venerdì 31 dicembre 2021

[2021] Top 10: Il mio cinema

10. Little Fish: Cooke e O'Connell si amano di un amore tenero e duraturo. A minare la loro relazione è una pandemia che semina l'oblio tra i contagiati. Attuale, teso e angoscioso come quel Don't Look Up sulla bocca di tutti, questo piccolo esordio sceglie il punto di vista delle persone normali e i toni del cinema indie. Perdersi sarà spaventoso. Ma riconoscersi, a sorpresa, potrebbe essere più magico della prima volta.

9. Minari: Adattandola alle misure dell'adorabile protagonista, Lee Isaac Chung cuce una saga familiare quieta, solare, delicata in maniera disarmante. Un incanto bucolico tra Corea e Stati Uniti, dove l'erba commestibile sulle anse del fiume – il “minari” del titolo – simboleggia l'arte di cavarsela. Un gioiello d'altri tempi per imparare a vivere meglio e più saggiamente i nostri.

8. Petite Maman: Cosa diresti a tua madre se potessi conoscerla quand'era bambina? Autrice sensibile e acuta, la francese Sciamma condensa in settanta minuti i dolorosi non detti dei legami di sangue. E riesce a porvi rimedio grazie al lunghissimo abbraccio ristoratore di questo brevissimo film speciale.

7. Luca: Ammettiamolo, si racconta sempre la solita Italia da cartolina. Ammettiamolo, non c'è niente di nuovo sotto il sole della Liguria. Ma il buon Luca piace per il ricordo delle estati più belle e per le riflessioni sulle pressioni che ci inibiscono. Prendiamo esempio da Alberto Scorfano, e gridiamo alle nostre paure: "Bruno, silenzio!"

6. Il potere del cane: C'è più sesso nel cinema di Jane Campion che nella bibliografia di E.L. James. È impossibile non lasciarsi travolgere dalla tensione erotica, palpabile e dolorosissima, del suo ultimo film. Un dramma crudo, freddo e polveroso, sulla natura incontaminata del Montana e su quella, segreta, dei suoi cowboy in crisi capitanati dall'infernale Cumberbatch. 

5. Pig: Toccante senza volerlo, il vendicatore Nicolas Cage va a caccia di un maiale rapito. Ma ti sorprende grazie a un rosso corposo, a un piatto elaborato, servito con tutti i crisi: perché la cucina è condivisione, memoria. E in cucina, così come dietro le quinte, van sminuzzati, masticati e inghiottiti i dolori più struggenti; le elaborazioni negate.

4. Malcolm & Marie: Zendaya e Washington in una gara di bravura senza pari. Chi avrà l'ultima parola? Citando il suo stesso protagonista, quello di Levinson è l'esempio di un cinema disinteressato a veicolare messaggi, ma pieno di cuore e di energia. Il risultato è un manuale di critica fuso ad arte con un'autopsia di coppia.

3. Una donna promettente: Folgorante esordio di Emerald Fennell – premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale –, è una commedia nera che prima intriga, poi diverte, infine sconvolge. Frullatore di toni, temi ed emozioni, è un assordante grido femminista con le argomentazioni della migliore Diablo Cody

2. È stata la mano di Dio: Combattuto tra orgoglio e vergogna, Sorrentino fa pace con la sua adolescenza incappando in una contraddizione: scappare lontano, ma con Pino Daniele in cuffia. È il paradosso di un romanzo di formazione che si strugge appresso alle gesta di Maradona e che, a miracolo avvenuto, preferisce infine ritirarsi nel bozzolo di un'epifania in atto.

1. West Side Story: Ci sono quei grandi film che nella sala semivuota di uno spettacolo pomeridiano ti fanno sentire improvvisamente piccolo. Con il cuore in gola e nelle orecchie – boom boom boom boom: faceva il matto per rivaleggiare con l'indimenticabile colonna sonora di Bernstein –, mi sono scoperto piccolo e invidioso davanti all'ultimo Spielberg. Un remake in grado di bissare un capolavoro di sessant'anni fa, contagioso nella sua magnificenza.

giovedì 30 dicembre 2021

[2021] Top 10: Le mie serie TV

10. The Great: Dall'autore di La favorita, una scoppiettante riflessione sul potere, e sulle donne al potere, storicamente accurata nonostante i toni post-moderni. Fanning e Hoult, esilaranti zar di Russia, si confermano tra i migliori attori della loro generazione. Huzzah!

9. Sex Education: Una serie che cresce, stagione dopo stagione, e la terza è la più bella tra tutte. Matura e inclusiva, elogia il sesso e condanna il sessismo. Dà voce a ogni identità, mette in mostra ogni corpo. Ti insegna a stare meglio al mondo – e con più leggerezza.

8. Master of None: Ansari torna per spiazzare e, forse, scontentare. Il terzo atto della sua serie, questa volta con al centro due donne desiderose di diventare madri, è un ritratto bergmaniano a cui mi sono abituato in fretta. Non me ne vorranno Isaac e Chastain: Naomi Ackie, straordinaria, è una padrona di casa più indimenticabile di loro.

7. Them: La piaga del razzismo raccontata come se fosse un horror. A differenza del cinema di Peele, questa nuova serie antologica non procede per metafore. Ma la storia della sopravvivenza degli Emory – afroamericani in un quartiere bianco degli anni Cinquanta – riempie di disgusto e indignazione. Stando ai tragediografi greci, la catarsi passerebbe da lì.

6. WandaVision: Una deliziosa congiunzione tra il cinecomic e l'essai. Il ritratto sovrumano del più umano dei sentimenti – l'elaborazione –, nonché un atto d'amore verso l'amore in sé e le serie televisive: sono loro, ben più dei supereroi, a salvarci dai conflitti, dall'isolamento e, qualche volta, perfino da noi stessi.

5. Maid: Dagli autori di Shameless e Promising Young Woman, un'ordinaria vicenda di coraggio sorretta da un cast straordinario in cui giganteggiano Margaret Qualley e Andie MacDowell. Madre e figlia anche nella realtà, minacciano continuamente di andare in pezzi. Ma, miracolose fino all'ultimo, non si romperanno mai.

4. Strappare lungo i bordi: Zerocalcare è la voce di una generazione vicina alla mia tanto nella pazza gioia quanto nella disperazione. Non abbiamo linee tratteggiate da seguire, né forbici per realizzare un lavoro di precisione. Strappiamo, e ci strappiamo. Siamo stracci, coriandoli. Siamo tagli. Nichilisti con brillantezza, ce lo ricordano uno spiantato artista romano e il suo armadillo.

3. Foodie Love: Il Normal People della generazione successiva, il Prima dell'alba al tempo degli algoritmi. Disponibile su RaiPlay, è un intrattenimento loquace, colto e spudoratamente sexy. Un gioiellino pieno di carnalità e di ristoranti affollati, da condividere con qualcuno che ami.

2. Anna: La serie di Niccolò Ammaniti è violenta, grottesca e imprevedibile, come i suoi bambini post-apocalittici che a volte ammazzano e altre vengono ammazzati. E, dal basso della sua statura e dall'alto della sua saggezza, fornisce strumenti impensati per trasformare l'incubo del virus in una bellissima favola del terrore.

