venerdì 29 luglio 2016

Recensione a basso costo: I Gillespie, di Jane Harris

E io, oltre a portare la colpa di essere femmina, avevo un'aggravante: ero nubile.”

Titolo: I Gillespie
Autrice: Jane Harris
Numero di pagine: 508
Prezzo: € 9,00
Sinossi: Nella primavera del 1888, in seguito al decesso della zia da lei amorevolmente accudita, Harriet Baxter decide di lasciare Londra e viaggiare alla volta di Glasgow. Trentacinque anni, nubile, una piccola rendita annua cui attingere, Harriet arriva nella seconda città dell'Impero nell'anno dell'Esposizione Internazionale. Durante una passeggiata in una giornata insolitamente calda, Harriet soccorre una distinta signora di circa sessant'anni stramazzata al suolo per un malore sconosciuto. Qualche giorno dopo si ritrova a onorare l'invito, elargito in segno di riconoscenza per il suo bel gesto, a casa dei Gillespie, la famiglia della donna soccorsa. Ci sono Elspeth, l'esuberante madre del padrone di casa; Mabel, la figlia di Elspeth inacidita per essere stata abbandonata sull'altare; Kenneth, il figlio belloccio tormentato da un segreto inconfessabile; Annie, la dolce moglie del padrone di casa alle prese con l'educazione di due figlie; il padrone di casa, Ned Gillespie, un giovane, geniale pittore dai tratti meravigliosamente regolari e piuttosto avvenenti, e una punta di tristezza negli occhi blu oltremare. L'incontro con Ned Gillespie risulta fatale per Harriet Baxter. In lei si fa strada la convinzione di dover salvare Ned Gillespie. Salvarlo dalla sua indigenza, che gli impedisce di dare libero sfogo alla sua creatività, e salvarlo dalla sua turbolenta famiglia. Una convinzione che, come ogni ossessione, trascina inevitabilmente dietro di sé l'ombra della tragedia.

                                                   La recensione
Nella Londra degli anni Trenta, Harriet Baxter – arzilla ottuagenaria coinvolta, decenni prima, in un misterioso caso di cronaca nera -, decide di lavorare a un'autobiografia, mentre l'immaginazione galoppa, la salute la abbandona e la sua domestica, Sarah, diventa fonte di sospetti. Quale tremenda cicatrice nasconderà sotto le gonne, voluminose e scure anche in piena estate? Quanto la tradisce un accento che ricorda all'anziana il suo lungo soggiorno a Glasgow, nella primavera del 1888? Chi è la sua aiutante e, domanda che preme ancora di più, chi è davvero questa paranoica, intrigante vecchietta? Un'occhiata al suo memoriale, ed eccola lì, trentacinque anni appena, visitatrice di una Scozia che, sul finire del secolo, ospitava le invenzioni straordinarie, le curiosità e le ricchezze dell'Esposizione Internazionale. A passeggio, per caso, salva un'appariscente matrona dal soffocare. Ed è per caso che, piena di riconoscenza, la donna a cui ha prestato aiuto la invita prima per il tè, poi per il pranzo, fino a rendere Harriet un'ospite ricorrente. La matrona, pettegola e vanagloriosa, è la mamma di Ned, artista emergente che – per caso, si capisce – la turista ha già conosciuto a un vernissage, in Inghilterra. Quant'è piccolo il mondo. E ampio e accogliente, al contrario, è il salotto dei Gillespie: Harriet si mette comoda; li osserva, affascinata. Il pittore e Annie, moglie mite e protettiva, sono i genitori di due bambine che mettono a soqquadro lo studio, disturbano il papà a lavoro, ricercano attenzioni: se Rose è un cherubino, però, la maggiore, Sibyl, è al centro di incidenti, fenomeni inspiegabili, sinistri episodi di violenza. Intossicazioni alimentari, disegni osceni sui muri, cocci di vetro nel letto della secondogenita. Gesti inquietanti, scherzi da bambini; finché non accade l'irreparabile. E ci sarà un processo che, a distanza di mezzo secolo, il Regno Unito non scorda ancora. E una famiglia borghese consumata lentamente dall'interno; smantellata. Voluminoso e di altre epoche, impegnativo solo all'apparenza, il romanzo di Jane Harris era un mattoncino in edizione Beat – il dorso rosa antico e la bellezza di cinquecento pagine complessive – che, da un po', prendeva polvere nella pila di libri intonsi perché temibili. L'ho letto in pochi giorni, invece: nonostante la lentezza degli inizi, qualche pagina in eccesso e il mio scarso feeling verso le letture in costume, che fanno il verso ai romanzi d'appendice. 
La Neri Pozza è la quintessenza dello stile, storia vecchia, questa, e il dipinto di Sargent in copertina – quotidiano, eppure oscuro, con le ombre fittissime e una bambina spettrale che ci guarda dritti in faccia – promette un intrigo contorto, che parla di pittura, bambole di ceramica e domestiche dalle orecchie lunghe. Per fortuna, non si smentisce neanche un po'. Strane, le mie letture sotto l'ombrellone: non tra le più semplici. Quando dedicarsi ai romanzi più corposi, però, soprattutto se di sicura qualità, se non nei mesi in cui le giornate si allungano e il tempo, abbondantemente, avanza? Tempo passato bene, quello in casa Gillespie. Tempo che scorre in fretta, se il solito giallo storico, in realtà, ha dalla sua una voce insolita. Ciò che rende peculiare il romanzo della Harris, e in parte profondamente antipatico, è infatti questa signorina Baxter, che non ha il dono della sintesi, eppure glissa su dettagli compromettenti e rigetta le accuse. I Gillespie è la sua vendetta; la sua versione dei fatti. Tutto ruota attorno a lei, e tutto è un perpetuo enigma. Non è la persona migliore su cui fare affidamento: egocentrica e sospettosa, manipolatrice, in barba all'attinenza al vero. Abbondano le coincidenze, non si contano i passi falsi, la si odia per fantasiosi doppi giochi che fanno perdere il sonno: è il burattinaio insospettabile in una storia di ossessione. Non la racconta giusta. Oppure sì? 
Mitomane, o vittima del fato – e del pregiudizio dei suoi tempi? Harriet Baxter è nubile, autosufficiente, dimessa e donna, in una società che punta il dito facilmente e, con un nonnulla, potrebbe far passare una quieta amica di famiglia per una mantide religiosa. La generosità nei riguardi di Ned, fascinoso e sposato, talentuoso ma distratto, ha un secondo fine? Sono forse un trabocchetto le metaforiche caramelle che tende alle discole figlie del pittore? Non si accettano regali dagli sconosciuti, ma Harriet è un viso familiare; una zia, quasi. Chi può dire, tuttavia, di saperla leggere davvero? Il gioco della nostra narratrice bugiarda si protrae a lungo: come ogni gioco, forse, sarebbe stato meglio se di breve durata. Ma in un romanzo che di “forse” vive e muore, i miei vengono chiusi in gabbia. Le chiavi le tiene la donna che, se fossi esperto di alberi genealogici e dintorni, una piccola indagine ci rivelerebbe essere antenata della crudele (ma irresistibile) Amy Dunne. I Gillespie è L'amore bugiardo ai tempi del Vittorianesimo, per molti versi. Uno straordinario esercizio di stile, meticoloso e, a tratti, crudelmente divertente, in cui Jane Harris parte da uno spunto semplice e accattivante – cedere la parola a una nobildonna sotto accusa -, portato, qui, alle estreme conseguenze. Non c'è spazio che per la voce di Harriet, tra le pagine, e il dubbio persiste: quale ruolo ha avuto, esattamente, nelle inspiegabili tragedie che hanno coinvolto una sfortunatissima famiglia scozzese? Non lo sapremo mai con certezza: confusi da un sorriso sornione; soggiogati da una prosa che ci rivolta da così a così, tanto che è incalzante.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Big Eyes

