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La vegetariana, di Han Kang. Adelphi – La biblioteca del mondo,
€ 9,90, pp. 168 |
La
scelta del vegetarianesimo: perché? Domanda d'obbligo, a tavola,
quando un commensale rifiuta con un po' di imbarazzo le portate
principali e alla cuoca domanda porzioni più generose di contorno. La curiosità è tanta, e fra una forchettata e l'altra si
parte con una trafila di interrogativi di rito – la classica lista
di alimenti da confermare o smentire, la messa al vaglio dei motivi
etici alla base della nuova dieta –, pretendendo di sapere se si
tratti di animalismo militante, intolleranze o allergie,
astensioni severe per gli amanti del fitness. Cosa comporta, tuttavia,
astenersi dai piaceri e dagli obblighi della carne nell'odierna Seul,
dove quel rifiuto condotto allo stremo potrebbe essere la metafora
difficile da decifrare di un malessere radicato più a fondo? La
vegetariana, romanzo tanto premiato quanto controverso, racconta
con una prosa chirurgica e una struttura pressoché implacabile
l'ascetismo di Yeong-hye: moglie alto-borghese in una metropoli della
Corea del Sud, che gradualmente passa dal rifiuto dei ravioli al
vapore all'alimentarsi con un sondino nel naso; dal
vegetarianesimo al totale digiuno. Con tutto quello che la sua scelta provocatoria
comporta, in una famiglia, in una società a sorpresa non troppo lontana, dove
la convivialità e la sottomissione sono imprescindibili. A suggerire
alla protagonista il nuovo stile di vita è un incubo splatter, di
sangue e assassini senza volto; una suggestione talmente forte da
mandare a monte cinque anni di matrimonio, la buona educazione,
qualsiasi raziocinio. Yeong-hye ambisce all'essenziale e alla
purezza, a uno stato febbricitante simile all'estasi, ma a raccontare
questa sua dieta di acqua e sole, il desiderio folle di trasformarsi
in pianta, non sarà mai la diretta interessata in prima persona. Resterà, al contrario, un mistero
fino alla fine.
Aveva
scambiato il pavimento di cemento dell'ospedale per la soffice terra dei boschi? Il suo corpo si era trasformato in
un tronco robusto, con bianche radici che le spuntavano dalle mani e
si ancoravano al suolo nero? Le sue gambe si erano allungate in alto,
verso il cielo, mentre le braccia si spingevano fino al nucleo stesso
della Terra, con la schiena rigida a sostenere quella duplice
crescita? Mentre i raggi del sole le bagnavano il corpo, l'acqua che
impregnava il suolo era stata assorbita dalle sue cellule, per poi
farle sbocciare dei fiori tra le gambe?
Meglio
non aspettarsi parafrasi e risoluzioni neanche dai personaggi che
ruotano intorno alle prese di posizioni radicali e ai gesti scellerati
della scioperante. Il primo capitolo è dedicato al punto di vista
del marito, uomo d'affari piccolo e prevaricatore con una scarsissima
stima verso la consorte – un'ottima cuoca, un corpo caldo da
ghermire a letto con le stesse modalità dello stupro – e la
tentazione infantile di lamentarsi con i suoceri di quella
secondogenita che li disonora impunemente, astenendosi con
l'imperturbabilità di una martire dai doveri coniugali: il sesso va
preteso con le cattive, allora, e i pranzi diventano una barbara costrizione. Il secondo, invece, segue le fantasie erotiche del cognato
di Yeong-hye, un artista all'avanguardia attratto dalla magrezza
esagerata della parente acquisita e dalla persistenza di una macchia
mongolica proprio sulla curva delle natiche, che fanno di lei prima
un sogno proibito e poi un'istallazione artistica vivente: l'uomo vuole che
posi per lui nuda e sfacciata, che si lasci dipingere il corpo di
fiori bellissimi, magari in previsione di un amplesso futuro da
immaginare pittorico e surreale. L'ultima parte, ambientata a tre
anni di distanza dall'inizio della narrazione, ha la voce della
sorella maggiore della digiunante: moglie tradita, ma mamma e
professionista appagata, che si spinge in una struttura nel cuore
della foresta sferzata di pioggia per portare frutta e dolci a una Yeong-hye arrivata a pesare trenta
chili appena.