1. It's a sin: Un gruppo di amici e l'avvento dell'Aids. L'ansia, le bugie, il negazionismo, il terrore del contatto fisico. Attuale come non mai in tempi, la serie del creatore di Years and Years è un tornado emotivo. A tratti prende a schiaffi e a tratti risolleva gli animi, con una dimensione corale degna di una sitcom irrinunciabile. 

martedì 28 dicembre 2021

[2021] Top 10: Le mie letture

10. La figlia oscura: In attesa dell'omonimo film di Maggie Gyllenhaal, una Ferrante in pillole amarissime. Misteriosa, erotica e perturbante come non mai, l'autrice della leggendaria tetralogia scandaglia il cuore femminile con la coerenza spietata di chi ha stretto amicizia coi propri demoni. Ci si può realizzare come esseri umani ed essere, al contempo, madri esemplari?

9. Latte arcobaleno: Energico, vitale e leggerissimo, il debutto di Mendez rischia di venire appesantito dalle pagine finali. Ma nemmeno allora, per fortuna, tradisce l'amore per i colori saturi, le citazioni pop, i corpi ansanti. Basso e magrolino, il protagonista avrebbe bisogno di una terapeuta o di un abbraccio. Nel frattempo canta in playback le hit del momento, lasciandosi alle spalle le tracce dell'avvenuta muta: pelle di serpente, pelle nera.

8. Le stanze buie: Ho voluto fortemente visitarle dal nuovo, queste famigerate stanze – apparse otto anni fa con Mursia Editore –, e le ho scoperte riarredate. Nonostante il mobilio mutato, ho constatato di sentirmi benaccetto come durante il primo soggiorno. La mia memoria olfattiva ricordava l'odore di cera calda e il profumo di Lucilla Flores; quella del cuore, invece, tutto il resto. 

7. La casa vicino alle nuvole: Sporco eccezionalmente di sangue, l'ultimo Nickolas Butler – immancabile nelle mie classifiche di fine anno – racconta di un'amicizia che minaccia di erodersi. Come si erodono gli animi, se mangiati dalla cupidigia; come si erodono le montagne. È una lotta contro il tempo, contro la morte, contro la Natura stessa, per erigere un sogno su misura. O forse un incubo?

6. La nostra furiosa amicizia: Formazione inquieta e pericolosissima, questo young adult a tinte crime sorprende sin dalla prima pagina: in esergo, infatti, leggiamo citazioni tratte da Hannah Arendt e RuPaul. Come si possono conciliare una filosofa tedesca e un'icona della TV americana, celebre per la sua sfida tra drag queen? Scopritelo attraverso lo stile folle e immaginifico di Rufi Thorpe. 


5. Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata: Esordio narrativo dello sceneggiatore di BoJack Horseman, mi ha fatto ridere, piangere e spinto a sottolineare le cose più urgenti. Giunto all'ultima pagina, ho avuto la sensazione di aver esagerato con i biscotti assortiti – ogni racconto è un dolcetto pescato da una scatola di latta – o di essermi preso una sbronza triste. Mi giravano forte lo stomaco e la testa; mi girava il cuore.

4. Il valore affettivo: Nicoletta Verna obbliga a uno stato di tensione imperituro. Il suo è un esordio di vertiginosa bellezza da leggere come fosse un noir. Disturbato e disturbante, richiama per eleganza il cinema di Haneke e si pianta in testa attraverso la voce di Bianca: un personaggio unico nel suo genere, che non sfigurerebbe nella galleria di quelli interpretati da Isabelle Huppert.

3. La promessa: Fresco vincitore del Booker Prize, il romanzo sui membri della sfortunata famiglia Swart (raccontati attraverso quattro funerali in quattro decenni) ha la fluidità e l'estro di quei film girati interamente in piano sequenza. Nonostante le 300 pagine scarse, la lettura risulta densissima: un caos tragicomico con un irresistibile cast sudafricano.

2. Un giorno questo dolore ti sarà utile: Non è mai troppo tardi per rivivere i propri tormenti adolescenziali, né per auscultarsi e scoprirsi degli adorabili disagiati. A diciotto anni lo avrei considerato uno dei miei romanzi preferiti. A ventisette anni, invece, vado dicendo di essermi imbattuto a scoppio ritardato in una di quelle storie-specchio che riflettono tutte le mie contraddizioni.

1. Una vita come tante: Quando ho iniziato questa bellissima impresa lunga oltre mille pagine, avevo bisogno di un brano triste che facesse pendant con il mio stato d'animo. Cercavo la catarsi. E l'ho trovata, sì, insieme all'armonia segreta che smussa perfino gli spigoli dei pentagrammi più tristi. Hey Jude: ti devo piangere, ti devo abbracciare, ti devo elaborare. Ti devo perdonare.

venerdì 24 dicembre 2021

Che musica, maestro: West Side Story | Tick Tick... Boom! | Caro Evan Hansen | Annette | In the Heights

Ci sono quei grandi film che nella sala semivuota di uno spettacolo pomeridiano ti fanno sentire improvvisamente piccolo. La prima volta mi era successo con Moulin Rouge, l'ultima con La La Land. A sorpresa saluto dicembre con una di quelle visioni che ti colgono in poltrona elettrizzato, commosso e invidioso: un musical, l'ennesimo. Forse il genere che meglio rappresenta la potenza creatrice e immaginifica del cinema. La storia è nota. Negli anni Cinquanta, l'amore tra una coppia di novelli Romeo e Giulietta minaccia gli equilibri del quartiere: Jets e Sharks – gringo contro portoricani – lottano a passo di tip-tap. Rifacimento di un classico intramontabile, West Side Story rischia di essere schiacciato dalle uscite natalizie e dalla fama dei remake: si può bissare un capolavoro? Sì, se alla regia c'è uno dei più grandi registi viventi. Spielberg, alla tenera età di settantacinque anni, realizza un sogno: dirigere un musical. E le piroette della sua macchina da presa, instancabili, sono perfino più spettacolari di quelle del corpo di ballo. Rimodernati ma non troppo nell'era post-trumpiana, i protagonisti cantano come angeli e ballano come diavoli. Con buona pace del già popolare Elgort, questa volta si lasciano rubare la scena dai personaggi femminili: Rachel Zegler, innocente ma conscia della propria femminilità in boccio, incanta; Ariana DeBose, in odore di Oscar, è indimenticabile nel suo vestito giallo e emoziona nel dialogo con Rita Moreno, ossia la Anita della versione originale. Alcuni film non dovrebbero essere rimaneggiati, tuona qualcuno. Ma la verità è che alcuni film – alcuni spettacoli –, nonostante il già ampio minutaggio, non dovrebbero finire mai. Con il cuore in gola e nelle orecchie – boom boom boom boom: faceva il matto per rivaleggiare con l'indimenticabile colonna sonora di Leonard Bernstein –, mi sono scoperto piccolo e invidioso, sì. Perché l'ultimo Spielberg, tra movimenti di macchina, scenografie e costumi coloratissimi, è così contagioso nella sua magniloquenza da amareggiare lo spettatore medio e senza talento: è mai possibile, mi sono chiesto, che in vita mia non potrò mai dare il mio contributo a una cosa così? Il mio film del 2021 ha sessant'anni. (10)

