[2001]
Stando alla critica è il miglior film d’inizio millennio. In rete
abbondavano i frame, le lodi, le spiegazioni, e al solito non
mi sentivo all’altezza del recupero. Avrei capito anch’io la
grandezza di Mulholland Drive o, come successo con Twin
Peaks, sarei stato troppo confuso per dire la mia? Per quanto
popoloso di figure grottesche e cospiratorie, degne di un romanzo
hard boiled con sprezzo del kitsch, il capolavoro di David Lynch
risulta sorprendentemente lineare e coerente nei primi novanta
minuti. Mi ha messo a suo agio così. Ci sono un’attrice di
provincia in cerca di fama e una sconosciuta senza identità che,
forse, proprio a causa di quella stessa fama si è bruciata. Accanto
a loro, un regista costretto a obbedire alle manipolazioni dei
produttori, che dall’alto gli impongono la stella del suo ultimo
lavoro. Tutt’intorno, appare indispensabile una selva tragicomica
di sicari pasticcioni, cowboy sibillini, inquietanti compagni di
posto e clochard che fanno saltare lo spettatore in poltrona
provocando perfino svenimenti. Vistose parrucche platino, nomi
scambiati e topless bollenti culminano con l’ingresso delle
protagoniste nel club Silencio, dove tocca rivalutare i ruoli
delle due donne all’interno della vicenda. In definitiva, un noir
su una Hollywood fucina d’illusioni e dissapori. Per affermarsi
basta il talento? Per resistere all’ennesimo provino fallimentare è
sufficiente l’amore? Le stranezze e le scene di culto si annidano
tutte nell’ultima parte – la mia preferita –, dove abbondano i
fumi, le sovraimpressioni, le figure simboliche. Lì dove,
affascinati da un Lynch capace di un equilibrio insospettabile, siamo
portati a cercare un senso – a volte con successo, altre
brancolando nel buio – all’intreccio, mettendolo quanto possibile
in ordine cronologico. Se una regia priva di guizzi rivela
l’iniziale natura televisiva del progetto, gli applausi sono invece
per la scrittura – reale motivo di cotanta iconocità –, capace
di spaziare dai personaggi stereotipati ai travagli dei melodrammi
LGBT, consacrando nel mentre una Naomi Watts già straordinaria e
svelandoci le grazie della prosperosa Laura Harring, finita purtroppo
nel dimenticatoio. Tema clou: quei sogni nel cassetto, letterali e
figurati, di cui il cinema è una macchina instancabile. Il risveglio,
traumatico, sarà un testacoda su Mulholland Drive. La strada su cui
morì più di qualche aspirante star, assieme alle belle speranze di
una ragazza dell’Ontario che, a occhi aperti e chiusi, sognava la
gloria, l’amore e altre chimere inconciliabili. (8,5)
[1986]
Gli uccellini cinguettano beati. Le staccionate bianche sono state riverniciate di fresco. I giardini sono un fiorire di rose rosse. Come esemplifica bene la sequenza
d’apertura, però, in quel quartiere residenziale dalle villette
a schiera non è tutto oro quel che luccica: sotto c’è del marcio.
Serpeggiano blatte e vermi, di cui si nutrono perfino i pettirossi –
simbolo d’amore e speranza. Si rinvengono, in passeggiate nel cuore
della natura, orecchie mozzate e altri scomodi segreti. A fare da
detective per caso è un acerbo Kyle MacLachlan, poi ritrovato con
pistola e distintivo nei panni del detective Cooper, di ritorno
all’ovile dopo anni da studente fuori sede: inciamperà
accidentalmente nella morte e nei drammi di una cantante jazz dalle
tendenze sadomasochistiche – l’indimenticata Isabella Rossellini,
per me né così bella né così brava –, così diversa dalla ragazza della porta accanto con il volto della giovane Laura
Dern. Venerato da Quentin Tarantino, questo scandagliamento del sogno
americano ha il voyeurismo dei patinati thriller erotici che ci si
aspetterebbe da Lyne o De Palma. Sprovvisto di clamorosi colpi di
scena, con una risoluzione smaccatamente lieta che oggi fa un po’
storcere il naso, invecchia con estrema classe ma deve aver smarrito in parte la sua carica eversiva. Di grande atmosfera, con una regia più
elegante che altrove, ha tutt’oggi il merito di aver contaminato un
genere di per sé raffinatissimo con succulenti inserti pulp e un
cattivo – il gigioneggiante Dennis Hopper qui a un passo dall'Oscar – decisamente sopra le
righe, pur raccontando in definitiva poco di nuovo. Trentatré anni
dopo, il pregio di questo morbidissimo velluto blu non si discute;
meno la brillantezza del giallo. (7)
[1997]
A ben vedere, è l’anello di congiunzione fra Velluto blu e
Mulholland Drive. Un tassello indispensabile. Un’opera nella
quale, a mente lucida, s’intravedono i germi dei successi futuri.
