Qual
era il segreto del bestseller sulla bocca di tutti, che nel giro di
un anno si è trasformato con geometrica precisione nella miniserie
di cui tutti parlano? La giovane Sally Rooney, autrice destinata a
dividere e a far chiacchierare, a ben vedere ha un titolo
bugiardo. Di normale, infatti, questi Connell e Marianne non hanno
niente. La trasposizione Hulu mette in scena l’eccezionalità. Dei
baci umidi e dei corpi aggrovigliati. Di interpreti esordienti così
naturali da confondersi con i personaggi di finzione. Degli amori
ottusi che non sanno dichiararsi per paura delle etichette.
Romanticissimo, struggente, per me destinato a diventare un cult
generazionale, Normal People trova sul piccolo schermo i toni
sommessi del cinema indie e una macchina da presa – per metà della
durata è quella di Lenny Abrahmson – che respira addosso ai
protagonisti, tanto sono indagatori i primi piani. Il romanzo mi è
piaciuto, ma la miniserie molto di più. Lei, pallida e minuta,
ostenta forza e sicurezza: ha paura di essere amata. Lui si sbottona
di rado, risponde laconicamente, e ogni gesto smentisce il suo corpo
muscolosissimo: non è forte come appare. L’uno alla mercé
dell’altra, si influenzano, si prendono, si lasciano. Si
rincorrono. Complicatissimi, sempre litigati e spesso nudi, Paul
Mescal e Daisy Edgar-Jones – lui spigolosissimo, lei un
incrocio tra Anne Hathaway e Alicia Vikander destinato a fare
innamorare – parlano con gli occhi e con i silenzi. Al liceo,
all’università, su Skype. Li guardi, e davanti alle frequenti
scene di passione ti sorprendi a non provare mera eccitazione
sessuale, ma un’invidia profonda per la bellezza che sprigionano.
Come faranno mai? Cronaca straordinaria di un amore ordinario, Normal
People rivive in tutta la sua piccola epicità in una produzione
così compiuta e perfetta da sembrare un’epopea dei giorni nostri.
Al tempo dell’Interrail, dell’Erasmus, della friendzone, dei
social network. Parlerà anche a chi è fuori target. Purché abbia
ancora un animo fragile e irrequieto. Purché, in nome dell’empatia,
sia disposto a farsi stracciare il cuore in minuscoli frammenti
soffiati poi nei cieli d’Irlanda. (8,5)
Villette
a schiera, conflitti generazionali, segreti. Ricordando sin da premesse le ambientazioni di Desperate
Housewives, il secondo romanzo di Celest Ng non poteva che
prestarsi meravigliosamente a una trasposizione televisiva.
Leggendolo ne avevo intuito pregi e limiti
nonostante l’uso magistrale dei diversi punti di vista. Ma il
finale annunciato sin dal prologo, il troppo spazio dato agli
adolescenti rispetto alle figure genitoriali e qualche cliché di
troppo nel descrivere la perfezione della famiglia Richardson mi
avevano fatto storcere il naso. La serie, in arrivo su Amazon Prime
Video nei prossimi giorni, è la gradita riconferma della qualità delle proposte Hulu. Ancora una volta, un’eccezione alla
regola che prende il materiale di partenza e lo migliora, quasi sulla
base dei dubbi sollevati nella mia recensione. La trama, in
realtà, è fedelissima. In un quartiere residenziale arrivano una
fotografa girovaga e la figlia adolescente a seminare zizzania. Come reagiranno gli abitanti, se l’ultima arrivata
esercita un magnetismo inspiegabile? Restano i
bracci di ferro, i ritratti incandescenti di due – anzi tre –
maternità agli antipodi, i tratti peculiari che rendevano i
personaggi già vividissimi su carta. Ma la serie approfondisce con i
salti temporali e con le aggiunte a margine, indicando un nuovo
responsabile per gli incendi del titolo e regalando alla prezzemolina
Reese Whiterspoon l’ennesimo ruolo da premiare: molto più della
classica mamma chioccia a cui ci ha abituati, garantisce al suo
personaggio momenti di vulnerabilità nei lunghi flashback e nel
vagheggiamento di una relazione adulterina. La sua vita idilliaca è
stata costruita su una (non) scelta. Agli antipodi del ring abbiamo
Kerry Washington: elemento perturbante che, sarà per l’antipatia
del ruolo, sarà per un eccesso di smorfie e grugni incolleriti, si
lascia però rubare la scena dal personaggio all’apparenza più
convenzionale. Non è tutto oro quel che luccica. La confezione, a
ben vedere, a volte è sin troppo televisiva e laccata. Il già
visto, me ne accorgo anche scrivendone, è di casa. Ma se la carne è
tanta, se lo scontro tra prime donne solleva tutt’intorno fumo e
scintille, come non lasciarsi incuriosire dallo spettacolo
distruttivo ma rigenerante del fuoco vivo? (7+)
Nel
1932 una giovane, tagliata fuori da un film, si suicida gettandosi
dall’insegna iconica che sormonta le colline di Hollywood. Si chiamava Peg.
