un raffinato vernissage in una camera ardente. Giorgia Tribuiani, classe 1985, racconta la veglia eterna sotto i riflettori di una Antigone che perde sé stessa per non perdere l'amore; di cadaveri che respirano e si truccano sul pianto versato. L'ordine asettico del museo collide allora con la ferocia di una prosa vandalica, che i personaggi vorrebbe ora custodirli, ora farli a pezzi. Nudi e crudi, esposti, non hanno connotati o un passato. Fasci di nervi insanguinati, mucchi d'ossa, mazzi di vertebre. Sono stati forse uomini? Sono state forse donne? Quanto si sono amati, e quando? Cosa facevano prima di essere lì?

Guasto era il suo amore, guasta la ballerina, guasto era in fondo il destino di tutte le persone, immobili nelle loro esistenze come lei era stata immobile sull’altalena, che visitavano le sale e non capivano che in fondo stavano guardando il futuro, che prima o poi sarebbe toccato a loro, che la carica sarebbe finita e con quella ogni possibilità di muoversi o dondolare, e che forse non sarebbero mai stati dei plastinati, ma guasti senza alcun dubbio: senza alcun dubbio guasti.

Giada, come il compagno e gli altri plastinati del dottore, è ferma nell'attimo; il soggetto più interessante dell'esposizione, forse, ma non necessariamente il più vivo. Dopo una vita nell'ombra, si scopre suo malgrado la protagonista assoluta di un'altra esibizione: struggersi. E di un romanzo d'esordio assurdo, intenso, scritto a confine fra la terza persona, il soliloquio e l'apostrofe a un tu di cui non pretendere risposte in cambio; ambientato fra le sale da esposizione e le toilette, dove si affastellano i collezionisti becchini e i giornalisti avvoltoi; gli specchi per aggiustarsi l'identità e il mascara sbavati; i servizi inagibili con un foglio che dichiara d'un tratto guasto. Luoghi insoliti per l'elaborazione di un lutto sbattutoci sempre in faccia, e insolite le voci che suggeriscono a un'avventrice inconsolabile di ricominciare da capo: quella angelica del vigilante del piano di sotto, ad esempio, che al mattino le porta in dono cornetti alla marmellata e mp3 pieni di bella musica. L'addio, un show alla Marina Abramovic che scalza l'intimità del dolore. L'amore e la morte, neoavanguardia.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Radiohead – Fake Plastic Trees 

mercoledì 20 giugno 2018

I ♥ Telefilm | Sense8 - The Series Finale: Amor Vincit Omnia

Abbiamo avuto una gioia lunga ventitré episodi e scarsissimo preavviso per dirgli addio. Quella cancellazione arrivata inaspettata, un fulmine a ciel sereno, e spettatori appassionati che da ogni dove apostrofavano l'ennesima scelta infelice presa in casa Netflix a suon di petizioni e hashtag. Lo davamo per spacciato – troppo costoso, troppo ambizioso, eppure così voluto dai più – ma Sense8 è tornato su gran richiesta, a un anno di distanza, soltanto per congedarsi a modo suo. Per scioglierci i dubbi sulle sorti di Wolfgang, purtroppo cavia nelle mani sbagliate; per parlarci del rapimento di Whispers, preziosa merce di scambio, e far chiarimenti sul ruolo ambiguo da sempre ricoperto da Jonas e Angelica, che dei magnifici otto erano i genitori spirituali. 
Siamo nella capitale francese e, in uno sfarzoso appartamento condiviso con amici, partner e ospiti a sorpresa, i protagonisti delle ormai sorelle Wachowski si sono finalmente e fisicamente riuniti. Devono prima salvare il tedesco in ostaggio, dato che il suo dolore è il loro dolore; poi spostarsi nella bella Napoli con i Depeche Mode in stereo, all'inseguimento del profumo della pizza, di qualche perdonabile luogo comune e dei piani di guerra della fatale Bilello. 
Kala è combattuta tra Wolfgang e il marito venuto apposta dall'India, ma scegliere non è priorità se anche l'amore è comunanza; Sun scappa dal Detective Mun, ma l'attrazione per il rivale è talmente forte che farsi cogliere in flagraza di reato, per una volta, sarebbe il male minore; Nomi e Amanita pensano alle nozze in cima alla Tourre Eiffel, simbolo internazionale di amore e rivoluzione (le parole chiave); Will, vero uomo d'azione del gruppo, pianifica invece missioni impossibili, mettendo con dispiacere nell'ombra personaggi come Riley (spiace, perché la deejay islandese era uno dei migliori), Lito (dimenticate le dolorose conseguenze del recente outing, e mettetici i capricci sopra le righe degli attori ispanici), Capheus (cos'è stato, ci si domanda, della sua lotta politica in Africa?). Se le scene non sono state divise così equamente tra i membri del cast, tocca ammettere quanto preziosa sia invece la partecipazione dei comprimari: Daniela, parte di un eterno triangolo amoroso, rivela forza di carattere e grande abilità con le pistole automatiche; il saggio Hernando cita Virgilio, improvvisandosi guida turistica a Forcella, e dà il titolo a quest'ultimo episodio; l'ingessato Rajan, qui in trasferta, è pronto a schiudere gli occhi davanti all'impossibile e a rendersi utile, mostrando che per il taser ci sono utilizzi e utilizzi. Nelle due ore e trenta di Amor Vincit Omnia, molte ma non abbastanza con al solito tanta carne al fuoco, sono forti i bang e le emozioni. Se la sanguinosa prima parte preferisce non andare per il sottile, scegliendo per la resa dei conti la frenesia e le esplosioni del cinema d'azione americano, ci si concede la venalità della seconda per la celebrazione di nozze pirotecniche, promesse di matrimonio che diventano un'ode ai sentimenti e alla serie stessa, feste (e orge) in grande con i brividi garantiti da Ludovico Einaudi. Un po' sovversivi e un po' turisti, sempre più famiglia, i Sensate hanno risposto all'unisono all'appello di spettatori che in fondo desideravano una conclusione tale e quale a questa. Non la più indimenticabile, non la più giusta, ma forse la più necessaria: un flash mob colorato di razze, vestiti e sfumature, senza morti tragiche di sorta o spese a cui badare, che rende felici, non amareggiati. La visione di Sense8 si conferma, perciò, strabordante in ogni dove e imperfetta. Ma mai come ora – in tempi di muri fisici e ideologici, di frontiere e porti chiusi al diverso da te, di una Parigi di nuovo nell'occhio del terrore – la famiglia più bella e varia di cui Netflix poteva vantarsi ha il pregio di regalarti qualche scampolo di fiducia, un'altra lezione di umana benevolenza, in questo nostro pazzo mondo. 
Vedere questo episodio: segno, in parte, che la lezione è stata metabolizzata; che i fan si sono uniti, come parte di uno sconfinato cluster, per un piccolo traguardo quale può essere un degno finale di serie. Che qualcosa si stia già impercettibilmente muovendo? Questo episodio era per loro, per noi, per me. Perché l'unione fa la forza e, a volte, anche il lieto fine. (7)