Jonathan Larson, autore del leggendario Rent, morì a trentacinque anni all'alba del suo successo. Ma questa non è la genesi del suo capolavoro, né tanto meno la storia della sua fine precoce. Il film, dal titolo significativamente onomatopeico, è l'adattamento di uno dei suoi primi musical: un'opera autobiografica, spettacolo nello spettacolo, che racconta la gavetta tra palcoscenico e vita privata. Nella New York degli anni Novanta, in appartamenti in cui è sempre festa, vanno in scena le vite di Jon e dei suoi amici. Aspiranti artisti, sognano la fama e sbarcano il lunario con lavori da poco. Qualcuno scende a compromessi, qualcuno migra. Ma il protagonista, un Peter Pan orgogliosissimo, non si arrende: vuole che il suo musical fantascientifico, dopo una gestazione di otto anni, trovi finalmente un produttore. Il tutto prima di spegnere trenta candeline. Il tempo incalza, scorre. E scandisce le prove dello spettacolo, il diffondersi dell'Aids, le ossessioni del protagonista. Dirige, bene ma senza guizzi, il solito Lin-Manuel Miranda: il futuro di Broadway omaggia, così, il suo passato glorioso in un passaggio di testimone. Recita meravigliosamente (e canta, balle, ride, piange) un Andrew Garfield al centro della performance dell'anno: versatile, poliedrico, febbrile, regge uno show degno di Robin Williams. Più memorabile per la sua prova vincente che per il resto, nonostante un gran ritmo e qualche pezzo particolarmente trascinante, il film tocca gli inguaribili sognatori. E chi, come me, si è segretamente già arreso al compromesso dell'età adulta. (7)

Può un musical cantare la depressione, l'ansia sociale, il suicidio? Succede se uno spettacolo già rivoluzionario viene portato al cinema dal regista di Noi siamo infinito e Wonder: terapeutici senza essere didascalici. Accolto negativamente dalla critica, Dear Evan Hansen continua in realtà la lezione di gentilezza avviata con i film precedenti. Il protagonista sotto ansiolitici torna a scuola con un braccio rotto e tanta voglia di riscatto: per via di un fraintendimento, finisce per essere considerato il migliore amico del coetaneo tossicodipendente che si è tolto la vita. Troppo vicino alla famiglia di Connor per tirarsi indietro, inventa una corrispondenza con il defunto. Diventa virale. Può un bugiardo diventare, suo malgrado, l'idolo di una generazione? La voce di Ben Platt, emozione pura, intona ritornelli struggenti contro i tabù. Bravissimo nel rendere i tic e le contraddizioni del suo personaggio, viene affiancato da qualche personaggio in grado di alleggerire i toni e da due dive d'eccezione: Julianne Moore e Amy Adams, impegnate in camei di lusso. Tra una canzone e l'altra, sorgono sentimenti contrastanti verso Evan. Cosa avremmo fatto al suo posto, alla sua età, per essere finalmente visti? L'ultimo Chbosky ti abbraccia forte. E ti tira anche un ceffone. Com'è che si dice? Sii gentile, ognuno sta combattendo in segreto i propri demoni. Dear Evan Hansen, ben cantato e musicato, è la colonna sonora della nostra battaglia. (7,5)

In un Festival di Cannes dove a sorpresa ha trionfato Titane, body horror con tanto di rapporto sessuale tra donna e automobile, non poteva esserci film d'apertura più audace e bizzarro di questo: il ritorno di Leos Carax, regista da me incompreso o forse incomprensibile, questa volta alle prese con il musical. La sequenza d'apertura, bellissima, infrange la quarta parete e ci invita a trattenere il respiro davanti a una storia d'amore mozzafiato. Peccato che il resto sia un delirio d'autore senza capo né coda in cui il caustico Adam Driver s'innamora della sognante Marion Cotillard. Nascerà una figlia prodigiosa, con le fattezze di una grottesca marionetta. A dispetto della strabordante presenza scenica del primo e della grazia della seconda, ridotta qui a una bidimensionale Biancaneve, il film si perde definitivamente nella seconda parte: tragedia cupissima, di gelosia e ambizione, i cui risvolti crime sono annunciati sin dal trailer. Come gli eroi dell'opera lirica, i protagonisti di Annette si esprimono per tutto il tempo in un recitar cantando a corto di ritornelli memorabili. Vivono d'arte, muoiono d'amore, cantano dappertutto (anche al bagno o praticando sesso orale). Musical alienante e dalla durata fluviale, veicola le stranezze e le idiosincrasie del regista risultando francamente inutile e pretenzioso. È un cinema divisivo, da amare o odiare: io l'ho odiato. (4)

Da Lin-Manuel Miranda, autore di Hamilton, arriva al cinema un musical già passato con successo a Broadway. Dirige il regista di Crazy Rich Asians, a proprio agio coi cast belli e popolosi, le resse e i colori sfavillanti. Si canta un quartiere di New York. Ma non è West Side Story. Leggerissimo, il film è una fiaba melensa sull'immigrazione e il multiculturalismo ambientata nel barrio in cui è felicemente riunita la comunità latina. Il protagonista pensa di tornare in Repubblica Dominicana, di aprire un bar sulla spiaggia. Ma c'è chi sta bene dove sta e ambisce a un salto di carriera. E chi, bollato come promettente, fa i conti con il sottile razzismo sperimentato lontano dagli Heights. Su tutti veglia un'anziana, la saggia nonna del quartiere, che predica pazienza e fede. Sognano notte e giorno, i protagonisti. Giovani e vecchi, non importa. Si muovono a ritmo di salsa e di hip hop. Sono al centro di coreografie straordinarie, ma le canzoni memorabili purtroppo non sono di casa benché cantino sempre: durate i blackout, sudatissimi, poveri, dati per vinti. Felici anche nelle ristrettezze, illuminano gli attimi di panico coi fuochi artificiali. Assembramento irresistibile ma sin troppo caotico e dispersivo, il film è una festa di quartiere all'insegna degli affetti stabili e del comfort food. Un flash mob piacevole, ma lungo in maniera ingiustificata data la pochezza della trama, che piacerà agli americani ma lascerà più indifferenti noialtri. (6)

venerdì 17 dicembre 2021

Recensione: La promessa, di Damon Galgut

La promessa, di Damon Galgut. Edizioni E/O, pp. 278, € 18 |

Una volta qualcuno mi ha rivelato che i momenti di aggregazione acuiscono il malumore. Si parlava, nello specifico, delle festività natalizie: da me temutissime, generano spirali di ricordi destinate puntualmente a intristirmi. Quali sono, invece, i meccanismi psicologici che intervengono durante le commemorazioni funebri – rimpatriate già dolorose di per sé? Vestiti a lutto e stretti nello stesso banco di legno, finiamo per pensare più ai trascorsi con i nostri vicini di posto che ai parenti stesi nelle loro bare sfarzose. Fresco vincitore del Booker Prize, Damon Galgut costruisce la sua saga familiare – una storia dall'impianto piuttosto classico, fatta di forzati ritorni all'ovile, avidità e dissapori – proprio su questa considerazione: i funerali servono ai vivi, non ai defunti. È per questo motivo che La promessa, destinato a imporsi come uno dei titoli più imperdibili dell'anno ormai agli sgoccioli, immortala le vicende della famiglia Swart attraverso quattro funerali avvenuti in quattro decenni differenti. Cosa si prova a rincontrarsi in chiesa o al cospetto di un notaio, mentre il tempo cambia i luoghi e i volti della nostra infanzia? Può la morte essere un collante migliore della vita?

Il sangue è la colla più densa di tutte.

