Sono
uno spettatore che generalmente non si lascia turbare. Jennifer Kent,
già ai tempi del bellissimo esordio, tocca però i tasti giusti. E
al secondo lungometraggio, premiato a Venezia, conferma
il suo ascendente su di me. Tanto The Babadook mi aveva
affascinato, quanto The Nightingale mi ha scosso. Sarà che si
inizia col peggio – uno stupro, l’infanticidio –, per poi
giungere a un epilogo liberatorio, che stempera la sofferenza
in un’alba sull’oceano. In un’Australia trasformata in una
prigione a cielo aperto, un tenente spregevole – un inedito Sam
Claflin, lontano dai soliti film sentimentali – s’invaghisce
di una detenuta irlandese. Il capo di un plotone della morte come può reagire al
rifiuto? Sopravvissuta allo sterminio della famiglia, Clare ricerca
l’aiuto di un aborigeno: entrambi emarginati, i paria troveranno
punti in assonanza in quelle lingue e in quei canti così diversi.
Gli inglesi espropriano, violentano, bruciano, ammazzano. E la
visione non lascia niente di suggerito né di impunito. Il percorso
della coppia, disseminato d’incubi e cadaveri decapitati, risulta
provante e potentissimo, nonostante i discutibili viavai della parte
conclusiva. Classico ma inattaccabile, The Nightingale è
l’epopea western che non avremmo pensato nelle corde della regista;
un horror sui mali della colonizzazione, ambientato in una natura
resa ancora più selvaggia dalla presenza britannica. È uno schiaffo
in faccia per cui ringrazi. Il merito
spetta soprattutto all’interpretazione ribollente di Aisling Franciosi, che
conosce la vendetta ma anche il perdono; che ha seni beffardi che non
smettono di pompare latte; che confida più nelle parole che nella
violenza. La sua commovente collaborazione con Baykali Ganambarr,
indigeno che decifra le orme e il canto degli uccelli, regala un
duetto di rara intensità su un usignolo che non voleva né gabbie né
padroni; che preferiva ruggire anziché cantare. (8)
Stesi
sulla schiena, parlano fitto per dieci minuti. Sono un
padre e una figlia. Lui spiega a lei il sesso e l’amore. Le insegna
che nessuna razza è superiore alle altre. Le tramanda i ricordi di
una mamma da tenere in vita a furia di storie. Le racconta, rivisto e
corretto, il mito dell’arca di Noè. A salvare l’umanità dal
Giudizio Universale è stato davvero un uomo? Sono stretti in una
tenda da campeggio. Sembra una gita nei boschi, ma in realtà è la
fine del mondo. Le donne si sono estinte, non si sa perché, e quella
bambina – vestita da maschietto per camuffarsi – è
un’eccezione alla regola. Il padre, che trasmette infinita
tenerezza, è un uomo di parole e non d’azione. La figlia,
terrorizzata dall’evenienza di un abbandono, vive l’età in cui
inizia a pretendere gonne e giubbotti glitterati. Camminano tra gli
alberi, in cerca di ville o baracche. A volte s’imbattono in
anziani ospitali, altre in bracconieri spietati. Light of My Life,
esordio alla regia di Casey Affleck, non indugia nei sentimentalismi.
Non trasforma la sua giovane protagonista in un canonico simbolo di
resistenza. Per quanto questo atipico survival debba tanto, troppo, a
The Road e I figli degli uomini, l’odissea del minore
degli Affleck ha comunque la sua da dire. Grazie alla voce bassa e
intorpidita dell’interprete che già ci ha commossi con Manchester
by the sea. Attraverso la lentezza di un genere che mostra
poco ma suggerisce tantissimo, parlando più del presente che del
futuro; più di noi che dell’apocalisse. Travolto da un’accusa
per molestie, l’attore e regista fa ammenda con un atto d’amore
al genere femminile lungo un film. Come non credergli, come non
perdonarlo, dopo questa indiscreta lezione di vita e resistenza? (7+)
Mentre
ci si stappa i capelli per Cena con delitto, giallo di cui si
parlerà prossimamente, sotto Halloween – a proposito di feroci
rimpatriate tra parenti serpenti – era già arrivato in sala un bagno di
sangue ad altissima tensione. Una partita a nascondino disputata con
la suspance, dove una Rambo in tulle si emancipa in un battesimo
splatter degno delle migliori regine del brivido. Bella e
carismatica, con un visino che si concede le stesse smorfie di Emma
Stone, la promettente Samara Weaving convola a nozze con uno scapolo
d’oro. Durante la prima notte di nozze, però, la neosposina dovrà vincere una
sfida in particolare per essere accolta in famiglia: sopravvivere.