lunedì 18 giugno 2018

Recensione: Heidi, di Francesco Muzzopappa

| Heidi, di Francesco Muzzopappa. Fazi, € 15, pp. 237 |

Quest'anno ha un titolo che cita l'eroina tutta prati e libertà dell'anime di Hayao Miyazaki – non eravamo a Woodstock, no, ma nella Svizzera ottocentesca raccontata prima ancora da una certa Johanna Spyri, parola di Wikipedia – eppure Francesco Muzzopappa ha un tempismo che neanche Mary Poppins. Per sua fortuna non è servito un ombrello volante quanto mai fuori stagione. Me l'ha portato il postino qualche giorno fa, l'unico abbastanza intrepido da potermi vedere senza trasformarsi in un blocco di pietra nel pieno di una sessione estiva che mi vuole trascurato, brutto, intrattabile – il solito me, insomma, ma con molta più barba a chiazze. Penso che potrei abituarmi a essere viziato un po'. Sapendo ormai che il tempestivo autore barese mi legge nel pensiero e nei disagi, come immaginare un altro periodaccio senza le risate a profusione che solo lui e pochi altri assicurano? Per il suo sperato ritorno ha cambiato città, professione, sesso. Parla, e adesso è Chiara: trentacinque anni, la frangetta, una passione sconsiderata per le canzoni di Gary Barlow, costretta in ufficio per dodici delle ventiquattro ore della sua giornate. Tutto normale, se impiegata a rischio di licenziamento in un'azienda uscita da una Milano nevrotica, futurista, dominata da edifici di vetro e acciaio, puntualità maniacale e hipster dappertutto. Come sopravvivere al martellare della routine da astemi: darsi alle scorte di cioccolato per sopperire alla generale mancanza di affetto e agli ansiolitici di contrabbando, ingollati come fossero tisane al bergamotto prima di coricarsi. L'ordine mentale di Chiara, purtroppo, ha nemici giurati contro cui l'organizzazione e la calma dello Xanax nulla possono: lo Yeti, capo diabolico con la stessa politica sessista di Harvey Weinstein e accese conversazioni con Siri; la convivenza forzata con Massimo Lombroso, spietata firma del Corriere della Sera che si dà il caso essere suo padre nonché la vittima di una galoppante demenza senile. Eccolo lì, mentre danza come il nonno artritico di Bolle, pretende le caramelle o si incanta a guardare i balli folkloristici sui canali locali, semina disordine a destra e a manca e non mette mai i tappi sui pennarelli: non fatevi trarre in inganno, però, dal suo trasognato scodinzolare qui e lì. Lombroso ha un'alta citazione per ogni occasione, ricorda le parole di Byron, Dickens e Roth, ma non il nome dell'unica figlia. Perché il superfluo e Chiara no? L'anziano chiede di Fiocco di neve, Nebbia, Clara e della misteriosa sparizione delle alpi all'orizzonte, in preda a un buffo delirio cartoonesco. Ma nella metropoli nostrana in cui tutto va di fretta, comprese le malattie degenerative, caprette, fanciulle in carrozzella e paesaggi da cartolina hanno vita breve: alla mancanza di nebbia (non dico il cane, bensì il fenomeno metereologico) risponde almeno la piaga dello smog. Dettagli comunque trascurabili per l'anziano: Chiara è Heidi e Thomas – fisioterapista ventottenne con il look da surfista, una famiglia che gestisce il Central Perk, le scampagnate di domenica perché fuori in fondo è pur sempre estate – è l'inseparabile Peter.

Penso troppo, a volte; sono maestra nel rendere la mia vita difficile.

Sembrerebbe la protagonista di una commedia di Barbara Fiorio, ma invece puoi leggere di lei in un Muzzopappa sorprendentemente a proprio agio con una narratrice femminile: il segreto, forse, è non fare due pesi, due misure. Come fanno quegli scrittori che non sanno prendersi in giro? Francesco ha fatto della parodia un ramo della narrativa italiana e riconfermato, qui, come il romanzo umoristico viva non solo in funzione dei facili sorrisi di sorta. Come campa, soprattutto, quella gente che: giammai, io accendo la tivù soltanto per vedere Voyager e Superquark, mica Quattro ristoranti? Fate come me, oggi alle prese con una confessione shock: Piero e Alberto Angela li conosco giusto per i meme su Facebook, davanti ai programmi culturali storco gli occhi e, nelle sessioni di zapping durante i pasti, mi divido tra un Rubio e un Rugiati, DMAX e TV8. La sfida della nostra Heidi, addetta ai casting, è infatti smistare provini esilaranti e format così assurdi da funzionare, in cerca di idee vincenti e piani alternativi.

Una volta, per curare certe patologie si andava dal medico. 
Ora si va in televisione.

Una posizione scomoda descriveva il mondo della pornografia senza cadere nella volgarità; Dente per dente violava i dieci comandamenti per vendetta, eppure chissà come appariva indegno di scomunica. Heidi parla, fra le altre cose, di televisione spazzatura, ma non è mai trash. Le disavventure nei corridoi della fittizia Videogramma – dove si vendono illusioni, passatempo e aria fritta – fanno share, e pure ridere. Fra momenti di grande tenerezza e qualche altro di romanticismo, uno shot di Laura Palmer e una Carrie Bradshaw ben cotta al ristorante dei genitori di Thomas, l'umorismo caustico del romanzo precedente cede il passo alla leggerezza di un rosa pastello che proprio non stona. La Madonnina, dall'alto, veglia con aria compassionevole e le braccia spalancate, come a dire: tranquilla, Chiara, ci si separa, spesso si fa fiasco, ma alla fine si torna sempre insieme per l'happy ending. Come i Take That.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Talking Heads – Found a Job 

sabato 16 giugno 2018

Mr. Ciak: Come un gatto in tangenziale, A casa tutti bene, Metti la nonna in freezer, Amori che non sanno stare al mondo, Il ragazzo invisibile II

Piazzalo non troppo strategicamente sotto Natale, in mezzo a commedie tra le quali è difficile distinguerlo. Metti sul poster due attori di richiamo – i soliti, i migliori, che con il loro essere onnipresenti eppure a te non chiamano, no – e aspetta senza curiosità. Per vedere i successi al botteghino, a fine anno, e di lì a poco qualche candidatura a sorpresa. Come un gatto in tangenziale, allora, non era così stupido come sembrava? I protagonisti, agli antipodi per stile di vita e professione, sono i genitori di due tredicenni pazzamente innamorati. Lui pagato per pensare, con la ex Sonia Bergamasco che inventa profumi in Provenza. Lei inserviente in un ospizio, con l'ex Claudio Amendola appena uscito di galera. Vogliono le stesse cose, hanno gli stessi difetti, ma da una parte e dall'altra manca il desiderio di deporre l'ascia da guerra. Per il signorile Albanese, il quartiere della consuocera è un covo di criminalità e spaccio. Per la coatta Cortellesi, invece, la borghesia è tutta una magna-magna. Ci si crogiola nel cliché, perché dà sicurezza, ma la verità siede nel mezzo. La periferia, caotica e multiculturale, ha il mare sporco, i modi rozzi, ma un cuore immenso. E la stessa cosa, in parte, succede con l'ultima commedia di Riccardo Milani: un Fortunata da ridere ma mica troppo, con una regia imperdonabilmente televisiva che inquadra, eppure, una moderna storia di orgoglio e pregiudizio che fa riflettere ed emozionare. Merito di una scrittura ponderata e intelligente, di personaggi vincenti – menzione d'onore alle sorellastre gemelle e cleptomani della protagonista, esilaranti – e di una retorica di quelle a fin di bene. In tangenziale, a Roma, si rischia grosso. Ma i gatti, i preconcetti e qualche commedia nostrana, per fortuna, hanno le proverbiali sette vite. (7)