Uniti dall'implacabilità del destino e da una promessa mai mantenuta – garantire una casa a Salome, l'affezionata cameriera di colore –, gli Swart si ritrovano nella fattoria di famiglia di capitolo in capitolo. La morte della madre, donna malvista dai più, ha causato una diaspora irreversibile. A richiamarli all'appello, tuttavia, è un narratore onnisciente che conosce i loro sogni, i loro pensieri, le loro perversioni, perfino i mostri invisibili che gravano sulle loro spalle: Galgut, cinico e dissacrante, fluttua leggero come una piuma di stanza in stanza, di storia in storia, non tentennando neanche davanti alle temperature infernali dei forni crematori. Scritto d'un fiato, il romanzo ha la fluidità danzereccia e l'estro di quei film girati interamente in piano sequenza. Nonostante le 300 pagine scarse, la lettura risulta densissima per stile e contenuto: un caos tragicomico con un cast irresistibile nella sua bizzarria. Proprietari di un rettilario – e per questo, forse, bestie a sangue freddo –, i personaggi (non vi rivelerò quali) vengono decimati dalla malattia, dalla tracotanza, dall'omicidio, dall'ossessione.

L'apartheid è finito, ecco, adesso moriamo l'uno accanto all'altro, in stretta vicinanza. È solo la parte del vivere che dobbiamo ancora risolvere.

Anton, il figlio maggiore, è un fuciliere pieno di debiti e di speranze mal riposte: aspirante ribelle, aspirante scrittore, cresce per disonorare il padre. Astrid, secondogenita fragile nel carattere così come nella bellezza, è una casalinga disperata che confessa al suo parroco matrimoni di convenienza e relazioni adulterine. Amor, ultima ma non ultima, è invece la piccola di casa: una creatura splendida e misteriosa, sopravvissuta per miracolo a una tempesta di fulmini, con il potere di prendersi cura del prossimo e di estraniarsi fino a vedere, dall'esterno, la grande assurdità del tutto. Non lasciatevi spaventare dall'ambientazione, anche se le invasioni dei babbuini possono talora guastare la festa insieme all'arrivo delle mestruazioni o alla finale della Coppa del Mondo: dal momento che tutto il mondo è paese, soprattutto in materia di sentimenti, il Sudafrica di Galgut è uno scenario sì turbolento – ci sono scontri tra ebrei e cristiani, anglofoni e afrikaner; la fine dell'apartheid e l'avvento dell'Aids – ma talmente somigliante ai suoi personaggi da diventare parte integrante della contesa. Alcune persone, alcuni paesi, non sanno liberarsi del passato. Sul finale, nella solita chiesa, ci saranno sempre meno fedeli a pregare per il lacrimoso trapasso degli Swart. Ci hanno fatto il callo: sopporteranno stoicamente anche l'ennesima tragedia. Ma riusciranno a venire a patti con la farsa dolorosa delle loro promesse negate, soprattutto a loro stessi?

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Amy Winehouse – Back to Black

lunedì 13 dicembre 2021

Recensione: Nuotare nel buio, di Tomasz Jedrowski

| Nuotare nel buio, di Tomasz Jedrowski. Edizioni E/O, € 17, pp. 200 |

È difficile avere vent'anni nella Polonia degli anni Ottanta. Divisa tra Unione Sovietica e Germania, tra cattolici e protestanti, è sottoposta a un regime politico talmente oppressivo da ricordare un romanzo distopico. Sferzata dal vento gelido, piena di disperati in fila sull'uscio dei banchi alimentari e di sovversivi costretti a diffondere le loro idee in clandestinità, la città di Varsavia vive un momento storico di assoluta cupezza. In un contesto eccezionale è forse possibile trovare spazio per sentimenti ordinari, umani, come l'amore, il desiderio o la gelosia?

Non abbiamo detto niente. Ci siamo guardati, già oltre le parole. Io di fronte a te, noi che respiravamo vicini. Sono entrato nel tuo cerchio. Ho raggiunto il tuo corpo in attesa, il tuo viso disteso, le gocce sulle tue labbra. Hai stretto le braccia attorno a me. Con forza. E poi siamo diventati un solo corpo che galleggiava nel lago, senza peso, senza mai toccare il suolo.

Ludwik, studente universitario fresco di laurea, trascorre l'estate in un campo agricolo: insieme ai coetanei viene educato all'obbedienza e al patriottismo cavando barbabietole da zucchero e silenziando pensieri sconvenienti. Ragazzo di città cresciuto in una casa di sole donne, sogna un dottorato e l'Occidente. Ribelle a modo suo, infrange le leggi acquistando libri proibiti: cosa intuirebbero gli altri a proposito della sua sessualità se sapessero che di nascosto legge e ama La stanza di Giovanni? Il capolavoro di Baldwin fa da ponte tra lui e Janusz: un ragazzo di campagna che condivide le sue stesse pulsioni. Complici Baldwin e la notte, i protagonisti possono svelarsi e innamorarsi in quell'acqua scura, fredda, misteriosa, in cui a volte sembra quasi di volare. Cosa sarà di loro, tuttavia, una volta arrivato settembre? Evocativo ma un po' scontato nella prima parte, l'esordio di Tomasz Jedrowski spiazza e appassiona nella seconda. Chiusa la parentesi estiva, vicinissima ai languori di Aciman, Nuotare nel buio diventa una storia di maturazione e resistenza con un ritmo da film di spionaggio.

Sei tu quello che vuole scappare. Tu quello che sta cercando di costringermi. Non puoi forzare le persone ad amarti nel modo in cui desideri.

Tornati in città, separati dalla grigia routine, i protagonisti si scoprono innamorati ma distanti. Mentre Ludwik è un idealista convinto – un sognatore, lo definisce l'altro –, Janusz è convinto che sia necessario scendere a patti con il socialismo per trovare illusoria salvezza. Il primo non vede un futuro lì, l'altro sì. Per una vita migliore è necessario espatriare? È meglio sentirsi liberi o perduti? Si può sfuggire al sistema, al giudizio degli altri, e magari a sé stessi? Accompagnato da un sorriso triste, lo stesso che accomuna tutti noi negli anni del disincanto, il romanzo di Tomasz Jedrowski racconta attraverso l'impiego di un'intima seconda persona le turbe, la vergogna, le speranze, gli sconvolgimenti interiori e quelli esteriori. In una Varsavia miserabile, benché già aperta alle mode del cinema europeo e al glam rock, i protagonisti vivono a distanza ravvicinata interrogatori spaventosi e attimi di assoluta bellezza: nel capitolo che ho preferito, obnubilati dalle sostanze stupefacenti, giocano a nascondino nel bosco, nudi come i satiri e i fauni di una poesia di D'Annunzio. Nuotare nel buio studia la geografia del corpo maschile e quella, inedita, di una città separata dal fiume Vistola – nonché dalla tentazione di piegarsi o, in alternativa, spezzarsi.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: David Bowie – Warszawa

giovedì 9 dicembre 2021

Ritorni d'autore: È stata la mano di Dio | Il potere del cane | Qui rido io | Last Night in Soho | Madres Paralelas

Non ti disunire”. È il consiglio che il regista Antonio Capuano dà all'alter-ego di Paolo Sorrentino. L'autore premio Oscar disobbedisce. Come Jack Frusciante, esce dal gruppo. Si può tornare sui propri passi? Di nuovo giovani? Nel suo film più personale, Paolo racconta Paoletto (anzi, Fabietto). Un liceale malinconico che vive attraverso le storie della propria famiglia: quando quest'ultima si disgrega, la crisi d'identità è in agguato. Ripiegherà, allora, sul cinema e su Maradona. Ma prima dell'epifania per la settimana arte, nata perché “la realtà è scadente”, c'è un'esilarante baraonda di parenti: quei genitori che si amano di un amore romantico, scherzoso, adolescenziale; zia Luisa Ranieri, struggente sogno erotico; l'altolocata vicina di casa e una sorella adolescente che, per tutto il film, sarà una voce fuori campo al di là della porta del bagno. La prima parte è un'irresistibile pranzo i famiglia; la seconda è un'educazione sentimentale piena di grilli parlanti e colpi di fulmine. Peccato per i siparietti grotteschi, marchio di fabbrica che finisce per irritare quando troppo sopra le righe. Meno artefatto, questo Sorrentino sceglie il cuore e l'immediatezza del cinema indipendente. Mentre il protagonista, pietrificato dal lutto, ammette di non riuscire a piangere, gli presteremmo volentieri le nostre lacrime per aiutarlo a uscire dall'appucundria. Combattuto tra orgoglio e vergogna, tra poesia e kitsch, Paolo fa pace con la propria adolescenza incappando in una contraddizione bella e buona: scappare lontano, sì, ma con Pino Daniele in cuffia. È il paradosso di un romanzo di formazione che si strugge appresso alle grandi gesta di Maradona e che, a miracolo avvenuto, con tutti pronti a festeggiare, preferisce ritirarsi nel bozzolo di un'epifania in atto anziché brindare allo scudetto. (8,5)