Con una satira sociale appena accennata, Finché morte non ci
separi somiglia alla versione disimpegnata di Get
Out. Qual è il segreto della famiglia omicida? Ambizione cieca,
o forse c’è lo zampino di Belzebù? I ritmi sono invidiabili,
l’umorismo è di quelli caustici, il divertimento è assicurato. Si
trattiene il fiato. Si maledicono gli antagonisti a ogni comparsata.
Si incita al dente per dente.
Iniziata come una fiaba romantica, la commedia horror culmina con una
perfida luna di miele. Pronti o no, vi vengo a cercare. Ma si è mai
pronti al grande passo? Ai titoli di coda potremmo credere ancor meno nei doveri coniugali, nei legami duraturi, nel lupo che perde il
pelo ma non il vizio: preferendo, almeno sul grande schermo, la morte
all’amore. (7)
C’è
del marcio in Danimarca. C’è chi da quel marcio viene
inevitabilmente corrotto, come Amleto in lotta per la
successione. E c’è chi, invece, quel marcio lo subodora prima di
altri: ovviamente, una donna emancipata e lungimirante. La fidanzata
del personaggio shakespeariano non aveva molta voce in capitolo
nell’opera originale: di lei ricordiamo l’annegamento e,
soprattutto, il capolavoro di Millais che ne fa una ninfa acquatica.
In un’epoca di femminismo e riscrittura, poteva forse mancare la
tragedia filtrata dal punto di vista di Ofelia? All’inizio dama di
compagnia, ci racconta una storia d’amore e vendetta nota ma non
troppo. Piuttosto fedele al Bardo, il film viene rovinato
dall’aggiunta degli ultimi dieci minuti, che lo trasformano in un
calderone di idee di seconda mano, che attingono ora ai veleni di
Romeo e Giulietta, ora ai tradimenti della Dodicesima
notte. Il resto lo fanno le forzature e gli anacronismi; un
rimaneggiamento non richiesto, adatto solo a riscattare la figura
agli occhi delle nuove generazioni. Vicina alla bellezza del pittore
ma lontanissima dalla complessità del personaggio, una Ridley fuori
parte – paradossalmente, convince nelle poche battute che ricalcano
il testo originale – capitana un cast inquadrato dal buon lavoro
del direttore della fotografia, ma che fa storcere il naso per la
parrucca dello zio Clive Owen e il passo falso di Naomi Watts, regina che fa quanto possibile per risultare
credibile. Essere o non essere, è questo il dilemma. Vive la
stessa scissione anche l’adattamento di Claire McCarthy: povero e
frettoloso. (5)
Violet
è una ragazza di belle speranze su un’isola sperduta al largo
delle coste inglesi. Figlia di una genitrice single sommersa dai
debiti, trova un angelo custode in un ex cantate d’opera ridotto a
un clochard solitario: in lei, giovane dalla voce angelica, sembra
vedere l'ombra di un talento cristallino. Brava ma non abbastanza ambiziosa,
protagonista di un talent show, l’adolescente si scopre spaventata
dai bagni di folla e dall’arrivo della puntata finale. Come
fronteggiare le aspettative e la pressione psicologica un ambiente
competitivo? In Teen Spirit, iconico soltanto per il titolo,
c’è l’ascesa di Violet, ma mancano i dubbi, le incertezze, la
battuta d’arresto. Fiaba canonica e un po’ superficiale,
preferisce i toni drammatici a quelli scanzonati e una fotografia
alla Refn, mentre la colonna sonora passa alcuni dei pezzi più ammiccanti delle ultime estati. Restano la regia e il montaggio
accattivanti, a opera del figlio d’arte Max Minghella; la bravura
assodata di Elle Fanning, dotata di una vocalità interessantissima e
sempre perfetta in ruoli che richiedono una bellezza a tratti
angelica, a tratti selvaggia. Telegenico e instagrammabile, con poco
cuore e altrettanta poca grinta, questo musical non ha la stoffa per
la fama. Forse ha l’X Factor – stile, interpretazione, qualche
performance da riascoltare –, ma per renderlo memorabile servirebbe il resto dell’alfabeto. (6)
Un’altra
ragazza di talento, un’altra storia di canto e rivalsa. Si parte
altrove, da lontano. In territori che, all’apparenza, hanno più
che fare con il thriller. Una regia caliginosa ci porta
negli Stati Uniti, nel cuore di una strage scolastica. La giovane
Celeste sopravvive. E canta la sua rinascita fino a diventare una
stella. Ma la sua carriera, inquadrata in tre tappe
fondamentali della formazione, è scandita da tre atti di violenza:
prima la strage, poi il crollo delle Torri Gemelle, infine un
attentato in Turchia. Perseguitata dalla fatalità, la pop star canta
i sogni infantili e il decadimento; l’ambizione e la barbarie.
