lunedì 18 marzo 2024

Recensione: Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield

| Le nostre mogli negli abissi, di Julia Armfield. Bompiani, € 18, pp. 250 |

Il sangue e il mare hanno una composizione chimica simile. Le prime forme di vita sono nate dall'acqua: nelle nostre ossa abbiamo un po' del sale dell'oceano. Leah, biologa, è cresciuta ascoltando questi e altri aneddoti. Intrigata dai misteri degli abissi, li ha raccontati anche a Miri, sua moglie, facendone fiabe della buonanotte piene di zanne e tentacoli. Parimenti incantevole e sinistro, il primo romanzo di Julia Armfield è un diario di bordo su una coppia e un sottomarino condannati alla deriva. A capitoli alterni ci spingiamo nei pensieri delle due protagoniste, con il desiderio inquieto di assemblare una a una le tessere di un puzzle dal disegno confuso. Leah, partita per una missione a diecimila metri di profondità, torna a casa dopo cinque mesi di assenza: costretta in uno spazio ristretto con altri due scienziati, disorientata dal buio pesto e dalle istruzioni dei capispedizione, si è spinta in un luogo infestato in cui, contro ogni pronostico, c'era vita. Fragile e ipocondriaca, tormentata dal pensiero della malattia genetica che ha recentemente ucciso la madre, Miri elude invece l'attesa fantasticando sui vicini di casa rumorosi e visitando forum su ragazze scomparse.

Sai, mi piace entrare al cinema quando c'è ancora luce e uscire quando fuori è buio. Mi fa pensare al fatto che la città non è mai la stessa. Cioè, al fatto che tutto cambia. Ogni sera, ogni minuto, qualcosa finisce e non sarà più come prima.

Quando Leah viene tratta in salvo, Miri la aspetta a braccia aperte all'uscita del Centro. Ma l'altra, elusiva, non ricambia la stretta: rifiuta cibo e carezze, soffre di epistassi, ha un colorito insalubre, fa scorrere l'acqua della vasca per tutta la notte. Irraggiungibile, sembrerebbe essere divorata dalla nostalgia. Ma di cosa? Perché Leah, così prodiga di storie in passato, glissa proprio sull'ultima che ha vissuto? Ai primi appuntamenti si scambiavano baci al gusto popcorn, guardando i classici di Bava, Cronenberg e Spielberg. Alle feste indossano vestiti che le avvolgono come bozzoli di una crisalide. Nei loro incubi perdono i denti e ospitano larve nell'incavo delle guance. Sul pannello di controllo del sottomarino, immancabile, troneggia un portafortuna a forma di Chtulu. Le nostre mogli negli abissi ha le caratteristiche dei sad hot girls, ma padroneggia il lessico dei body horror. Perfino con il peggio in atto le protagoniste cercano disperatamente di ripristinare l'antica normalità. Stavolta in bagno, utilizzando il water come base d'appoggio, continuano a rifugiarsi in film di serie B che trattano di invasioni, scuoiamenti, metamorfosi.

Il problema non è che è stata via, è che durante la sua assenza non c'era niente di normale. Non è dura perché è tornata, è che non sono sicura che sia tornata davvero.

Servono gli horror per ricordarsi di un amore totalizzante, a tratti violentissimo nei litigi. Servono gli horror per raccontarsi i corpi fusi nel culmine del sesso o la miracolosa banalità del tenersi per mano: quando si è vicini, infatti, l'arto del partner sembra un'escrescenza spuntata direttamente dai nostri tessuti. Ho letto di loro in apnea, sul chi vive. Affascinato dalla voce di sirena dell'autrice e angosciato dall'andamento di un romanzo in cui, anche a poche pagine dalla fine, si resta in attesa di un guizzo sotto il pelo dell'acqua. All'apparenza non succede niente di rilevante; in superficie non si intravedono che lievi increspature. Cosa accade però negli abissi? Tra le righe? È laggiù che si agitano i significati di una storia lugubre e quiescente, dal linguaggio cifrato, in cui i giorni perdono di senso e l'amore coniugale minaccia di sciogliersi in una massa cangiante a causa di una convivenza forzata. Niente è più lo stesso. Nessuna è più la stessa. Al centro di una terapia di coppia su come elaborare le diverse consapevolezze maturate in una relazione a distanza, le due mogli osservano i loro anniversari da un oblò e, dopo averlo sfidato controcorrente nel tentativo di opporsi al divenire naturale della vita (e della morte), assecondano il moto delle onde. E rompono la veglia a cui hanno condannato i loro lettori, ormai commossi, con una parabola in cui non è importante che gli amori siano eterni, purché ci insegnino a nuotare.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Olivia Rodrigo - Vampire 