Una famiglia di ristoratori si dà appuntamento al porto. Prendere il largo a bordo di un traghetto per raggiungere Sandrelli e Marescotti, capostipiti pronti alle nozze d'oro, su un'isola del Mar Tirreno. Prepararsi a pranzi e cene senza fine e agli immancabili schiamazzi, se s'incrociano ex, cugini arrivisti, amanti mancati. Insomma, tutte cose che apprezzo: i meccanismi del dramma da camera, i conflitti fra attori impeccabili, la regie energiche per sfuggire alla piattezza del teatro fotografato. Dirige Muccino nel ruolo di Muccino. Tornato in Italia, alle crisi di mezza età, ai suoi cari film a voce alta, a un genere consolidato ai cui cliché mancherebbero giusto le nevrosi della Buy. E senz'altro sa emulare sé stesso, ripetersi, con un piglio che fa la differenza. Una commedia all'italiana di vecchio stampo, così, acquisisce personalità, stizza, grazie a una macchina da presa che non sta mai ferma, al montaggio fluidissimo e ai membri di un cast strapieno, da cui saltare qui e lì a tracolli coniugali alterni. Le bellezze di Ischia e la colonna sonora di Piovani incantano, appaiono sottotono Accorsi e Favino e, accanto a un'urticante Crescentini, risultano bravissimi Ghini e la Gerini, intensa coppia minata dall'Alzheimer galoppante di lui, e quella Sabrina Impacciatore tragicomica. Il difetto sta nella sceneggiatura: tradimenti, ripicche, segreti scomodi, su uno sfondo azzurro mare che è la gioia dei turisti, all'indomani di una tempesta che costringe il cast a una convivenza arrangiata. Le nuvole nere invadono anche la villa con piscina in cui vigono i sorrisi di facciata, l'ipocrisia, le mezze parole. Inevitabilmente, per quanto piacevoli, le vicende risultano troppe, e troppo abbozzate. Le situazioni già viste, con guizzi di autorialità che non contemplano stavolta la novità, di un cinema che intrattiene al solito, ma forse non sta bene come il titolo annuncia. Eppure si accontenta, eppure ci accontenta. (6,5)

De Luigi stana frodi e truffatori. Un po' per gioco, un po' per ripicca, i colleghi preoccupati lo spingono fra le braccia di Miriam Leone, sfortunata artista con un curriculum da miss. Restauratrice in una Italia che si vanta della sua arte ma non le dà valore, la giovane va avanti con la pensione di nonna Bouchet: un giorno morta nel suo letto, però, e con il rischio di lasciara in mezzo a una strada. La soluzione, spregevole: non denunciarne la scomparsa pur di avere l'assegno assicurato. De Luigi, alle sue calcagna per questione di cuore in primis, è disposto a scoprirsi corruttibile per amore? La vita del malaffare è dura, ma remunerativa e piuttosto divertente, all'interno di una storia non così originale, con sketch comici che vengono praticamente da sé. Non troppo nera, in verità, ma coerente nello scherzare con lo status di giovani spiantati e vecchi da tenersi stretti; con il fuoco – anzi, il ghiaccio – di una dipartita su cui lucrare. Metti la nonna in freezer, che intreccia a lunga andare la sua strada con una caccia al latitante (e al malinteso) e un arzillo amante tornato a reclamare una lontana passione, piace al pubblico e alla critica per il cast convincente e la vivacità dello stile; per la regia e il montaggio che fanno la corte alla frenesia da action movie del sopravvalutato Smetto quando voglio. Per una volta più lodevole per lo stile pop che per la sostanza, strano ma vero, allieta con la sua freschezza artificiale una serata in cui i primi caldi fanno togliere i calzini, a letto, e scegliere i pigiami corti. Tra provviste di tortelline, lasagne surgelate, e cadaveri sotto ghiaccio. (6)

Mascino e Trabacchi, cinquantenni bellissimi, si innamorano con l'intensità degli adolescenti. Ma come si sopravvivere alla fine di un sentimento così forte? Si sono amati moltissimo senza mai piacersi, gli inconciliabi protagonisti dell'ultimo film di Francesca Comencini. Prende spunto da un suo stesso romanzo, qui, e Amori che non sanno stare al mondo – titolo lungo e bellissimo, di quelli che piacciono a me – diventa la commedia dal piglio femminista e dalla struttura letteraria, quasi, di una Gamberale arrivata già alla mezza età. Eccole lì, le voci off che raccontano tutta la verità. Le fotografie incantevoli a un passo dal Tevere e le sequenze di nudo che mostrano la peluria dei corpi e la scompostezza dello struggimento. Eccola, ancora, una protagonista logorroica e sull'orlo di una crisi  – la Mascino, splendida –, che s'illude fino a rendersi ridicola e si affida alle prescrizioni dello Xanax. Per superare la rottura o, nel bel mezzo dei giorni d'oro della relazione, per viverla senza idiosincrasie. Per accettare che Trabacchi, scapolo storico, ha detto sì a una ragazza con la metà dei loro anni. Per non darti pace notte e giorno, ma infine trovarla, la felicità: accanto a chi meno t'aspetti. Vagamente morettiana, la Comencini sorprende per l'insolito target a cui parlare di prime volte e seconde possibilità. Quegli amori incapaci di tante cose, così, sanno amareggiare e divertire per la franchezza e la verve della loro voce. Sanno insegnare a stare al mondo te, che sei ancora giovane e, purtroppo o per fortuna, poco ne sai: di com'è o come non è. (7)

I supereroi italiani esistevano, e non si chiamavano solo Jeeg. Qualcuno, un regista premio Oscar, aveva aperto le acque e a un bambino dalla doppia infanzia dato il mio stesso nome. Michele è cresciuto. Adolescente, orfano all'improvviso di mamma Golino, scopre il liceo, una sorella gemella e i piani di una sempre brava Rappoport, genitrice in cerca di eroi da reclutare. Il primo, fantasy tanto candido da infondere un po' di meraviglia anche negli adulti, era delicato e naïf: un'avventura intessuta di citazioni alte e basse che non si prendeva sul serio e nel suo piccolo, a sorpresa, intratteneva e divertiva prima che Mainetti ci mostrasse meglio la retta via. Nella Seconda generazione i protagonisti crescono, e si cimentano con i drammi dell'età: devono staccarsi, devono prendere decisioni di vita o di morte, devono crescere. Il sangue ribolle, la famiglia chiama. Con più effetti speciali che cuore, scritto con sufficienza e un'estetica che non troppo convince, l'ultimo Salvatore si avvicina al gusto degli USA, ma sbaglia mira e la fa fuori dal vaso. Questo capitolo, senza superpoteri, ha una recitazione piatta; una regia sempre padrona del gioco (vedasi la festa da ballo o il cameo da incubo della defunta Golino), a cui tocca fare i conti con i pasticci del montaggio e di una sceneggiatura tagliata con l'accetta; il solito villain, il solito pozzo da fare esplodere, il solito colpo di scena finale che poco coglie impreparati. Un autore e un attore affatto a proprio agio, l'approccio degli studenti svogliati allultimo banco: i difetti imperdonabili di quei sequel, più che brutti, proprio invisibili. (5)