mercoledì 27 luglio 2016

I ♥ Telefilm | Stranger Things

Sono in quattro: inseparabili, fedeli, amici fino in fondo. 
Puoi trovarli riuniti attorno a un tavolo in cantina, una sera, che giocano a Dangers & Dragons, oppure vederli scorrazzare in cerca di miti e avventure. Si sono trovati, tempo addietro, in una scuola che li emarginava e, per loro, aveva cattive parole. Il ciccione, il nero, quello troppo sensibile, il secchione. E uno di loro – il più fragile – si perde, una volta in cui in città succedono cose strane all'ombra di un laboratorio top-secret. Non torna a casa, Will, e lascia una mamma che non si arrende, neanche davanti all'evidenza, e un fratello maggiore che cattura la verità, e l'orrore, in foto. I suoi amici, che corrono di qua e di là in un avventuroso e incosciente viavai, si imbattono in una sconosciuta quando, invece, non cercano che lui: Eleven – i capelli a zero, poche parole, un camice anonimo – sembra un ragazzino normale, al massimo un po' tonto. E' una lei, invece, ed è un esperimento in fuga; una mina vagante dai poteri paranormali. La sola custode di un portale da cui il male ha fatto capolino. Uno scherzo della natura. Ma anche la bontà, uno schiaffo al bullismo, il primo amore che non si scorda mai. Il tutto, inscenato in anni Ottanta che son tornati all'ultima moda – ma quando mai hanno smesso di esserlo, poi? Si vivono le fantastiche avventure dei Goonies. Si fa incetta di brividi estivi e delle rischiose imprese del King novelliere. Al cinema danno Poltergeist, ma gli adulti suggeriscono di dedicarsi all'ultimo Spielberg in sala. I walkman suonano Should I Stay or Should I Go, leitmotiv per eccellenza di quest'incantevole incubo a occhi aperti.
Tutti vogliono qualcosa aveva la forma e non la sostanza, così leggero da non tangere.
Red Oaks ti faceva sorridere e, altrettanto in fretta, si faceva scordare.
The Final Girls, parodia di una generazione e di un genere, esaltava gli appassionati, pur centellinando le tette siliconate e lo splatter. I Duffer Brothers – semiesordienti adocchiati già nel claustrofobico Hidden: buono, finale a parte – prendono un po' di quello e un po' di questo, citano un po' lì e un po' qui, eppure quanto può essere prezioso questo loro Frankenstein per il piccolo schermo di suggestioni, tagli, rimandi? Il mostro vive. E, per magia, l'omaggio conquista un'identità tutta sua. La miniserie evento, attesissima in casa Netflix e autentico carosello di stramberie e immaginazione, si inventa dal nuovo, nel suo elaboratissimo lavoro di copia-incolla. E, omaggiando It o la fortunata commedia adolescenziale di John Hughes, lavora con olio di gomito, abiti e pettinature, tendenze e canzoni, a una macchina del tempo in cui si prendono a cuore le vicende di grandi e piccini. I bambini, che giocano con il fuoco; gli adolescenti, che proteggono i fratelli minori come possono, si lanciano sassi alla finestra e confessano a voce alta sentimenti impossibili; gli adulti, infine, pietrificati dallo choc. Non c'è una sottotrama che si preferisca alle altre, davvero, e ci si illumina a vicenda, come succede solo tra migliori amici, o in serie ben calibrate. E quanto fa piacere rivedere in scena Winona Ryder, qui particolarmente intensa, messa in un angolo da una Hollywood che proprio non dimentica i suoi passati episodi di cleptomania? E, ancora, quanto è espressiva, bella e dolce la prodigiosa Millie Bobby Brown, dodicenne che comunica l'essenziale con gli occhi e che ci fa ipotizzare, per lei, la parabola di un futuro di successo? Si parlava di personaggi che vanno subito a genio, poco fa. Si ciarlava di cuore e dintorni. Stranger Things è un mistery dai risvolti fantastici che intrattiene a regola d'arte, strega e commuove. In quegli anni non c'ero, me ne scuso, ma, così, è come se ci fossi stato. Dispiace, infatti, l'essere nati tardi e l'averlo visto con ingordigia. Soprattutto, dà il tormento l'idea di essere cresciuti troppo in fretta e, nel mentre, di non averci neppure badato. (8,5)

lunedì 25 luglio 2016

Recensione: La confessione di Roman Markin, di Anthony Marra

La storia è l’errore che non smettiamo mai di correggere.

Titolo: La confessione di Roman Markin
Autore: Anthony Marra
Editore: Frassinelli
Numero di pagine: 312
Prezzo: € 19,50
Sinossi: Roman Markin amava l’arte, l’aveva studiata, sognava di diventare un pittore. Ma nella Russia staliniana, più che artisti, servivano «censori di immagini», deputati a modificare dipinti e fotografie per cancellare personaggi caduti in disgrazia e considerati traditori dal regime. Ma Roman non resiste alla tentazione di salvare o di aggiungere volti e particolari perché restino tracce, anche se quasi invisibili, di chi ha amato, di chi è stato, e di quello che è stato. Così, da un lato rifiuta − anche se nemmeno lui sa bene perché, forse solo per amore della bellezza − di cancellare del tutto la figura aggraziata di una ballerina invisa al regime, dall’altro inserisce il volto del perduto fratello Vas’ka ovunque, nelle fotografie ufficiali, nei quadri del realismo socialista, persino su un paesaggio bucolico ceceno dipinto nel XIX secolo dal pittore Zacharov. Ed è seguendo negli anni il destino di quel quadro, e del paesaggio che rappresenta, che si snoda questa storia fatta di tante storie e di tanti destini, intrecciati tra loro, al di là del tempo e dello spazio. Dal quadro spariranno delle figure, e altre ne appariranno, come se il dipinto volesse in qualche modo seguire le vicende tragiche del luogo che rappresenta. Il risultato è un libro per certi aspetti indescrivibile, tecnicamente perfetto ma nello stesso tempo arioso e struggente, profondo e luminoso, pieno di umanità e di vita.