lunedì 11 marzo 2024

Recensione: My Dark Vanessa. Mia inquieta Vanessa, di Kate Elizabeth Russell

| My Dark Vanessa, di Kate Elizabeth Russell. Mondadori, € 15, pp. 384 |

Una quindicenne dall'indole malinconica e dai lunghi capelli rossi stringe una relazione con il suo professore di letteratura, quarantaduenne che riserva carezze di carta vetrata alle sue studentesse più talentuose. È una vicenda di sopraffazione psicologica, potere, ossessione. Non una storia d'amore. Ma come raccontarla agli altri se perfino colei che l'ha vissuta preferisce definirsi complice di una tormentosa folie à deux, anziché vittima inerme? Abituata a essere invisibile, orgogliosa delle proprie stranezze e dei propri dolori, Vanessa legge troppo (soprattutto il conturbante Nabokov, di cui custodisce gelosamente una copia annotata) e vive troppo poco, fin quando le attenzioni di un adulto non la rendono finalmente protagonista di una storia. Una storia alla Lolita, per di più, il suo romanzo preferito, in cui una giovane ninfetta esercita il suo fascino seduttorio sul patrigno soggiogato. Almeno illusoriamente. Non è sempre facile riconoscere un predatore sessuale quando lo si ha davanti, e il goffo professor Strane sembra diverso. E la fa sentire diversa. Ma all'indomani del caso Weinstein, una schiera di donne insorge e denuncia gli abusi subiti. Vanessa potrebbe diventare la loro portabandiera. Ma la consapevolezza che Strane abbia fatto lo stesso ad altre la riempie non di orrore, bensì di una bruciante gelosia. Non era, dunque, l'unica?

Quando io e Strane ci siamo conosciuti, io avevo quindici anni e lui quarantadue, poco meno di trent'anni tondi a separarci. È così che all'epoca definivo la nostra differenza di età: perfetta. Mi piaceva la relazione numerica tra i nostri anni, i suoi tre volte i miei. Mi immaginavo tre piccole me che trovavano posto dentro di lui: la prima avviluppata al cervello, la seconda al cuore, la terza liqueffatta a scivolargli nelle vene.

In giorni in cui mi sono trovato a riflettere sulla violenza di genere in classi di quasi solo ragazze, ho letto quest'esordio molto dibattuto qualche anno fa: un romanzo scomodo e incisivo, dal punto di vista sdrucciolevole, sulla catabasi di un'altra promising young woman nel sessismo dell'ambiente accademico americano. Sono i primi anni Duemila. Spaventati dalla vicina strage del liceo Columbine, gli adolescenti benestanti frequentano le scuole private. Il loro mito è Britney Spears, candida ma ammiccante, adulta ma bambina, che in un iconico videoclip non trattiene l'impazienza per il termine delle lezioni. La parabola discendente della protagonista somiglia a quella del popstar, strumentalizzata dai media fino a quel crollo psicologico forse più celebre perfino della hit d'esordio. Vanessa è padrona di sé. Con le sue piccole mani, ha infangato la propria reputazione per proteggere quella di Strane. Come può considerarsi vittima del disturbo post-traumatico da stress una giovane tanto audace e volitiva? Questo fa forse di lei una nemica delle donne? A dispetto di uno stile tutt'altro che memorabile, giacche troppo acerbo, Russell ha per le mani materiale incandescente e fa del suo meglio per rendere giustizia a una storia attuale, complessa.

Non appena è successo ho desiderato che accadesse di nuovo. Una ragazza normale non avrebbe reagito così. È vero che c'è qualcosa di oscuro in me, da sempre.