giovedì 14 giugno 2018

Recensione: Chiamami sottovoce, di Nicoletta Bortolotti

| Chiamami sottovoce, di Nicoletta Bortolotti. HarperCollins, € 17, pp. 358 |

Ci sono quei nomi, quegli scrittori diventati negli anni un po' amici tuoi, a cui è sempre un piacere aprire le porte di casa o un documento Word. Autori e autrici che passano a trovarti con regolarità, per sapere se stai bene, cosa ne è dei tuoi ultimi esami e, soprattutto, se dicevi il vero congedandoti da loro con il classico: a rileggerti presto. Nicoletta Bortolotti, scoperta anni fa e da allora inseguita con piacere tra i generi, le case editrici, la Storia con la lettera maiuscola, è tornata sul mio comodino a fine maggio per raccontarmi un'altra vicenda a metà tra rievocazione e fantasia. In precedenza ci sono stati gli adolescenti alle prese con i morsi del lutto, o quella partita di pallone per battere ad armi pari i nazisti. Adesso, nel suo ritorno a una narrativa per adulti che conserva comunque un occhio di riguardo per l'infanzia, per la fiaba, Nicoletta racconta il dramma di un passato a me poco noto e quello di tre persone irrisolte che tentano disperatamente di far luce, di imparare ad alzare la voce, per andare oltre senza più rimorsi. La prima che conosciamo è Nicole, voce rotta ma preponderante alle prese con le esequie della madre e i suoi ultimi lasciti. In eredità, le legge il notaio, i ricordi di un'adolescenza a Lugano, il profondo disagio di sentirsi orfani anche a quarant'anni e le chiavi della Maison des roses, casa polverosa in quel di Airolo in cui ha passato le prime vacanze e detto i primi addii. Nella Svizzera neutrale, ma non per questo ben disposta alla concorrenza della forza-lavoro straniera, il padre era uno degli ingegneri ai vertici del traforo del San Gottardo: un'impresa in cui si contrastavano uomo e montagna, un'ossessione lunga una vita, per costruire la galleria autostradale più lunga al mondo. Erano gli anni Settanta e Nicole aveva due genitori con la mente altrove, un'anziana dirimpettaia dalla doppia professione e un amico immaginario, solo e soltanto suo. Trent'anni dopo, tornando su luoghi di radure incantate, profumi intensi e leggende che ispiravano fantasiosi disegni a matita, tocca fare i conti con una pensione non così spettrale, amicizie segrete e una pagina purtroppo dimenticata della storia recente.

«Perché non ho avuto un padre alcolista o una madre tossica? La pazzia della nostra famiglia era troppo normale.»
«Vuoi dire che troppo bene fa male?»
«Voglio dire che eravamo felicemente tristi.»
«O tristemente felici.»
«È lo stesso.»

Accanto a Nicole, giunta a una crocevia, troviamo Michele: l'amico di cui nessuno doveva sapere. Figlio di un minatore italiano, era arrivato in Svizzera a otto anni nel bagagliaio della monovolume di famiglia. Alla dogana, interrogati, i genitori avevano disposto di non avere nulla da dichiarare: nemmeno quell'unico bambino da introdurre clandestinamente oltre il confine, da allevare nel buio di una soffitta rischiarata appena dalle cure della pensionante Delia Pizzorno – cresciuta da un padre anti-fascista, innamorata in gioventù di un ragazzo che voleva assassinare Mussolini e poi andata in moglie a un comune odontoiatra, l'anziana manterrà qualche camera sfitta e silenzio assoluto in caso ci sia bisogno del suo proverbiale riserbo. 
Quello era lo status quo nella vecchia Confederazione Elvetica, quando un referendum contrario all'inforestierimento aveva decretato che si dovessero accogliere cinquemila migranti per cantone; che i lavoratori stagionali con un contratto da rinnovare non potessero portare con sé i propri affetti. Allora c'era chi, nelle miniere, vendeva boccette in cui annunciava di avere racchiuso l'aria di casa. E chi, come i genitori di Michele, facevano carte false e condannavano i figli alla reclusione, alla legge del silenzio. Con la vana promessa che la soffitta come cameretta, l'incubo ricorrente di irruzioni armate che facevano bagnare i pantaloni del pigiama, l'arcobaleno scarabocchiato sulle nude assi di legno, sarebbero durati giusto il tempo dei lavori in corso. O di una denuncia anonima.

Ma poi cos'è una casa. La stanza dove sono nato? La soffitta di Delia? La dimora azzurra? L'appartamento lussuoso in cui abito adesso? Oppure lo sguardo di Nicole. L'odore di Delia. Un giardino di rose dove posare l'infanzia. Forse una casa non è dove tu sei, ma dove sei tu. C'è una differenza.

Cos'è stato di Nicole e Delia, protagonista di infanzie opposte ma coincidenti, e di un'anziana ribelle che parlava dei morti, coi morti? Perché la prima, illustratrice per l'infanzia, rifiuta l'idea della maternità, l'amore del compagno Giovanni e il perdono a una mamma sepolta di fresco; perché il secondo, uomo di successo rintracciato grazie a Facebook, non cerca chiarimenti, ha risposto all'infelicità con la ricchezza economica e conserva sempre l'antica paura del buio? E dov'è Delia, con un'attività di affittacamere ceduta a un indiano gentile e, si spera, risposte che dicano cosa sarebbe stato di loro – magari una coppia, chi lo sa – se il destino non avesse strappato all'una il cuore, all'altro il tetto sulla testa? Ci voleva una quarta persona per riprendere la loro storia da dove si era interrotta, ci voleva Nicoletta Bortolotti. Sempre impeccabile, ma matura ed emozionante come non mi ero accorto mai. Riconciliarsi con i bambini che si è stati una volta, con il desiderio ossessivo di venire di nuovo alla luce lasciandosi le storie di fantasmi alle spalle: si può, grazie alle prose intense, agli spunti sconosciuti, agli sguardi che non ti aspetti.

Non sempre le persone sono la terra in cui nascono, ma spesso diventano la terra che abitano.