Peccato che la visione risulti di per sé poco memorabile. Il
jazzista di un monocorde Bill Pullman brucia di gelosia per i
presunti tradimenti di sua moglie, una Patricia Arquette qui al
massimo del sex appeal. Accusato dell’omicidio della donna,
perseguitato da misteriose cassette e da un uomo dalla bruttezza
profondamente disturbante, il protagonista finisce in carcere. Ma i
secondini, un giorno, trovano un’altra persona al suo posto. Che ci
fa in gatta buia quel meccanico scapestrato e piacione, con una
relazione sconsiderata per la moglie di un boss mafioso – sempre
lei, una Arquette doppiamente nuda e fatale? Composto da due film
all’apparenza sconnessi, nessuno dei quali particolarmente
coinvolgente, Strade perdute si è lasciato seguire
soprattutto perché trovavo intrigante l’idea della risoluzione
finale. Come si sarebbero ricongiunte storie così lontane? Lo fanno
a fatica e con le classiche stranezze del regista, davanti alle quali questa volta non ho provato il desiderio di chiedere spiegazioni alla
rete o di saperne di più. Si affronta il tema del doppio. Si fa
tanto, patinatissimo sesso. Si ascolta una pesante colonna sonora
rock ‘n’ roll – con tanto di cameo di Marilyn Manson –, perfetta per gli ambienti malavitosi del film ma lontana dal mio
gusto personale. Questa consolidata storia di bulli e pupe, tuttavia, è inserita per
fortuna in una cornice che fa la differenza, mirata ad
aprire al cinema le porte delle teorie freudiane e a filmare scena
per scena le scosse elettriche di un conflitto interiore. A fuoco ma
non abbastanza, le strade del titolo hanno il pregio di aver condotto il nostro Lynch a un sostanziale crocevia. Ma il risultato è inferiore alla
somma delle sue parti. (5,5)
[1980]
Sono gli anni di grigiore e depravazione della Rivoluzione
industriale. Hopkins, affascinato dalla deformità di un
freak, lo salva dai soprusi del circo e cerca di educarlo. Lo hanno
mosso la tenerezza o l’ambizione? Qual è la differenza fra un
padrone e un buon samaritano? Soggetto a continue disavventure,
l’Uomo Elefante è vittima di una malattia genetica: non può
scandire bene le parole, non può dormire disteso sulla schiena senza
rischiare il soffocamento, non può a vivere a lungo in una società
tanto inospitale. Ma nessuno ha messo in conto i prodigi della sua
forza di volontà, né quelli del suo ingegno. Autoaffermandosi,
perché non pretendere di vivere un’amicizia, una storia d’amore
e un giorno perfetti – soprattutto se un’attrice, la Bancroft,
vede in lui il compagno ideale per leggere le tragedie romantiche di Shakespeare? Da copione, il protagonista imparerà le buone maniere,
onorerà il rito del tè delle cinque, indosserà il frac. Qualcuno
vorrà scacciarlo. Qualcuno vorrà venderlo al migliore offerente.
Qualcuno lo accoglierà, ma per mero opportunismo. Fiaba dalla
scrittura classica, fra biografia canonica e parafrasi sognante, The
Elephant Man è un film di grande maniera, con un Lynch che non
perde il suo tocco personale neppure alle prese con i languori di un
bianco e nero anni Cinquanta. Poco male se tutto va proprio come
previsto. È possibile vederlo, infatti, senza abbandonarsi a scena
aperta a un pianto viscerale? Eroe burtoniano non meno di Edward
mani di forbice, John Hurt si lascia sfuggire dai pertugi del suo mascherone ingombrante poche parole confuse e lacrime passeggere.
È l’umanità dei mostri. E' la mostruosità degli uomini. (8)
[1999]
Ha perso sette dei suoi quattordici figli. Ha visto i suoi nipoti
venir reclamati dagli assistenti sociali. Costretto a camminare
poggiato a un bastone, mezzo cieco, l’anziano Alvin Straight
ha un passato tumultuoso – reduce di guerra, alcolista –, un
cappello da sceriffo e due occhi spalancati per l'infinita meraviglia.
