Ci
si aspettava poco. Dalla riproposizione di un cartone niente affatto
apprezzato da bambino. Dall'ennesimo live action di cui in fondo non
si sentiva il bisogno, con Aladdin e Il re leone già
attesi al varco nei prossimi mesi. Dal ritorno al cinema di Tim
Burton, mio regista del cuore, che purtroppo non indovina il film
giusto dai tempi del sentito Frankenweenie. Si è andati in
sala senza grandi pretese, con il biglietto pagato tre euro in
promozione e un pubblico misto di pargoli e nostalgici. La sorpresa,
se di sorpresa si può parlare, è che Dumbo risulti efficace nel suo niente di indispensabile. La fiaba animalista,
debitamente aggiornata alla luce di una morale necessaria,
più che a un adattamento somiglia a un seguito non dichiarato. Cos'è
stato dell'elefante bullizzato per le orecchie a sventola, dopo le
sue magiche lezioni di volo? La prima parte, a metà fra omaggio e
ammodernamento, è il cartone originale: qualcosa resta, come la
toccante Bimbo mio o
la famosa sequenza degli elefanti rosa; qualcosa si perde, come il
topolino per aiutante qui rimpiazzato dal reduce Farrell e dalla
terribile bambina protagonista, scelta più per mamma Thandie Newton
che per un'espressività che lascia molto a desiderare. Nella
seconda, da emarginato a stella, il protagonista attira le attenzioni
di Keaton, cattivo bidimensionale con al seguito l'incantevole e
ribelle Eva Green: la scalcagnata compagnia di De Vito, già circense
nell'insuperato Big Fish,
viene inglobata da una multinazionale da sogno. O da incubo? La
bestialità degli uomini e l'umanità degli animali emergerann, come
da copione, in una chiusa che è la parte debole: un trionfo di fuochi
e fiamme, d'ingombrante CGI, che perdeo amaramente il confronto con
la riuscita animazione dell'elefantino. Perché il nuovo Dumbo è
sempre lo stesso: imbranato e tenerissimo, cerca la mamma tenuta in
cattività e minaccia di commuoverci spesso da dietro i suoi grandi
occhi azzurri. Perché Burton, nel bene e nel male, è Burton:
scolastico ma in discreta forma, nonostante il lavoro alla buona
degli sceneggiatori, ripropone con trasporto la classica parabola
dell'emarginato: la poetica del freak, che perde d'originalità in
casa Disney, ma lascia spunti di riflessione ai giovanissimi. È il
compito di un film per famiglie tanto godibile quanto convenzionale,
che condanna la barbarie fuori moda del circo, omaggia la tecnologia
e la creatività degli artisti tutti e, nel suo piccolo, sa farti
volare a mezz'aria grazie alle orecchie di un'attrazione principali
davanti cui è impossibile non sospirare, inteneriti. (6)
Marwen
è un villaggio fittizio in Belgio, assiepato dai nazisti e difeso da
un esercito di donne armate fino ai denti. Marwen, ancora, è un
mondo in miniatura che si rivela essere ben presto lo specchio
consolatorio della realtà: l'elaborazione di un uomo sofferente, con
la testa spaccata da una gang di teppisti, mentre si perde appresso
agli amori platonici e a missioni di salvataggio degne di una spy
story. Disegnatore e miniaturista, divorziato, Mark Hogan nutre una
venerazione per il gentil sesso e il pallino per le scarpe con il
tacco. Un'ossessione mai chiarita, che suo malgrado l'ha reso
protagonista di un tragico attacco omofobico. Traumatizzato, adesso
vive attraverso i suoi giocattoli. Lì è un soldato valente e
fascinoso, che porta con orgoglio le cicatrici di guerra. Lì la sua
vicina di casa, una deliziosa Leslie Mann, accetterebbe di sposarlo
su due piedi. Apologo per grandi e piccini, a sorpresa flop al
botteghino, Benvenuti a Marwen ha la regia di un Zemeckis in
forma smagliante benché sottovalutato, effetti visivi ineccepibili –
con loro, scenografie e costumi –, un attore protagonista che fa la
differenza. Steve Carrell, senza scimmiottare il ben più famoso
Forrest Gump, è come Carrey: un attore comico che, cosa ormai
assodata, fa faville nei drammi, grazie a un sorriso svagato che
riesce ad essere tenero e struggente insieme. Peccato che la