Simbolo dei più, deve il proprio successo a Dio o a un patto con il
diavolo? Vox Lux, profondo su carta, vorrebbe raccontare
assieme all’evoluzione del personaggio femminile l’involuzione
del panorama musicale. Ma partito sotto i migliori auspici, con la
voce narrante tipica dei documentari, abbandona la cupezza iniziale
per una verbosissima seconda parte. Pretenzioso ma molto ben diretto,
il film di Corbet si articola infatti in una serie di colloqui con la
sorella maggiore di Celeste, la figlia, il manager Jude Law, un
giornalista scandalistico. La colonna sonora è poco
orecchiabile. E la protagonista, interpretata da adulta da una
dimenticabile Portman, incarna il prototipo della celebrità
capricciosa e narcisista, circondata di relazioni fallimentari e
tappe bruciate. Il tutto, in direzione di un epilogo da film-concerto, dove il playback spudorato di Natalie e le coreografie alla
Lady Gaga non sono all’altezza dell’apoteosi istantanea del
personaggio. Lo spettacolo deve continuare. E il film invece? Quando
comincia? (5,5)
Wow! Quanti telefilm ☺️☺️ sembrano tutti molto belli, soprattutto il primo. Sto per concludere Penny Dreadful, anche se mi spiace parecchio. Ma l'anno entrante sono davvero curiosa di vedere la nuova versione di La bussola d'oro ☺️☺️ speriamo non mi deluda ☺️☺️
RispondiEliminaCiao Gresi, si tratta di film, in realtà!
EliminaIl monologo della protagonista della Kent mi ha steso. Da brividi.
RispondiEliminaFinché morte non ci separi, non diciamolo all'Academy, a me è piaciuto più di Get Out!
Mi sa che The Nightingale devo recuperarlo.
RispondiEliminaÈ sicuramente un film convenzionale nel suo genere, ma mi ha fatto piangere, lo ammetto.
EliminaI primi due sono fra i film più belli e forti visti ultimamente, capaci di raccontare storie e di farlo un gran bene.
RispondiEliminaI due in mezzo mi mancano, ma non fremo all'idea di recuperarli.
Gli ultimi due, infine, sono un nì. Arriva quasi fuori tempo massimo Minghella (che i talent han già stancato), prende nella prima parte ma si incarta su se stesso nella seconda, Corbet. Basta dire che poco me lo ricordo questo Vox Lux, di certo non le musiche.
Visto solo il primo e... sempre d'accordo sul non essere mai d'accordo ^^'
RispondiEliminaVox Lux e Teen Spirit sono state due delle più grosse delusione recenti, per quanto mi riguarda. Avevano tutte le carte in regola per trasformarsi in miei nuovi cult, e invece... niente di memorabile. Manca l'X Factor e siamo forse sotto al livello di una puntata qualunque di Amici di Maria De Filippi, per dire. :D
RispondiEliminaThe Nightingale pure a me ha scosso, e non poco.
Light of My Life concordo che ricordi troppo altre cose, però la pagnotta come si suol dire la porta a casa. :)
Finché morte non ci separi purtroppo mi ha divertito meno rispetto a te. Guardabile, ma mi aspettavo qualcosa in più. Cosa?
Non so cosa, ma qualcosa. :)
Ophelia nonostante la presenza di Rey di Star Wars mi sa che a questo punto me lo risparmio...