Dopo
Stranger Things, Netflix fa l'en plein? Dopo gli anni Ottanta, un
salto nel decennio precedente e, magari, un'altra serie candidata a
essere la serie? Baz
Luhrmann a vegliare sulla produzione, e tutt'altro che
silenziosamente; un budget ricco e una colonna sonora fantasiosissima,
per raccontare le origini di un genere e di una generazione; un cast
di giovani che vogliono farsi conoscere, e sanno di certo come
attirare l'attenzione. Eppure sapete che ho fatto fatica, io? I primi
sei episodi di The Get Down – i restanti sei saranno
trasmessi il prossimo anno - parlano dei sogni di gloria e delle
avventure di un gruppo di ragazzi nel selvaggio Bronx. L'altro lato
di una città di luci; un quartiere che sembra una città sotto i bombardamenti. Gli anni della disco e dell'hip hop; i
graffiti che imbrattano treni e muri; i bambini abili con i
grilletti, il ballo, il rap. Ezekiel, orfano e talentuoso paroliere,
ama Mylene, figlia di un rigido pastore dall'ugola d'oro. Vogliono la fama, ma il canto è diventato il
piano B. Lui preso da un team che lo vorrebbe anima del gruppo, lei
alla ricerca disperata di una casa discografica. Lei con le sue
amiche barra coriste; lui con i suoi coetanei, writer e teppisti,
guidati da uno che si muove furtivo come Bruce Lee e si immischia
negli affari dei boss locali. Hanno un cuore buono, grossomodo, e
sentimenti nobili. Sperano di cambiare la loro realtà difficile a
suon di buona volontà e canzoni di denuncia. Delineati con tratti
rapidi di biro, spiccano a sprazzi e qualche storyline interessa di più, qualcuna di meno. Sei episodi visivamente impeccabili, ma
distribuiti in quasi un mese: colpa della mia scarsa affinità verso
queste serie all black – vedasi il tamarrissimo Empire -,
che trovo kitsch, sguaiate, disordinate. Abbinateci Luhrmann, autore
del mio film preferito in assoluto, ma altrettanto kitsch, sguaiato e
disordinato, è il troppo qui e lì storpia. Da un lato, The Get Down
è una serie più lineare e leggera del previsto; dall'altro, già
carica di per sé, rincara la dose con l'horror vacui del tenutario
del Moulin Rouge. E' mancata la scintilla, il guizzo
nell'intreccio e, se resisto e restisterò, è solo per un Luhrmann
all'ennesima potenza che qui, in veste di produttore e qualche volta
di regista, ho amato e odiato come non mai. Sommerge di suoni e
strass, disorienta e stordisce: gioca coi suoi montaggi futuristici,
gli accostamenti bizzarri e gli innesti personali, esagera e
confonde. Uno straordinario ambaradan; un caotico e nostalgico
“spettacolo spettacolare”, con il limite di una storia troppo
elementare. Il rumore: tanto. E se Get Down nulla proprio non
è, comunque, al momento, pare un po' poco. (7)
Serie
rivelazione della passata stagione, Unreal era
il guilty pleasure con qualcosa in più. La commedia nera della Lifetime coi ritmi del thriller
psicologico era arcigna, crudele, intelligente, recitata ad arte. Era, e per molti lo è anche quest'anno. Si conservano i
personaggi principali, chi questo show alla Uomini e donne lo pensa e lo manovra, ma a bordo piscina
troviamo un altro scapolo d'oro e altre debuttanti senza scrupoli. Su carta, Unreal ci
propone l'edizione di Everlasting di
cui tutti parleranno: perché, per la prima volta, c'è uno scapolo
di colore – e, checché se ne dica, il razzismo è una piaga
lontana dall'estinguersi – e,
in mezzo alle partecipanti, belle e vuote, covano risentimento e intolleranze. Ci si sfrega le mani: c'è di
che divertirsi, c'è di che riflettere. Darius, campione sportivo
reduce da un grave infortunio, non è Adam, l'inglesino biondo della scorsa
stagione. E
le giovani donne del suo harem - fatta eccezione per Yael,
protagonista di un'umiliazione indimenticabile – le ho già
scordate. Da una parte, ho trovato che il novello Unreal
si discostasse il minimo
indispensabile dal suo predecessore, come per pigrizia; dall'altra,
invece, che quel minimo indispensabile non fosse poi gran
cosa. Stagione similissima alla prima, ma dallo scarso mordente, di cui non conquistano i nuovi ingressi –