Chiamami sottovoce è una storia vera, in parte, che non conosce il rallentamento delle ricostruzioni né il buonismo dei romanzi a tesi. Attualissimo in tempi di porti chiusi, di hashtag che fanno appello a un ritorno all'umanità perduta, è un dramma di migranti e frontiere – geografiche, anagrafiche, psicologiche – che scuote e fa riflettere. 
Sull'imparare a fare rumore, a disobbedire, a sgolarsi, per dirsi con il senno di poi che quei bambini sono stati forgiati dalle stelle avverse, dalle scelte altrui, ma non stravolti: hanno una voce chiara e squillante, inequivocabile, e l'autrice ce la restituisce riaccordata, ricomposta. 
Su quando eravamo noi lo straniero di qualcun altro.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tom Walker – Leave a Light On

lunedì 11 giugno 2018

Recensione: I favolosi anni di Billy Marvin, di Jason Rekulak

|I favolosi anni di Billy Marvin, di Jason Rekulak. Rizzoli, € 17, pp. 365 |

Letture da ombrellone cercasi. Anche se l'ombrellone, in tempo di sessione estiva e PeF24, è una prerogativa rimandata a verbalizzazioni da destinarsi. Anche se la gioia di avere il mare qui, a venti minuti a piedi da casa, diventa l'opposto se in un giugno da clausura non l'hai visto nemmeno da lontano. Meno male che c'è Jason Rekulak, uno di quegli scrittori dal cognome talmente assurdo da ispirare di per sé simpatia, che fanno del cazzeggio un'arte e una branca di Young Adult mai così vintage. Narratore divertentissimo, nerd incallito, erotomane all'occorrenza, l'autore della provincia americana regala la sua adolescenza, l'insofferenza per il New Jersey e il pallino per la tecnologia al protagonista, Billy. Un quattordicenne sincero e allampanato alle prese con i migliori anni: quelli dell'adolescenza; i gloriosi Ottanta. Gli appuntamenti romantici al cinema, con le mani che si afferrano tra i pop-corn e la scusa delle giunture da stiracchiare che si trasforma presto in un mezzo abbraccio; le email più lente del piccione viaggiatore; il coprifuoco fisso a mezzanotte; le scorribande per centri commerciali e qualche prima preoccupazione per un virus chiamato AIDS, per il sospetto infondato dei comunisti dappertutto. Parliamo però di tempeste ormonali in paeselli degni di Footloose, di prurigini che oggi spingono l'adolescente medio a ripulire con ingegno la scena del crimine della propria cronologia di ricerca: quant'era difficile scoprire il sesso, superare l'impaccio delle prime esperienze con il ricorso a un po' di innocente pornografia, senza l'anonimato della rete? Metti allora questa valletta finita a tradimento fra le pagine di Playboy, che quando gira la ruota del famoso quiz a premi a te fa girare la testa in preda ai bollori. Metti che sbirciarla, venerarla, sia il sogno nel cassetto tuo e dei tuoi amici, desiderosi di creare un commercio clandestino contrabbandando al liceo le fotocopie degli scatti bollenti. Peccato che per vedere Vanna White come mamma l'ha fatta non basti un click distratto, come successo a noi all'epoca degli hacker e di Jennifer Lawrence: l'unico edicolante della zona, l'asprigno e inquisitorio signor Zelinski, non transige. Billy e gli altri (lo sfacciato Alf e il bel Clark, mortificato alla nascita dalla mano a uncino) possono forse accontentarsi di noleggiare per l'ennesima volta Kramer contro Kramer, pur di mandare al rallenty una scena di nudo integrale sfuggita al rigore della censura? I nostri eroi, ovvio, hanno un piano di riserva: irrompere in negozio nel cuore della notte, salvare la bellezza di Vanna dal bigottismo diffuso, mettere i soldi in cassa come nello stile dei ladri gentiluomini. Passino pure la violazione del coprifuoco, un cane d'appartamento che abbaia loro contro, le ronde di un poliziotto che si crede Schwarzenegger, il salto di un metro e mezzo tra un edificio e l'altro: ma come fare con l'allarme? Anche la soluzione, sì, somiglia proprio a un film: sedurre Mary Zelinski, la sola che conosce il codice a memoria, e non rischiare di innamorarsene. Facile, uno dice: lei è una studentessa in sovrappeso; Billy, vittima sacrificale, non ne è attratto ma pensa di conquistarla con la sua aria da secchione, benché sprovvisto del physique du role.

Era il 1987, io avevo quattordici anni e i libri avevano sempre ragione.

Il titolo originale del romanzo, The Impossible Fortress, rimanda a fortezze da espugnare: precisamente tre. La prima è il negozio sorvegliato e la libertà (economica, sessuale) che rappresenta; la terza è un collegio femminile super esclusivo, circondato da infidi rovi di rose; la seconda, a metà, è un videogioco da programmare in quindici giorni per un concorso scolastico. Tanti baluardi impossibili, insomma, e festa grande al raggiungimento del traguardo. Ma qualche incomprensione dolorosa, un colpo di scena non messo in conto nel finale, qui e lì ti fanno chiedere preoccupato: e se finisse con un Game Over? Più facile imparare il linguaggio macchina in tempi record, infatti, o ammettere che la collaborazione cuore a cuore con l'ingegnosa Mary – non così bruttina, non così redarguibile – stia diventando qualcosa di più? I mangianastri, i primi computer, i titoli delle compilation che in fila formano una poesia sugli amori tramontati e minigame su misura per ammettere di piacersi: reperti giurassici di giorni andati, di cui trovi traccia nel cruscotto della macchina dei tuoi parenti, nel disordine degli scantinati e nei poster delle videoteche sfitte, in foto d'epoca che raramente sono parse così colorate. Cos'è restato di quegli Ottanta, per rispondere al ritornello di Raf? Più di qualche scrittore che vive di rendita. Più di qualche riproposizione stanca, modaiola, senza ispirazione. E qualcos'altro, a sorpresa, come l'avventura di Jason Rekulak: acquisto immancabile per feticisti e nostalgici, che quei favolosi anni me li ha fatti invidiare e respirare. I quattordicenni di oggi – saranno gli OGM nei Plasmon, il libero accesso ai social, lo scioglimento della calotta polare, chissà – sono pertiche in piena pubertà che vantano esperienze superiori alle mie: blogger timido, deperito, nato vecchio. Quelli di ieri avevano meno spunti, meno distrazioni, e ogni contrattempo poteva diventare all'improvviso un gioco.

Stavamo ore davanti alla tivù, ci frullavamo ettolitri di milkshake e ci ingozzavamo fino alla nausea di merendine e sofficini gusto pizza. Facevamo maratone di Monopoli e Risiko e discutevamo di film e di musica. Ogni sera era come un pigiama party, e pensavo che quella vita paradisiaca sarebbe continuata in eterno.

Ci si doveva sudare tutto, perfino un bacio a fior di labbra, e il sesso spiato era un tabù che ispirava audaci imprese e abbassava di un po' le diottrie. C'erano sì le occhiate maliziose delle pin-up svestite, che ammiccavano da un angolo proibito della rastrelliera dei giornali, ma anche un candore profondamente commovente. I favolosi anni di Billy Marvin è una commedia scritta in codici binari, con lo stesso alone malinconico e leggendario degli 8 bit. Un viaggio nel tempo per rigattieri aspiranti, che costruisce un ponte levatoio tra generazioni lontane e, per un attimo lungo trecento pagine, ti lascia intravedere la magia che i tuoi genitori, in fondo, rimpiangono ancora.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Van Halen – Jump

venerdì 8 giugno 2018

Mr. Ciak: Il sacrificio del cervo sacro, Assassinio sull'Orient Express, Marrowbone, The Strangers: Prey at Night

