Yorgos
Lanthimos. Un nome affermato, una garanzia di perfezione formale e
insensata cattiveria. Prima la famiglia vittima di sé stessa
nell'interessante ma da me odiato Kynodontas.
Poi la distopia di The Lobster,
in cui la solitudine era una malattia da debellare. Adesso, l'America
borghese di The Killing of the Sacred Deer.
Il cast blasonato, le villette simmetriche, una Ellie Goulding
assurdamente inquietante nella colonna sonora e questa volta, sin dal
titolo, un'inconfondibile matrice greca, tragica. Il chirurgo
di Colin Farrell ha mani infallibili, due figli e, a
letto, la moglie di un'algida Nicole Kidman con cui consumare
innocue fantasie necrofile. Cosa lega il capofamiglia a un misterioso
adolescente che lo tiene sotto scacco, costringendolo allo stesso
sacrificio di Agamennone? Forse una maledizione da non spiegare mai,
forse una connaturata persuasione. Le dinamiche tra Farrell e il
sinistro Barry Keoghan sembrerebbero quelle sottili di un home
invasion in cui tutti possono essere soggiogati o sedotti – su
carta, infatti, si è nei territori di Pasolin e Ozon. Il ragazzo
invece non si accontenta degli orologi, dei pranzi pagati, delle
attenzioni di una famiglia perfetta: desidera vendetta, e di quelle
che sfuggono a qualsiasi spiegazione logica. Lanthimos, al solito,
provoca, stranisce e nega facili soluzioni. Bravissimo ma
imperscrutabile, firma un'altra opera difficile da digerire.
Splendido e ributtante, The Killing of the Sacred Deer mi
è piaciuto e mi ha fatto schifo insieme – visto lo scorso
dicembre, mai metabolizzato, trova ora spazio sul blog e in sala.
Tiro al bersaglio con suoni martellanti e immagini ipnotiche,
colpisce alla cieca il cuore e il nucleo familiare. Ti immobilizza.
Poi gli occhi sanguinano. La morte – delle certezze, del cervo caro
ai folli e ai greci – giunge alla fine. Nemmeno quella, però,
porta pace. Tocca stare al gioco e basta, come quei personaggi
smarriti al centro delle stanze, schiavi della tyche;
come quegli attori grandissimi, qui volutamente meccanici e alle prese con
dialoghi stranianti. Vittime, noi e loro, di lunghe carrellate e di
campi più lunghi ancora. Di un regista che si crede
Kubrick, Haneke, Dio, e non a torto. (7,5)
L'ho
letto lo scorso inverno proprio su un treno, ma il mio primo Agatha Christie non entusiasmava. La
trasposizione di un regista abile e fedelissimo, quando si tratta di
rimaneggiare grandi classici, dunque non urgeva. Perché affrettarsi, perché
ripassare tanto presto l'ABC della teatrale maestra Agatha? Sono passati così
quei sei, sette mesi d'ordinanza. Quel che basta per recuperare
Assassinio sull'Orient Express in qualità blu-ray e,
soprattutto, in lingua originale: la visione sottotitolata è
obbligatoria, infatti, con quel cast polifonico; con un doppiaggio
che questa volta appiattisce e irrita. Com'era prevedibile,
l'intreccio resta intoccabile: un convoglio di lusso che punta al
cuore dell'Europa, un detective a bordo, il delitto del gangster Depp
ad atterrire (tra gli altri) suor Cruz, la contessa Dench,
l'ereditiera di una Pfeiffer in forma smagliante – una compagnia di
nomi abbastanza risonanti, insomma, da potersi permettere
caratteristi d'eccezione come la Coleman, Jacobi o Gad fra i
dipendenti. A capitanarli, un fascinoso Branagh qui in
doppia veste: meno gigioneggiante e despota che in passato, l'attore
shakespeariano ha un accento naturalissimo e la tentazione di
strafare, di cedere al teatro, soltanto nell' interrogatorio finale
in cui avanza verso sospettati allineati con le stesse simmetrie di
Leonardo da Vinci. Come regista, invece, fa volteggiare la sua
macchina da presa con eleganza anche in un ambiente all'apparenza
limitante; non annoia né favorisce qualche attore in particolare;
aggiunge bei cenni di modernità, tra discriminazioni, rare
concessione alla computer grafica, riferimenti alla vita sentimentale
di Poirot e una chiusa d'impatto, che sospende i giudizi
morali. Assassinio sull'Orient Express procede
laccato, attinente e rigoroso fino alla meta pattuita. Non si capisce
francamente il parlarne male, equilibrato e di tutto punto com'è.