                                                     La recensione
L'ultimo pensiero umano sarà il tuo, sussurravo.
Quel pensiero sarai tu, diceva lui.
L'ultima parola sarà la tua.
L'ultima parola sarà il tuo nome.
La famosa lista battuta su Word, da undici anni a questa parte fedele custode delle mie letture e, vagamente, diario segreto, la scorsa settimana è stata protagonista di un evento quantomai singolare. Un errore nella conta dei romanzi letti da gennaio a luglio. Uno sbaglio, o così potrebbe sembrare. Un salto più lungo della gamba, e da cinquantadue mi ritrovo ad averne letti sessantuno, di libri. Uno, due, tre... nove in più. Il mistero, in un pugno di giorni trascorsi al mare. Cos'è accaduto? Quanto avrò letto mai, io che eppure ho i miei sacrosanti tempi e che, notoriamente, non mi dedico a una nuova lettura senza prima avere parlato della passata? Mi è successo un romanzo splendido – uno e basta: contato -, che si chiama La confessione di Roman Markin. Bene. Hai spuntato già una voce dalla lista delle cose da fare, uno dice; ma adesso come parlarne, e dopo a cosa dedicarsi? Da dove prenderlo per commentarlo assieme, quel volume azzurro, neanche troppo spesso, che mentre lo sfogliavo mi faceva domandare a tutti e a nessuno in particolare: da dove avrà iniziato a pensarlo, un intrigo di tal portata, uno scrittore di trent'anni appena? Chi lo sa. La mia, perciò, più che una recensione, sarà un puro atto d'egoismo: scomporre il carillon di Anthony Marra, pur senza svelarvi troppo, per ricordarne nel dettaglio un po' dei meccanismi impercettibili, degli incastri perfetti, delle consonanze barocche e postmoderne insieme. Lo scompongono, ne ripeto i contenuti a menadito. Li tiro a me, infine, come fanno le brave madri coi cocci di vetro di una tazza che si è infranta; come fanno i naviganti con le vele. Perché certi romanzi, si sa, sono esigenze impellenti. Partiamo dalla definizione: impropriamente dirò “romanzo” per tutto il tempo – correggetemi, tra voi e voi -, ma l'editore scrive “storie” sul bianco del tutù. La confessione di Roman Markin, con le sue sole trecento pagine, di quelle storie autosufficienti ma legate, è il labirinto e la fortezza. Il baluardo. Un libro che si giudica dalla copertina: il resto, poi, viene magicamente da sé. Non ho la cultura del racconto, purtroppo – forma narrativa che mi è sempre parsa una scappatoia da impegni maggiori -, figuratevi, perciò, quanto poco ne sappia di conflitti e rovesciamenti di fortuna nell'ex Unione Sovietica. Mi hanno trattenuto a lungo i dubbi, poi mi sono affidato a Marra, fiducioso: cercavo il potenziale romanzo dell'anno, e chi l'ha letto prima di me sembrava darmi conferme e aspettative esorbitanti. Leggevo, intanto, non sapendo bene cosa aspettarmi da otto, nove racconti che, in coro, ti compongono la sinfonia più irripetibile. Detto ciò, di che parlano? La storia d'apertura, ambientata nella Leningrado comunista, racconta di Roman, artista e censore, che cancella le identità dei traditori da foto e ritratti, sostituendole con quelle dei fedelissimi al regime e, di nascosto, del fratello che ha tradito. 
Vuole preservarne il ricordo. Subirà una fine ingloriosa e, in codice Morse, consolerà un compagno di carcere che, erroneamente, l'ha scambiato per Dio: colpa di una denuncia anonima, galeotta la fotografia di una étoile sovversiva che, non si sa perché, ha risparmiato dall'oblio. La storia che segue, raccontata in un'intrigante e maliziosa prima persona plurale, rievoca la prigionia della suddetta balleria e l'ascesa (dunque, la conseguente caduta) della nipote di lei, nominata Miss Siberia e, da lì, attrice hollywoodiana e moglie trofeo. La terza è a proposito del generoso vicedirettore di un museo che, in una città distrutta, redarguisce turisti europei. La quarta parla di due soldati in un pozzo, prigionieri sugli altopiani ceceni, che seminano aneto tra le mine, scambiandosi altruisticamente storie di donne – non sono esenti le mamme, in succinti bikini leopardati sulle sponde di laghi radioattivi – e ricordi preziosi. La quinta riguarda il fratello minore di uno dei due prigionieri – a sua volta, vecchia fiamma della nota Miss Siberia -, che abbozza aforismi sparsi e contempla le ceneri dei propri cari stipate nei barattoli per sottaceti. Riuscirà mai a spargerle nel Mar Nero? 
La sesta è sui narcotrafficanti e le donne sprovvedute che popolano l'irreale Foresta Bianca – intrigo artificiale in cui tutto è illusione: gli alberi d'acciaio, le foglie di carta stagnola – e la settima, collaborazione tra un teppista vergine e un reduce di guerra, ci rivela trucchi e stratagemmi su come far soldi nella lussuosa metropolitana della Capitale russa. L'ottava, giunta prima di un sogno nello spazio, che in realtà è un viaggio dell'anima e della memoria, è la mostra temporanea in cui si incrociano passato e presente; il senso di colpa per la confessione strappata all'innocente censore e i colori nuovi di una giovane gallerista che, finalmente, torna a vedere. Avete presente quella sensazione di imbrogliare il tempo al suo stesso gioco, allungare le giornate a dismisura e, nei pochi grammi di un romanzo (ditemi, quanto peserà?), rintracciare i ventuno dell'anima umana e i quintali di sessant'anni di vita vissuta? Il gioiello di Marra - scritto meravigliosamente, ora doloroso e ora buffo: fruibile sempre – è la tana del Bianconiglio, la borsa di Mary Poppins, un mare senza fondo. Una folla a bordo di una Cinquecento piccina piccina, come quella della pubblicità. Ancora, la matriosca di un finissimo artigiano, in cui ogni bambola – ogni storia – è figlia legittima dell'altra, e le tramanda caramente cimeli, peccati capitali, impensate eredità. Si incrociano, così, sempre le stesse facce, sempre gli stessi nomi; e da angolazioni varissime, da punti di vista speculari, si reinterpretano sotto un'altra luce citazioni lì per lì trascurabili o semplici figuranti, volteggiando dalle trincee allo spazio profondissimo, dall'oggi al ieri, dal romanticismo fumoso al noir intossicato.
Quant'è piccolo il mondo: sta in un quadro.
E tu, sta' pur certo che ci sei: in quale angolo sei stato ritratto?
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: M83 – Outro 

sabato 23 luglio 2016

Mr. Ciak: Veloce come il vento, The Shallows, La felicità è un sistema complesso, Grimsby, Segreti di famiglia

Un infarto e un'esistenza che si ferma a bordo pista. Un funerale e una famiglia senza madri che, vestita a lutto, si ricompone per l'occasione. Una morte per tre vite separate. Quella di Giulia e del piccolo Nico, che lì conosco Loris: figliol prodigo che si è bruciato la chance di brillare, galeotto un incidente automobilistico, e il buon senso, per via, stavolta, di stupefacenti che l'hanno reso scheletrico e mezzo matto. Momenti di convivenza obbligata, attimi in cui ci si stringe tutti insieme, tempi duri: in ballo, il casolare in cui sono cresciuti. Lo può riscattare solo Giulia, pilota impavida e scontrosa, che raggira i creditori e gli sponsor con l'aiuto dell'improbabile capofamiglia: quel fratello maggiore che non sa prendersi cura di sé, come può badare ai piccoli di casa? Cosa può fare con la tecnica della campionessa che, a diciassette anni, tutti già danno per vinta? Veloce come il vento, storia di corse a perdifiato e rapporti di sangue, è il terzo tassello di un cinema che – prima con le vite private messe a soqquadro da uno smartphone, poi con i supereroi delle borgate romane – mai come quest'anno vuole lasciarci a bocca aperta per la reattività dei suoi parametri vitali. Alla regia, Matteo Rovere, già arrivato – stilisticamente parlando – ai tempi del radical chic Gli Sfiorari, ma con a disposizione, alla sua terza regia, personaggi più amabili e intrecci di cui, fino in fondo, ci importa davvero. Nel cast, un ottimo e stravolto Accorsi e la semiesordiente Matilda De Angelis: bella come la Lawrence (e intonatissima: ascoltate il suo singolo), con tanto da imparare ancora ma tutte le potenzialità del mondo per riuscire. Il genere, a noi estraneo, è al contrario fortemente connotato all'estero. Buoni sentimenti, rivincite, cadute e resurrezioni, la minaccia di perdere tutto: l'abc delle “americanate”. Ma a me l'americanata fa fesso – penso al pugile dal cuore infranto di Southpaw – e questa americanata con accento romagnolo, dalla trama già collaudata e con sequenze di pura adrenalina, ha qualcosa in meno e tanto in più. Gli occhi diversi coi quali la si guarda, per esempio, e al diavolo i complessi di inferiorità. Un comparto tecnico di tutto rispetto: ci importa poco dei paragoni, perciò, così come la consapevolezza che Veloce come il vento, della nuova gioventù del nostro cinema, sia la pellicola realizzata meglio ma scritta con più approssimazione. Ha il ritmo, il cuore come un tamburo, i sorrisi. La passione che trascina anche me nel fuoco della gara – io che eppure, davanti alle corse su Italia Uno, cambio canale in automatico. Due interpreti duttili e calati nella parte, che ci ispirano fiducia: chi dà peso alle ingenuità di cui è puntellata la sceneggiatura, allora? Intrattenimento fiabesco e sorprendente, è sulla buona strada per fare grandi cose. Darsi a sensazionali imprese. Come su consiglio di Loris, scriteriato ma saggio, si pensa già a quel che sarà. Alla prossima curva.  E ci si augura che Veloce come il vento, riuscitissimo nonostante gli esiti scontati e le emozioni facili, non sia stato che un giro di rodaggio. (7+)

Nancy, studentessa di Medicina in vacanza in Messico, fa un viaggio della memoria sui luoghi che la madre, recentemente venuta a mancare, amava così tanto, in gioventù. La sabbia bianca, le onde perfette, una spiaggia che è un segreto per pochi eletti: il surf al mattino e, a largo, uno squalo che, fiutato l’odore del sangue della bionda, non abbandona la preda designata. Rifugiatasi prima sul dorso di un cetaceo dilaniato, poi su uno scoglio, Nancy ha una pinna acuminata che le disegna cerchi tutt’intorno, ferite profonde e le ore contate, prima che l’alta marea – e il predatore degli oceani – la ingoi. The Shallows – da noi a fine agosto, con il titolo Paradise Beach – è un survivor nella media, che ammicca al cult da brivido di Spielberg e, con una protagonista solitaria e alla deriva, a un Open Water. Non destinato neanche per un secondo a divenire cult generazionale e sprovvisto del taglio autoriale della presunta storia vera di Chris Kentis, ha però una Blake Lively messa a dura prova e costantemente in bikini (il che, diciamolo, è cosa buona e giusta); la direzione dell’esperto Jaume Collet-Serra che, prima di darsi alla collaborazione cuore a cuore con Liam Neeson, aveva diretto l’ottimo Orphan e La maschera di cera; tutta la leggerezza che, in questo periodo, è accettata di buon grado. Di un già visto che, soprattutto per i mari inesplorati e le eroine valenti e pettorute, è gradevole rivedere, è un onesto prodotto di genere, senza infamia né lode, che ha – tra i pregi – un uso modico della computer grafica, una chiusa meno esagerata di altre e una protagonista, in cerca ancora del film della grande svolta, a cui donano l’abbronzatura, le cicatrici e la solitudine dei sopravvissuti. A fine visione, non si rinuncerà a un rigenerante tuffo al mare per la troppa paura, ma se le ferie non sono nei vostri piani imminenti e siete, piuttosto, tipi da montagna, The Shallows – avventura turbinosa e fatale – vi suggerirà freschezza e una certa cautela. (6)