La sua storia, verissima, è purtroppo comune a tanti giovani che non
ce l’hanno fatta. Nell’immediato dopoguerra un regista decide di
ricordarla con un esordio alla regia che punta a rivoluzionare il
mondo dell’intrattenimento: della troupe faranno parte uno
sceneggiatore afroamericano e omosessuale, una protagonista di
colore, un protagonista che sbarcava il lunario come gigolò, una
produttrice all’improvviso ai vertici del potere. Non aspettatevi
una serie verità. Pur mostrando i retroscena più sordidi, pur
mescolando personaggi fittizi a personaggi reali, l’ultima fatica
dell’inarrestabile Ryan Murphy è ciò che il sopravvalutato C’era
una volta a Hollywood è stato per Quentin Tarantino: un’utopia
in cui celebrare le diversità, i finali lieti, le svolte
alternative. Quanta ricchezza hanno apportato al cinema le minoranze
etniche, la comunità LGBTQ, l’intuito femminile? Il solito Murphy,
con un’anima queer, colorata e sognante, si circonda di un cast di
bellissimi – il lato estetico, inutile negarlo, ha la meglio sul
talento effettivo: David Corenswet e Laura Harrier sono tanto
attraenti quanto pessimi, mentre Darren Criss e Samara Weaving
appaiono poco sfruttati –, e lascia ai comprimari della vecchia
guardia – gli straordinari LuPone e Mantello, uno sorprendente
McDermott e infine Parsons, che s’impegna invano per liberarsi
dalla macchietta Sheldon Cooper – il compito di distrarci dagli
inciampi dei giovanissimi con il loro sfavillio. In questa Los
Angeles femminista, multietnica e gay friendly il buonismo è sempre
dietro l’angolo, ma lo si tiene a bada fino a un finale
smaccatamente lieto: a malincuore, la parte peggiore. Nel sogno di
Murphy, eppure, c’è una poesia particolarmente commovente; un
antidoto contro il cinismo dei tempi correnti che non riesce a
fronteggiare purtroppo gli eccessi delle pubblicità progresso. Nel
tentativo di preservare la purezza di Rock Hudson – un simbolo,
così come Sharton Tate lo fu per Tarantino –, Hollywood
spicca il volo per l’iperuranio e perde qualsiasi attinenza con il
reale. La favola, invece, piace quando ci appare plausibile: una
speranza a portata di mano. Di ritorno da questo mondo che non
c’è, e che forse non c’è mai stato, sentirete comunque
nostalgia. (7)
Mi hai incuriosita davvero riguardo Normal People. Ho deciso: leggerò prima il romanzo, e poi vedrò il telefilm 🥰🥰
RispondiEliminaBuona lettura allora!
EliminaCondivido, anche a me attira Normal people, lo recupererò. Complimenti leggo spesso le tue recensioni, hai ottimi gusti!
RispondiEliminaMa grazie mille, Lory!
EliminaMi spiace ammetterlo, ma a qualche settimana dalla fine Normal People non mi è rimasto come pensavo, o almeno, non come è rimasto a te :)
RispondiEliminaColpa della difficoltà a farmi piacere i personaggi, delle tante scene di sesso che in alcuni momenti mi hanno fatto sospirare un "ancora?" più che un "finalmente". Restano due attori da tenere d'occhio e una regia davvero suggestiva ed emotiva.
Pure Little Fires non ha acceso i miei entusiasmi, e sempre per colpa di personaggi irritanti, motivo per cui mi sto tenendo lontana da Hollywood: l'ennesimo progetto di Murphy che troppo fa e che non sa gestire fino alla fine mi interessa poco. E anche tu ne sottolinei i difetti. Vista l'ondata di nuovi e vecchi titoli da vedere, lo lascio in un angolo per il momento.
Mi dispiace che Normal People non ti abbia entusiasmato, io devo proprio unirmi ai plauso dell'Instagram. Resterà una (la?) delle serie del 2020.
EliminaDi Normal People dopo 3 episodi il mio bilancio è molto meno positivo del tuo. Sto facendo una gran fatica a sopportare i due protagonisti, ma magari con le prossime puntate, se riuscirò a vederle, cambierò idea...
RispondiEliminaCon Little Fires Everywhere invece è stato amore dall'inizio alla fine.
Hollywood avrebbe avuto tutte le carte in regole per emozionarmi però, forse proprio nel suo strafare, l'ho trovato piuttosto freddino. Mi aspetto un Ryan Murphy più cattivo al lavoro su Scream Queens 3. :)
Sei ha un quarto degli episodi, cosa aspetti?!
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