Non si capisce, però, neppure il continuo bisogno di adattarle e
riadattarle, storie di cui noto il colpo di scena, svanito l'appeal.
Nonostante in comfort del viaggio. (6,5)
Quattro
orfani inglesi. Il Nuovo Mondo, un nuovo
cognome. La fuga oltreoceano da qualcuno – qualcuno con il loro
stesso sangue maledetto – che non deve trovarli. Vivono in un
fortino fatiscente in cui, al bando gli adulti, tutto è un lungo
gioco, tutto è un segreto da tacere. Nessuno deve sapere che vivono
soli, senza un tutore. Nessuno specchio incrinato deve essere
liberato dal suo drappo. Ci sono cose a cui, eccetto il
piccolo di casa, non si fa cenno. Stranezze, spifferi, uno spettro inquieto
come quinto inquilino. Ancora segreti, gelosie, macchie scure. Sul
soffitto, nella coscienza. Un avvocato assetato di denaro e l'amore
del primogenito per l'inarrestabile Anya Taylor-Joy rischiano di
infrangere l'idillio dei giovani Marrowbone – loro, e le assi della
soffitta che di notte non smettono di scricchiolare. Hanno i volti di
alcuni degli attori più talentuosi delle nuove generazioni –
Charlie Heaton, Mia Goth e, da Captain Fantastic, un
bravissimo George MacKay – e il candore, la complicità, dei
personaggi del Giardino Segreto e Una serie di sfortunati
eventi. L'uomo sbarca sulla luna, ma i loro hobby inconsueti
sembrano fuori dal tempo. Internet ti suggerisce si tratti di un
horror eppure, per un po', sembra di assistere a un film vecchio
stile, con atmosfere gotiche ma fiabesche e vicessitudini da racconto
d'avventura. Dotato di una fortissima componente emotiva, con un
colpo di scena capace di renderti vicino il soprannaturale, Marrowbone non
tradisce la classicità delle sue ispirazioni romanzesche né,
checché ne suggeriscano le ambientazioni, la sua provenienza
europea. Scrive e dirige, infatti, Sergio G. Sanchez, già
sceneggiatore dello struggente The Orphanage. Benché non ai
livelli del suo titolo di maggior successo, Sanchez – qui al suo
esordio alla regia – confeziona un film forse già visto, ma abbastanza
raro. Perché ti ci affezioni nel mentre, e ti emozioni. Perché
sotto il lenzuolo di questo fantasma batte un cuore grande e
spezzato, e decifrare i suoi sussulti, le sue richieste, rende la
convivenza una metafora che sa di malinconia. (7)
Sono
passati dieci anni dall'uscita di The Strangers, thriller già
di per sé poco memorabile che ricordo come la versione a stelle e
strisce del francese They e
quella meno divertente di You're the Next.
L'idea di un sequel appariva fuori tempo massimo nell'era in cui The
Purge – home invasion a tinte
distopiche – macinava proseliti e
capitoli su capitoli. Prey at Night con il film con Liv Tyler ha poco a che
fare. Capitolo indipendente, per non dire così scollegato da
risultare immotivato, non si rifà al logorio di un filone che vive
di spazi ristretti e case d'improvviso claustrofobiche, ma segue le
disavventure di una famiglia intrappolata in un parcheggio per
roulotte. I genitori glamour di turno sono Martin Handerson e
Christina Hendricks (quest'ultima sì procace, ma non abbastanza da
usare l'ingombro della sua quinta misura come arma di distruzione di
massa); la figlia ribelle, invece, è la sempre espressiva Bailee
Madison, lasciata bambina ai tempi di Hai paura del buio
e qui trovata sexy scream queen. È proprio la notte buia e nebbiosa
dei racconti dell'orrore. E se in un survival di quelli senza
fronzoli, senza trame innovative, si scappa, si crepa e s'ammazza,
incalzati da serial killer mascherati che uccidono perché possono.