Uscito in sordina lo scorso novembre, poi riscoperto all’indomani della rinnovata giovinezza del nostro cinema, La felicità è un sistema complesso è una commedia dolce-amara un po’ sui generis. Parla di Enrico, uomo cinico e solitario, che fa una professione unica al mondo: quando necessario, con mezzi leciti e non, convince gli industriali in erba a rinunciare all’impresa di famiglia; a vendere. Qualcosa, però, non va per il verso giusto, questa volta. Oppure sì? Enrico, che ha tutto sotto controllo e non si affeziona ad anima viva, si trova ad ospitare in casa una giovane straniera, piantata in asso con una misera scusa dal pavido fratello di lui. E se, nella vita quotidiana, fa i conti con una bellissima, giovane donna che dorme sotto il suo tetto – e, cocciuta, sul pavimento del salotto - , a lavoro gli toccano due giovani orfani, eredi di un nutrito patrimonio. E se prendesse a cuore la loro causa? Cosa sarebbe, poi, della sua risaputa professionalità? Diretto da Gianni Zanasi – noto ai più per Non pensarci, con lo stesso eccelso Mastandrea nel ruolo principale -, il film è una produzione particolarissima ma, vuoi uno script un po’ superficiale che compensa alle falle con idee formalmente brillanti, per me non del tutto riuscito. Ha personaggi che fanno i lavori strani dei film di Cameron Crowe, gli occhi del cinema indie e più di qualche scena che resta impressa – il protagonista in giacca e cravatta che soffia bolle di sapone; lui e lei sospesi sul letto, come d'incanto. Non ho apprezzato il finale, però, troppo semplicistico, e quel piglio un po’ “sorrentiniano” che, al contrario, avrà conquistato i più. Resto cordialmente un non-fan del Paolo nazionale, infatti, e la mancanza di vie di mezzo tra i lunghi silenzi e le frasi ad effetto, gli aforismi e sequenze da videoclip in cui la musica parla più forte dei personaggi, lo rende prezioso e difettoso. Sarà difficile il raggiungimento di questa fantomatica gioia, dunque, e altrettanto difficili sono i guizzi osati dal buonissimo Zanasi; il resto, però, è più essenziale di ciò che c’è dietro. Un About a boy tra le righe. Per chi, nonostante tutto, è convinto che le piccole cose – purché siano tanto elaborate – ci rendano felici. (7)

Nobby e Sebastian non si vedono da quasi trent’anni. Dopo la morte dei genitori, sono stati presi in affido da famiglie diverse e, da allora, l’esistenza dei due monelli di periferia è cambiata. Cos’è stato del loro volersi profondamente bene? Il maggiore ha scelto per sé la sorte peggiore, diventando un panciuto e rozzo scansafatiche, in un quartiere squallido ma caloroso: padre di undici figli, assiduo frequentatore di pub e hooligan all’occorrenza. L’altro, sofisticato e tutto un muscolo, fa l’agente segreto, ma un malinteso – colpa di quel fratello ritrovato – ed ecco che lo scambiano per nemico pubblico da eliminare. La collaborazione, e l’incontro li porterà in Africa, in un apprendistato lampo e in un lungo giro sul viale dei ricordi, tra flash di un’infanzia tenera e demenziali qui pro quo. Grimsby – Attenti a quell’altro (o, più semplicemente, The Brothers Grimsby) è l’ultima avventura al cinema di un Sacha Baron Cohen che fa scompisciare, disgusta e, questa volta, trova un pubblico poco ricettivo in sala. Inaspettato insuccesso, la commedia di Louis Letterier – che, tra le altre cose, ha confezionato un bel giocattolo come Now You See Me – si è rivelato parzialmente immeritevole del flop. La gente ne ha le scatole piene di grassissime risate, umorismo sconveniente e di un personaggio sopra le righe come Sacha, che per me non ci è ma ci fa? Così pare. Onestamente, tra siparietti politicamente scorretti (un proiettile vagante che colpisce un povero malato di HIV, e gli schizzi del suo sangue che infettano gli urlanti sosia di Radcliffe e Trump) e trucidume a fantasia (testicoli avvelenati, elefanti nella stagione degli amori, missili dove non batte il sole), Grimsby mi ha voluto schizzinoso, catapultato in sequenze d’azione assai ben dirette e divertito, molto: complice la grande ignoranza, i sentimenti in fondo buoni e la compagnia, sull’altro sofà, di un fratello che di missione segrete non ne fa. La comicità è di quella che ci faceva ridere da bambini – pupù, liquidi corporei, mutandoni e pance prominenti. La regia è di uno che la sa lunga, la canzone, e Mark Strong, di solito ottimo e sottovalutato caratterista, serissimo per natura, è un compagno di merenda alla mano e un’inaspettata spalla comica. Trashamente senza ritegno: come se, poi, fosse una grave colpa. (6,5)

Ha sfidato le bombe, per poi morire in un incidente stradale in una città senza pericoli. Una mamma che torna a casa – una fotografa di guerra – e la sua scomparsa improvvisa: i suoi piccoli uomini lasciati soli, in preda alle domande; i suoi mondi interiori; i suoi segreti. Louder Than Bombs – titolo bello ed evocativo, tradotto da noi con il dimenticabile Segreti di famiglia – è un dramma indipendente dalla regia raffinatissima e, tutto sommato, con un buon quartetto di protagonisti. Scritto come un romanzo psicologico, e forse proprio per questo non così immediato e scorrevole nella visione, si confronta faccia a faccia con il vuoto, la perdita e i piccoli misteri di una donna che, all’improvviso, muore. Incidente o suicidio? Perché una professionista affermata, coraggiosa, sopravvissuta al peggio, doveva desiderare lo schianto contro un camion, una notte? A chiederselo, il marito e i due figli. Il maggiore, da poco padre, brillante trentenne, si avvicina a un’ex nel momento del bisogno; il minore, timido e tra le nuvole, cerca l’amore di una cheerleader al di fuori della sua portata e scrive confessioni al computer che un po’ ricordano quelle del Charlie di Noi siamo infinito, e un po’ quelle degli adolescenti inquieti che, a scuola, fanno massacri. A volte si proteggono dalla verità, altre volte la cercano; i segreti non sono dei più imprevedibili – amanti, insoddisfazione, sogni pieni di simbolismo – e il ritmo, purtroppo, non è dei più sostenuti. A una storia intima e realistica, dunque, ma senza picchi, fanno fronte una Huppert in absentia, un discreto Byrne e un Eisenberg, al solito, antipatico. Rivelazioni, però, il giovanissimo Devin Druid, fratello turbolento, e Joachim Trier, regista danese non di mia conoscenza ma dalle impressionanti intuizioni formali. C’è del buono, molto d’interessante, ma tra sentimenti pieni di rigore e emozioni filtrate, cerebrale e poco emozionante, Louder Than Bombs non era senz’altro la visione da proporre in mesi di disimpegno. (5,5)

mercoledì 20 luglio 2016

Recensione: Ti ho trovato tra le pagine di un libro, di Xavier Bosch

Ci sono decenni in cui non accade nulla, e settimane in cui accadono decenni. Questa è la nostra.

