Un
conglomerato di palazzine lilla a un passo da Disneyland. Che carino,
dici tu: i colori delicati, un cortile con piscina, i cartelli
stradali che parlano di Sette Nani e altri personaggi da fiaba. In
una scena, però, una coppietta di sposini porta i bagagli nella hall
e subito fa dietrofront, fra l'indignazione di lei e la
mortificazione di lui. Il parco divertimenti, infatti, è vicino ma
non abbastanza. Il complesso di appartamenti gestito da un dolcissimo
Willem Dafoe ospita brutta gente, brutte storie. Gli sfrattati dalla
vita che si arrangiano – facendo lavori a tempo determinato,
truffando chi capita, spesso prostituendosi con i figli chiusi giusto
nella stanza accanto – ed esistono ai margini delle strade a
scorrimento veloce, del sogno di una America per turisti che non
sanno o non vogliono guardare da vicino. Nell'equivalente delle
nostre case popolari, gli ospiti di Dafoe – che non pagano
puntuale, si azzuffano, lo invischiano in disastri grandi e piccoli –
lasciano che d'estate i loro bambini scorazzino qui e lì. Mamme
single, soprattutto, mamme adolescenti, con uomini che, richiusa in
fretta la patta, sono scappati altrove. La Florida di Sean Beaker, di
cui dopo questo gioiello indie mi toccherà rimediare il rimediabile,
con la bella stagione diventa la terra dei più piccoli. Gelati condivisi,
ché un po' lecco io e un po' lecchi tu; facciamo a gara a chi sputa
più lontano, centrando magari la macchina parcheggiata nel vialetto
e la sua proprietaria arrabbiatissima; diamoci ai cibi spazzatura,
alle parolacce, agli atti di piromania, tanto è tutto un gioco, e
non c'è pericolo alcuno. The
Florida Project,
con una fotografia che contempli con occhi grandi così, mostra le
giornate di tre sboccate e adorabili canaglie a cui non si resiste –
Brooklynn Prince in particolare è di una naturalezza straordinaria,
in gesti e dialoghi che ho immaginato improvvisati al momento.
L'estate non finisce mai, come i loro sei anni. Gli adulti non
vegliano. Quando si accorgono di qualcosa, quando finalmente
guardano, vorrebbero infervorarsi ma scoppiano a ridere davanti a
quella tenerezza tanto sfacciata. Allo stesso modo, quando potrebbe
farsi più furbo e pesante – non scordiamoci del degrado
tutt'attorno, di educazioni pessime che mettono sul chi va là gli
assistenti sociali –, Sean Baker sdrammatizza con il filtro di
infanzie in presa diretta che, nonostante la durezza del contesto, mi
hanno ricordato la magia di quella di Boyhood
e
un po' la mia. I piccoli di The
Florida Project,
che poi sono il suo tutto, sono limpidi e incorruttibili. Non
dovrebbero diventare mai uomini. Perciò, se il dramma irrompe, si
prendono per mano e corrono più veloce del pensiero di crescere
allontanandosi. Ti porto via io, promettono, e puntano
all'arcobaleno. A prendere l'oro nascosto in
una pentola, stando alla leggenda. A uccidere i folletti che lo sorvegliano. A
riprendersi l'infanzia che spetta a noi, bambini grandi. (8)
Si
fa chiamare J. Così, con un punto netto alla fine. La protagonista
di They
rifiuta infatti generi e pronomi. A volte indossa vestitini a fiori,
altre pinocchietti da maschiaccio. I capelli corti, un visino bello e
indefinibile, un foglio sul comodino su cui appuntare se nel giorno
in questione si sente maschio o femmina. Nel dubbio, lascia parlare
di sé alla terza persona plurale: loro. Loro deve passare qualche
giorno con la sorella e il fidanzato di lei, entrambi artisti, se
mamma e papà sono via per badare a una zia che sta perdendo la
memoria. Loro ha poco tempo per sospendere la cura ormonale che ne
rallenta lo sviluppo e per scegliere, in presenza del suo dottore,
chi e che cosa essere da grande. Non si può rimanere bambini per sempre?