Lontana dai banchi di scuola, la seconda parte – la più riuscita – affronta il disagio struggente di una vita interrotta. All'inizio la presenza di Strane inquieta. Ma alla fine, a sorpresa, è la sua assenza a farsi lacerante. Ormai trentenne, con la paura di essere invecchiata e per questo non più desiderabile, ossessionata dalle cicatrici indelebili del passato, Vanessa vorrebbe rinunciare al suo orco se farlo non implicasse anche rinunciare a sé stessa. La mancata elaborazione crea un comodo stato di sospensione; il vittimismo è una coccola. Ogni giorno appare la prosecuzione della sua prima adolescenza, terribile ma mitizzata. Una ragazzina appare desiderabile, una ragazzina è sollevata dalle responsabilità, una ragazzina viene facilmente assolta. Si legge come un thriller, My Dark Vanessa, ma è la storia a tinte forti di un'educazione affettiva che consiglierei anche alle mie studentesse. Come si impara ad amarsi, se ci hanno amato – il verbo, a questo punto, non calza più – in maniera terribile? Come si diventa donne?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Fiona Apple – Criminal

venerdì 8 marzo 2024

And the Award goes to: Povere creature | La zona di interesse | Past Lives | American Fiction | Killers of the Flower Moon

Lanthimos, visionario, sorprende anche per tempismo: il suo ultimo film è il lato oscuro di Barbie. Orgiastico e stordente, racconta le avventure di una creatura in polemica con il suo creatore: passerà da un padrone all'altro per conoscere il sapore delle ostriche, degli umori corporei, del sangue. Al regista greco si può sì rimproverare una parte centrale ridondante, scarso equilibrio (a differenza che in La favorita, insuperato), ma la sua Bella zoppica prima di imparare a danzare. La interpreta una Stone senza vergogna, che trasforma il suo corpo in un bignami di tutti gli stadi dell'evoluzione umana e di tutti gli studi di genere. Deliziosamente blasfema (è Madre, Figlio e Spirito), fa fiorire nei personaggi maschili emozioni sconosciute – la tenerezza in Dafoe, la gelosia in Ruffalo – e diffonde la buona novella intrisa di positivismo. Il suo ritorno alla vita è un inno alla gioia spoglio di retorica, che semina scompiglio fra i perbenisti. Ma l'indimenticabile Baxter, che imparerà presto a non masturbarsi a tavola, a non sputare il cibo sgradito, a non parlare di sesso in pubblico, è una provocatrice schierata contro i mulini a vento dei costrutti sociali. Guicciardini scriveva: “Lo ingegno più che mediocre è dato agli uomini per loro tormento”. E alle donne? L'esperimento che sperimenta ha testa, cuore e clitoride. (8)

Urgente”, “necessario”, “importante”. Lo hanno commentato tutti, e tutti con gli stessi aggettivi. Lo sapete: è il dramma sull'Olocausto che non mostra mai i campi di concentramento, ma la banalità delle famiglie naziste. Lo sapete: in casa Hoss, un paradiso da proteggere, poco importano le urla, gli strepiti, i pianti che cozzano contro il nitore della fotografia; poco importano le piogge di ceneri. Il turbamento dello spettatore nasce proprio lì: dalla freddezza glaciale dei lunghi quadretti domestici; dallo scollamento tra immagine e sonoro. Sperimentale, l'ultimo Glazer si poggia su un'idea vincente. Per quanto stimolante, però, non è un film che ho sentito visceralmente. L'estetica, fulgida, ne fa un'asfittica camera ardente. L'approccio, nuovo, non basta a reggere l'intera visione. I protagonisti, inquadrati in campo lungo, si muovono come i concorrenti di un reality. Resto un amante del cinema narrativo. E La zona di interesse racconta una storia bruttissima, restando per tutto il tempo su una soglia che – se non concettualmente – non ha suscitato interesse. Esporci agli orrori senza filtri, senza morale: ci renderà sempre più saggi o più assuefatti? Vincerà, ma non è il "mio" Miglior Film.  (7)

