lunedì 6 maggio 2019

Recensione: L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli

| L'inverno di Giona, di Filippo Tapparelli. Mondadori, € 17, pp. 190 |

Non ha che un maglione rosso, presumibilmente un modello femminile, per ripararsi dai rigori dell'alta montagna. Giona, quindici anni, vive in un villaggio senza nome e senza tempo. Per lui non esistono né il passato né il futuro. Soltanto un eterno presente, fatto di temperature in picchiata, terribili violenze – fisiche e psicologiche – e pochi ripari contro un gelo che pian piano ha messo radici anche nel cuore. Questa è la storia di un convivenza insostenibile: da qualche parte, in una casupola buia che sormonta tutto e tutti, il protagonista condivide i pochi spazi vitali con il nonno Alvise. Un vecchio dalle mani ferme e pesanti, dagli occhi di un azzurro impenetrabile, che con la stessa meticolosità con cui intreccia rami di castagno per fare gerle si ostina a tormentare il nipote: quintessenza della virilità, esempio di durezza e cattiveria, risulta elegante anche nel pestaggio. Nelle nocche lucide di sangue, nelle suole delle scarpe che calciano e spezzano le ossa. Questa è la storia del paese di Alvise: un microcosmo di case nude e argilla, di cieli dello stesso colore dell'orzata, che si regge a malapena su un ciottolo e sta perdendo misteriosamente il suo centro. Come sopravviverà senza il suo leader, e senza la complicità delle nebbie perenni?

Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Non sono tue le mani che mi spezzano la carne quando il vecchio mi punisce. Non è il tuo volto che mi tocco quando il freddo d'autunno mi congela le guance. Non sono volto, non sono labbra, non sono dita, denti, né altro. Io sono figlio del niente, senza padre né madre. Ma lei, a differenza tua, me la ricordo a ogni colpo che arriva, perché è il suo nome che invoco nella gola quando il male diventa più grande di me. Tu invece non sei mai esistito. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Ricordo la tua assenza, quando invece vorrei poter dimenticare la tua presenza inconsistente. Hai carne di vento, pelle di nebbia. Sei vecchio come Alvise. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno. Le tue schegge non sono dolci, sono vetriolo che scende nello stomaco. Bruciano tutto quello che trovano, anche le grida.

Vincitore del premio Calvino sulla scia del bellissimo L'animale femmina, L'inverno di Giona racconta di un fragile universo che un singolo atto di ribellione minaccia di ridurre in polvere. Anche se niente è quel che sembra. L'ordine è rigoroso, il silenzio di tomba. Le case hanno le porte aperte e le scatole, che all'interno nascondono indizi indicibili, rifiutano lucchetti: lo spietato Alvise, sicuro della propria autorità, è infatti il peggiore deterrente. Suo nipote è nel fiore dell'adolescenza, ma al cospetto del vecchio sembra un bambino sperduto. Logoro e infreddolito, sozzo di sangue, nella prima parte mette alla prova le resistenze del lettore descrivendo una routine che fa impallidire: l'apice, quando è costretto a scegliere fra il passare una notte all'addiaccio o gettare nella fornace il suo maglione – già rattoppato alla bell'e meglio, per tutte le volte in cui Alvise lo ha strappato e bucherellato all'indomani di qualche sgarro. Solo al mondo, a digiuno di abbracci, Giona ha dato un nome di battesimo ai dodici gradini che conducono in cantina e ben presto sperimenta l'orrore delle strade vuote, dei boschi labirintici, come nella versione amara di Hansel e Gretel. La seconda parte, un soliloquio dai toni lisergici ma poetici, tratta di un doppio affrancarsi; di una fuga tanto letterale quanto metaforica, lontano da un villaggio giunto al collasso.

Sai come nasce un albero che sa fare i frutti? Non in modo spontaneo, non secondo natura. Non da solo. Scegli una pianta selvatica resistente, gli spacchi il legno e gli innesti dentro un ramo buono, con le gemme. Poi la mutili per anni con la potatura, lasci solo i rami più forti e li deformi per renderli adatti alla raccolta. Con il dolore, Giona. Solo con il dolore si impara.