C'è più sesso nel cinema di Jane Campion che nella bibliografia pruriginosa di E.L. James. È impossibile non lasciarsi travolgere dalla tensione erotica, palpabile e dolorosissima, del suo ultimo film. Un dramma crudo, freddo e polveroso, sulla natura incontaminata del Montana e su quella, segreta, dei suoi cowboy in crisi. Presentato come l'anti-Brokeback Mountain, è l'adattamento fedelissimo dell'omonimo romanzo di Thomas Savage. È possibile una convivenza pacifica sotto lo schiaffo di un cognato irascibile? Kristen Dunst, donnina triste e alticcia, sposa il noioso Jesse Plemons. Il fratello maggiore di lui, un luciferino e sensuale Benedict Cumberbatch, si rivela un inquilino infernale: soprattutto per l'influenza che potrebbe avere sul giovane Kodi Smith-McPhee, adolescente efebico amante del fiori e delle autopsie. A dispetto dei ritmi lenti, si ha la sensazione di essere in una polveriera. Merito di una registra straordinaria, che racconta la repressione di Cumberbatch e, all'occorrenza, anche i languori del suo corpo nervoso. Mentre i comprimari convincono a tratti, il film si accende grazie al fascino alieno di Smith-McPhee. La sua silhouette bianca e sottile scatena una conturbante tensione drammaturgica. In un mondo che cambia, con il mito del machismo affidato a vecchi modelli ormai inattuabili, maestri e allievi testano la loro affinità intercettando cani nella forma dei monti. Il potere del cane è un western dell'anima sulle frontiere della sessualità, dove il pianoforte di Lezioni di piano soccombe, infine, all'incidere minaccioso del banjo. (8)

La compagnia di Eduardo Scarpetta e la sua eredità rivivono in un biopic sontuoso, denso, forse eccessivo nel minutaggio, che ha le fattezze di una grande saga familiare. In una Napoli tardo-ottocentesca rievocata con la precisione del cinema di Visconti, Felice Sciosciammocca ha rimpiazzato Pulcinella. Artefice di quella maschera popolarissima, Scarpetta si divide tra vita privata e palcoscenico. Mentre nelle sue case lussuose ospita un caos di moglie e amati, figli e figliastri (nove totali), a teatro fa il passo più lungo della gamba e parodia D'Annunzio. Mario Martone torna al cinema e in cattedra. E attraverso Scarpetta e la sua prole (uno sguardo d'eccezione, ovviamente, spetta ai fratelli De Filippo e alla loro madre: un'eccezionale Cristiana Dell'Anna) racconta i sogni di un'epoca, il tempo che passa, i gusti che si evolvono. Chiuso in un harem, il mattatore Servillo spartisce il sartù in parti disuguali e si atteggia a tiranno, dongiovanni, sfruttatore. Imperdibile per interpretazioni, comparto tecnico e ambizioni, il film non diventa un capolavoro per tanto così: poco compatto, sposta il focus da una dimensione personale all'altra e finisce per sacrificare il meglio, ossia la resa dell'universo familiare, per una farsa giudiziaria eccessivamente didascalica. Sdrammatizziamo: ad avercene, oggi, di produzioni capaci di parlarci di ieri allo stesso modo. (7,5)

Si può trovare sé stessi in un quartiere votato alla perdizione? È il paradosso a cui va incontro Eloise, studentessa di moda con grandi speranze e turbe psicologiche più grande ancora. Le bastano un monolocale in affitto, un giradischi e le luci al neon del vicino bistrot per chiudere gli occhi e riaprirli nell'Inghilterra degli anni Sessanta. Cos'hanno in comune Eloise e Sandy, la cantante che continua a incontrare con la complicità di Morfeo? Intrigante variazione sul tema dei viaggi nel tempo, l'ultimo film del sempre bravissimo Edgar Wright è un sogno sfacciatamente colorato e seducente in cui la provincialotta Thomasin McKenzie spererebbe di trasferirsi. Unita a doppio nodo alla splendida Anya Taylor Joy, rischierà la crisi d'identità di chi fatica a metabolizzare cambiamenti e compromessi. Ma l'alienazione secondo Wright ha un guardaroba invidiabile, colori pastello e uno spirito divertito, che purtroppo non turba mai a dispetto delle tematiche affrontare. Come dimenticare, invece, le mani che artigliavano la Deneuve in un capolavoro di Polanski? Il regista omaggia apertamente Repulsione, ma con una CGI spesso stucchevole. E aggiunge a fantasia un po' di Psycho e un po' della favola di Cenerentola, con il rischio che il suo thriller psicologico risulti più attraente che conturbante. Bello da ammirare e altrettanto godibile, ma non all'altezza delle aspettative, ribadisce quanto Londra, a volte, possa essere troppo. Non potremmo dire lo stesso di questa retromania dilagante? (7)

Dopo Dolor y Gloria, per me il suo film più bello riuscito insieme a Volver e Parla con lei, Pedro Almodovar torna al cinema e inaugura il Festival di Venezia. Atteso al varco con impazienza, non riesce a bissare la bellezza del film precedente. Seppure approcciato con aspettative ridimensionate per via dell'accoglienza ricevuta, a sorpresa più tiepida del solito, il suo ultimo melodramma delude e annoia: per me è tra i suoi film peggiori. La fotografa Penelope Cruz e la giovanissima Milena Smit partoriscono lo stesso giorno nello stesso ospedale. Diverse per estrazione sociale, vissuto ed età, si scoprono più vicine del previsto durante la maternità. Le uniranno una casa da condividere, un segreto doloroso e una passione saffica così precipitosa da risultare fuori luogo. A tentare di conferire maggiore originalità all'intreccio, questa volta, il regista spagnolo inserisce un insolito risvolto storico-politico: gli scavi per riportare alla luce il bisnonno della Cruz, sepolto in una fossa comune negli anni del franchismo. Cos'ha in comune la tragedia dei desaparecidos con la maternità? Francamente, non ho colto il nesso. Appesantito da un'intensità esasperante, che costringe le protagoniste a un campionario di mani tremule, occhi sbarrati e sospiri profondi, Madre Paralelas mette troppa carne al fuoco e, allo stesso tempo, troppo poca. La fotografia da soap opera, imbarazzante, non aiuta. (5)

venerdì 3 dicembre 2021

Le serie sulla bocca di tutti: Strappare lungo i bordi | Maid | Scenes from a Marriage | The White Lotus | Only Murders in the Building

