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Montpelier Parade, di Karl Geary. Playground, € 17,
pp. 234 |
Essere
adolescenti nella Dublino del cinema di John Carney e Jim Sheridan.
Gli anni Ottanta che si fanno fatica a riconoscere, all'apparenza
sbucati dalla miseria del dopoguerra, e le case come nidiate stipate
di uccelli emaciati. Sonny, sedici anni, ha la sfortuna di essere il
più piccolo della sua famiglia: figlio di due genitori ormai
anziani, anestetizzati sempre dagli stessi litigi e dalle false
lusinghe della TV; ultimo di una lunga e anonima sequela di fratelli
maggiori. Difficile concedersi il lusso della solitudine in una casa
affollata quanto la sua. Difficile mettere da parte qualche spicciolo
per una fuga verso l'indipendenza. Attraverso il bellissimo impiego
di un narratore di seconda persona, leggiamo così degli anfratti
segreti in cui il protagonista nasconde risparmi dalla vita assai
malsicura; di un personaggio a metà fra il Marcus di Indignazione
e Il giovane Holden,
che si trascina inquieto in una Irlanda apatica e modesta, con le
sigarette e il coltellino a serramanico in tasca, le mani ciondoloni
sempre sporche di rosso – inchiostro, sangue, vino, polvere di
mattoni. Ruba pezzi di biciclette per assemblarne un giorno una tutta
sua, come il risparmio e la piccola delinquenza esigono. S'imbuca in
sale in cui proiettano film pornografici, con dell'alcol di
contrabbando imboscato sotto il giaccone. Ribolle, sentendosi
perennemente fuori posto, e poi in silenzio minaccia lacrime. La
faccia serafica che si ritrova non gli calza a pennello, non pare
appartenergli. Gli permette però di evitare risse e discussioni
all'occorrenza, di fingersi laconico o prestare inosservato ascolto
alle parole sconce di adulti che desidererebbero scandalizzarlo
parlando di sesso. È una storia di perdita dell'innocenza, la sua:
di iniziazione all'amore. Un doppio apprendistato che passa prima
dalla macelleria in cui lavora come garzone dopo la scuola, poi da un
quartiere residenziale diventato status symbol.
Porti
con te il pezzo di carta nel retrobottega, e prima di ripiegarlo con
cura e infilartelo in tasca, leggi il suo nome, ma non ad alta voce,
perché è qualcosa che desideri tenere per te. Vera.
Ricostruire
un muretto in una villa di ricchi lo mette sulla strada di
Vera: padrona di casa raffinata e distante, adulta e malinconica come
le Malena e Carol degli omonimi film, che brilla di luce propria come
una diva hollywoodiana; fuma per il gusto sadomasochistico di
autoannientarsi; fa sesso come se non ci fosse un domani, e come se
non ci fosse un domani è attratta inesorabilmente dai flaconi di
antidepressivi nascosti dappertutto. Innamorarsi di lei, e per di più
corrisposto, è un vortice che ora sembra una gita interminabile –
i viaggi in macchina, le passeggiate per musei e le letture a voce
alta di T.S. Elliot, l'attrazione mista a repulsione per una coetanea
così simile alla parte peggiore di Sonny e così diversa
dall'ereditiera abbandonata –, ora l'abisso. Quella che sembrava
una scorciatoia fortuita è invece l'inizio di una personale
via crucis. Quel quartiere,
quella casa, no, non fanno la felicità.
«La
prima volta che mi sono sposata ero molto giovane, poco più grande
di te. All'inizio è stato bellissimo, poi triste. Ma è successo
tutto molto in fretta. Anche la seconda volta è stato bellissimo, e
poi triste, ma ci è voluto un mucchio di tempo per superarlo.»
«Non
sarà mai bellissimo senza essere triste?»
Tutt'attorno,
matrimoni precoci perché riparatori; matrimoni finiti, e per ben due
volte; matrimoni che si tengono in piedi a stento, con una madre che
lava piatti tutto il giorno e un padre incantato dalle malie del tubo
catodico. L'amore non esiste, o comunque ci si crede soltanto fino ai
sedici anni. Ma non si crede, al contrario, all'istruzione, alla
cultura: il protagonista taglia carne e lucida banconi, in fondo, no?
Fa carta straccia della sua borsa di studio, della sua seconda
opportunità. Andare fuori, lontano: ma dove? Sonny è davvero
migliore di tutti loro? E Vera: lei è forse l'eccezione alla regola?
Il
tempo guarisce ogni ferita, lo dicono tutti.
Prezioso
e struggente, l'esordio di Karl Geary – attore, regista,
sceneggiatore – è lo splendido ritratto di un'età in bilico. Di
un paese sul precipizio, dove i treni sfrecciano ma non fanno mai
tappa. Che ne sanno i piedi, però? Che ancora scalciano per portarti
a galla. Che ancora, nonostante tutto, corrono verso il miraggio sbiadito di lei. Non c'è via d'uscita da questa Dublino. Non una che passi, almeno, dal viale dei sogni infranti di Montpelier Parade.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Cat Stevens – The First Cut is the Deepest
Molto interessante. Letture mai banali le tue. Lea
RispondiEliminaGrazie, Lea. Tutto merito della bellezza del catalogo Fandango, scoperto da pochissimo e in ritardo.
EliminaNon so se può essere nelle mie corde ma la tua recensione mi lascia comunque incuriosita!
RispondiEliminaSecondo me sì, Sara. Nel suo piccolo, è un romanzo non troppo distante dai grandi classici della narrativa di formazione.
EliminaSento il sapore di Sing Street nell'aria!
RispondiEliminaPotrebbe essere l'irlandesata buona per me. :)
Ecco, una di quelle storie che adoreresti proprio.
EliminaSono piovuta sul tuo blog quasi per caso, e mi sono innamorata delle armosfere che racconti.
RispondiEliminaHo recuperato il recuperabile delle vecchie recensioni, letto e scoperto di nuove possibili letture, e il tuo modo di raccontarle mi ha colpita immensamente.
Sono tornata ora alla prima recensione che mi ha permesso di conoscerti, giusto per dirti che questa Dublino anni 80 ha acceso la mia curiosità, ma che molto di più hanno fatto le tue parole.
Hai appena conquistato una nuova lettrice, quindi risentirai spesso la mia presenza ;)
Ma ciao, Ielenia, e che gioia leggerti nell'apatia di queste giornate. Mi hai dato la carica giusta. Grazie mille, davvero. A rileggerti presto!
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