Yorgos Lanthimos. Un nome affermato, una garanzia di perfezione formale e insensata cattiveria. Prima la famiglia vittima di sé stessa nell'interessante ma da me odiato Kynodontas. Poi la distopia di The Lobster, in cui la solitudine era una malattia da debellare. Adesso, l'America borghese di The Killing of the Sacred Deer. Il cast blasonato, le villette simmetriche, una Ellie Goulding assurdamente inquietante nella colonna sonora e questa volta, sin dal titolo, un'inconfondibile matrice greca, tragica. Il chirurgo di Colin Farrell ha mani infallibili, due figli e, a letto, la moglie di un'algida Nicole Kidman con cui consumare innocue fantasie necrofile. Cosa lega il capofamiglia a un misterioso adolescente che lo tiene sotto scacco, costringendolo allo stesso sacrificio di Agamennone? Forse una maledizione da non spiegare mai, forse una connaturata persuasione. Le dinamiche tra Farrell e il sinistro Barry Keoghan sembrerebbero quelle sottili di un home invasion in cui tutti possono essere soggiogati o sedotti – su carta, infatti, si è nei territori di Pasolin e Ozon. Il ragazzo invece non si accontenta degli orologi, dei pranzi pagati, delle attenzioni di una famiglia perfetta: desidera vendetta, e di quelle che sfuggono a qualsiasi spiegazione logica. Lanthimos, al solito, provoca, stranisce e nega facili soluzioni. Bravissimo ma imperscrutabile, firma un'altra opera difficile da digerire. Splendido e ributtante, The Killing of the Sacred Deer mi è piaciuto e mi ha fatto schifo insieme – visto lo scorso dicembre, mai metabolizzato, trova ora spazio sul blog e in sala. Tiro al bersaglio con suoni martellanti e immagini ipnotiche, colpisce alla cieca il cuore e il nucleo familiare. Ti immobilizza. Poi gli occhi sanguinano. La morte – delle certezze, del cervo caro ai folli e ai greci – giunge alla fine. Nemmeno quella, però, porta pace. Tocca stare al gioco e basta, come quei personaggi smarriti al centro delle stanze, schiavi della tyche; come quegli attori grandissimi, qui volutamente meccanici e alle prese con dialoghi stranianti. Vittime, noi e loro, di lunghe carrellate e di campi più lunghi ancora. Di un regista che si crede Kubrick, Haneke, Dio, e non a torto. (7,5)

L'ho letto lo scorso inverno proprio su un treno, ma il mio primo Agatha Christie non entusiasmava. La trasposizione di un regista abile e fedelissimo, quando si tratta di rimaneggiare grandi classici, dunque non urgeva. Perché affrettarsi, perché ripassare tanto presto l'ABC della teatrale maestra Agatha? Sono passati così quei sei, sette mesi d'ordinanza. Quel che basta per recuperare Assassinio sull'Orient Express in qualità blu-ray e, soprattutto, in lingua originale: la visione sottotitolata è obbligatoria, infatti, con quel cast polifonico; con un doppiaggio che questa volta appiattisce e irrita. Com'era prevedibile, l'intreccio resta intoccabile: un convoglio di lusso che punta al cuore dell'Europa, un detective a bordo, il delitto del gangster Depp ad atterrire (tra gli altri) suor Cruz, la contessa Dench, l'ereditiera di una Pfeiffer in forma smagliante – una compagnia di nomi abbastanza risonanti, insomma, da potersi permettere caratteristi d'eccezione come la Coleman, Jacobi o Gad fra i dipendenti. A capitanarli, un fascinoso Branagh qui in doppia veste: meno gigioneggiante e despota che in passato, l'attore shakespeariano ha un accento naturalissimo e la tentazione di strafare, di cedere al teatro, soltanto nell' interrogatorio finale in cui avanza verso sospettati allineati con le stesse simmetrie di Leonardo da Vinci. Come regista, invece, fa volteggiare la sua macchina da presa con eleganza anche in un ambiente all'apparenza limitante; non annoia né favorisce qualche attore in particolare; aggiunge bei cenni di modernità, tra discriminazioni, rare concessione alla computer grafica, riferimenti alla vita sentimentale di Poirot e una chiusa d'impatto, che sospende i giudizi morali. Assassinio sull'Orient Express procede laccato, attinente e rigoroso fino alla meta pattuita. Non si capisce francamente il parlarne male, equilibrato e di tutto punto com'è. Non si capisce, però, neppure il continuo bisogno di adattarle e riadattarle, storie di cui noto il colpo di scena, svanito l'appeal. Nonostante in comfort del viaggio. (6,5)

Quattro orfani inglesi. Il Nuovo Mondo, un nuovo cognome. La fuga oltreoceano da qualcuno – qualcuno con il loro stesso sangue maledetto – che non deve trovarli. Vivono in un fortino fatiscente in cui, al bando gli adulti, tutto è un lungo gioco, tutto è un segreto da tacere. Nessuno deve sapere che vivono soli, senza un tutore. Nessuno specchio incrinato deve essere liberato dal suo drappo. Ci sono cose a cui, eccetto il piccolo di casa, non si fa cenno. Stranezze, spifferi, uno spettro inquieto come quinto inquilino. Ancora segreti, gelosie, macchie scure. Sul soffitto, nella coscienza. Un avvocato assetato di denaro e l'amore del primogenito per l'inarrestabile Anya Taylor-Joy rischiano di infrangere l'idillio dei giovani Marrowbone – loro, e le assi della soffitta che di notte non smettono di scricchiolare. Hanno i volti di alcuni degli attori più talentuosi delle nuove generazioni – Charlie Heaton, Mia Goth e, da Captain Fantastic, un bravissimo George MacKay – e il candore, la complicità, dei personaggi del Giardino Segreto e Una serie di sfortunati eventi. L'uomo sbarca sulla luna, ma i loro hobby inconsueti sembrano fuori dal tempo. Internet ti suggerisce si tratti di un horror eppure, per un po', sembra di assistere a un film vecchio stile, con atmosfere gotiche ma fiabesche e vicessitudini da racconto d'avventura. Dotato di una fortissima componente emotiva, con un colpo di scena capace di renderti vicino il soprannaturale, Marrowbone non tradisce la classicità delle sue ispirazioni romanzesche né, checché ne suggeriscano le ambientazioni, la sua provenienza europea. Scrive e dirige, infatti, Sergio G. Sanchez, già sceneggiatore dello struggente The Orphanage. Benché non ai livelli del suo titolo di maggior successo, Sanchez – qui al suo esordio alla regia – confeziona un film forse già visto, ma abbastanza raro. Perché ti ci affezioni nel mentre, e ti emozioni. Perché sotto il lenzuolo di questo fantasma batte un cuore grande e spezzato, e decifrare i suoi sussulti, le sue richieste, rende la convivenza una metafora che sa di malinconia. (7)

