martedì 2 aprile 2024

Recensione: Day, di Michael Cunningham

| Day, di Michael Cunningham. € 22, pp. 320 |

Si può scrivere una saga familiare lunga un giorno? È la sfida di Michael Cunningham, autore premio Pulitzer di cui finora mi avevano scoraggiato, a torto, l'aria impegnata e i temi ostici. Suonerà dunque ingenuo il mio stupore ai fan della prima ora, ma tant'è: quanto è arguta, elegante, luminosa la sua scrittura? Con uno stile magistrale, accostabile a quello di Leavitt e Cameron, costruisce un dramma borghese in tre atti (mattina, pomeriggio, sera), ciascuno ambientato il cinque aprile di tre anni contigui. La lente di ingrandimento dell'entomologo Cunningham è puntata sulle dinamiche del microcosmo familiare Walker-Byrne. Sono progressisti: i bambini portano sia il cognome paterno che quello materno, proprio come i piccoli Vittoria e Leone sui social. Sono piacenti, privilegiati, bianchi: acquistano prodotti biologici al mercato e fantasticano di trasferirsi in campagna. Sono gay friendly: non soltanto vogliono sapere tutto delle vita sentimentale dello zio Robbie, da poco mollato dal fidanzato, ma sono un po' tutti innamorati di lui. È infatti Robbie, insegnante elementare senza particolare vocazione, a fare da cardine e paciere; è Robbie a raccogliere le confessioni della sorella Isabel, donna in carriera sull'orlo di una crisi di nervi, e del cognato Dan, ex rocker che, con risultati patetici, tenta di risalire sulla cresta dell'onda, nonostante la stempiatura incipiente e la pancetta da casalingo. Accoccolati nel medesimo nido anche i nipotini Nathan e Violet: l'uno irrequieto e ribelle davanti a una pubertà che fatica a palesarsi; l'altra sorprendentemente intuitiva, forse anche un po' maga, ma strizzata in un vestitino da principessa che ormai non le sta più

Robbie voleva disperatamente essere amato, il sistema più efficace, lo vede benissimo col senno di poi, per far sì che l'amore gli venisse quasi universalmente negato da tutti, all'infuori dei suoi familiari.

All'inizio siamo a Brooklyn, all'alba di una doppia crisi: Robbie sloggia, il Covid è alle porte. Poi, col mondo in lockdown e il protagonista irrimediabilmente bloccato in Islanda, li vediamo alle prese con “l'agghiacciante intimità” della convivenza forzata: connessi col mondo, disconnessi da loro stessi, si trincerano dietro gli smartphone o le cuffiette; le sirene delle ambulanze, intanto, coprono le liti abbozzate e le chiacchiere di circostanza. Il capitolo finale, invece, ce li svela al crepuscolo: lo scenario è bruscamente cambiato. Saranno riusciti a sopravvivere al presente? Dialogatissimo, Day contiene gli scambi di battute del miglior teatro di prosa e una sintesi dei nostri dispiaceri grandi e piccoli. Mai sopra le righe, non scade nel melodramma: ci sono le ipocondrie giornaliere, le quiete rivoluzioni, i traumi inevitabili delle famiglie ordinarie di ieri e di oggi. Perfino la crisi coniugale tra Isabel e Dan non conta piatti lanciati o recriminazioni: si sono semplicemente “lasciati sfuggire l'amore”, e l'amara consapevolezza pietrifica lei sulle scale e lui in sala prove. Con la speranza che i bambini, da proteggere, non subodorino già tensioni.

Isabel è imbarazzata dalla propria tristezza. È imbarazzata dall'imbarazzo per la propria tristezza, lei che può contare su amore e denaro. […] Si chiede se uno spleen decadente non possa, a suo odo, essere peggio di un'autentica, conclamata disperazione. Il che, come lei ben sa, è un interrogativo decadente da porsi.

L'autore riordina pensieri, parole, opere, omissioni attingendo a un lessico di straordinaria ricchezza. Ma, per il resto, senza intromettersi a gamba tesa, lascia questa famiglia al suo originario, ordinario caos. Ne verranno mai a capo, dopo aver superato continue prove di coraggio? La perfezione non esiste. Non esistono cieli tersi nello smog newyorkese. Quello in bella mostra in copertina, con tanto di simmetrica nuvoletta al centro, è un falso: potrebbe provenire dall'immaginario profilo Instagram che Robbie si diverte a gestire, plasmando dal nulla l'esistenza di un belloccio d'invenzione. I fake ci seducono. Sogniamo vite da film: anzi, da libro. Poi leggiamo romanzo come questo e, sorpresi, ci accorgiamo che niente è più incantevole di una quotidianità che si fa specchio della nostra. Anche qui, anche ora, possiamo riempire una macchina di giunchiglie e giacinti; andare a vedere il secondo gomitolo di spago più grande al mondo; trasferirci dentro il set di una fotografia. Mettendoci finalmente in posa, però, dall'altro lato dell'obiettivo. È il nostro momento. È il nostro giorno.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Gazzelle – Tutto qui

4 commenti:

  1. Ho visto da poco sugli scaffali questo libro ed ero tentata memore del suo primo libro tanto discusso che non ho letto ma di cui ho visto tempo fa il film. Successivamente sentii molto parlare dell'autore e del suo libro. Considerato il punteggio che gli hai riservato lo prenderò in considerazione certamente.
    Anche il libro del tuo precedente post mi aveva attratto molto il titolo ma vedo non ha ricevuto successo a quanto pare.

    In merito a una tua precedente risposta sul post Oscar, contenta del tuo viaggio a Budapest che è davvero bella, ci sono stata e se recuperi Il figlio di Saul fai sapere, buona vita Michele!

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    1. Ciao Lory! Anche se in ritardo, complice una connessione ballerina e un altro viaggio (questa volta in bassa in Germania, con due classi), ti leggo. Cunningham piacevolissima scoperta: leggerò altro di suo entro l'anno. E che piacere vedere l'altro titolo di cui parli, il Fazi, nominato al premio Strega Europeo.
      Un abbraccio!

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  2. Sembra il soggetto perfetto per una serie HBO. Almeno prima della svolta fantasy/apocalittica degli ultimi anni

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    1. Farebbe un figurone. Soprattutto mollando questi cavolo di fantasy.

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