accanto a corteggiatore a corteggiatrici, un inservibile Ioan Gruffud
e un Michael Rady dall'esito scontato – ma danno significative
conferme le bravissime Shiri Appleby e Constance Zimmer, nomi di punta anche nella
stagione dei premi. Everlasting si
segue senza attenzione, questa volta. Unreal è
il solito, ma il solito, nel suo caso, è bene. O sono una sola cosa
e quella è la scusa degli sceneggiatori, che furbescamente tanto
fanno, tanto dicono, da non fartelo sembrare una mezza delusione? (6,5)
Tommy,
vedovo affranto e padre di un bambino che, per lo shock, ha perso la
voce, si arrangia come può. Dion,
piantagrane e tossicomane, si mette spesso nei guai: l'ultima volta, è finito
dietro le sbarre. Esce, senza però avere espiato un debito
esorbitante. Cos'hanno in comune? Il sogno di aprire un
ristorante in memoria di Rie, uccisa da un pirata della strada, e
un'amicizia che dura da vent'anni. Perché il loro sogno pare impossibile? Perché
la loro amicizia, eppure consolidata, va d'un tratto in crisi? Il ristorante
greco in progetto vogliono aprirlo nel cuore del Bronx, e nessuno
punta su di loro; la donna scomparsa, stando al geloso Tommy,
considerava Dion molto più che un amico. Il quartiere chiama su di sé morti e sparatorie, sui due cala il velo del dubbio. In mezzo ai protagonisti, la bella Lorenza Izzo, conosciuta a un gruppo di supporto; un temibile
boss dal grilletto facile e dalla sessualità tormentata; un
minore traumatizzato che, aprendo bocca, potrebbe chiarire le
dinamiche di un incidente che chissà se davvero un incidente è
stato. Feed the beast, remake di un'impronunciabile serie danese, è una produzione AMC ingiustamente
fischiata che, zitta zitta e dal futuro assai incerto, mi ha fatto
tanta compagnia quest'estate. Mi piacciono i progetti persi a monte,
il crime e l'alta cucina, il redivivo David Schwimmer e lo
scapestrato Jim Sturgess. E, divertito e
intrattenuto, con prematuri e ingannevoli paragoni con
Breaking Bad che lasciano prevedibilmente il tempo che
trovano, ho trovato che l'amalgama di Feed the beast
funzionasse. Gli ingredienti
segreti (e i bravi interpreti) risaltavano, tra pistole, carichi di
droga e padelle roventi. Gli ascolti bassi, tanto quanto l'inospitale
Bronx, potrebbero mandare all'aria i bei propositi, le
interpretazioni di due tanto simpatici al sottoscritto e far sì che,
lasciati a bollire più del dovuto, gli spaghetti si scuociano. Non mancano né il sale né
il pepe, ma è questione di tempi sbagliati. E Feed the
beast, come commedia in dieci
episodi, in una stagione e basta, poteva starci ad hoc. All'indomani
di un ultimo episodio intitolato Fire
– il che è tutto un programma – servirebbero gli estintori e le
risposte. La pietanza si è bruciata, e c'è chi non tollera la
crosta croccante; e ci sono io che odio i finali mancati. Perché non
finirla qui, non raccogliere baracca e burattini, quando sarebbe
stata questione di uno schiocco di dita appena, cosa da nulla, risolvere i
problemi ai fornelli dei cari chef del ghetto? (6,5)
A me invece The Get Down e UnREAL stagione 2 hanno esaltato senza riserve!
RispondiEliminaFighissimo e ritmato il primo, oltre che con una colonna sonora super, e ancora più cattivo ed estremo rispetto alla season 1 il secondo.
Feed the Beast, considerando che è già stata cancellata, mi sa che non faccio lo sforzo di iniziarla che poi, se dovesse piacermi, mi incazzerei solo perché non l'hanno rinnovata...
Ah, è stata cancellata cancellata?
EliminaE che peccato, però colpa loro: non ci voleva nulla a farla "stare" tutta in dieci episodi.
Peccato, perché Sturgess e Schwimmer erano una bel duo :(
interessante unreal , non lo conoscevo minimamente...
RispondiEliminaLa prima stagione, moltissimo. Era finita nel listone dello scorso anno. Questa si ripete, ma per essere una serie Lifetime spicca per qualità.
EliminaFammi sapere. ;)
Prima del tuo post non ne conoscevo nessuna, provo a vedere la prima ;)
RispondiEliminaUn po' caotica, ma c'è del buono. :)
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