A vent'anni di distanza dal loro ultimo incontro, una vecchia coppia si dà appuntamento. A New York parleranno di scelte, seconde possibilità, predestinazione. Pacata presa di coscienza, in cui tra le righe si riflette anche di ambizione femminile e identità culturale, Past Lives si inserisce nel filone delle romcom indie. Impossibile non pensare a Linklater, Coppola, Kar-Wai. Immancabili le lunghe carrellate, una città da cartolina, i silenzi riempiti dalla densità di certi sguardi. La regia è una carezza; i protagonisti, dotati di una chimica incantevole, animano un triangolo dagli esiti piuttosto prevedibili. Ma a rimanere impresso è soprattutto il marito di lei, tagliato fuori dai dialoghi dei due innamorati ritrovati; incapace di decifrare i sogni della moglie immigrata e, per questo, inconsolabile. Agrodolce e discreta, Song non osa variazioni sul tema e regala ai romantici tutto ciò che si aspettavano. Volutamente algida, confeziona un film (per qualcuno già cult), forse più fortunato che bello. Past Lives è un ordinario esordio da Sundance che gode di una vetrina straordinaria: gli Oscar. Si ha, tuttavia, la sensazione di averlo già visto altrove. Magari in un'altra vita? (7)

Uno scrittore afroamericano incappa sempre nel solito rimprovero: non scrive storie abbastanza nere. Gli editori, bianchi, bramano vicende di tossicodipendenza, criminalità, sbirri violenti: tutto pur di sgravarsi la coscienza e alimentare il cliché. Per scherzo, il protagonista scrive un guazzabuglio di luoghi comuni. Il romanzo diventerà prima un bestseller. Diciamolo: candidato a cinque Oscar, American Fiction avrebbe meritato soltanto una nomination per la sceneggiatura. Già premiato al Sundance, non brilla per fattura, ma è un'inaspettata ventata d'aria fresca. Originale, divertente, leggero ma non troppo, è una provocazione intellettuale che scardina i meccanismi dei successi editoriali e dei premi letterari. Nonostante le premesse memorabili, il potenziale del tema non viene pienamente sfruttato. Le pieghe pirandelliane vengono talora messe in secondo piano dalle vicende familiari del protagonista; la satira viene stemperata dall'Alzheimer di una mamma anziana, dal coming out del tormentato Sterling K. Brown, da un matrimonio e un funerale. Ma si ride, e di noi. Quante volte abbiamo definito un romanzo “coraggioso”? Quante volte abbiamo fatto ridere sotto i baffi qualcuno come Jeffrey Wright, qui diviso tra orgoglio e denaro? (6,5)

Tratto da una storia vera nerissima, è il film più impegnativo tra i candidati. Con le sue oltre tre ore di durata, è un atto d'accusa contro gli abusi dei bianchi a danno dei nativi. L'indignazione e lo sgomento vengono soffocati dai ritmi dilatatissimi e dall'andamento prevedibile; la piega giudiziaria dell'ora finale, in particolare, annoia e affatica. Leonardo DiCaprio, imbelle, si lascia traviare da un'eminenza grigia con il ghigno di Robert De Niro. Teatrali e gigioneggianti, finiscono per mettere in ombra Lily Gladstone: una mater dolorosa sobria e piena di contegno la cui recitazione misurata, lontanissima da quella grandattoriale del duo, appare piatta al confronto. Dirige Martin Scorsese: la storia del cinema in persona. Ma il cinema è anche andato avanti. E questo classico western di denuncia, con il solito classico Scorsese alla macchina da presa, mostra un regista ormai fermo alla stessa impostazione rigorosa, ai soliti attori virtuosi, alle stesse storie solenni. Lo si candida per rispetto reverenziale. Ma pochi vedranno questa sua ultima fatica film fino alla fine. (5)