Titolo: Ti ho trovato tra le pagine di un libro
Autore: Xavier Bosch
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 290
Prezzo: € 17,90
Sinossi: Quattro giorni per vivere una vita intera. A Paulina e Jean-Pierre non è stato concesso un solo istante in più. Ma in quei quattro giorni hanno abbattuto tutte le barriere delle loro esistenze, per aprirsi a un amore e una felicità mai conosciuti prima. E ineguagliati in seguito. Paulina Homs è una ragazza dalla vita tranquilla quando arriva a Parigi nel 1981 per il matrimonio della cugina. Jean-Pierre è già un uomo maturo, un gallerista della Rive Gauche colto e affascinante, amante della letteratura e delle librerie. A conquistarlo è la sete di avventura che avverte sotto l'aria innocente di Paulina. A incantare lei sono i mondi nuovi che Jean-Pierre sa aprirle con le sue parole e i suoi gesti. Insieme, imparano a vivere ogni istante come se fosse l'ultimo quarto d'ora prima della fine del mondo. Prima del ritorno di Paulina alla sua vita di sempre, a Barcellona, da suo marito e dalla sua bambina. La loro passione breve e bruciante resterà un segreto sconosciuto ai più. Di certo una sorpresa per Gina, la figlia di Paulina, quando trent'anni dopo, ormai adulta, viene a conoscenza di alcune lettere nascoste: senza mittente, scritte in francese e indirizzate a sua madre. Lettere che forse hanno qualcosa a che vedere con un biglietto da visita della stessa Paulina che un perfetto estraneo aveva trovato anni prima dentro un romanzo, in una libreria inglese, con un messaggio scritto a mano sul retro: "Appelle-moi", Chiamami. rappresenti per lui il tuo spazio: "Una libreria è la patria della libertà, il rifugio delle parole, il vero museo del pensiero".

                                                La recensione
Un bambino ricorda quando, a nove anni, scoprì che i genitori non erano creature immortali: a scuola, la piccola Gina fu informata della morte della madre, stroncata da un ictus che non avverte. Nel capitolo successivo, Gina – diventata ormai un’adolescente curiosa e ribelle – va a stare da sola e, per un po’, vive una breve e surreale fuga d’amore con un maturo londinese, che guida autobus e, parlando di segni particolari, ha un moncherino al posto del dito medio. Nel terzo, dieci anni sono già passati: a un passo dai quaranta, in una rimpatriata nostalgica e amarognola, la protagonista rivela al compagno di scuola dell’incipit – ora, impresentabile avvocato perdutamente innamorato di lei – che di quella mamma morta troppo in fretta ha scoperto una vita segreta. Parte così la storia nella storia di Ti ho trovato tra le pagine di un libro, romanzo spagnolo ma ambientato un po’ in Francia e un po’ sul palcoscenico del mondo. Perché il londinese dell’adolescenza di Gina, lo stesso della fuga d’amore lampo, si era presentato alla sua porta con un biglietto di Paulina, la mamma scomparsa: diceva, semplicemente, “Chiamami”. 
L’ha trovato all’interno di un romanzo. Perché quel biglietto non è l’unico esemplare in circolazione: Paulina, reduce da una bellissima e impossibile relazione clandestina, nei suoi viaggi, ha visitato le librerie più suggestive e nelle pagine di volumi – saggi, romanzi, enciclopedie – che parlano di farfalle ha inserito tracce del suo passaggio. Messaggi per Jean-Pierre: gallerista parigino identico a Mastroianni che, nel 1891, ha conosciuto al matrimonio di una parente. Lui fumava la pipa, collezionava libri rari, ballava il sirtaki in strada, aveva dato alla propria galleria il nome della donna che gli aveva spezzato il cuore: era l’ultimo dei romantici. E, nelle sue passioni, aveva coinvolto proprio Paulina: affascinante madre di famiglia, che si era presa un lungo fine settimana lontana da casa, diventando un’altra passione del romantico Jean-Pierre. Forse la più grande? Si promettono amore eterno in quattro giorni, si separano, si parlano attraverso lettere segrete e costose chiamate intercontinentali: lei scegli la famiglia, all’apparenza, e lui la solitudine. La corrispondenza, però, finisce troppo presto... Xavier Bosch, premiato esordiente iberico, intreccia i nodi di una duplice storia romantica: quella di un’orfana di madre in cerca di se stessa; quella di una turista all’ombra della Torre Eiffel.
Dopo trent’anni, nonostante la morte e la distanza, giungeranno a compimento l’una e l’altra. Ti ho trovato tra le pagine di un libro ha trame ad incastro, toni così diversi da confondere, a volte, e uno spunto originale il giusto. Qualche goccia di miele di troppo, a metà, ma che sembra meno dolce, sulle labbra, alla luce di un addio struggente, che conosciamo sin dalla sinossi. Ci sono cose che mi sono piaciute molto, cose che mi sono piaciute meno. Una scrittura a volte diretta e a volte sospirosa, ad esempio, che sembrava il frutto di un romanzo scritto a quattro mani: un lui nell’intrigo accattivante e una lei di quelle che non disdegnano qualche romanzo rosa, nella rievocazione di quei “quattro giorni di fuoco e magia”. Fan di Serendipity, però, ne abbiamo, se le coincidenze sono presenze ricorrenti e gli amori si affidano ai libri? O, ancora, ci sono per caso appassionati di Prima dell’alba in ascolto, con un rapporto dalle ore contate, lo sfondo di una città europea e poco tempo per condensare l’inizio e l’epilogo di una storia romantica? Il bestseller di Bosch ha le sue imperfezioni piccole e grandi, sì; qualcosa che non torna; personaggi femminili non all’altezza di un perfetto galantuomo venuto da altre epoche – sfugge Gina e, sua madre, Paulina, cade troppo facilmente vittima del dio Cupido. Sarà la copertina retrò, sarà un caldo che spira voglia di leggerezza e buoni sentimenti, saranno state le immagini di queste bellissime librerie sparse per il globo o, meglio, il pertinente riferimento al nostro Marcello o a due di quei film che vedo quanto sono giù, però a me – nonostante i ma e, appunto, i però – Ti ho trovato tra le pagine di un libro è piaciuto. Emozionante, fumoso e, a modo suo, triste: come i Lieder di Schuebert. Retorico e ricamato, come solo quelle lettere che nessuno manda più. I postini ritardano, il coraggio dà forfait, il destino fa il suo giro – e a volte, come in questo caso, non imbocca scorciatoie per paura di perdersi lungo il tragitto. Per fortuna, poi, galeotto sarà un libro. “E, dopo averlo letto, forse qualcuno poserà la mano sulla copertina e potrà esclamare: amici, l’amore esiste. L’amore è la risposta. Perché è la risposta, no?”
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Max Pezzali – L’universo tranne noi 

lunedì 18 luglio 2016

Mr. Ciak: Io prima di te, The Legend of Tarzan, Mon Roi, Cattivi Vicini 2, Sleeping With Other People

Ci sono casi sporadici in cui le trasposizioni rendono meglio della carta stampata: vedasi la lucidità del Green più logorroico e distaccato, quello di Colpa delle stelle, che - per ben due volte – mi aveva fatto piangere fior di lacrime. Da lettore, mi faccio abbindolare sì e no. Ma da spettatore, evviva le pellicole ricattatorie e un po’ ruffiane; pollice insù per le famose lacrime strappate. Poteva il bestseller di Jojo Moyes compensare alla mancata commozione, alla vaga superficialità di fondo, passando dall’altra parte? Con un conciliante Ed Sheeran, l’attenzione quasi filologica al testo e due protagonisti che più perfetti non si poteva ero sicuro di sì. Io prima di te, invece, si segue a occhi asciutti e con un sorriso tirato sulle labbra. Meno furbo del previsto? Addirittura, stravolto? Il lavoro di Thea Sharrock è calzante, rispettoso e puntuale – tralasciando i riferimenti, per me necessari però, ai traumi di lei e mandando avanti veloce le glorie collezionate in salute da lui. La sceneggiatura glissa sui loro tormenti e ammorbidisce gli attimi romantici e le scelte di un epilogo coraggioso, che già fa chiacchierare i benpensanti d’oltreoceano. Come in libreria, però, Io prima di te e i suoi decorosi protagonisti sono a proprio agio con la leggerezza e i buoni sentimenti, meno con la tragedia in agguato: lacrime di coccodrillo da parte dell’adorabile Emilia, secche le spiegazioni di Claflin. E gli inglesi, solitamente sciolti se il politicamente scorretto incontra un tema di spessore (pensiamo all’inedito Miss You Already o allo scanzonato Altruisti si diventa, che british non era, ma adorabile sì), questa volta sono divertenti, ma per nulla struggenti. Tanto negativi quanto inevitabili, gli influssi di una Hollywood che da lontano uniforma, smussa e trova compromessi scontati: i cuori spezzati, le tasche rigonfie di banconote e infermiere che, se belle come la Khaleesi di Games of Thrones, promettono  miracoli – risvegliare i Jon Snow e far camminare i tetraplegici non sono forse abilità contemplate nel suo curriculum? Emilia Clarke, frivola, mora e sbadata, è una deliziosa Lou; Sam Claflin, che interpreta senza grande sforzo il ruolo di un uomo di successo ferito nel corpo, rende piuttosto bene i musi lunghi e l’umorismo sprezzante di Will, senza stravolgere la sua faccia da bravo ragazzo. Espressivi, fin troppo, i due si abbandonano a una recitazione sopra le righe e a sguardi languidi: bellissimi “quasi amici” dai sorrisoni contagiosi, che finiranno per innamorarsi e piangersi addosso, senza però farci innamorare e piangere, con disappunto di chi aveva buoni propositi, aspettative parzialmente infrante e kleenex a portata di mano. (6)