sceneggiatura fatichi a decollare. Se l'idea di girare un biopic a
confine fra animazione e live action appare brillante,
sfortunatamente non segue a ruota una scrittura senza guizzi che
lascia fare tutto al comparto tecnico; all'espressività del
mattatore Carrell, colto nel divenire di un viaggio che racconta i
meccanismi di difesa, la dipendenza da antidolorifici, il velo di
Maya dei filosofi moderni. Quello che ottunde i sensi, ammortizza e
c'inganna. Insieme a Mark, un superstite, dovremmo perciò imparare a
discernere: la vita, infatti, non è una casa di bambole. (6,5)
Chiunque
abbia avuto la sfortuna di sedere in un'aula di tribunale ricorderà
le sedie sbrindellate, le attese estenuanti, le domande degli
avvocati che scavano come vanghe. La sensazione di
disagio, la ferrea volontà di non rimetterci mai più piede. Ma una sera, per
caso, ho scoperto che i tribunali non servono soltanto alla caccia
alle streghe; alle famiglie che finiscono. Realizzarlo, durante la
visione dell'inatteso Instant Family, mi ha commosso in
poltrona. Questa è la storia di una coppia senza figli, liberamente
ispirata alle vicissitudini dello stesso regista, che si sobbarca
un'impresa difficile il triplo: adottare, sì, ma un'orfana ormai
adolescente. E i suoi due fratelli minori. Con la loro età
malsicura, con i loro traumi, con la voglia di riabbracciare ancora la
mamma spacciatrice. Sulle orme di Una scatenata dozzina e This
is us, a metà fra l'intrattenimento godereccio e i mèlo dai
buoni sentimenti, Sean Anders indovina gli equilibri vincenti di una
commedia affatto originale, ma a modo suo sorprendente. Un film
vecchio stile che è proprio quello che appare, ma anche l'esatto
contrario. Ben scritto, recitato con contagiosa armonia – accanto a
Wahlberg e Byrne, occhio alle esilaranti caratteriste Spencer,
Cusack, Martindale –, in una serata leggerissima mi ha strappato
lacrime e risate in quantità. Rischiava di passare inosservato,
eppure, per via del solito poster, per colpa del solito cast. Un tema
lodevole è affrontato con realismo inatteso, invece, e note scorrette che non
guastano. Perché genitori si diventa, si diventa
una famiglia. Basta imparare: insieme. (7+)
E
se un invito anonimo promettesse di renderti finalmente felice?
Succede a una trentenne in crisi, con una carriera fallimentare in
campo artistico e una convivenza forzata sotto il tetto di mamma e
papà. Si improvvisa a malincuore segretaria, benché nel frattempo
punti ai mondi impossibili del proprio inconscio grazie a un
pigmalione dai completi variopinti: un Samuel L. Jackson istrionico
ai limiti dell'irritazione, che alla protagonista con la testa fra le
nuvole spalanca all'improvviso le porte del sogno. Invitandola a
prestare fede all'immaginazione. Ma quando è un bene, quando un
male, quando alienazione pura? I bontemponi sono definiti eterni
Peter Pan, ma le donne si figurano segretamente addestratrici di
unicorni. Store Unicorn, commedia strampalate dalle
scenografie arcobaleno e le luci iridescenti, ricorre al bagaglio di
uno spirito fanciullesco come antidoto a un'infanzia solitaria e a
una giovinezza interrotta. In questo bailamme di personaggi dolci e
surreali, dotati di un umorismo talmente particolare che potrebbe non
piacere a tutti, spicca il “capitano” Brie Larson: qui impegnata
in una doppia veste. Che piacere rivederla alle prese con i pregi e i
difetti del cinema indie, momentaneamente in pausa dai blockbuster
Marvel! Che piacere rivederla alle origini, nei panni di
un'infaticabile sognatrice, mentre mette in scena i mostri e le fate
negli armadi del suo passato, in una fiaba sui generis tutt'altro che
memorabile ma comunque molto sentita! Mentre si prepara ad accogliere
l'amico mitologico allestendo una mangiatoia, per la prima volta torna a vivere. Si guarda intorno, e non è
da sola. Un po', la aspettavamo noi. (6)
Curiosissima di scoprire Marwen, passato piuttosto inosservato in sala -anzi, direi proprio nel silenzio- me l'hai ricordato dandomi anche della speranza.