Sono passati dieci anni dall'uscita di The Strangers, thriller già di per sé poco memorabile che ricordo come la versione a stelle e strisce del francese They e quella meno divertente di You're the Next. L'idea di un sequel appariva fuori tempo massimo nell'era in cui The Purge – home invasion a tinte distopiche – macinava proseliti e capitoli su capitoli. Prey at Night con il film con Liv Tyler ha poco a che fare. Capitolo indipendente, per non dire così scollegato da risultare immotivato, non si rifà al logorio di un filone che vive di spazi ristretti e case d'improvviso claustrofobiche, ma segue le disavventure di una famiglia intrappolata in un parcheggio per roulotte. I genitori glamour di turno sono Martin Handerson e Christina Hendricks (quest'ultima sì procace, ma non abbastanza da usare l'ingombro della sua quinta misura come arma di distruzione di massa); la figlia ribelle, invece, è la sempre espressiva Bailee Madison, lasciata bambina ai tempi di Hai paura del buio e qui trovata sexy scream queen. È proprio la notte buia e nebbiosa dei racconti dell'orrore. E se in un survival di quelli senza fronzoli, senza trame innovative, si scappa, si crepa e s'ammazza, incalzati da serial killer mascherati che uccidono perché possono. Tra i superstiti, la regia del Johannes Roberts di 47 metri, che qui gioca a fare John Carpenter tra campi lunghissimi, zoom schiaccianti e un'immancabile colonna sonora anni Ottanta; un gusto piuttosto raffinato, che si nota nel taglio stilistico e nella messa in musica di qualche omicidio in particolare – la sequenza in piscina con le luci al neon e Total Eclipse of the Heart è d'esempio. Il difetto: il ritorno di The Strangers sugli schermi è anacronistico proprio come ci appariva in partenza, ininfluente. Avrebbe potuto avere un altro titolo. Avrebbe dovuto giustificare l'attesa; passaggi della staffetta che vanno avanti da due lustri e, adesso, da due film. Non sarebbe stato meglio chiuderla prima, la stagione della caccia? (5,5)

mercoledì 6 giugno 2018

I ♥ Telefilm: Il miracolo | La mafia uccide solo d'estate S02

Ai microfoni di Fazio, ai tempi dell'uscita di Anna, parlava di una crisi che gli dava da penare. Affermazione che, da fan scopertosi tale appena qualche estate prima, semplicemente atterriva: dall'ultimo romanzo sono infatti passati già tre anni. La vena creativa di Niccolò Ammaniti, chiariamolo subito, sta benissimo: lo dimostra Il miracolo. Una serie Sky in cui Ammaniti scrive, produce e in parte dirige. Un'idea vincente che ripaga, rielaborando tematiche care all'autore romano. Ha di che sbizzarrirsi, infatti, tra sprazzi di puro delirio lynchiano (il cameo di nostra Signora Bellucci, santa con aureola e tentacoli in fondo al mare; draghetti acquatici che spingono i bambini a disobbedire; incubi pulp con uomini-pane vittime di cannibalismo o first lady malate di sesso) e momenti toccanti in cui ritorna l'umanesimo tutto laico di Come Dio comanda. Si parte dal ritrovamento di una statua: una Madonnina che piange lacrime di sangue, nel covo di un boss della 'ndrangheta. Non c'è trucco e non c'è inganno, i test parlano chiaro, ma l'Italia in fermento non è ancora pronta al prodigio: così ha stabilito il premier di un ottimo Caprino, che si divide tra l'imminenza di un referendum, due figli affidati a una tata inquietante, l'insoddisfazione di un'intensa Lietti in crisi coniugale. Attorno a loro orbitano il sacerdote corrotto di Tommaso Ragno, pronto a rinnovare l'amore di gioventù per la svampita Indovina e la fede nell'Altissimo; Alba Rohrwacher, biologa prigioniera di una mamma inferma; il generale Sergio Albelli, con una genitrice che convola a nozze in tarda età e una task forse da guidare. Lo si capisce presto: che il fantastico, come nel meno originale The Place, è un pretesto per riflettere e scoprirsi uniti. Tutto appare uguale a prima, eppure niente sarà più lo stesso. L'Italia medita di uscire dall'Europa; sotto una cupola di vetro un gruppo ristretto di fedeli canta per una nuova venuta; altrove la clonazione non è fantascienza, ma realtà, e nella Calabria più malavitosa si resta fedelissimi all'occhio per occhio, dente per dente. Ci si riscopre, ci si confessa, ci si innamora da capo. Si viaggia soli, e per mete lontane. Si viene a patti con il dolore, e allora non esistono interventi divini che possano salvarci. La Madonna, intanto, sta lì e piange. Ferma nel silenzio imperscrutabile del suo segreto. In una piscina vuota, sfitta, sotto i fucili spianati di militari che fan da custodi. Perché piange? Com'è arrivata lì? Cosa vuole dirci? Il miracolo, thriller esistenzialista audace e irrisolto, lo si segue con la curiosità alle stelle, una certa confusione e i sensi bene attenti a cogliere le suggestioni sorrentiniane di qualche movimento di macchina, la bellezza di una colonna sonora che canta The House of the Rising Sun ai funerali e rende inquietante perfino Jimmy Fontana. È un mondo che gira questo, come ricorda la sigla anni Sessanta, e di tanto in tanto lo fa un po' a vuoto. Affascina sempre, tuttavia: con i suoi enigmi, le cui spiegazioni sono rimandate a data da destinarsi, e la magica puntualità dei suoi moti millenari. (7)

Prima film d'esordio dal piglio inaspettato, poi sceneggiato televisivo finito a sorpresa nel meglio di quell'annata, la cronaca di una famiglia simile alle nostre raccontava il peggio della storia d'Italia con contagiosa leggerezza. Un po' come con i Pearson – la loro versione americana, glamour, ma non per questo superiore –, dei Giammarresi cominciavo a sentire la mancanza. Per fortuna rieccoli: proprio dove li avevamo lasciati, nella formazione di sempre. Gli anni Settanta hanno ceduto il passo agli Ottanta. Nel bene e nel male, si respira aria di cambiamento. Papà Claudio Gioè è entrato alla Regione, dopo tanto sgomitare, ma un connaturato senso di giustizia e una collega a sua immagine e somiglianza lo fanno dubitare. Mamma Anna Foglietta, supplente vita natural durante, ha ottenuto la cattedra: fa del suo meglio, ma non sa confessare una tremenda verità, ha avuto infatti bisogno della raccomandazione. Mentre il piccolo Salvatore si strugge al solito di domande esistenziali e amore – crescere gli ha fatto bene: i ricci e gli occhi chiari lo fanno somigliare a uno Chalamet in erba –, sua sorella Angela è protagonista di un cambiamento che commuove: studentessa che non ha mai brillato, è alle prese con una pancia che cresce ed ex hippie che ritornano. Lo scapestrato zio Scianna, faccendiere di Buscetta, spassosissimo ma affatto saggio, si improvvisa discografico, poligamo, contrabbandiere e poi se ne pente. Con la bella stagione, da titolo, arrivano purtroppo i morti illustri: ricordiamo Piersanti Mattarella e Gaetano Costa. Alla prima parte, più intensa e riuscita, ne segue una seconda un po' sfilacciata, con virate forti, rovesci di fortuna e sottotrame – quella degli amici dell'irritante Salvatore su tutte – accantonate per fare spazio agli scontri tra palermitani e corleonesi, alle esigenze della cronaca nera. Servono eroi, ma a che prezzo? I Giammarresi così sperimentano il politicamente scorretto e le scorciatoie impreviste; fanno carte false, ma a fin di bene; cambiano idea su tutto e tutti, e poi ci ricascano. Crescono, cambiano senza tradirsi mai e qualche perdonabile sbavatura osano mostrarcela, nell'arco dei dodici episodi, a patto che non siano crepe preoccupanti. Gli attori sono perfetti. La regia di Luca Ribuoli è un bijoux – ricordiamo l'avanzata finale del cast, sul modello del dipinto di Pellizza da Volpedo. La mafia uccide solo d'estate ha gli equilibri della commedia all'italiana. E si conferma una chicca di peso, d'altri tempi, che suggerisce ci sia un buon motivo per pagare il canone Rai e, di giovedì sera, riposta la snobberia, riaccendere in sincrono cuore, testa e tivù. (7,5)