Abbandonava l’Africa, l’uomo cresciuto dalle scimmie, nell’ultima scena del capolavoro Disney – a sua volta ispirato al ciclo di romanzi di Edgar Rice Burroughs. Al suo fianco, Jane; la Londra vittoriana all’orizzonte. Dopo un lungo viaggio di ritorno, Tarzan è diventato marito amorevole e mancato padre di famiglia, attentissimo al destino della casa che ha lasciato. Dopo otto anni, ritorna in Congo in missione umanitaria e la vita in città non l’ha impigrito: da ambasciatore a esca, il passo è breve. Re Leopoldo minaccia di ridurre tutti in schiavitù e il ritorno a casa dell’ex bambino del miracolo, architettato dal perfido Leon, mira a farlo cadere nella tela di un capo tribù in cerca di vendetta. The Legend of Tarzan, variazione sul tema diretta dall’ormai esperto David Yates, è stato accolto con un discreto successo di pubblico e critica, pare. Lo spunto: cos’è stato del personaggio amato da generazioni vicine e lontane? Una leggenda, trapiantata nell’Inghilterra civilizzata, smette forse di essere tale? L’avventura secondo Yates ha coloriture politiche, una cornice storica stranamente accurata e l’impegno che non ti aspetteresti, tra abolizione della schiavitù, riflessioni naturalistiche, messaggi ambientali. Serio e onesto film per famiglie, però, che talora sceglie il linguaggio dei moderni cinecomic e una computer grafica efficace ma onnipresente, mi ha trovato sordo dinanzi al richiamo dell’avventura. Il caratteristico urlo di Tarzan è quello di sempre, un ricordo d’infanzia, ma mi è parso lungo e faticoso – nonostante la canonica ora e quaranta complessiva – e l’impressione di un Io vi troverò d’epoca, con Jane rapita e il fedele sposo sulle sue tracce, non ha giovato. Ben realizzato e coinvolgente il minimo, si affida alla bellezza del lato visivo – e in tale bellezza sono inclusi Skarsgard e la Robbie, mai tanto adagiati sugli allori della loro gran prestanza fisica – e ai siparietti di un pessimo Waltz, che sgrana rosari e scimmiotta se stesso, e di un Samuel L. Jackson senza gloria. Manca la magia, ci si dimentica dei cuori: ci si stanca presto, lo si dimentica subito e, in fretta, ci si aggrappa alla prima liana di strada. Questa giungla mi distrugge. Soprattutto, non mi invoglia a restare. (5,5)

In francese, “ginocchio” si dice “genoux”. In sé, la parola ha i pronomi personali je e nous, che significano io e te. Che l’incidente in montagna di Toni sia perciò una richiesta d’aiuto? Che il ginocchio sia proporzionale a un cuore che ancora soffre? Mentre fa fisioterapia, la protagonista rievoca il tormentato amore con Georgio: lui fascinoso, inaffidabile, pieno di vizi; lei, avvocato di grido e presto mamma, sempre più spossata da una passione che non dà pace e da un uomo che non cresce. Mon Roi è un melodramma lungo e intimo, consueto nella resa, sui frammenti di una coppia scoppiata: in mezzo, un bambino, una ex che si ferisce a morte per cercare attenzioni, gli alti e bassi e le nevrosi di un duo contemporaneo, composto da un uomo impossibile e da una donna irascibile, che non si sente alla sua altezza. Se la canaglia Vincent Cassel risulta più seducente, in parte e, addirittura, più simpatico del solito – quando io non gli invidio i tratti affilati, i ruoli e, inutile dirlo, il caratteraccio –, sarà merito della sceneggiatura o forse della partner, una Emmanuel Bercot sincera, ma insopportabile? Tanto schietta nel portare in scena gli isterismi e le insicurezze del suo personaggio quanto irritante nei modi, l’eppure premiatissima Bercot ha messo in ottima luce lo spigoloso Vincent – che non mi è sembrato così manipolatore, così padre padrone, in relazione a un personaggio femminile antipatico come nessuno – e, se c’è un neo non da poco, è che in un copione scritto da una donna per le donne, contro la dipendenza affettiva e il maschilismo, attenzioni e aghi della bilancia pendano curiosamente verso il monarca capriccioso del titolo. Quello che, nella coppia, spicca per lingua sciolta e ironia. Quello che, soffocato da proteste e scenate plateali, non ha la possibilità di migliorarsi. E la volontà? Mon Roi, umorale e appassionato, traduce in francese quello che Cianfrance ha detto in inglese, quello che Castellitto e la Mazzantini hanno poi ribadito in italiano: il desiderio è una fiamma, e non puoi alimentarlo a forza quando muore, né confidare di maneggiarlo senza scottarti. Quello, con la crudezza del cinema d’oltralpe, gli intraducibili giochi di parole, tanta pesantezza e una sensibilità, questa volta, distante dalla mia. (6,5)

La famiglia Radner, con un altro bebè in arrivo e una bambina che è lì lì per muovere i primi passi (e giocare coi dildo di mamma) è in crescita e sta cambiando casa. Li avevamo conosciuti, un’estate fa, con la ricerca della tranquillità e l’incubo di una confraternita: con Teddy, leader festaiolo e vendicativo, era finita, poi, tarallucci e vino. Ritorna, però, mentre gli amici crescono e lui resta indietro, in quella casa sfitta. E aiuta tre ragazze in cerca della propria indipendenza a mettere su la prima sorellanza del quartiere: il quartetto si amplia presto, però, e nuovi rumori, nuove canzoni e palla e nuovi dispetti sono dietro l’angolo. Soprattutto se c’è da nascondere agli inquirenti la ragione di quel vicinato sexy e turbolento... Sulla scia delle grasse risate e del successo del primo, torna prevedibilmente un nuovo capitolo di Cattivi vicini: da me, che in estate non ho mai abbastanza di comicità spiccia e pensieri lievi, perfino un po’ atteso. Seth Rogen e Zac Efron, agli antipodi ma già affiatati, regalano doppi sensi, pance ballonzolanti contro addominali al vento; Chloe Grace Moretz, di solito abituata a ben altri impegni, si scopre spensierata, ribelle e bellissima, sempre di più. Tra le righe, questa volta, tocchi di serietà a sorpresa: il femminismo secondo le matricole – perché i maschi fanno feste e le femmine no? –, le nozze gay del “compagnone” Dave Franco e un esame di coscienza, a proposito dell’essere mamme e padri. Quasi per scusarsi, però, della piacevole scorrettezza del primo. E, in parte, dare il poco promesso, senza spostarsi d’un passo dal vecchio vicinato - o dal già visto. (6)

