Si sarebbe potuto chiamare Mal d'Italia. Ho scoperto questa definizione leggendo del senso di smarrimento di Daniela, badante romena a Milano, e dei suoi familiari lasciati indietro. Questa sindrome affligge innumerevoli paesi dell'Est, popolati esclusivamente da bambini, adolescenti e uomini: le donne di casa sono infatti andate via all'improvviso per prendersi cura degli altri, altrove; per provvedere alle spese della famiglia con uno stipendio guadagnato lontano, tra razzismo sottile e insopportabile nostalgia. La storia della protagonista di Marco Balzano è la storia di tante straniere che affollano le nostre città. Orgogliose, robuste e coriacee, scortano anziani a braccetto; sono in fila alle poste, al supermercato o in farmacia, mentre ascoltano le direttive dei datori di lavoro al cellulare; siedono sulle panchine dei parchi, con un contenitore di cibo speziato sulle ginocchia, e si guardano intorno in cerca di accenti amici. Daniela è fuggita dalla Romania nel cuore della notte, senza salutare nessuno: ha lasciato un biglietto per rendere l'arrivederci meno straziante.
La guardo sempre con la stessa rabbia e la stessa delusione, la casa. La mia famiglia sono questi calcinacci.
Si lascia alle spalle una coppia di genitori cagionevoli, un marito sfaccendato, due figli giovani schiacciati dalle responsabilità e una casa da ristrutturare: la mansarda smantellata sarebbe da risistemare; sarebbe bello inoltre pitturare, riarredare, rimodernare, per trasformare la proprietà in un piccolo agriturismo. Daniela impara la lingua delle medicine, delle malattie, dei principi attivi, e nel tempo libero si diletta a cercare parole più poetiche sul dizionario. Sconsolata, all'inizio del romanzo torna a casa d'urgenza: in sua assenza, la famiglia è andata in malora. Che senso ha badare al prossimo quando nessuno ha badato ai suoi cari? Alla luce di questa contraddizione, Balzano costruisce un romanzo con un difetto evidente alla base: la storia di Daniela è la storia di tante donne, e lui non sembra far niente per mostrarcela con occhi diversi. La sua esistenza ai margini è fatta di ambienti umili e spartani, di minestre e candeggina, di una pioggia sottile e tagliente che ispira mestizia. Il dramma senza fondo della protagonista – forse il personaggio meno interessante del romanzo – per fortuna viene smorzato grazie ai figli, che portano punti di vista diversi e a me vicinissimi.
Forse nella vita si rincorre la vita.
Manuel e Angelica sono arrabbiati, si sentono traditi. Su Skype non sanno bene cosa raccontare a quella madre di cui non comprendono le ragioni. I silenzi astiosi si allungano, le parole diminuiscono, il malcontento cresce. Manuel, al primo anno di liceo, colleziona brutti voti e patisce la sindrome d'abbandono: frequenta compagnie turbolente e spinge al massimo il motorino truccato. Angelica, il personaggio che ho di gran lunga preferito, è una studentessa brillante e un'instancabile bestia da soma: per pensare ai familiari ha taciuto su tante cose, compresa la sua vita sentimentale. A loro spetta il compito di migliorare le sorti del romanzo, soprattutto in un finale davvero perfetto. Dopo un intermezzo lungo e canonico, infatti, Balzano sorprende con delicatezza in un'ultima parte insolitamente armoniosa, fatta di balli folkloristici, frutta secca e boomerang. Lontano dalle tragedie di Orfani bianchi di Antonio Manzini, Quando tornerò è una lettura sensibile, delicata e piena di dignità. Il ritratto di una famiglia in frantumi che nei giorni buoni sa indossare gli abiti eleganti e riunirsi sotto un pergolato. Perché l'amore non è sempre un lusso per pochi. Dopo il più memorabile Resto qui, Marco Balzano torna con un romanzo diverso sin dal titolo: una storia giocata non sulla strenua resistenza delle stelle fisse, ma sugli andirivieni di mamme che sono meteore passeggere. Ma restare è una lezione comune, che si impara come l'italiano dei quotidiani online e delle canzoni di Vasco Rossi.
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli – L'abitudine di tornare
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