Il
fu Manitas Del Monte. È l'epitaffio che Emilia potrebbe leggere
sulla tomba della sua vita passata. Prima narcotrafficante, poi
benefattrice. Prima uomo, poi donna, in un film — travolto,
francamente, dalle più sterili polemiche — con una tesi
reazionaria: cambiare il corpo, e l'anima, per cambiare il mondo.
Proprio come la sua eroina tragica, il film è un mutaforma; un
anfibio splendido e kitsch come il primo Luhrmann. Senza
pretese di verosimiglianza, Jacques Audiard — francese che filma il
Messico con un cast americano — sceglie un cinema di innesti, dove
la dimensione del musical sottolinea la natura farsesca del tutto, ma
le performance del cast garantiscono grande trasporto emotivo. Se le
candidature di Gascón segnano già un primato, gli occhi sono
puntati su Gomez e Saldana: la prima, benché goffa con lo spagnolo,
abbandona l'etichetta di icona Disney con un ruolo conturbante;
l'altra, favorita agli Oscar, è un'avvocata con un numero iconico in
cui, ballando, sbugiarda la classe politica. Fiaba di colpa e
sorellanza, sempre in bilico tra il musical e il thriller, Emilia
Pérez trascina in una spirale ipnotica in cui la musica, per
fortuna, è più prepotente della violenza. Può un film su una
persona a metà farci completamente suoi? Bingo. Tutto può
succedere, nell'opera pop in cui i ritornelli cantano di
vaginoplastica, i mitra emettono sonorità tribali e i boss, in
pectore, sono regine. (8)
Un
famoso proverbio dice: morto un papa, se ne fa un altro. Chi, se
potesse, non vorrebbe spiare i retroscena blindatissimi delle
elezioni del nostro pontefice? Le macchinazioni, i segreti, le ambizioni
covate dai numerosi cardinali in lizza per il soglio più ambito al mondo? Il
regista Edward Berger ci apre eccezionalmente le porte del conclave,
ispirandosi al best-seller di Robert Harris. L'impianto è quello di
un giallo alla Agatha Christie. Ci sono gruppo di uomini con tutto da
nascondere, la claustrofobia di un ambiente precluso, un sospetto
strisciante. L'ultimo papa, rinvenuto misteriosamente morto nel suo letto, è stato
forse assassinato? Indaga un Ralph Fiennes in crisi mistica, mentre
battagliano il favorito Tucci, il machiavellico Lithgow, il cinico
Castellitto; un piccolo ruolo spetta finanche a suor Isabella Rossellini,
unica donna in un ambiente maschilista. Elegante,
scenografico, serrato, Conclave – plurinominato ai premi – è ben più blando e semplicistico del
previsto. Doveva farmi ragionare un'uscita in sala senza polemiche. Meno caustico di quanto si legga, con
rivelazioni che indignano ma non troppo, ha un unico colpo di testa:
il twist conclusivo. Peccato che, benché significativo, appaia una
concessione al politicamente corretto retorica e un po' forzata in un
film che, per il resto, è più classico che non si può. Nonostante
sbancherà, non è fumata bianca. (6)
Dopo
Jackie e
Spencer,
Larraìn chiude la sua trilogia con un altro ritratto di signora.
Maria:
la donna prima della Callas. Ma anche quella che, fragile e volitiva,
voleva disperatamente tornare a incarnare quel mito indimenticato.
Benché il corpo, ormai prosciugato dai lassativi,
protestasse. Benché la sua voce, prima venduta al miglior offerente
e poi messa a tacere, l'avesse tradita quanto Onassis. Il
cileno realizza un flusso di coscienza vorticoso e febbrile,
narrativamente frammentario ma formalmente impeccabile. Strutturato
in lunghi colloqui come il film sulla First Lady, onirico come quello
su Lady Diana, si posiziona a metà. Elegante e asimmetrico, racconta
la vita pubblica, quella privata e, soprattutto, quella immaginata.
Messi in scena in una Parigi autunnale di rara malinconia –
un'unica nomination, Miglior fotografia –, gli ultimi giorni del
soprano ne fanno un'eroina tragica degna delle arie che intonava.
Nella sua testa si agitava un teatro inarrestabile, popolato di
pulsioni irrazionali e vecchi fantasmi. Si può chiudere la porta al
passato, se implica escludere anche la musica? Soltanto una diva
poteva interpretare una diva. Jolie, scandalosamente snobbata ma in
stato di grazia, ne adotta gli accessori e i costumi, il desiderio di
adulazione e i vezzi. Per l'autista Favino c'è
sempre un pianoforte da spostare; per la cuoca Rohrwacher, invece,
una prova a cui assistere. Visse d'arte, Maria; visse d'amore. Morì
in solitudine, forse. Ma a modo suo. (7,5)
Da
grandi film derivano grandi responsabilità. Avrebbe dovuto saperlo
bene Robert Eggers, presto salutato come nuovo paladino dell'horror
d'autore. Troppo presto, mi domando con il senno di poi? Verrebbe da chiederselo, infatti, davanti a Nosferatu: la sua opera più ambiziosa, ma, per
forza di cose, la più derivativa. Quella che maggiormente avrebbe
avuto bisogno di uno sguardo personale, di un immaginario nuovo, di
una rinfrescata nella forma e nel contenuto. La trama è la solita: un agente immobiliare viaggia fino al Transilvania, assoldato
da un conte misterioso; peccato che quest'ultimo sia un vampiro centenario ossessionato dalla fidanzata del protagonista, una fragile
sposina tacciata d'isteria. Oscuro ed elegante come il genere
comanda, impeccabile nelle scenografie e nei costumi –
meritatissimi gli eventuali premi tecnici –, è un sogno gotico
che non diventa mai un incubo. Più fedele del previsto al materiale
di partenza, rilegge la storia in una vaga chiave psico-sessuale e
regala al conte Bill Skarsgård un paio di baffoni subito da ridere. Lily
Rose Depp, insopportabile e sgraziata, si agita, sbava e si dimena in
un perenne overacting; convincente soltanto Nicholas Hoult, in
missione di salvataggio insieme agli abbozzati Willem Dafoe e
Aaron Taylor-Johnson. L'ultimo Nosferatu è antiquato, non retrò.
Tedioso, esangue, senza linfa da succhiare. Eggers, questa
volta sei stato solo la copia di mille riassunti di un plagio di Stoker.
(5)
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