venerdì 1 marzo 2024

Recensione: Estranei - All of Us Strangers, di Taichi Yamada

| Estranei, di Taichi Yamada. Nord, € 16, pp. 216 |

Uno sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, pessimo nel gestire i rapporti interpersonali – in particolare con le moglie, fidanzatasi nel frattempo con il migliore amico, e con il figlio universitario –, sperimenta gli scherzi delle solitudine nel torrido agosto di Tokyo. La città, calda e trafficata, sembra essersi svuotata. Il condominio di cui occupa un appartamento al settimo piano, stipato di uffici, si spopola al calare della sera. Siamo in un romanzo giapponese degli anni Ottanta, a cui l'omonimo di Andrew Haigh (al cinema da ieri) si è soltanto liberamente ispirato. Siamo in una storia di fantasmi, a tratti sorprendentemente horror, in cui la soglia tra vivi e morti sa farsi labile. Il giorno del compleanno del protagonista coincide con una festività buddista chiamata O-bon: una ricorrenza in cui, un po' come il due novembre, si è soliti celebrare i propri defunti. E parlarci? Tornato a quarant'anni di distanza nel quartiere in cui è cresciuto, ormai zeppo di cinema dismessi e lotti abbandonati, il protagonista è ospite di una giovane coppia: dopo un pomeriggio passato a bere birra e whisky, si congeda da loro e, sul taxi del ritorno, piange di malinconia. L'uomo e la donna sono i suoi genitori, morti quando lui aveva dodici anni appena. È la fantasia del protagonista ad animarli, o c'è qualcosa di soprannaturale in atto? Una forza mortifera che minaccia di strapparlo alla realtà, all'insegna di un passato idealizzato in cui può atteggiarsi a figlio devoto?

Non sparire, adesso.

Considerato un maestro del genere in patria, Yamada punta tutto sulla fascinazione delle atmosfere e su una scrittura lineare, ma capace di sensazioni ambigue. Vietato aspettarsi lo stesso struggimento del film omonimo, che già con il trailer ci ha miseramente ridotti in lacrime. Resta, tuttavia, una profonda tenerezza nel figurarsi il protagonista bearsi delle mille premure dei familiare; godersi la quieta gioia mai sperimentata da bambino. Ma qui ci si domanda costantemente: i genitori redivivi sono spiriti benevoli o demoni sanguinari? In un limbo su misura dove l'immaginazione viene preferita alla realtà, l'ossessione per i morti rischierà di allontanarlo da Kei: una vicina di casa segnata da profonde cicatrici che, come nel mito di Amore e Psiche, domanda di non essere osservata alla luce dell'abat-jour. Fiaba cupa e minimalista sulle leggi imperscrutabili dell'aldilà, la controparte letteraria di Estranei è come un lungo corridoio angusto. A seconda del nostro stato d'animo, può ispirare smarrimento o terrore.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Pet Shop Boys – Always On My Mind

lunedì 26 febbraio 2024

Recensione: Le correzioni, di Jonathan Franzen

| Le correzioni, di Jonathan Franzen. Einaudi, € 15,50, pp. 600 |

Da quando la mia famiglia ha cambiato forma, in seguito a una separazione che ci ha sparpagliati e stravolti — anche se, mi dico, non annientati —, accolgo l'arrivo delle feste comandate con un attacco di panico. Qualcuno, una volta, mi ha detto che i momenti di aggregazione acuiscono la malinconia. Ma ha taciuto la fatica che aggregarsi comporta. Quando lontani, ognuno in una regione diversa, tocca far pace con le vecchie ruggini e con i ritardi di Trenitalia pur di rivedersi. Ho passato l'ultima settimana dell'anno sui treni, inseguendo le tessere sparse di un puzzle di cui a volte mi sfugge il disegno; quando ho pensato di poter finalmente tirare i remi in barca nel mio monolocale a Torino — piccolo, sì, ma mio e basta —, mi sono toccati un altro andirivieni, un'altra corsa. Hanno picchiato alla porta gli ottantotto anni di mia nonna, per ricordarci quanto fragile sia il corpo di un'anziana e quanto sia dura, ben più di un femore, la sua testa: ostinatamente rifiuta case di riposo e badanti, esprimendo il desiderio — quando sarà — di morire a casa sua, circondata da una prole ormai troppo provata, fisicamente e psicologicamente, per pensare all'amore filiale. Ho scelto, insomma, il momento più giusto e più sbagliato per dedicarmi al mio primo Franzen. Non aspettatevi una saga familiare da amare. Le correzioni è una commedia umana prolissa, caustica e brutale, che riserva duecento pagine di digressioni di troppo e una galleria di personaggi antipaticissimi. Ma quanto mi somigliano gli incorreggibili Lambert?

L'ignoranza volontaria era un importante mezzo di sopravvivenza, forse il più importante di tutti.