Tra i superstiti, la regia del Johannes Roberts di 47 metri, che qui gioca a fare John
Carpenter tra campi lunghissimi, zoom schiaccianti e un'immancabile
colonna sonora anni Ottanta; un gusto piuttosto raffinato, che si
nota nel taglio stilistico e nella messa in musica di qualche
omicidio in particolare – la sequenza in piscina con le luci al
neon e Total Eclipse of the Heart
è d'esempio. Il difetto: il ritorno di The Strangers sugli
schermi è anacronistico proprio come ci appariva in partenza,
ininfluente. Avrebbe potuto avere un altro titolo. Avrebbe
dovuto giustificare l'attesa; passaggi della staffetta che vanno
avanti da due lustri e, adesso, da due film. Non sarebbe stato meglio
chiuderla prima, la stagione della caccia? (5,5)
Visto solo Lanthimos... e il mio parere lo sai bene 😉
RispondiEliminaLo so, lo so!
EliminaÈ dallo scorso anno che aspetto di vedere Lanthimos, per stare più vicina alla data di uscita, nella vana speranza di un cinema in v.o., ovviamente, le aspettative sono alte.
RispondiEliminaFaccio parte di quelli che han parlato male dell'Orient Express, o meglio, mi ha irritato così tanto che sono uscita dalla sala con il mal di testa, e nonostante gli accenti ottimi, ho trovato tutto troppo esagerato e patinato per piacermi e per sembrare un'operazione genuina.
Mi segno invece Marrowbone, che non conoscevo proprio ;)
Come hai fatto a resistere alle tentazioni di Cineblog01, che risalgono già allo scorso natale? Sei stata una fan esemplare. :)
EliminaVai con Marrowbone, farà breccia (ma non paura, no).
Il sacrificio del cervo sacro a me è soltanto piaciuto. Nonostante i tentativi di Lanthimos, non è riuscito a farmi anche schifo. :)
RispondiEliminaMarrowbone invece la noia più totale. Non ce l'ho manco fatta a finirlo... Troppa classicità per i miei gusti, forse?
A proposito di classicità... temendo l'effetto noia mi sa che proseguirò a stare lontano anche dall'Assassinio sull'Orient Express, che sembra proprio non fare per me.
La stagione della caccia per quanto mi riguarda è già chiusa da un pezzo e pure da Strangers 2 mi sa che è meglio se giro al largo. :)
Io trovo Lanthimos, a tratti, davvero stomachevole e pretenzioso, ma l'ho visto sei mesi fa, ne parlo solo adesso, e ancora ci penso. Cosa non da poco, non da tutti.
EliminaMi spiace per Marrowbone, a cui ho voluto veramente bene. Anche in quella prima ora introduttiva, ben lontana dagli altarini svelati (con qualche brivido) alla fine.
Miracolo, li ho visti tutti e me ne sono piaciuti (molto) tre su quattro, Lanthimos e Marrowbone in primis; alla fine del primo avevo un'angoscia terribile, mi sentivo sporca, mentre il secondo è una ghost story tenera e commovente, con degli attori strepitosi.
RispondiEliminaThe Strangers, come sai, mi ha divertita parecchio e la svolta slasher surreale è stata molto apprezzata.
Assassinio sull'Orient Express... mah. Formalmente ineccepibile, pasticciatusso nella trama, con lo one man show di Branagh talmente imposto da risultare fastidioso. Dimenticabile, via.
In generale concordiamo su tutta la linea allora, altro piccolo miracolo, sebbene The Strangers mi sia parso già vecchio, già improponibile. Soprattutto in sala. Passasse pure l'homevideo...
EliminaNon ho ancora visto nessuno di questi, il primo mi incuriosisce, il secondo... ho letto il romanzo ma in realtà nn mi attira quest'altra trasposizione cinematografica...
RispondiEliminaIl terzo non lo conoscevo e penso potrebbe piacermi,anzi forse è quello che più incontra i miei gusti! ;)
Penso proprio di sì, Angela. ;)
EliminaRelativamente ad "Assassinio sull'Orient Express"... l'ho guardato, non l'ho disdegnato, ma nemmeno mi sono strappata i capelli. Vatti a vedere quello del 1974, ha un cast coi controfiocchi e, sarà che lo avevo visto prima di quest'ultimo, mi è piaciuto di più.
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