Incurante delle rimostranze della figlia autistica Sissy Spacek, un mattino
prende e va: deve andare a trovare il fratello minore colto da un
infarto, con cui non parla eppure da dieci lunghi anni. Il
suo mezzo di trasporto: un tosaerba malandato. Lungo il tragitto lo
aspettano incidenti di diversa natura, tantissimi buoni samaritani,
ricordi drammatici. E il tutto sembra così folle da non poter non
essere vero – ci è testimone il titolo italiano, Una storia vera. Se le atmosfere
sono di quelle affascinanti, splendide come in un racconto di Kent
Haruf, alla storia d'altra parte si rimprovera una dose di zucchero in surplus. Agrodolce ma a tratti un po' stucchevole, questa
fiaba sulla terza età a cui tutto deve il bellissimo Lucky schiera tanti temi caldi in campo – vedasi la descrizione iniziale
della tribolata vita del protagonista – ma fa presa sicura con una storia così poetica, così adorabile, da toccare le corde giuste. Avrebbe fatto altrettanto bene, probabilmente, anche con
meno. Mi riferisco alle lungaggini, al patriottismo alla Eastwood, a un troppo che storpia. Ma la verità è che a un
certo punto non ho visto più i difetti, con gli occhi pieni di
lacrime per colpa della tenerezza di Richard Farnsworth: tutt’oggi non so se sia
più struggente la sua ultima performance o la consapevolezza che di
lì a poco si sarebbe tolto la vita, vinto da un male incurabile. Com’è grande il cuore di questo insospettabile Lynch, alle prese con il piccolo cinema indipendente.
(6,5)
Troppo Lynch, come direbbe James Franco in The Disaster Artist: "blow me away, my god!!".
RispondiEliminaTanto ho adorato Velluto Blu quanto ho trovato perplimente Strade perdute, che ricordo giusto per la bellezza della Arquette.
Una storia vera mi ha fatta piangere, è davvero splendido, con due attori mostruosi... proprio per la questione "lacrime" non ho mai avuto il coraggio di vedere Elephant Man. Temo di sciogliermi.
Mamma mia, il pericolo c'è. Ho pianto più o meno per due ore.
EliminaUna storia vera è un mezzo gioiellino, però è davvero paraculo. Succedono tutte al protagonista.
Bwahahaah allora aspetta di vedere Joker!!!
EliminaIeri non è stata cosa. Finiti i posti in sala. Mi piangeva il cuore...
EliminaA Una storia vera darei un voto molto maggiore, proprio per le cose che citi. È un film di quelli semplici, diretti (straight) e ricchissimi di tutto ciò che sembra mancare.
RispondiEliminaGli altri, capolavori. Non saprei nemmeno che voto dare a ognuno perché li amo in modi diversi.
Ma alla fine Lynch, come Tarantino, ha degli ingredienti tipici e -senza usarli tutti, tranne che in Twin Peaks- ne fa delle ricette speciali.
Moz-
Il film in sé mi è anche piaciuto, ma l'ho trovato una "disneyata" un po' lontana da lui. Perfino io, che lo scopro soltanto adesso. Lo stesso invece non accade con The Elephant Man. Questione, più che di ingredienti tipici, questa volta di equilibri giusti e meno giusti. :)
EliminaPer me ha significato che Lynch può fare anche disneyate coi fiocchi XD
EliminaMoz-
Ma lui si vede che è un tenerone! In Lucky, che ti straconsiglio, ha un cameo adorabile.
EliminaMa lui si vede che è un tenerone! In Lucky, che ti straconsiglio, ha un cameo adorabile.
EliminaAbbiamo davvero tanto Lynch in comune, nei recuperi estivi e se Mulholland Drive vince per le atmosfere da sogno/incubo, Una storia vera vince facilmente il mio cuore.
RispondiEliminaA questo punto mi devo Elephant Man, visto nel fumoso cineforum della scuola ormai troppi anni fa.
Ah, lo amerai tantissimo.
EliminaE che dolori al petto...
Ci rinuncio, sono l'unico ad aver amato Lost highways 😅 per il resto, concordiamo e pure molto! Segnala sul calendario 😜
RispondiEliminaDomani nevica!
EliminaI think I'll bookmark this for future reference, especially on your detailed topics. Keep the neat posts coming! playerunknown
RispondiElimina