Lì dove libertà fa rima con redenzione, l'animo smarrito del protagonista punta a mete sconosciute con lo spirito dei classici viaggi dell'eroe: gli fanno compagnia la spettrale Norina, una coetanea seguita a ruota da uno sfuggente gatto nero; la dolcezza di Anna, che mette in ordine una canonica rimasta purtroppo senza prete; i litigi aspri fra Attilio e Anna, che sparlano della figlia sciagurata che ha osato voltare loro le spalle. La terza parte invece, forse intuibile attraverso indizi ben seminati ma comunque agghiacciante, è la riflessione a ruota libera sulle fate e i demoni della nostra fantasia: qualche volta salva, qualche volta ammazza.
Sorretto da una scrittura dalla bellezza perturbante, vibrante com'è delle angosce e del candore delle infanzie di ogni dove, il premiato esordio di Filippo Tapparelli è un'allegoria esistenzialista consigliata a chi ha amato e sofferto con Sette minuti dopo la mezzanotte e Vita di Pi. Una strada senza uscita, che gira in tondo e porta sempre al punto di partenza. Tutto, pur di affrontare una scomoda verità. L'andamento perciò sarà di quelli vari e frastagliati. Ancorati a una prosa ispirata e scabrosa, piace tuttavia fidarsi a occhi chiusi. Non sapendo in principio dove porterà, il viaggio dell'autore veronese.

Non ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a bassa voce. Le parole la sporcano e la confondono, non sanno riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è troppo grande per essere compreso.

Seguiamo allora i sentieri di un microcosmo sdrucciolevole e impermeabile al divenire, che si sbriciola come un biscotto raffermo – le parole che diciamo a voce alta costruiscono, infatti, mentre quelle che tacciamo distruggono. Seguiamo, ancora, la bussola di un maglione rosso: tratto distintivo su una sagoma che sfreccia, si sporca, e infine ti coglie alla sprovvista alle spalle. Cosa accade quando un cane, spezzato il guinzaglio, si rivolta contro il padrone? Dove il tempo è relativo quanto mai e i freddi, interminabili, possono fiorire in gemme primaverili sotto le palpebre abbassate degli instancabili sognatori, un sacchettino con cinque pietre e la sagoma di una porta ci regaleranno il miraggio del sole all'insegna degli epilogo evocativi perché sospesi nel mezzo dei nostri forse. La fantasia è una catena. La fantasia è una liberazione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - Ho visto Nina volare 

16 commenti:

  1. Meravigliosa recensione che ha reso giustizia a un libro altrettanto meraviglioso. 🖤

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  2. Sembra un bel pugno nello stomaco, ma a volte bisogna prenderli. Quando hai citato Ness poi...
    Lea

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  3. Questo dev essere molto bello, una storia forte, un ragazzino col quale non puoi non solidarizzare e questo nonno invece >_<
    lo metto in coda di corsa! *_*

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  4. Questo non lo conosco. Non ne sapevo nemmeno l'esistenza 😊 davvero molto bella la tua recensione 😊

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    1. Grazie mille, Gresi! Per fortuna tengo sempre d'occhio i finalisti del Calvino. Al contrario dello Strega, un premio in cui credo moltissimo.

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  5. Sono piuttosto combattuta riguardo questo romanzo. La tua recensione mi invoglia a fare un tentativo, la trama e le tematiche mi spaventano perché temo di non reggere la lettura di certe parti. Magari lo rimando ad un periodo più favorevole.

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    1. Psicologicamente mette alla prova a tratti, ma non è una lettura pesante. Anzi, scorre benissimo!

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  6. Con un titolo del genere, ormai aspetto la fine dell'anno per leggerlo.
    Dopo i paragoni con Sette minuti dopo la mezzanotte e Vita di Pi, però, mi sa che me lo risparmio per sempre. :D

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  7. Ne ho sentito parlare abbastanza bene anche da Silvia!
    Devo dire che mi incuriosisce molto... soprattutto per quanto riguarda il "mistero" che permea le pagine. Penso proprio che, vista anche la sua brevità, lo leggerò a breve!

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    1. Sospetto che la narrazione, molto onirica, non ti piacerebbe, ma magari mi sentirai tu stessa a breve!

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  8. Faccio parte di chi ha amato e sofferto con Ness e Vita di Pi, quindi non posso esimermi dal leggerlo, direi.
    Stefi

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