venerdì 13 giugno 2025

Recensione: Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo

| Amarsi in una casa infestata, di Matteo Cardillo. Mercurio, € 19, pp. 264 |

In X, primo capitolo della trilogia cinematografica di Ti West, c'è una sequenza in cui la terrificante Pearl — ormai anziana, ma non per questo meno sanguinaria — si intrufola nel letto della pornodiva Maxine. È attratta dal suo calore, dalle sue carni sode ed elastiche, dalla sua giovinezza. Gli spettri del romanzo d'esordio di Matteo Cardillo provano la stessa fame struggente verso la vita che hanno lasciato. È per questo che si concentrano a Bologna, la città universitaria per antonomasia, al piano terra di un palazzone in stile Liberty aperto agli studenti. Mentre un'estate implacabile svuota le strade della città e i mandarini imputridiscono sui rami, nell'appartamento di Viale XII giugno si snodano le esistenze e le relazioni degli inquilini. Storie di sesso e tradimenti, di crisi personali e lavorative, che ben presto rianimano dal sonno eterno gli antichi abitatori. Il risveglio sensoriale di Amarsi in una casa intestata, a confine tra il romanzo di formazione e la ghost story, tra il desiderio e l'orrore, contagia anche i morti.

Ci saremmo di nuovo baciati con affetto come facevamo un tempo, sulle spalle, sulle clavicole, dicendoci ti amo, rispondendoci ti amo anch'io, perché in quello spazio fuori dal tempo, quel luogo della notte, nel tempo dei morti, tutto vale e tutto esiste ancora e non esiste più, e così anche i noi due di una volta.

Aggrappato a quel che resta dei vent'anni e a una relazione ormai al capolinea, il protagonista — per tutto il tempo senza nome — diventa un diapason per gli spiriti intrappolati dietro le pareti e, soprattutto, la voce di una generazione in cerca di risposte: la mia. Alle pareti ci sono poster di Argento. Le sorelle Morelli, le enigmatiche proprietarie di casa, somigliano alle dame velate dei film di Plaza e Balagueró. La campagna emiliana della medium Beniamina è la stessa del capolavoro di Avati. Con una scrittura personale e magmatica, Cardillo attinge a piene mani al cinema di genere, di cui è dichiaratamente fan, ma non dimentica che il linguaggio dell'horror ben si presta alla metafora. Tra le pagine, così, l'autore pugliese ospita un dolente giro di vite dove presente, passato e futuro si confondono e gli amanti abbandonati, insieme ai traumi rimossi, scivolano inesorabilmente nell'intercapedine dei nostri ricordi. Esiste forse tragedia peggiore della bellezza sciupata? I fantasmi ci spiano dalle porte a vetri, scavano nella carta da parati, picchiano contro i muri. Un po' ci tormentano e un po' ci consolano — vittime come siamo del precariato, della schiavitù delle app d'incontri, degli strascichi fisici e psicologici del Covid-19. Sarà proprio il loro fiato gelido a ricordarci che siamo caldi. E vivissimi. Tanto vale, allora, lasciare che i lamenti si confondano coi gemiti di piacere. E dormire insieme, popolando il buio di carezze, per scoprirsi meno estranei e spaventati di quanto non fossimo la notte prima.

Il mio voto:  ★★★★
Il mio consiglio musicale: Matia Bazar – Elettochoc

martedì 3 giugno 2025

Per trenta minuti: Dying for Sex | The Studio | Overcompensating | The Four Seasons

Può una miniserie sulla morte scoppiare di vita? È la scommessa, vinta, di Shannon Murphy. Già premiata a Venezia per Babyteeth, la regista torna a declinare la malattia in chiave umoristica trasponendo la storia vera di Molly Kochan: quarant'anni, due tumori, nessun orgasmo, abbandona il marito imbelle pur di realizzare i suoi desideri più inconfessabili. In francese, d'altronde, chiamano l'orgasmo così: petit mort. Dovremmo quindi stupirci se assisteremo al sesso più libero e pazzo dell'anno in Dying for Sex, storia di una malata al quarto stadio, anziché nel patinato Babygirl? Tragici e spregiudicati, gli otto episodi seguono l'odissea della protagonista dalla diagnosi fino all'ultimo respiro, senza mai staccarsi dal viso di una Michelle Williams radiosa come non mai — sarà colpa della radioterapia? In scena: l'assoluta centralità del corpo femminile. Nel piacere. Nel dolore. Vittima di abusi da bambina, continuamente in balia dei medici da adulta, Molly esercita il pieno dominio di sé stessa soltanto nelle vesti di mistress. Tutto è scoperta, perfino i kink più assurdi, ma potrebbero esserci effetti collaterali: rompersi il femore prendendo a calci gli attribuiti del vicino di casa, ad esempio, o finire per innamorarsi di lui. Ma quella diretta da Murphy è soprattutto una grande storia di sorellanza: l'amicizia tra Williams e l'inseparabile Jenny Slate si candida a rimanere la storia d'amore più struggente dell'anno. (8,5)