RispondiEliminaSe con Dumbo si resta dalle parti del classico film per famiglie -con buona pace per l'ex visionario Tim-, Unicorn Store con i suoi difetti ha saputo parlare alla 30enne in crisi che c'è in me. Più Brie così, meno Brie Marvel.
Povero Zemeckis, perché così ignorato? Sceneggiature a parte, ha sempre un tocco da maestro.
EliminaAnche Allied: quanta raffinatezza stilistica.
Tra che Dumbo non mi è mai piaciuto, tra che ritengo i live action Disney una delle cose più inutili mai viste, tra che Tim Burton ormai lo do per perso (a me non è piaciuto per niente neanche Frankenweenie)... il Dumbo con attori in carne e ossa è un film che non credo recupererò mai.
RispondiEliminaDegli altri, però, mi interessa recuperare Benvenuti a Marwen e Store Unicorn :)
La parabola della Larson, secondo me, ti piacerà!
EliminaMi spiace che Dumbo non ti ha entusiasmato. Certamente non è un film indimenticabile, ma non nascondo che lo ricordo ancora con tenerezza ☺️
RispondiEliminaQuella, sì, non è mancata. Lui è dolcissimo.
EliminaDumbo non è il miglior Burton ma la tenerezza c'è. E così si sciolgono un po' anche i cuori di chi critica ferocemente.
RispondiEliminaIl resto, messo da parte per il futuro, chissà quando ç_ç
Oggettivamente non è granché, ma la morale aggiornata (sacrosanta) concilia la lacrimuccia...
EliminaDumbo l'ho evitato come la peste, perché anche per me è unodei film Disney meno amato. E poi, dico, Burton bollito e i prossimi Re Leone e Aladdin, sticazzi Dumbo.
RispondiEliminaInstant Family mi attira, il resto non molto...
Moz-
Un eterno giovane come te che fa, Ignora la Larson in versione Peter Pan?!
EliminaAnche io da Dumbo mi aspetto poco e mi sa che l'elefantino non mi farà volare granché in alto...
RispondiEliminaUnicorn Store invece mi ha messo le ali! :)
Benvenuti a Marwen mi è sembrato mediocre e decisamente in ritardo coi tempi: un 25/30 anni fa sarebbe sembrato fenomenale, adesso molto meno. E Steve Carell io continuo a trovarlo irrilevante (o forse più irritante? non lo so).
Instant Family caruccio, però non è niente di originale e il tuo voto mi sembra un po' esagerato. Non è che Ford ti ha convinto ad alzarlo perché c'è il suo pupillo Mark Wahlberg?
La trascinatrice del film comunque è Isabela Moner, di cui credo sentiremo parlare ancora...
Instant Family mi ha fatto piangere più di diciotto puntate allungate di This is us. Semplice, vecchio stile, ma non mi pento né del voto altissimo (Imdb concorda con me comunque) né della serata sul divano.
EliminaIo prima o poi voglio recuperare Dumbo, non sono fan del cartone Disney ma apprezzo le versioni in Live Action. 😊
RispondiEliminaAllora fa al caso tuo!
EliminaUnicor Store non mi è proprio dispiaciuto. Così stralunato e strano.
RispondiEliminaGuarderò anche Istant Family, ma prima...Voglio una vita a forma di me.
Ciao da Lea
Voglio una vita a forma di me mi manca. C'è la mia amata Aniston eppure!
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