Alfred, ex ingegnere ferroviario affetto da demenza, difende il suo trono: una poltrona blu a cui non rinuncerebbe né per una cura sperimentale né per l'ospizio. Benché incapace di controllare il proprio sfintere, tiranneggia comunque su Enid: casalinga semplice e remissiva, con un fiuto inespresso per gli affari e una sessualità mai esplorata per via del marito perbenista. Hanno messo al mondo tre figli diversissimi, accomunati però dalla stessa consapevolezza: accudire quei genitori invadenti, giudicanti, repubblicani prima o poi li mangerà vivi. Chip, dopo i fallimenti come insegnante e sceneggiatore, vola in Lituania per conto di un improbabile signore della guerra; Denise, andata a letto col capo e poi con la moglie di lui, vive una crisi esistenziale che soltanto la sua vocazione come chef può sbrogliare; Gary, nevrotico banchiere succube del sesso e del denaro, lotta con la sua popolosa famiglia per andare a trascorrere dai nonni un'ultima festività. Nel mezzo ci sono: una crociera per pochi eletti, gli spasmi del mercato azionario, gli investimenti sbagliati, gli ansiolitici. Sullo sfondo: un'America che più America non si può, sospesa nel tempo — siamo, forse, nei tardi anni Novanta — ma sempre identica a sé stessa, stritolata dal falso politically correct e dalle spietate regole del capitalismo. La neve cade, ma senza purezza. E non è così puro, a ben vedere, nemmeno un nipotino prodigio che legge i classici per l'infanzia e giura di stravedere per i propri cari. Allora quale speranza c'è? Purtroppo o per fortuna ci sono le feste, con lo sporco calciato via sotto il tappeto e i tabù taciuti per quieto vivere. Le si passa tutti a St. Jude, nel Midwest, cittadina che significativamente porta il nome del santo patrono delle cause perse. La matriarca si affaccenda, ostenta entusiasmo e sorrisi, ma i figli passivo-aggressivi siedono intanto con la segreta paura di restare intrappolati lì: la «stagione della gioia e dei miracoli», infatti, è la medesima della coercizione emotiva.

Così sono le persone: stupide.

Lo so bene anch'io, pronto ad additare il puntale storto, i regali riciclati, i loro maglioni kitsch, la seduta scomoda: con questa lettura non è stato infatti colpo di fulmine. Più farsa che tragedia, fotografata con un filtro grottesco che ne esaspera vizi e stramberie, quella di Franzen è una parodia al vetriolo dei sogni e degli incubi di una generazione che ha creduto, finché ha potuto, nella fiaba della virtù e dei buoni sentimenti. Meglio svegliarsi o continuare a nutrire l'inganno, magari aiutati da una pillola magica che si chiama come il leone di Le cronache di Narnia? Franzen mi ha fatto sbuffare per le loro parole di troppo, ridere delle loro idiosincrasie e infine commuovere, grazie a un'ultima parte tanto brillante quanto spietata in cui i Lambert si sono rivelati un po' infelici a modo mio. Ho letto di loro in attesa delle coincidenze dei Freccia; nel letto in cui dormiva mia madre da bambina; al capezzale di una nonna abbastanza lucida da spendere ancora una parola per l'arrivo dei suoi sessant'anni di matrimonio. Con la voglia di stringermi ai miei familiari e di scappare dall'altra parte. Mentre, tra tristezza e sollievo, le vetrine venivano pian piano spogliate delle loro decorazioni fino a piombare in un anonimato consolante. Le luci delle città non hanno rispetto per i dolori dei figli. Meglio aspettare a denti stretti l'Epifania: che porti via gli strascichi, e la malinconia, di questo nostro canto di Natale stonato.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Elvis Presley – Blue Christmas

