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A misura d'uomo, di Roberto Camurri. NN Editore, € 16, pp. 168
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Lo definiscono romanzo per racconti, ma tra me e me ho elaborato
una definizione alternativa per letture che somigliano a questa.
Quelle che entrano nella tua quotidianità a piedi scalzi, in
silenzio, confondendosi con te, gli stipetti della cucina, le
mattonelle a fiori del bagno e le foglie secche in giardino. Quelle a
cui vuoi bene comunque, come si fa con chi in fondo c'è sempre
stato. Costantemente, banalmente, per routine. Ci sono persone che
restano, e ci sono romanzi davanti ai quali non ti dici mai nel
mentre, ecco, che bella pagina, che signor momento, quanto cazzo mi
sta piacendo. Romanzi di poche parole, li chiamo io, come se uno
scrittore – che con le parole crea immagini, gioca – potesse
essere laconico. Un controsenso, no? Poi penso a Kent Haruf e ai suoi
discorsi diretti, non preannunciati mai dai due punti e le
virgolette. Penso a Nickolas Butler, con una scrittura
emozionantissima perché ridotta all'osso, e alle sue amicizie
maschili in cui parlano i gesti pratici: i tacchi degli stivali
piantati a terra, nella polvere della perifera, di chi ha imparato a
restare. A misura d'uomo, esordio narrativo di Roberto
Camurri, è una di quelle storie che stranamente, da qualche anno a
questa parte, mi si addicono. Semplici e concilianti.
Uomini che bevono, uomini che fumano, uomini che masticano liquirizia per smettere, uomini che fanno lavori disprezzati e debilitanti in mancanza d'altra speranza.
Uomini che bevono, uomini che fumano, uomini che masticano liquirizia per smettere, uomini che fanno lavori disprezzati e debilitanti in mancanza d'altra speranza.
Io
però Garibaldi non l'ho mai amato, aveva continuato Giuseppe, ho
sempre detto in giro che mi chiamavo Giuseppe come Mazzini, perché a
me son sempre piaciuti più quelli che ci provano di quelli che ci
riescono.
Io
ho ventitrè anni, non fumo, non bevo, non ho problemi di donne e non
grandi amici. Vivo in una città piccola, sì, ma da cui ogni mattina
partono treni che mi mostrano che esiste, volendo, una scappatoia. Ci
sto così bene, eppure, in compagnia di personaggi tutti vizi e
fragilità, diversissimi da me. Mi piace da morire sedermi sulle
sedie di plastica in piazzetta, davanti all'unico bar aperto.
Ascoltare il disincanto che ancora non so, cedendo dopo i vari dai,
dai ad aspirare tossendo un tiro di Lucky Strike. La provincia
italiana spezza i sogni e imbianca precocemente i capelli. A
trent'anni, a malincuore, si è già vecchi. Lo sanno Valerio, Davide
e Anela, al centro di un'amicizia che decenni dopo si fa triangolo
sentimentale. Lo sanno i deliri di Mario, che grazie alla
perseveranza della compagna Elena sperimenta la lenizione dell'amore.
Lo sanno gli incartapecoriti Giuseppe e Bice, da un lato e l'altro di
un vecchio bancone, legati da un sentimento che non si sono mai confessati e dalla vergogna per un paese che, nel suo giorno di
festa, rivela un'indole ignorante e razzista. Insieme a loro
Maddalena, che sceglie un figlio e la solitudine; lo scrittore Luigi,
di origine eritrea, che assieme a Mario, da ragazzino, pendeva dalle
labbra degli inseparabili Valerio e Davide; una coppia scoppiata
perché sterile che, in sosta sull'autogrill, magari si salva grazie
a una provvidenziale cagnetta di nome Salvo.
Uomini che perdono il pelo ma non il vizio. Uomini che non piangono ai funerali, si sentono in colpa, e alla fine si sciolgono in lacrime per la visione delle margherite in inverno. Uomini che si presentano ubriachi a casa degli amici d'infanzia, ma che cosa vuoi farci: metti in caldo la cena e offri loro il divano-letto. Cattivi compagni che bevono, fumano, ma portano le loro donne al mare. E tanto basta per baciargli a letto anche le cicatrici, anche gli sfregi.
Uomini che perdono il pelo ma non il vizio. Uomini che non piangono ai funerali, si sentono in colpa, e alla fine si sciolgono in lacrime per la visione delle margherite in inverno. Uomini che si presentano ubriachi a casa degli amici d'infanzia, ma che cosa vuoi farci: metti in caldo la cena e offri loro il divano-letto. Cattivi compagni che bevono, fumano, ma portano le loro donne al mare. E tanto basta per baciargli a letto anche le cicatrici, anche gli sfregi.
Gli
sembra che quella pianura, il giallo dei campi, il verde del
foraggio, il marrone della terra dissodata sia tutto quello che ha,
sia, in fin dei conti, quello che è.
Nell'emiliano
Camurri, in quel di Fabbrico, non esistono colpi di testa o incontri
folgoranti. Ci si conosce da tutta la vita. Si va. Si viene. Qualche
volta si torna per restare. Ci penso, e penso a
una mostra fotografica a cielo aperto. Istantanee sui pali della
luce, negli scheletri polverosi delle cabine telefoniche, sui tronchi
degli alberi e i segnali stradali. Istantanee con le pinze colorate ai fili del
telefono, come lenzuona stese ad asciugare. I racconti di Roberto Camurri – parte
microscopica e vitale, in realtà, dello stesso identico quadro –
altro non sono che un andirivieni di storie in ordine sparso, di
facce che diventano presto familiari, di discese e risalite che ti
portano inevitabilmente lì. Su una via di casa
lungo la quale è meraviglioso attardarsi al tramonto. Dove appartieni.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Diodato feat. Roy Paci - Adesso
poetico e intrigante come sempre...
RispondiEliminaGrazie, Saya!
EliminaAspettavo questa tua recensione! E come al solito mi hai fatto venire voglia di leggerlo... Bravo, bravo, bravo.
RispondiEliminaConsigliatissimo, Dany. ;)
EliminaDavvero un'ottima recensione! Mi è piaciuta tanto leggerla :)
RispondiEliminaMa grazie!
EliminaRecensione stupenda, posseggo il libro e mi hai proprio messo addosso la voglia di recuperarne la lettura :) Grazie!
RispondiEliminaGrazie, Anna. Leggilo presto. :)
EliminaSembra una di quelle storie da provincia emiliana che fanno molto (troppo?) Ligabue.
RispondiEliminaSiamo sicuri che l'abbia scritto Camurri e non lui? :)
Anche se Ligabue non mi piace (anche se i suoi film m'ispiracchiano, ma non li ho mai visti), il paragone a ben vedere ci sta.
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