Immaginate di poter conoscere i meccanismi produttivi di un immaginario studio cinematografico a Los Angeles. Il responsabile, un Seth Rogen strepitoso come non mai, è un sognatore sprovveduto  e pasticcione che vorrebbe conciliare cinema d'autore e film commerciali. È possibile, però, tra acquisizioni, problemi di budget e pressioni crescenti da parte di pubblico e media? Il cinema è cambiato. È in crisi? Se sì, quanto è grave? A metà tra Boris e Call my Agent, Apple produce una delizia metacinematografica sui retroscena più folli del microcosmo hollywoodiano. Se i Continental Studios contano in squadra anche gli iconici Bryan Cranston, Catherine O'Hara e Kathyn Hahn, il resto del cast vanta cameo non da meno: registi (Scorsese, Howard, Polley, Wilde, Snyder) e attori (Kravitz, Franco, Lee, Efron) sulla cresta dell'onda, infatti, si prestano con autoironia a una satira che si prende estremamente sul serio. Senza mai dimenticare i fasti dei Golden Globe e del CinemaCon, The Studio mostra la frustrazione dei piani sequenza, gli inconvenienti della pellicola, i casting al tempo del politicamente corretto, le guerriglie interne e le mancata riconoscenza. Il tutto con dialoghi fluviali e una regia elettrizzante, che somiglia a un'improvvisazione jazz di Damien Chazelle. (8)

Tornate indietro a quindici anni fa. Su MTV andavano in onda Blue Mountain State, Hard Times, Faking It. Eravamo felici e lo sapevamo. Coprodotta da Amazon e A24, la serie scritta e interpretata dal brillante Benito Skinner è un atto d'amore alle commedie universitarie di quegli anni. Qui aggiornate, però, in una versione immancabilmente più gentile, inclusiva, queer. Tante le partecipazione delle icone televisive del passato: James Van Der Beek, Connie Britton, Kyle MacLachlan. Immancabili, ma questa volta con autoironia, gli attori trentenni chiamati a impersonare un gruppo di matricole. Ambientata all'incirca nel 2014, vanta poster di Megan Fox alle pareti e una colonna spudorata dove Britney, Lady Gaga e Charli XCX guidano i protagonisti tra feste, sesso e segreti. Per quanta lieve ed esilarante, la serie ha un titolo che è tutto un programma: sovracompensazione. Chi non ha mai mentito per aderire alle aspettative del prossimo? Tutti, non soltanto il protagonista gay, nascondono non detti e fragilità private. Tutti, perfino i cattivi di turno, sono vittime delle pressioni sociali e degli stereotipi. Riusciranno, tra una risata e l'altra, a liberarsi delle maschere superflue – e dei vestiti? E noi, riusciremo? (7,5)

Dopo l'esageratissima Unbreakable Kimmy Schmidt, Tina Fey torna come sceneggiatrice e interprete di una nuova dramedy approdata su Netflix sotto silenzio – almeno in Italia. Questa volta più amara e misurata che in passato, vicina alle atmosfere del cinema di Woody Allen, raduna tre coppie di amici di mezza età mostrate in quattro diverse stagioni dell'anno e della vita. Nonostante vantino matrimoni longevi, nessuno è al sicuro: la crisi dei cinquant'anni minaccia di mettere in forse vacanze, relazioni, amicizie. Fey patisce l'apatia del marito, Will Forte; Colman Domingo trova soffocanti le moine dell'iperprotettivo Marco Calvani – che rivelazione, quest'ultimo –; e poi c'è Steve Carell, sempre immancabile, sempre più fascinoso, che all'indomani di un anniversario in pompa magna abbandona la moglie Kerri Kenney-Silver per una trentenne. La trama non è tra le più originali: anzi, si ispira all'omonimo film degli anni Ottanta. Tutto è estremamente classico, ma altrettanto ben scritto. Tutti sono privilegiati, annoiati, ciarlieri, come nei migliori romanzi di Peter Cameron, eppure è matematicamente impossibile non volere loro bene. Occhio all'episodio finale, però: dopo tanta leggerezza, un colpo di scena da crepacuore è in agguato. (7)