Zero, artista aspirante, maestro dell'inazione e degli amori inespressi, è un analfabeta sentimentale con un armadillo per grillo parlante e un biglietto per Brescia. Nel tempo libero si stordisce di seghe, plumcake e autocommiserazione. Dove sta andando accompagnato dagli amici di sempre, Sara e Secco? Per ingannare l'angoscia, durante questo viaggio della vita – e della morte –, darà avvio a un flusso di coscienza brillante, verboso, coloratissimo, capace di raccontare a suon di citazioni nerd il precariato, l'indecisione cronica, l'istruzione scolastica, le relazioni tossiche, gli aneddoti belli e quelli brutti. Già conosciuto attraverso la trasposizione di La profezia dell'armadillo, Zero mi ha fatto prima bene e poi male. Zero non mi piace. Zero mi somiglia così tanto da mettermi in imbarazzo. Alter-ego di un famoso fumettista romano, che questa volta scrive, dirige e doppia per Netflix, è la voce dolente di una generazione vicinissima alla mia tanto nella pazza gioia quanto nella disperazione. Perché essere giovani, oggi, significa sentirsi degli eterni fogli accartocciati. Non abbiamo linee tratteggiate da seguire, né forbici per realizzare un bel lavoro di precisione. Strappiamo alla cazzo di cane, e ci strappiamo. Siamo stracci, coriandoli. Siamo tagli. Nel ricordarcelo, nichilista con ironia, Zerocalcare firma una delle migliori novità dell'anno corrente. (8)

In fuga da una relazione tossica insieme alla figlioletta, Alex sbarca il lunario come domestica. Pulisce le case dei ricchi, e ne carpisce le storie, i segreti, le felicità apparenti. Alex smacchia, sgrassa e lucida in silenzio. Ma a dispetto degli sforzi titanici non riesce a cancellare i dolori della propria famiglia disastrata, composta da una madre bipolare, un padre assente e un partner tenero ma imprevedibile negli sbalzi d'umore. Attraverso i viavai giornalieri della protagonista, questa miniserie – ispirata a una storia vera – racconta con sguardo partecipe i figli di un Dio minore. Quelli dei sussidi statali, delle case-famiglia, del buoni pasti: i novelli miserabili. Prodotta dagli autori di Shameless e Promising Young Woman, Maid descrive in maniera simile il disagio sociale e la solidarietà femminile senza però mai propendere per il grottesco. Realistica, introspettiva, ma all'occorrenza sognante, è un'ordinaria storia d'ispirazione e coraggio sorretta da un cast straordinario. Benché stupisca il Nick Robinson dell'adolescenziale Tuo, Simon, giganteggiano Margaret Qualley e Andie MacDowell. Mamma e figlia anche nella vita reale – la prima una definitiva consacrazione, l'altra un insperato ritorno di fiamma: le rivedremo entrambe ai Golden Globe – minacciano di andare in pezzi in continuazione. Ma, miracolose fino all'ultimo, non si rompono. (7,5)

Oscar Isaac e Jessica Chastain – quanta bellezza, quanta bravura: ne saranno ben felici i nostri ormoni – si amano e si odiano alla follia nella miniserie ispirata a Bergman. Seppure a ruoli inversi rispetto al film originale, discutono di monogamia, sesso e tradimenti nell'arco di cinque puntate. Lui, insegnante di filosofia, è caloroso e accomodante. Lei, manager ambiziosa, appare più disincantata. Nonostante la sceneggiatura e le performance, di altissimo livello, siano state acclamate all'unisono al Festival di Venezia, il piglio freddo e cerebrale del tutto non è riuscito mai a emozionarmi. Anzi: lo script sembra fare il possibile per renderli insopportabili, con Isaac ridotto a uno zerbino e Chastain trasformata in un'aguzzina capricciosa. Alle “scene” di Hagai Levi – sbrodolate sedute psicoanalitiche mascherate da schermaglie coniugali – manca qualsiasi spontaneità. Possibile che fosse più dolorosa una lite di pochi minuti nell'ultimo Baumbach rispetto a questo profluvio di recriminazioni e pavoneggiamenti stellari? Per riprendersi dall'eventuale delusione, consiglio la terza stagione di Master of None altro tributo al maestro svedese – o Chiamami ancora amore, un Kramer VS Kramer all'italiana prodotto dall'insospettabile mamma Rai. (6)

Una famiglia con detestabili figli adolescenti al seguito. Una coppia di neosposi minacciata dalla tristezza di lei, insofferente verso quel marito capriccioso. Un'appariscente donna di mezza età con un'urna da spargere nell'oceano. E un resort esclusivo, nelle sognanti Hawaii, che per qualche tempo ne accoglie le storie, gli strepiti e i disastri tragicomici, mentre il suo impettito direttore rischia di perdere il suo buon nome. Le esistenze dei villeggiantisi intrecceranno con risultati imprevedibili a quelle dei dipendenti. Grottesca, acidissima, scritta in stato di grazia, The White Lotus fa ridere a denti stretti a proposito di white privilege, patriarcato e perbenismo. Come nella migliore tradizione della satira sociale, la sceneggiatura – perfetta nei primi episodi – bacchetta i vizi di questi riccastri vuoti e superficiali. I toni sono corrosivi, la colonna sonora tribale, il cast strabiliante – l'iconica Jennifer Coolidge su tutti, ma occhio anche ai sorprendenti Murray Bartlett e Alexandra Daddario. Peccato per l'epilogo, agrodolce ma senza coraggio: un ritorno alla normalità (con omicidio) che non convince completamente. Bella, ma non quanto si leggeva in giro ai tempi della messa in onda su Sky, resta la versione riuscita della pessima Nine Perfect Strangers ma non il capolavoro annunciato. (7)

Un attore sul viale del tramonto, un regista in bancarotta e una ventiseienne dal passato enigmatico fanno squadra per indagare su un omicidio avvenuto nel loro condominio. Che la morte di un solitario uomo d'affari sia correlata a quella di una giovane di buona famiglia, caduta dall'ultimo piano qualche anno prima? I sospettati, di tutto rispetto, comprendono anche Nathan Lane e la rockstar Sting. Giocando a fare i detective, i tre protagonisti contribuiscono a creare un un podcast dal successo istantaneo e questa deliziosa comedy d'ambientazione newyorese, che nei suoi momenti più felici ricorda proprio il Woody Allen di Misterioso omicidio a Manhattan. Peccato che, nonostante qualche trovata particolarmente brillante – il settimo episodio, un prodigio tecnico girato dal punto di vista di un inquilino non udente – e colpi di scena in quantità, il risultato sia tanto piacevole quanto innocuo. Già confermato per una seconda stagione, Only Murders in the Building resta in ogni caso l'intrattenimento ideale per gli amanti di Agatha Christie e per spettatori arzilli anche se in là con gli anni. I suoi pregi maggiori? Aver riporto sugli schermi Steve Martin e Martin Short, irresistibili mattatori, che ammiccano alle nuove generazioni – da qui il coinvolgimento di Selena Gomez – e brindano alla vita scherzando a lungo con la morte; la sigla animata, tra le più belle dell'anno corrente; il format vincente, purtroppo supportato da un intreccio poliziesco tutt'altro che indimenticabile. (6,5)

lunedì 29 novembre 2021

Recensione: Le stanze buie, di Francesca Diotallevi

| Le stanze buie, di Francesca Diotallevi. Neri Pozza, € 18, pp. 304 |

Ho varcato la soglia di queste stanze buie otto anni fa. Ero una matricola avvinta dai misteri e, nel perlustrare la residenza della sventurata famiglia Flores, cercavo gli spettri nascosti negli angoli più imprevedibili; l'oscuro. Preceduta da una fama sinistra, la villa – considerata infestata – ospitava il ricordo di un grande struggimento e le presunte apparizioni di una dama vestita di bianco. Mi aveva fatto da guida Francesca Diotallevi, già talentuosissima, che di quella villa nelle Langhe era stata architetto eccezionale nonché abitatrice. Cresciuta con il culto dei gotici inglesi, l'autrice esordiente aveva fatto sua la lezione delle sorelle Brontë: ogni storia d'amore è una storia di fantasmi.