lunedì 4 giugno 2018

Recensione: Eleanor Oliphant sta benissimo, di Gail Honeyman

| Eleanor Oliphant sta benissimo, di Gail Honeyman. Garzanti, € 17,90, pp. 344 |

La signorina Oliphant, dal lunedì al venerdì, per otto ore al giorno, presta servizio come contabile da nove dei suoi trent'anni. In pausa pranzo fa orecchie da mercante davanti alle chiacchiere dei colleghi: ha infatti il suo tè biologico, cruciverba a bizzeffe con cui intrattenersi e, come il manuale della classicista tipo prevede, una laurea sprecata in Lettere antiche, Jane Eyre sotto il guanciale e un'avversione per la tecnologia. La mia professoressa delle superiori l'avrebbe definita una travet: una di quegli impiegatucci sottopagati, senza la minima speranza di ascesa sociale, assuefatta suo malgrado a una routine di ordinaria piattezza. L'arrivo del weekend, per lei, significa questo: barricarsi in casa e contendersi le attenzioni amorose di pizza e Pinot, con vodka a buon prezzo per dolce. Svegliarsi poi direttamente di lunedì, con il cerchio alla testa, e ricominciare daccapo. Come fosse il minuscolo ingranaggio di una catena di montaggio inumana, insoddisfacente, che, se tutto va per il verso giusto, un giorno o l'altro ti conduce al coma etilico e al successivo ritrovamento a opera dei dirimpettai, ragionevolemente insospettiti dal puzzo di decomposizione. La giovane donna riceve visite ogni sei mesi circa e, quando al citofono non chiedono di lei gli assistenti sociali nelle ispezioni di rito, allora sono gli addetti del gas. Mai nessun vicino che passi a domandarle una tazzina di zucchero, l'uovo che manca alla ricetta della torta di mele; mai un'anima che la inviti a ballare. Sarà che il problema è Eleanor, non gli altri.

Eccomi qui. Capelli lunghi, lisci, castano chiaro, che mi scendono giù fino alla vita, pelle chiara, il volto un palinsesto di fuoco. Un naso troppo piccolo e occhi troppo grandi. Orecchie: niente di eccezionale. Altezza più o meno nella media, peso approssivativamente nella media. Aspiro alla medietà... Sono stata al centro di fin troppa attenzione in vita mia. Ignoratemi, passate oltre, non c'è nulla da vedere qui.

A metà tra una versione femminile di Sheldon Cooper e Amélie Poulain (ma con la famiglia da incubo di Michael Myers), ha un viso e maniere brusche che scoraggiano: una ragnatela di bruciature che invitano a distogliere lo sguardo per discrezione; una schiettezza a confine con la maleducazione che ora offende, ora fa ridere. Come può lamentarsi della mancata cordialità del prossimo, quando lei per prima rischia di risultare inopportuna dandosi agli stessi pregiudizi di quella mamma degenere che, di mercoledì, la chiama dal braccio della morte? Excusatio non petita, accusatio manifesta. La dichiarazione a priori del titolo del best-seller di Gail Honeyman, perciò, suona proprio come un'ammissione di colpa; una bugia bella e buona. Succede così che Eleanor Oliphant fa un patto con sé stessa: avere il coraggio di essere felice, togliendosi dalla conta degli inetti. La aiutano all'inizio l'amore a prima vista per un cantante locale che, complici i social, diventa un miraggio a cui aggrapparsi nei fine settimana da eremita; l'amicizia disinteressata del dolcissimo Raymond, tecnico dei computer che ignora il bon ton ma conosce le regole del conforto; la famiglia di Sammy, vecchino dai maglioni rosso Natale a cui prestare soccorso in giornatacce in cui l'altruismo fa svoltare. Intervengono a metà un cambio di stile (di vita): il restauro, esilarante, prevede shopping e manicure, parrucchiera ed estetista, un palloncino a forma di SpongeBob e un gatto nero scampato a un incendio. Eleanor non sa niente di vita sociale, figurarsi di relazioni, e allora prende a dire di sì agli inviti, alle promozioni, alle opportunità mancate che tornano a presentarsi. Razionale, imbarazzante, qui è descritta alle prese con le indiscrete gioie dell'irrazionale e l'incanto di storie, di amori, che fanno un giro lungo e tortuoso. Ma Eleanor è rotta, irrisolta, e s'illude: costruisce castelli in aria pur stando con i piedi per terra.

Se qualcuno ti chiede come stai, si aspetta che tu risponda BENE. Non devi dire che la sera prima ti sei addormentata piangendo perché erano due giorni di fila che non parlavi con un'altra persona. Devi dire: BENE.

C'è un dramma che ha rimosso, o che finge di non ricordare. C'è un noi su cui far luce. Ci sono giorni belli e giorni brutti, alla fine, quando soltanto la paura di far morire di sete la pianta o il gatto ti fa alzare dal letto; quando sei seduto a terra, nudo, abbastanza da avere immaginato tra le gambe del tavolo tutti gli spostamenti dell'oggetto d'arredo. L'immediatezza della narratrice – sola al mondo, unica superstite – diverte, ma sconvolge nel dramma che irrompe. Perché la violenza colpisce le brave persone? L'inespresso, finalmente affrontato a voce alta, rende il cuore forte. Gail Honeyman scrive come se vivesse in uno chick lit, ma la sua anti-eroina ha poche speranze di lieto fine. Da un lato ci sono ottimi motivi per lasciarsi morire, dall'altro un monolocale aperto al mondo – e alla luce del sole – che distrae dai misteri di un passato di fuoco.

Sul mio cuore ci sono cicatrici altrettanto spesse e deturpanti di quelle che ho in viso. So che ci sono. Spero che resti un po' di tessuto integro, una chiazza attraverso la quale l'amore possa penetrare e defluire. Lo spero.

Come Vittoria, quello di Eleanor è un romanzo che spalleggia il buonumore e consola, rivelando a sorpresa risvolti tristi in cui si specchiano e si placano i tuoi dispiaceri. Commedia terapeutica sulla depressione clinica, suggerisce forse l'ovvio, ma con quel tanto che basta (di freschezza, di originalità, di leggerezza) da convincerti che c'è del bello, del vero, nelle frasi fatte che parlano di un tunnel dotato di un'uscita di emergenza; di mali comuni che, se condivisi, si rivelano mezzo gaudio. 
Eleanor Oliphant sta benissimo: una menzogna per sé e per gli altri. Perché passare trent'anni a mentirsi, anziché lavorarci sopra e renderla realtà?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Foo Fighters – Walk