La
sua calma accettazione di tutte quelle cose gliela faceva apparire
come qualcosa di sacro. Che avesse una natura umana, animale o
vegetale, non si poteva definire una “persona”, ma non era
nemmeno esattamente una creatura selvaggia – più un essere
misterioso che possedeva le qualità di entrambe.
Lì,
in un colloquio a senso unico, affiorano ricordi, sensi di colpa,
pensieri suicidi mai confessati: la rabbia verso un corpo senza
spigoli, trasformato eppure da alcuni in oggetto del desiderio; la
frustrazione per non aver compreso i conflitti interiori della
propria sorella, in balia per tutta la vita degli uomini sbagliati. A
ben vedere In-Hye non è forse la copia carbone dell'altra, ma con un
modo diverso di (non) opporsi?
La vegetariana mi
ha catturato sin dall'inizio, come accade quando mi cimento con
letture che mettono alla prova in quanto morbose, destabilizzanti,
piene di stranezze e perversioni. Paragonabile in parte alle visioni di Hungry Hearts e Annientamento, il
romanzo di Han Kang viaggia per il resto nell'assurdo, nel mai letto,
attraverso un intrigo affascinante e respingente dove parlare del
ruolo dei sessi – e del cibo – oggi. La ricerca delle purezza
confina con il sentiero dell'annullamento. E una punizione
all'apparenza gratuita e autoinflitta, per quanto poco condivisibile
ci appaia, in realtà è l'unica scelta fatta deliberatamente da una
moglie confinata in un angolo, nell'ombra: spogliata, usata e
gettata via; pilotata in riunioni familiari che ne evidenziano l'alterità
irreversibile; imboccata con le mani, con la forza, da amanti
repressi e spregevoli padri padroni.
Perché,
è così terribile morire?
La
vegetariana è una forma di
ribellione, una fuga. Il ritorno simbolico alla Terra, al fango a cui
apparteniamo, per affidarsi finalmente a un'entità femminile che
soverchia tutti e tutto: patriarcato compreso. Una natura
naturans, accogliente e
inquietantissima, che negli incubi ti promette di abbracciarti fino a
diventar parte di un intrico incantevole di spine e fiori di carne.
La prosa della Kang stilla linfa e fluidi vitali, la sua denuncia
fattasi fiaba grottesca mette radici nei pensieri e nelle
consapevolezze, e in preda a un'estasi pagana fioriscono intanto i
corpi femminili e le rivoluzioni silenziose.
Contro l'inedia
sentimentale. Contro una fame vorace che ti spinge a impuntarti, ad
affrancarti, attraverso la trasformazione in albero. Proprio come accaduto alla Dafne del mito, sfuggita così alle mani bramose del dio Apollo.
Proprio come una figliol prodiga che torna infine a mutarsi in
radice, foglia e bocciolo, nella stretta solidale di Madre Natura.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Baustelle – La canzone del parco
Caspita! Avevo ragione nel dire che la lettura di questo romanzo sarebbe stata sorprendente... dopo questa recensione non posso più esimermi. E dato gli sconti ci farò sicuramente un pensierino ;)
RispondiEliminaSto imparando a conoscerti, Gresi, e lo amerai. :-)
EliminaSpunto di partenza molto intrigante...
RispondiEliminaNon fosse che la protagonista è una donna, vedrei bene come protagonista per un'eventuale trasposizione sul grande schermo Christian Bale. :D
Sarebbe pronto anche al cambio di sesso, occhio!
EliminaMi è di leggere qualcosa sui vegani più che sui vegetariani.
RispondiEliminaDi questo libro sento parlare spesso, e bene, e la tua recensione mi convince che merita.
Interessante l'accostamento a Hungry hearts, che ho visto e apprezzato per la tematica (drammatica) e per l'interpretazione degli attori protagonisti.
Buon pomeriggio Michele ;-))
*Mi è capitato
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