Una vecchia casa è piena di rumori, Fubini. Se doveste badare a ogni singolo scricchiolii, a ogni fruscio, impazzireste. Credetemi, impazzireste.

È strano ritrovarsi dove tutto ha avuto inizio – compresa l'amicizia telematica tra me e Francesca – quasi un decennio dopo. Questa volta, ben consapevole dei colpi di scena in agguato, ho prestato attenzione alla verosimiglianza del contesto storico-sociale e alla grazia di una scrittura elegante nella sua linearità. In fase di riscrittura è mutata la relazione tra i protagonisti, qui platonica, mentre l'elemento horror è stato ridimensionato: ho apprezzato la prima scelta, meno la seconda. Questo romanzo, tuttavia, oggi somiglia ben più che in passato alla sensibilità d'altri tempi di Diotallevi e, soprattutto, all'indimenticato Vittorio Fubini: un maggiordomo rigoroso e pragmatico, estraneo ai sentimentalismi, al centro di un uragano di emozioni. Cosa possono i suoi guanti bianchi contro il rosso dell'omicidio; cosa, ancora, contro la polvere del tempo? Arrivato in provincia dalla mondana Torino per volere dello zio, Vittorio crede che una casa vada sempre giudicata dalla lucentezze delle posate. Presso la residenza dei conti Flores, assai grossolani nonostante il titolo nobiliare, ci sono molte cose fuori posto: dal personale troppo invadente ai vizi del padrone di casa, fino ad arrivare alle bizzarrie di Lucilla Flores. Niente affatto ospitale, con i capelli scompigliati e le mani indurite dal duro lavoro, la donna viene spesso meno ai propri doveri e si rifiuta di affidare l'educazione della figlioletta a un'istitutrice. Assoldato per essere il cane da guardia che ne arginerà le fughe, Vittorio si scoprirà combattuto tra il desiderio di biasimarne il ribellismo e quello, indecoroso, di proteggerla. Entrambi prigionieri di un ruolo, la padrona e il servitore – la vittima e il carceriere – si scopriranno complici durante le sortite notturne in cucina o nel rifugio di Lucilla, un laboratorio in cui la donna trasforma i fiori in profumi.

Gli spettri non esisterebbero se non fossimo noi, con i nostri desideri, col nostro amore, col nostro dolore, a trattenerli qua. Gli spettri vino dentro di noi. Gli spettri, talvolta, siamo noi.

Laggiù le scale scricchiolano macabramente, i campanelli tintinnano suonati da mani invisibili, le porte chiuse si spalancano su celle di dolore. Quali sono le ragioni per restare, quali quelle per andare via? L'infelice Lucilla vorrebbe scappare lontano da qualcuno, o forse da qualcosa? È braccio di ferro tra ragione e sentimento nell'arco di questo bellissimo romanzo fatto di esistenze interrotte e passioni mai consumate, storie che ritornano e rimpianti che restano. Raccontato a ritroso da un protagonista ormai anziano, Le stanze buie rinnova incanto e struggimento. Pubblicato inizialmente da Mursia e riportato in libreria da Neri Pozza, nell'edizione di pregio che si sarebbe sin dall'inizio meritato, mi ha investito con immutata potenza e, come capita davanti a un film già visto ma mai metabolizzato del tutto, mi ha indotto a sperare in un epilogo che fosse uguale e diverso al tempo stesso. Ho voluto fortemente visitarle dal nuovo, queste famigerate stanze, le ho scoperte parzialmente riarredate. Nonostante il mobilio fosse mutato, privo di chincaglierie e barocchismi, ho constatato, stupito, di sentirmi benaccetto come durante il primo soggiorno. La mia memoria olfattiva ricordava per fortuna l'odore di cera calda e il profumo floreale di Lucilla; quella del cuore, invece, tutto il resto. Entro i confini di questa «casa stregata» sapevo orientarmi anche al buio.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Nicole Kidman – One Day I'll Fly Away

giovedì 25 novembre 2021

Recensione: Le transizioni, di Pajtim Statovci

| Le transizioni, di Pajtim Statovci. Sellerio, € 16, pp. 263 |

Vivere, per Bujar, è come indossare un paio di scarpe troppo strette. Irrequieto, scalpita da un'esistenza all'altro nel tentativo di sciogliere i propri lacci. Ma, impossibilitato a liberarsi di questa condanna, cambia paese e pelle alla maniera dei serpenti. Chi è il protagonista del romanzo di Pajtim Statovci? Senza terra, senza sesso, senza futuro, è un apolide in fuga da Tirana. Dipinta alla stregua di una terra fiabesca attraverso le parole di un papà cantastorie, l'Albania dei primi anni Novanta è in realtà un caos incomprensibile di dittatori e abusi, zeppo di delitti politici, esecuzioni pubbliche e trafficanti d'organi. Si può essere diversi in un posto così? Si può essere speciali? Bello, intelligente e poliglotta, cresciuto con l'ottusa convinzione di differenziarsi dallo squallore della massa, il protagonista scappa (dalla violenza, dalla povertà, da sé stesso) insieme all'amico Agim – amato oltre l'amicizia, amato oltre l'amore. Usato, tradito e infine accolto, a volte vittima inconsapevole e altre sadico boia, Bujar cerca l'America dappertutto. E, non pago di una Roma assiepata di turisti, si trasferisce a Berlino, Madrid, New York e Helsinki, incrociando la vita di altre persone ai margini. Tragedia sull'immigrazione raccontata da punto di vista inedito, Le transizioni è mosso da un solo motore: la disperazione più nera.

Sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini, potrei chiamarmi Anton o Adam o Gideon. A volte sono una ragazza di ventidue anni, che si comporta come le pare. Amina o Anastasia, il nome non è importante, mi muovo nel modo in cui ho visto muoversi mia madre, i miei tacchi sfiorano appena il suolo e non contraddico mai gli uomini.

Dispersiva, così come dispersive sono le mille vite del narratore, la lettura si sposta tra passato e presente accogliendo in ordine sparso leggende locali e digressioni impossibili da tenere tutte a mente. La verità s'intreccia indissolubilmente alle bugie di Bujar, che nel reinventarsi cambia a piacimento partner e sessualità. Qualche volta veste abiti maschili, qualche volta femminili. Cos'è più conveniente? Qualche volta ama le donne, qualche volta gli uomini. Chi può maggiormente prendersi cura di lui? In duecentocinquanta pagine c'è tanta, troppa carne al fuoco, insieme a una drammaticità così spiccata da dare assuefazione. A differenza di Una vita come tante, tragedia contemporanea disposta a condividere con il lettore anche straordinari momenti di bellezza, Le transizioni è respinge, cupo, irredento. Pesantissimo, se non fosse per una scrittura che scorre, al contrario, sempre schietta e accattivante. Diviso tra la compassione e il biasimo, sono rimasto tuttavia affascinato dalle contraddizioni del protagonista: un novello Mr. Ripley, che nella grottesca virata finale punta perfino al mondo dei talent show, troppo fuori dall'ordinario per ricercare davvero la normalità. Impermeabile a qualsivoglia speranza, è un inquietante mutaforma che reclama semplicemente il diritto a esistere, di capitolo in capitolo; a resistere, di vita in vita. Ma a furia di cambiare pelle rischia purtroppo di annoiare e di restare nudo, per sempre a disagio, per sempre prigioniero di in un'esistenza inizialmente cucita sulle misure di qualcun altro.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Litfiba - Il mio corpo che cambia

