È
uscito il 29 febbraio. Estranei,
rarissimo, somiglia al suo anno bisestile: è un paradosso
spazio-temporale, un'eccezione alla regola, una seconda opportunità.
L'ultimo Andrew Haigh non fornisce bussole. A guidarci abbiamo solo
gli occhi di Andrew Scott: uno sceneggiatore che non ha mai elaborato
l'incidente in cui sono morti i genitori, né un'omosessualità
vissuta con spavento. Il suo vicino, Paul Mescal, appare invece più
disinibito: figlio di un'altra generazione, preferisce definirsi
“queer” e usa la sua fisicità come arma di seduzione. I
protagonisti si leccano le ferite sulla soglia di un grattacielo
vetrato fingendo che il mondo non sia loro precluso; credendosi
irraggiungibili. Preferendo infine la vulnerabilità alla solitudine,
uno straordinario Scott ci conduce nella casa in cui è cresciuto:
per diventare un uomo vero ha bisogno di fare pace con il bambino che
è stato; di dichiararsi ai genitori, anche se morti; di mettere il
solito angelo in cima all'albero di Natale, anche se gli spettri di
mamma e papà non riescono a essere sereni. Il protagonista
inconsolabile, chiamato tuttavia a consolare i vivi e i morti,
minimizza. Va tutto bene. È acqua passata. Ma intanto ho pianto
mentre lui piangeva. L'illusione di ordine interiore è stata
spezzata via dalla consapevolezza che alcune mancanze non soltanto
restano, ma lasciano voragini che risucchiano tutto: anche l'amore?
Alcuni nodi in gola non si sciolgono mai. Alcune lacrime non si
asciugano. Sono destinate a seccarsi in faccia e sui cuscini,
rendendo scomodissimo un letto da condividere. Non si smette mai di
sentirsi orfani. Per fortuna si dividono le notti in bianco con
Mescal: queste volta, misterioso come in Aftersun ma
meno sfuggente, è disposto a farsi stringere dopo un giro di pista
in discoteca. E gli abbracci che finalmente si chiudono ci
risarciscono così dei cerchi rimasti a metà, dei nodi insoluti,
delle solitudini non fugate, in un capolavoro sull'accettazione che,
come un vampiro alla nostra porta, ci svuota per farci sentire più
pieni. (9)
Quattro
fratelli, educati all'eccellenza dal padre manager, vivono e muoiono
di wrestling. Tratta da una vicenda talmente struggente da apparire a
tratti frutto d'invenzione, l'epopea sportiva della famiglia Von
Erich è una tragedia senza scampo che non romanticizza né i loro
trionfi né le loro sciagure. Coperti da una corazza di muscoli, i
protagonisti s'illudono che niente potrà colpirli: neanche la
presunta maledizione che aveva già ucciso uno di loro, il
primogenito, all'età di sei anni. In casa si cresce seguendo i dogmi
della religione cattolica e della mascolinità tossica. Sul ring,
così come in privato, è vietato piangere. Ogni talento, dalla
musica alla pittura, va represso: esistono soltanto lo spirito di
competizione e l'agonismo sfrenato. Ormai abituato a raccontarci
grandi storie di prigionia fisica e psicologica, Sean Durkin ci
mostra la vulnerabilità di quattro lottatori che si immaginavano, a
torto, invulnerabili. Ne viene fuori un dramma asciutto, classico,
solidamente vecchio stile, in cui Zac Efron è spinto al meglio e
all'eccesso: The
Iron Claw avrebbe
meritato la nomination a Miglior Film ben più di altri candidati.
Messo ai margini prima dal genitore ingombrante, poi da quei fratelli
minori più intraprendenti e carismatici, Efron si rivela essere il
cuore emotivo di una storia in cui non dovrebbe esserci spazio per
l'emozione. Non è cosa da uomini tutti d'un pezzo. Per fortuna, The
Iron Claw ci
racconta anche di una virilità in evoluzione; di una famiglia
patriarcale che, dalla crisi nera, uscirà inevitabilmente plasmata.
Per fortuna, non sono un uomo tutto d'un pezzo. E nel finale, con mio
fratello accanto, mi sono commosso senza vergogna. (8)
A
quasi dieci anni da Carol,
Todd Haynes torna alle grandi dive, alle relazioni scandalose, al
fascino fumoso del melodramma. Benché passato questa volta in
sordina, guadagna comunque una nomination agli Oscar per la Miglior
Sceneggiatura Originale e spiazza con un gioco di specchi
gustosamente metacinematografico ispirato a un caso di cronaca. Negli
anni Novanta, un'insegnante stringe una relazione con un allievo
tredicenne: dopo la galera, si sposano ed hanno tre figli, ormai in
procinto di diplomarsi. Dall'esterno sembrano il ritratto della
felicità. Ma dietro al loro amore, tutt'altro che sano, cosa si
nasconde? Ficcanasa l'attrice indipendente Natalie Portman, come
sempre leziosa e perfetta: chiamata a interpretare Julianne Moore,
qui insolita femme fatale del Sud che sforna torte e maneggia fucili
da caccia, minaccia di scoperchiare un vaso di Pandora per la gioia
dei tabloid. A pagarne le conseguenze sarà soprattutto uno
straordinario e laconico Charles Melton: bambino interrotto, adulto a
metà, regala momenti di sincera commozione in un thriller, per il
resto, troppo algido per conquistare tutti. Incerto negli intenti,
vario nelle citazioni, May
December è
un elegante ibrido al femminile le cui dive, magnetiche, affascinano
come le star della Hollywood degli anni d'oro. Nella società
dell'immagine, siamo tutti voyeur. Ci ossessionano i retroscena, i
biopic, i true crime. Ma la complessità dei fatti sfugge
puntualmente, anche se allo specchio catturiamo i manierismi e il
make-up dei soggetti studiati; anche se, nella passione simulata,
l'eccitazione si confonde a volte con la finzione scenica. La verità
vola via dalle mani, come una farfalla monarca. (7,5)
Votoni esagerati! XD
RispondiEliminaEstranei molto bello, anche se non userei la parola capolavoro, oggigiorno più che mai abusata. Anche da me, LOL
The Iron Claw l'ho trovato parecchio freddo. Nonostante la storia tristissima, non mi ha fatto piangere come avrei voluto. O come ha fatto con te :)
Sarà colpa mia, ma May December proprio non l'ho capito. Non ho capito il senso del film e non ho capito il senso di girare un film del genere :D
Estranei per me già film dell'anno. Anche se, recentemente, ho amato anche Challengers.
EliminaGli altri due mi hanno stupito!
The Iron Claw l'ho trovato troppo drammatico, al punto da risultare parodico. E' una storia vera, ma montata, diretta e raccontata in quel modo pareva una cronaca di sfighe da cumulare una sull'altra, al punto che alla fine, a differenza tua, a me è scappata la risata isterica.
RispondiEliminaQuanto a May December mi trovo d'accordo col Cannibale.