lunedì 19 febbraio 2024

Recensione: Cuore nero, di Silvia Avallone

| Cuore nero, di Silvia Avallone. Rizzoli, € 20, pp. 368 |

Nelle ultime settimane ho recuperato Mare fuori. L'ho visto in apnea. Ne ho parlato a lezione con i miei studenti, citando ora gli amanti rivali di Shakespeare e ora Manzoni, con quella testa calda di Renzo in fuga da Milano. L'ho divorato, ma criticato, facendo riflettere i più giovani sulla romanticizzazione della criminalità, sull'approssimazione della sceneggiatura e della recitazione, ma soprattutto sulla pecca maggiore: perfino nella furia compulsiva del binge watching non può sfuggire la completa assenza di speranza in una produzione pensata per un target adolescenziale. Per i beniamini del pubblico non c'è riscatto: quando escono dall'IPM di Napoli sono destinati o a ritornarci, o a moririre. Ho alternato alla visione l'ultimo romanzo di Silvia Avallone: provvidenzialmente, un'altra storia che similmente parla di carcere minorile, amicizie fatali, giovinezze interrotte. Qui, tuttavia, c'è ciò che manca alla produzione Rai: una riflessione sulla fatica di ricominciare. Non altrove, bensì da sé stessi. Dopo un'adolescenza spesa nel minorile di Bologna, c'è chi non riesce a riscattarsi e si toglie la vita; c'è chi non soltanto si reinventa, ma nel frattempo si è diplomato o finanche laureato; infine c'è Emilia, la protagonista, che in fuga dalla gogna mediatica si rifugia in un eremo irraggiungibile ai confini del Piemonte. A Sassaia non ci sono strade percorribili in macchina, televisori, persone che possano ricordare i dettagli di cronaca. Quel borgo fantasma che ha ospitato streghe, eretici e partigiani conta due abitanti appena: con l'arrivo di Emilia, tre.

Ora ti sembrerà impossibile. Ma io ti garantisco che tutto passa. E, se non può passare, cambia.

La donna, ormai trentunenne, è disabituata al silenzio, alla tecnologia, a uomini che non siano suo padre. Ferma all'estate dei suoi quindici anni, ai poster di DiCaprio e Britney Spears, è la caricatura di una teenager controcorrente, tutta sigarette e scarponi. Reagisce alla libertà come un cerbiatto accecato dagli abbaglianti. Diffidente, non si fida nemmeno di Bruno: un solitario maestro elementare che lascia le castagne migliori in dono ai defunti genitori e combatte l'analfabetismo della valle nell'impossibilità di fare altrettanto coi propri dolori. Leggerà poesie per fare addormentare Emilia. Ci andrà a letto prima di conoscere il suo nome: troppa la fame di calore umano. Si innamorerà di lei, ricambiato, senza conoscerne l'oscurità interiore. Cosa penserebbe lui, vittima dell'ingiustizia, della relazione con lei, carnefice? A raccontarci la loro storia è Bruno, a lungo ignaro, che costruisce la nuova routine di coppia su una fragile bugia in cui hanno entrambi il disperato bisogno di credere. Ma Cuore nero non è soltanto il resoconto di un incontro vissuto con l'entusiasmo febbrile di una seconda adolescenza. È soprattutto l'esame di una coscienza sporca, logora, che per trovare rattoppi ha dovuto conoscere la detenzione: con le sue privazioni, con le sue amicizie e inimicizie, con l'autolesionismo e gli psicofarmaci, ma anche con l'istruzione carceraria.

Ti dicono: “Vai, sei prosciolta”, ma è solo una parola. Come troia e ti odio nel diario dei sedici anni. La verità è che non ti puoi sciogliere da te stessa, che non c'è modo di tornare indietro, sistemare le cose, tirare un sospiro di sollievo e, finalmente, andare avanti.

Grazie alla prof giusta, le detenute scoprono Dante e Dostoevskij. Sostengono la maturità da privatiste, commosse dall'opportunità di mimetizzarsi per una volta con i loro coetanei. «Stronze, troie e regine», corrono perfino alle urne. Tra un romanzo e l'altro, l'autrice ha insegnato scrittura creativa in carcere. Ha dialogato con detenuti, educatori, giudici. È nata così una vicenda sì d'immaginazione, ma attentissima ai sogni e agli incubi dei diseredati. Com'è la neve vista da dietro le sbarre? Cosa significa scoprire il sesso a trent'anni? Quanto è profondo l'abisso, quanto difficile coltivare fiori sul suo bordo vertiginoso? Tragico, commovente e realistico, questo ritorno in libreria colpisce e affonda grazie a due protagonisti chiaroscurati e al calore di una scrittura che infonde quiete. Avallone non è più l'autrice arrabbiata degli inizi. È cresciuta, e la ribellione dell'esordio ha lasciato spazio a maturità e consapevolezza. La leggo e la immagino in pace. In Emilia è possibile scorgere traccia dei vecchi spigoli di Silvia, dei prefabbricati industriali e dei sentimenti morbosi di Acciaio, ma il meglio di lei è in Bruno: un omone a cui dona grazia, pacatezza, empatia. È lui a spiegare si suoi alunni che la nostra lingua è viva: cambia, si evolve. Gli errori di ortografia sono legittimi. Si impara a furia di sbagli, e c'è speranza anche per Martino Fiume, un discolo che proprio non vuol saperne di applicarsi. Ha sbagliato anche Emilia: un'anima smarrita da ricondurre sulla retta via dell'auto-assoluzione. E in discoteca, nella notte Capodanno, in un passo a due sulle note di un tormentone di Gigi D'Agostino. Il male dietro. Il mare fuori, certo, ma a un passo.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gigi D'Agostino – L'Amour Toujours

