In una vecchia casa di legno, in una Norvegia sferzata dal vento di un inverno perenne, un vecchio si racconta. Le assi di legno scricchiolano, ma le sue ossa stanche di più. Indolenzito, forse gravemente malato, si è forzato a tagliarsi la barba, a indossare camicia e pantaloni eleganti, a camuffare il sentore di alcol della bocca. Come il patriarca della famiglia Usher in un classico dell'horror di Edgar Allan Poe, braccato dai cani neri del sensi di colpa, dialoga con gli spettri del passato e attende ospiti con cui sgravarsi la coscienza: i suoi ragazzi sono ormai irriconoscibili, lontani. La verità li renderà finalmente liberi? O li rovinerà definitivamente? È una storia d'amore e morte, la sua. Una storia di ottusa resistenza al progresso, percepito alla stregua di una donna lasciva e provocante. Abbarbicato nella parte alta della valle, chiuso a qualsivoglia novità, in gioventù ha trasformato quel paesaggio di troll e altre leggende folkloristiche in un nido da proteggere. Con lui lo divideva l'amata Ingeborg: la donna, infermiera traboccante di vita e stimata da tutto il paese, amava le giornate di sole e i cespugli pieni di bacche.
Quando due persone si incontrano e cadono uno nelle braccia dell'altra, allora la terra trema e succedono cose meravigliose.
Il loro era un matrimonio appassionato, nonostante le diversità caratteriali, ma la donna si era improvvisamente incupita dopo la partenza della prole per l'università. Da quando non è più tornata da una passeggiata nella brughiera, tutto si è perso. Anche il rapporto con i figli biologici: il maschio remissivo e melenso; la femmina attivista e bisessuale. Per fortuna c'è Oddo, affetto da un grave ritardo intellettivo, che dorme nella stalla e cuce reti da pesca: cresciuto come un terzo figlio, è l'unica persona su cui Tollak riversa la poca tenerezza posseduta. Per fortuna c'è ancora e per sempre, nonostante tutto, Ingeborg: un fantasma seminudo nella camera da letto; il pupazzo di un ventriloquo, la cui voce risuona come la coscienza dello stesso protagonista. C'è qualcosa di marcio nel romanzo di Tore Renberg. Di marcio e attraente. Potentissimo e oscuro, fitto di segreti agghiaccianti, somiglia più a una confessione che a una rimpatriata familiare. Lo esemplifica ad arte la copertina italiana, in cui due sagome intrecciate in un tango della gelosia galleggiano su uno sfondo rosso passione; rosso sangue. La mia Ingeborg somiglia preoccupantemente a una delle tante notizie di cronaca, ma si legge con la fascinazione dei classici del gotico. Il protagonista, sfidando la lingua impastata dagli alcolici e la reticenza dei montanari, non vuole preti alla sua presenza. Non crede nello spauracchio del paradiso e, sibila acidamente, non ci crederà neanche nell'ora fatale. Tuona, così, contro la scomparsa delle segherie; le bugie dei giornali e della TV; i cellulari che ipnotizzano e rintronano i nipotini; gli sconvolgimenti climatici, i ristoranti etnici, gli uomini troppo effeminati. Con una voce simile a un coltello nelle costole, ci renderà tutti complici di un narratore magnetico ma irredento. Dirà tutta la verità, nient'altro che la verità. E mai in sua difesa.
Il mio consiglio musicale: CCCP – Amandoti
Non sono un grande fan del gotico, né dei thriller nordici, quindi mi sa che passo :)
RispondiEliminaOcchio, ché è anche tra i cinque romanzi nominati al Premio Strega Europeo! ;)
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