Avete mai immaginato il vostro funerale? I volti dei parenti contratti dalle lacrime, i discorsi commemorativi, la piccola foto sulla lapide. Avete mai fantasticato su come la vita andrebbe avanti, nonostante voi? Matrimoni, nascite, altri funerali ancora. Vi siete mai chiesti, sentendovi soli e incompresi: se io morissi qui, sul colpo, a chi mancherei davvero? L'esordio di Emanuele Aldrovandi è una storia d'amore e perdita costruita su questi interrogativi: nel corso della lettura, diventeranno un'ossessione. Da quando il protagonista è morto in un incidente stradale, la sua compagna sta lentamente venendo a capo del letto disfatto, della libreria disordinata, delle briciole accanto al computer, della mancata maratona di Star Wars. Lui autore teatrale, lei editor, si conoscevano sin dagli anni del liceo. Giovani, affiatati, ironici, avevano un soprannome per ogni amico; la passione per gli Smiths e i Radiohead; l'hobby di passeggiare nei cimiteri. A raccontarceli è il protagonista stesso, che come Casey Affleck in A Ghost Story continua ad aleggiare nella casa che gli è appartenuta. Mentre lui è cristallizzato nel tempo, l'esistenza altrui scorre velocemente: anche quella della sua vedova, che dopo un po' riprende a mangiare, sorridere, amare.
Sarebbe bello poter piegare il tempo in due, come se fosse un foglio di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato. Io potrei essere ancora vivo, nel passato. Attraverso quel buco potrei allungare la mano e stringere la tua, nel presente.
Non vi rivelo come né perché, ma questo insopportabile struggimento, purtroppo o per fortuna, dura poco. Quando lo spunto narrativo sembrerebbe essersi in fretta esaurito, infatti, tutto cambia. Il romanzo si riavvita su sé stesso in un tuffo carpiato e nella seconda metà assume un'altra connotazione, nuova vita (anche a rischio di scontentare qualche lettore). Ma gli interrogativi restano, pronti a tormentarci e a tormentare anche questi amanti per tutto il tempo senza nome. Scritto in seconda persona, privo di una grande evoluzione ma al contempo denso e stratificato, Il nostro grande niente ci riserva salti indietro e in avanti, sogni lucidi e universi paralleli alla La La Land, più domande aperte che risposte preconfezionate. Forte di dialoghi profondamente cinematografici per nitidezza e citazioni, mescola filosofia e fede, sacro e profano. E, seppure nella tragedia, riesce anche a divertire grazie a un narratore polemico e nichilista, intrigato sin dall'infanzia dai come e dai perché, ma disposto a mettere tutto in discussione per le nuove, brucianti consapevolezza che morire gli ha donato: siamo tutti sostituibili, l'attrazione è una reazione chimica, la vita è meccanicismo. Perfino l'amore disperato delle prime pagine, così, viene messo al vaglio: dietro la coppia felice degli inizi c'era predestinazione o soltanto casualità?
Come avevo fatto ad arrivare fino a trent'anni senza impazzire? Voi come fate?
Leggero ma pieno degli interrogativi che tutti noi ci siamo posti, almeno una volta nella vita, Aldrovandi è la voce dei trentenni a un bivio. Quale traccia lasceremo del nostro passaggio su questa terra? Siamo preoccupati dagli sconvolgimenti climatici e dal precariato: non vogliamo figli e, in fondo, speriamo che il mondo smetta di battere insieme al nostro cuore. Siamo cinici, ma sentimentali. Siamo atei, ma affamati d'eterno. Ad aprile farò trent'anni. Se interrogato, risponderei che non credo in niente. Ma ci spero. Ecco, questo romanzo è così: un po' di speranza contro il terrore della nostra finitezza.
Il mio consiglio musicale: Pearl Jam - Just Breathe
Non sembra niente male.
RispondiEliminaE se riesce a essere leggero con un tema non proprio leggero, tanto meglio :)
Leggero, piacevolissimo. Anche un po' troppo per i gusti di uno come me, che ama le tragedia e i mattocini? Nel dubbio, un bell'esordio.
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