martedì 6 febbraio 2024

Recensione: Ventre, di Giulia Della Cioppa

| Ventre, di Giulia Della Cioppa. Alter Ego, € 16, pp. 148 |

Si chiama Margherita ed è un fiore reciso. A ventisei anni ha mandato giù una boccetta di Tavor con un bicchiere di latte. Purtroppo per lei, ha sette vite come i gatti. Ricoverata in terapia intensiva, ha l'orecchio fino, una mente instancabile e un corpo di cui non avverte nostalgia. Giace inerme, accanto a una paziente massacrata di botte dal compagno violento, e si scopre dolorosamente in balia degli altri. Irrequieta, curiosa, febbrile, un tempo era una ribelle: per lei era stato preannunciato un destino o da tossica o da terrorista. Ora è lì, sotto i neon, come un'orata spennellata d'olio sul bancone del reparto pescheria. Mentre il corpo di Margherita è immobile, i suoi occhi urlano vendetta. Sa dar loro voce Giulia Della Cioppa, classe 1996, che sul finire dell'anno mi ha sorpreso con un esordio bomba. L'autrice casertana è abile nel leggere i parametri vitali, le ombre a forma di balena che si proiettano sul pallore dei muri, i corpi femminili. Per lei non hanno segreti. E nel condividerli con noi gioca deliziosamente a sconvolgerci, attraverso i meccanismi di un perverso body horror in cui la protagonista diventa una Barbie tormentata – e finalmente desiderata – da due litiganti.

Ci deve essere stato un tempo in cui le donne hanno educato alla brutalità, così come hanno insegnato tutto il resto. Ci deve essere stato un tempo in cui né uomini né animali sapevano cacciare e dalla violenza della nascita hanno imparato. Un corpo sanguinante esce da un corpo sanguinante. Spaventati e impauriti dal mostro-donna devono averne sovvertito la crudeltà. Fossi stato un uomo, ci avrei provato anch'io. La sopravvivenza ti spinge a atti disperati.

Da un lato c'è la madre, donna rigida e ossessiva che in passato frugava nei suoi diari e nei suoi zaini in nome della brama di possesso: negli anni, l'ha accudita e ingabbiata. Come poteva sua figlia, la sua creatura, avere una vita segreta all'infuori di lei? Dall'altra c'è l'infermiera del turno di notte, che si chiama Bianca ma nasconde un'anima nera: abusando della paziente, la lecca, la morde, la pungola. La sfida. Cerca di strapparle un piccolo segno vitale o prova piacere nel saperla incosciente? Conturbante, oscuro, nuovo, Ventre è una storia sul masochismo delle relazioni familiari in cui si mescolano pena e godimento e dove le madri, terrificanti, dominano incontrastate sui vivi e sui morti. Non c'è atto più violento del nascere. Le donne sono le detentrici di questo rituale sanguinoso: janare spaventose, streghe onnipotenti, che si appollaiano sul petto delle belle addormentate. E danno. E tolgono. E coi petali di Margherita giocano, infine, a uno spietato “M'ama non m'ama”. Se potesse, la protagonista si sveglierebbe? Rinascerebbe? Più vicina alle provocazioni della letteratura weird che al polverume di una certa narrativa italiana, Della Cioppa spezza l'eterno presente a cui l'overdose di barbiturici ha condannata Margherita e, in un epilogo impeccabile, ci svela che è il suo è sempre stato un romanzo di formazione. Anche in coma, infatti, non smettono di crescere peli, capelli, unghie. Per rinascere è necessario crescere.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Litfiba - Il mio corpo che cambia