lunedì 22 novembre 2021

Le visioni indie di novembre: Titane | Pig | Petite Maman | Shiva Baby | Passing

Corpi. Corpi in mostra, corpi occultati, corpi eccitati, corpi dilaniati. Alexia, col proprio, ci ha fatto l'amore e la guerra. Ballerina in un night club, ha una placca in titanico in testa e una famiglia che l'ha cresciuta senza amore. Serial killer di uomini e piromane, trova riparo a casa di Vincent: un uomo così solo da credere che lei sia il figlio scomparso. Anche il corpo del padrone di casa, gonfio di steroidi, racconta un'ennesima storia di dolore. Discusso vincitore all'ultimo Festival di Cannes, il nuovo film di Julie Ducournau è sì un body horror dallo spunto assurdo (la protagonista, infatti, resta incinta di un'automobile di lusso), ma soprattutto l'incontro-scontro tra due solitudini. La prima parte è la più provocatoria: questa protagonista dal fascino alieno tenta di abortire con una forcina per capelli, si spacca il naso, prende a stillare olio di motore dai seni. La seconda, invece, mostra una convivenza piuttosto ordinaria: sapranno i protagonisti trovare l'umano nel disumano? Folle, sexy e grottesco, il film attrae grazie al filtro estetizzante del cinema di Refn. Ma sconvolge forse meno del previsto, in un inizio eccessivo e in un prosieguo poi molto più canonico. Storia di madri e mostri, dividerà fino agli Oscar. Ma, come il film figlio di Alexia, Titane è una bestia che prima non c'era. Miracolo o abominio? (7)

Grosso, barbuto e con il volto incrostato di sangue, il boscaiolo di Nicolas Cage abbandona la sua capanna e ritorna in città: qualcuno ha rapito il suo maiale da tartufi. Pronto a diventare il cult trash dell'anno – l'ennesimo con Cage per protagonista –, Pig è in realtà un gioiello indipendente già nominatissimo nei circuiti di nicchia. Isolato da tutti, in fuga da sé stesso, il protagonista si muove con straordinaria gravitas in un incrocio tra John Wick e Drive. Che si tratti dei ristoranti stellati o dei sotterranei della sordida Portland, il suo nome fa tremare i polsi: per fortuna, nel corso della visione, nulla va come immaginato. Votato alla non violenza, questo singolare vendicatore incanta con la grazia dei gesti ai fornelli e si lascia scortare dal sempre ottimo Alex Wolff: un giovane uomo con un rapporto burrascoso col padre e una madre suicida. Diviso in tre capitoli, Pig propone di volta in volta tappe e ricette segrete. A dispetto della sua aria cupa, lo si segue con emozione dall'inizio alla fine. E le lacrime sono in agguato grazie a un epilogo all'insegna di Bruce Springsteen. Toccante senza volerlo, e in maniera che risulta difficile descrivere, Cage va a caccia di una scrofa ma ti sorprende infine grazie a un rosso corposo, a un piatto elaborato servito con tutti i crisi: perché la cucina è condivisione, memoria. E in cucina, così come dietro le quinte, van sminuzzati, masticati e inghiottiti i dolori più struggenti; le elaborazioni negate. (8)

Cosa diresti a tua madre se potessi conoscerla quand'era bambina? L'ultimo film di Sciamma è un gioco d'immaginazione sospeso nei “se” dei paradossi temporali. Rimasta sola con il padre, Nelly fa i conti con la morte della nonna (non è riuscita a salutarla come sperato) e con il misterioso allontanamento della madre (che la sua infelicità sia proprio colpa di quella bambina nata anzitempo?). Già logorata dai primi tarli della coscienza, Nelly fa la conoscenza di una coetanea: per qualche strana magia, Marion è sua madre da bambina. Tenerissima fiaba intergenerazionale di donne e d'infanzia, il film dipinge il quotidiano di realismo magico e dei colori abbaglianti dell'autunno. Semplice all'apparenza, ricorda i film per famiglie degli anni Novanta. Ma dietro i giochi innocenti, questa volta, ci sono due piccole donne che stanno comprendendo loro stesse: per spogliarsi dei reciproci ruoli, perdonarsi e chiamarsi, semplicemente, per nome. Autrice sensibile e acuta come, la regista di Ritratto della giovane in fiamme condensa in settanta minuti i dolorosi non detti dei legami di sangue. E, come d'incanto, riesce a porvi rimedio grazie al lunghissimo abbraccio ristoratore di questo brevissimo film speciale. (7,5)

E' la pecora nera della famiglia. Bisessuale, femminista e indecisa sul prosieguo degli studi, la protagonista è poco più che un'adolescente con il sogno della stand up comedy. Con le calze strappate e uno smartphone pieno di chat sconce, si trova prigioniera del rinfresco di un funerale. Nello stesso salotto ci sono una vecchia fiamma, la fiamma attuale e una nidiata di parenti invadenti. La classica commedia degli equivoci sembrerebbe prontamente servita. Ma, a sorpresa, c'è del disagio vero nell'esordio alla regia di Emma Seligman. Fatto di schiaccianti primi piani, dialoghi affannosi e di un tappeto sono degno di un film horror, Shiva Baby è un caos meravigliosamente scritto che ricorda proprio l'imbarazzo delle cene col parentado riunito. Braccati, vorremmo sottrarci ai giudizi e alle domande. E urlare insieme alla protagonista, Rachel Sennott, qui al centro di un coming of age nato come un incrocio tra le commedie indie di Greta Gerwig (se fossero altrettanto scomposte, sincere, maleducate) e le terrificanti famiglie disfunzionali di Ari Aster (se l'isteria collettiva non generasse presenze demoniache, ma soltanto un infernale carnage domestico). (7,5)

Rebecca Hall, attrice di indubbio talento, debutta alla regia con un film ambizioso tanto per forma quanto per contenuto. Girato in 4:3 e in un ammaliante bianco e nero, raccontata un'intolleranza sottile, intima, che prescinde il colore della pelle: chi è davvero libero, chi felice? Amiche di vecchia data, Tessa Thompson e Ruth Negga si incontrano per un tè. La prima, moglie di un medico, si finge appagata; l'altra, invece, si spaccia per bianca. Fragili, irrequiete ed enigmatiche, si raccontano a parole e coi gesti. Thompson comunica finanche i pensieri più scomodi con un'occhiata, mentre Negga – sensuale come una novella Monroe – si lascia andare a lacrime così strazianti da ammutolire. Magnificamente dirette, sono al centro di un rapporto sfuggente. Le unisce la solidarietà, l'invidia o un'attrazione saffica? Da un lato film di straordinarie prove attoriali, dall'altro gioia per gli occhi degli esteti, Passing è un sofisticato melodramma al femminile con un comparto tecnico da Oscar. Algido, però, manca di immediatezza e, a differenza del romanzo, preferisce i toni spiccatamente drammatici a quelli di un noir dei sentimenti. Nonostante il bianco e nero delle immagini, nella sceneggiatura prevalgono le sfumature di grigio. E la sensazione di trovarsi a un debutto sì perfetto, ma di una perfezione spesso troppo fine a sé stessa. (6,5)