Lui si chiama Jake: ha trent’anni e passa, si è arricchito facendo ciò che più gli piace e a mettere la testa a posto non ci pensa proprio. Come sistemarsi, se ha partner occasionali e continue tentazioni? Lei, invece, è Lainey: maestra d’asilo di poco più giovane, ha dato il benservito al ragazzo perfetto per una relazione adulterina e, traditrice patologica, allergica alla serietà, ha deciso di passare a vedere cosa insegnano ai raduni per sex addicted. E’ lì che s’incontrano. Ma è un ehi, guarda chi c’è, non un colpo di fulmine. Loro si sono conosciuti anni prima: hanno perso insieme la verginità. Che in quella prima volta sia possibile rintracciare le cause dei cuori freddi e dei letti caldi? Che Jake sia stato la rovina di Lainey, e viceversa? Si studiano, si stuzzicano: si piacciono. Promettono, però, di essere solo amici e di rimediare fianco a fianco ai classici errori. Qual è il problema, nella monogamia? Qual è il pregio della solitudine? E mentre si danno a lunghi, lunghissimi tête-à-tête e parlano di masturbazione femminile, usando un barattolo di vetro come metafora, si scoprono gli innamorati recalcitranti di una gran bella storia d’amore e i protagonisti delle romcom indipendenti di cui non si ha mai abbastanza. In Sleeping with other people tutti parlano di sesso, qualcuno lo fa, ma la volgarità non è contemplata e c’è da penare, per avvicinarsi al lieto fine tanto sperato. Rilettura, quasi, di Harry ti presento Sally, ha una scrittura briosa, ritmi seducenti e protagonisti dolci ed esilaranti – Sudeikis, verso cui eppure non nutro molta stima, ha una perfetta faccia da suola; la Brie, sfacciata e fragile, è una meraviglia di ragazza, e la cosa non mi era mai saltata all’occhio prima d’ora. Solita storia, sì: ma la commedia osé è più gustosa, se viene dal Sundance, ha toni femministi e, al posto di divi inarrivabili, propone le imprese amorose di due così, che dimostrano che la simpatia è sexy, e non è un bugiardo cliché. (7)

sabato 16 luglio 2016

Recensioni a basso costo: La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, di Ransom Riggs

Mi ero appena rassegnato a un'esistenza noiosa quando iniziarono a succedere cose straordinarie. La prima fu traumatica. E come tutto ciò che ti cambia per sempre, spaccò la mia vita in due metà: il Prima e il Dopo

Titolo: La casa per bambini speciali di Miss Peregrine
Autore: Ransom Riggs
Editore: Rizzoli – Bur
Numero di pagine: 382
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Quali mostri popolano gli incubi del nonno di Jacob, unico sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia di ebrei polacchi? Sono la trasfigurazione della ferocia nazista? Oppure sono qualcosa d'altro, e di tuttora presente, in grado di colpire ancora? Quando la tragedia si abbatte sulla sua famiglia, Jacob decide di attraversare l'oceano per scoprire il segreto racchiuso tra le mura della casa in cui, decenni prima, avevano trovato rifugio il nonno Abraham e altri piccoli orfani scampati all'orrore della Seconda guerra mondiale. Soltanto in quelle stanze abbandonate e in rovina, rovistando nei bauli pieni di polvere e dei detriti di vite lontane, Jacob potrà stabilire se i ricordi del nonno, traboccanti di avventure, di magia e di mistero, erano solo invenzioni buone a turbare i suoi sogni notturni. O se, invece, contenevano almeno un granello di verità, come sembra testimoniare la strana collezione di fotografie d'epoca che Abraham custodiva gelosamente. Possibile che i bambini e i ragazzi ritratti in quelle fotografie ingiallite, bizzarre e non di rado inquietanti, fossero davvero, come il nonno sosteneva, speciali, dotati di poteri straordinari, forse pericolosi? Possibile che quei bambini siano ancora vivi, e che - protetti, ma ancora per poco, dalla curiosità del mondo e dallo scorrere del tempo - si preparino a fronteggiare una minaccia oscura e molto più grande di loro?
                                             La recensione
Piantonamenti, inseguimenti senza dare nell’occhio, la spia dal buco della serratura e, infine, le piazzate sotto casa. Descrivervi come, dopo anni e anni di ordini cancellati e tentativi vani, abbia fatto a reperire una copia della prima edizione di La casa per bambini speciali di Miss Peregrine suonerebbe tanto come il diario di uno stalker seriale. Nel carrello non ci voleva stare, quell’edizione con copertina rigida presto finita nei Remainders, e quante illusioni, quanti scongiuri, quando Libraccio, puntualmente, mi cancellava acquisto e buoni propositi all’ultimo minuto. Verso marzo, poi, e ormai non ci credevo neanche più, ci sono riuscito: Libreria Universitaria, qualche giorno di attesa, ed eccolo lì, pagato sei euro anziché diciannove, solido, bellissimo e mio. Nel frattempo, in rete, iniziavano a circolare i primi trailer della trasposizione di Tim Burton e, dopo gli ultimi flop collezionati dallo stesso regista che, con Big Fish, ha diretto quello che è forse il mio film preferito,  le invenzioni curiose e la fantasia contagiosa di Ransom Riggs sembravano il portale ideale per ritornare alla magia perduta. Io sono io, però, e ci sono voluti quattro mesi affinché, all’indomani del tallonamento, Miss Peregrine passasse dalla libreria al comò; l’ispirazione, un po’ di tempo libero in più e cieli che conciliano – odiando l’estate, aspettavo i temporali di queste mattine. Primo volume di una trilogia fantasy che pare giungerà a conclusione entro l’anno, l’esordio di Ransom Riggs si è rivelato degno del mio spietato, assiduo corteggiamento? O è valsa a poco la smania di possesso che me l’ha fatto letteralmente ricercare per mari e per monti?  Da grandi aspettative derivano grandi responsabilità, sì, eppure io ne sapevo pochissimo dei suoi mondi incantati e dei terrificanti piccoli eroi ricordati dal titolo: l’ho aspettato – e come, se l’ho aspettato – ma a scatola chiusa. In ritardo avrei scoperto del rapporto stretto tra Jacob e suo nonno, un anziano polacco scampato al Nazismo, e delle favole a tinte fosche che raccontava a suo nipote prima di addormentarsi. Favole di cui quel nonno, miracolo in incognito, si diceva essere il vero protagonista. Un misterioso meccanismo della psiche per rielaborare gli orrori dell’Olocausto, o resoconti di una vita parallela? Metafora o verità? Il vecchio conserva una straordinaria lucidità, l’accento originario, lettere di un’amante lontana non immaginereste mai quanto e una chiave che apre un arsenale: non abbastanza per farsi prendere sul serio da un nipote magico come lui, e non abbastanza per proteggersi dai Vacui. Quando il nonno viene rinvenuto nei boschi, assassinato, Jacob si accorge che incubi e prodigi sono all’ordine del giorno per persone come loro due: speciali. Scortato dal padre, ornitologo in erba, il sedicenne viaggia nella tempesta, fino a una sperduta isoletta britannica: nella punta più estrema, sorge l’orfanotrofio in cui il nonno è stato allevato prima della guerra. 
O quel che ne resta. Un rudere distrutto dai bombardamenti, di cui rimangono sinistre fotografie color seppia e un passaggio segreto. Si accede alla Casa per bambini speciali di Miss Peregrine viaggiando nel tempo, esplorando un anello in cui si è prigionieri di uno stesso giorno destinato a ripetersi in loop e affidandosi anima e corpo alle cure della direttrice, Peregrine, che si trasforma in un falco pellegrino all’occorrenza e protegge i suoi straordinari orfani in una bolla di sapone. Jacob arriva lì per innamorarsi di Emma, dalle cui mani scaturiscono sfere di fuoco, e stringere amicizie con gli altri: bambine forzute, aspiranti dottor Frankenstein, fanciulle fluttuanti, ragazzi invisibili... Lui, che apparentemente non ha nulla che non vada, normalissimo, ha il potere di smascherare i mostri – vogliono rapire la tutrice e sterminarne i discepoli, mossi da un piano da ostacolare – e il compito gravoso di proteggere i suoi pari. La scelta è perdersi o restare. Ransom Riggs, valente narratore e rigattiere a tempo perso, confeziona una deliziosa favola moderna, che nei momenti buoni – soprattutto nella prima metà, dunque – sortisce sul lettore l’effetto di una nostalgica macchina del tempo. 
Fa piacere ritrovarsi bambini d’un tratto, all’epoca in cui si leggevano i primi King sotto le coperte, e il merito va a una una scrittura fresca e fascinosa e, soprattutto, a inserti fotografici che sono un prezioso elemento aggiuntivo. L’autore scopre fotomontaggi di un’epoca passata in un baule e, tutt’intorno, cuce una fiaba che da quei negativi prende i volti inquietanti e da lì, in seguito, s'inventa storie dentro storie. Il risultato è dei più suggestivi, nonostante la memorabilità non sia purtroppo di casa. E la colpa è di uno svolgimento potenzialmente ripetitivo, che non sono certo si sia lasciato dietro forti nodi da sciogliere, briciole di pane, o figure che facciano a gara per conquistarci: la stessa Miss Peregrine, ad esempio - che da attempata nonna Papera al cinema mi diventa la splendida Eva Green: altro che lifting -, fa da guida ai suoi pupilli senza rivelare troppo di sé. Il potenziale di La casa per bambini speciali di Miss Peregrine starà tutto qui, come ho iniziato a sospettare verso la conclusione? Burton, che sin dal trailer sembra avere imboccato una strada molto diversa, approfitterà del materiale di partenza per fare addirittura meglio, così com’era stato per il pare non imperdibile romanzo di Daniel Wallace? Nonostante mi tenga compagnia più di qualche dubbio, quello di Riggs è però il romanzo da sfoggiare in libreria. E io, che eppure mi sono convertito piano alle gioie della biblioteca comunale e, di tanto in tanto, leggo anche qualche ebook, mi sarei sentito a metà senza un volume in cui l’inventiva del narratore, l’impaginazione curatissima e le logore fotografie al suo interno giocano gomito a gomito per rievocare giardini segreti, pseudo ucronie e giovani avventurieri che, in viaggio nel tempo, arrossiscono per le moine della bambina speciale che, una vita prima o appena ieri, si scambiava baci e promesse con un nonno che ha scelto la normalità e un tempo che scorre come deve.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Birdy – Wild Horses 

mercoledì 13 luglio 2016

Recensione: La figlia sbagliata, di Raffaella Romagnolo

L'amore vero è questa cosa qui, Pietro: abituarsi. Che fastidio ti dà uno che parla un po' troppo forte al telefono? L'amore vero, che dura tutta una vita, deve essere ragionevole.

Titolo: La figlia sbagliata
Autrice: Raffaella Romagnolo
Editore: Frassinelli
Numero di pagine: 170
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Un sabato sera come tanti in una cittadina della provincia italiana. La tv sintonizzata su uno show televisivo, nel lavandino i piatti da lavare. Un infarto fulminante uccide il settantenne Pietro Polizzi, ma Ines Banchero, sua moglie da oltre quarant’anni, non fa ciò che ci si aspetta da lei: non chiede aiuto, non avverte amici e famigliari, non si preoccupa di seppellire l’uomo con cui ha condiviso l’esistenza. Comincia così un viaggio dentro la vita di una coppia normale: un figlio maschio, una figlia femmina, un appartamento decoroso, le vacanze al mare, la televisione e la Settimana Enigmistica. Ma è una normalità imposta e bugiarda, che per quarantacinque anni, per una vita, ha nascosto e silenziato rancori, rimpianti, rimorsi e traumi. E mentre giorno dopo giorno la morte si impadronisce della scena, il confine fra normalità e follia si fa labile.
                                          La recensione
Sabato sera, interni borghesi. Primo piano su una donna di spalle, curva e appesantita, che si affaccenda all'acquaio della cucina. Insapona i piatti, Ines, e li sciacqua con cura: sgrassa, sfrega e strofina, li passa sotto il getto d'acqua senza sollevare zampilli. Presumibilmente, della lavastoviglie non si fida, come tutte le signore che hanno superato i sessanta e, tradizionaliste, preparano i tortellini a mano, fanno orecchie da mercante davanti alle proposte dei centralinisti stranieri che suggeriscono l'internet veloce e, con l'acqua saponata fin sopra i gomiti, pescano posate e bicchieri dalla schiuma che, nel frattempo, cresce nel lavello. Con la coda dell'occhio, segue un po' i volteggi degli ammiccanti ballerini di Ballando con le stelle e un po' gli spasmi del compagno di lunga data, Pietro, stroncato da un infarto fatale durante il dopo cena. Continua a rassettare, accoglie con un moto di approvazione il vincitore che, quella sera, ha decretato la presentatrice Rai e, spenta la luce, va a letto: al buio, il cadavere del marito. Il volto pallido di Pietro, la smorfia della bocca e la posizione leggermente scomposta, non le suscitano né commozione né allarmismo. Qual è stata mai, in vita, la colpa dell'anziano capo famiglia per giustificare l'indifferenza di una consorte che imbocca la porta della stanza da letto senza neanche pensarci su? Cosa ha trasformato una moglie e una mamma perfetta, con il tempo, in una macchina dai sentimenti difettosi, che mangia e coltiva i suoi hobby alla presenza di un cadavere in lenta decomposizione, senza colpo ferire? La figlia sbagliata è la storia di una donna sola che ragiona di malintesi, segreti e legami di sangue con il marito morto. Zoom spietato sugli acciacchi, le rughe profonde, i parenti che non passano a salutare e un campo lungo abbastanza, poi, da includere le vite separate di chi forse rinverrà il cadavere, forse aiuterà il genitore superstite con le spese da sostenere e l'immondizia da buttare. 
Ci si stringe tutti e quattro, perciò, per l'occasione. Sullo stesso sofà, come nelle cartoline di Natale, e nelle stesse duecento pagine scarse. Scatta (e scrive) la  Romagnolo, da me già molto apprezzata con l'inconsueto young adult Tutta questa vita. Raffaella è veloce, ed è tutto un attimo: i Polizzi si sciolgono presto da quelle pose plastiche, forzate, e ringraziano per un ritratto di famiglia rapido e indolore. Sono usciti bene, sì? La figlia sbagliata continua a riflettori spenti, però: distolti gli obiettivi. C'è una regista (e un'autrice) che ti mette a tuo agio, ti fa assumere la posizione consona – braccio sulle spalle di papà, la mano tra le mani di mamma – e continua a raccontarti anche quando il momento clou, il quarto d'ora delle famiglie felici, sembra svanito. Il suo ultimo romanzo, che mi sono reso conto di aver inspiegabilmente trascurato solo all'indomani della candidatura allo Strega, ha un incipit shock e un prosieguo che procede sul medesimo andante: essenziale, caustico, drammatico. Giallo psicologico con parole pesate – ma pronunciate a sproposito, a volte, se si è in preda al malumore – e un quartetto di personaggi indagati fin negli spigoli più dolorosi, ha la mano ferma e le ginocchia ballerine, un rigoroso impianto teatrale e gli ansimi di una tragedia contemporanea. 
L'autrice fuga in fretta i dubbi: Pietro, sposato quarant'anni prima a mo' di chiodo schiaccia chiodo, non era un irreprensibile aguzzino, un temibile padre padrone. Perché la repressa Ines, allora, reagisce imbellettandosi, cucinando pasti generosi e rispolverando l'antica passione per il disegno a mano libera? Perché quello del figlio Vittorio, vecchia gloria del nuoto e ingegnere di successo, è considerato talento con la lettera maiuscola, mentre i provini e i ruoli da comparsa della sorella minore, Riccarda, sono un capriccio da scacciare con un gesto vago della mano? Ines, tipica mamma chioccia, accudisce un primogenito che è il suo capolavoro – solo una volta le ha disubbidito,  il giovane Vittorio, saltando dallo scoglio più alto in vacanza – e combatte guerre perse con una figlia scorbutica, ribelle, allevata all’ombra di un piccolo uomo, ma con pesi immani sulle ampie spalle da nuotatore. E’ una cattiva massaia chi distingue, nella sua prole, figli e figliastri? E’ un marito codardo il camionista che tra sé e la propria casa mette chilometri e chilometri? Meglio le mancate telefonate dell’indesiderata Riccarda o la stanchezza di Vittorio, soffocato nel nido? Quattro personaggi fragili e sgradevoli, a tratti, che non trovano il coraggio o la redenzione, ma che, come ospiti spettrali, infestano un salotto inquietante – disseminato com’è di carta straccia, ricordi spolverati di fresco, morte – e i capitoli di un romanzo bellissimo, che si legge la sera, con il fresco, in cambio di un letto scomodo e una notte piena di pensieri. E, al mattino, si è tutti un dolore a colazione. Se sei parte di una casa in cui tutto e tutti sono al posto giusto, se sei fortunato, si uniranno a te, per il rito del caffè, i tuoi familiari. Eccoli lì: una mamma apprensiva, un padre che fa straordinari non necessari, fratelli spinti a competere. Ti guardi attorno e li guardi, turbato.
Se sei fortunato?
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Damien Rice – It Takes a Lot to Know a Man