Senza nome di battesimo, senza età, senza sesso? L'iraniana Anahita
Ghazvinizadadeh sceglie per il suo primo film americano una storia
difficilissima, di crescita e identità, a cui per fortuna conferisce
con tocchi essenziali la delicatezza di un cinema indipendente che sa
come non appesantire. A una prima parte sommessa e poetica, in cui ho
sentito quasi che avrei potuto amarlo, il film prodotto da Jane
Campion sceglie di parlare doppiamente di pluralità. Da una parte,
la confusione di una protagonista ancora incapace di dare confini
alla propria anima e al proprio corpo. Dall'altra, nel secondo tempo,
la coralità dell'accogliente famiglia iraniana del cognato di J.,
più vicina alle origini della regista che alle necessità di una
storia che di scorci d'oriente, di volti in più, non aveva affatto bisogno. Discreto, prezioso, irrimediabilmente irrisolto, They
è
sospeso fra scelte, fra sentieri, come certi bei film da festival.
Come certe sessualità. (6,5)
Vive
a Londra. Ha amanti di una notte e via, mai innamorati da presentare
ai parenti. Ha un buon lavoro in centro, ma minaccia di licenziarsi
un giorno sì e l'altro pure. Vorrebbe mangiare meglio, andare a
correre regolarmente, smettere di fumare. Non desidera che un po' di
felicità. Non sto parlando di Bridget Jones. Il film porta il nome di un'altra: Daphne. Una trentunenne sempre di corsa, rossa e segaligna,
allergica alle frecce di Cupido. Non crede all'amore, descritto come
una malattia degenerativa. Nel finesettimana, non va a cena da una
mamma che ha combattuto contro un tumore alla tiroide. L'energica
protagonista interpretata da una Emily Beecham da tener d'occhio –
mio fratello giura di essersi invaghito di lei negli episodi della
sottovalutata Into the Badlands – è preda del senso di
inquietudine di chi si è perso in una grande città e porta sulle
spalle un'armatura pesante di indifferenza. La corazza si infrange
non quando trova banalmente l'uomo giusto – ne incontra diversi, ma
non è interessata a nessuno di loro –, ma assistendo suo malgrado
a un atto di violenza. Una rapina finita male di cui
raccontare il trauma a uno psicologo. Ma Daphne
non sente niente, o così crede. Da bambina desiderava la morte dei genitori per essere un'orfana servita e riverita, da adulta
spezza cuori senza neanche accorgersene. Meccanismi di difesa che me
l'hanno resa umana, antipatica: simile a me in maniera esasperante,
in giorni in cui non mi piaccio, no. Ci si aspettava, in generale,
più brio. Più divertimento da una anti-eroina di oggi a metà tra
l'incallita zitella della Fielding e la dissacrante protagonista di
Fleabag. Realistico, quotidiano, Daphne sembra aprirsi
tardi al gusto del sarcasmo britannico e alla mano tesa del prossimo.
Amareggiando troppo, con la differenza tutt'altro che sottile che
passa tra l'essere single e l'essere soli. (5,5)
Gli
anni '50 di quel cinema intramontabile a cui Todd Haynes, con
grazia esemplare, ama rifarsi. I colori pastello, tutti
elegantissimi, una finestra in soggiorno da cui si scorgono la cura
del giardino e la bandiere americana. A casa, davanti a un drink, si
scambiano chiacchiere e confidenze intime Miss Fairytale e
l'inseparabile amica Emerald. Discorsi da casalinghe di quel tempo,
lontane dalla parità dei sessi. I mariti traditori e a volte
violenti, il sogno di vivere in una commedia con la Day, scappare
insieme come una versione retrò di Thelma e Louise. Per quel che
vale, potrebbero essere la Moore e la Blanchett, la Davis e Kim
Novak. L'ospite è Lucia Mascino, bravissima attrice teatrale. La
padrona di casa, invece, un Filippo Timi en travesti. Che interpreta
non un personaggio transessuale, ma una donna con le gonne a campana
e la messa in piega. Che non rende acuta la voce con cui ha doppiato
Tom Hardy in Nolan, eppure ci appare scena dopo scena un esilarante e
bellissimo angelo del focolare. Con gli UFO avvistati nel suo ridente
sobborgo statunitense, un cambiamento a cui abituarsi dall'oggi al
domani, un omicidio a sangue freddo da pianificare con la fuga che
naturalmente ne consegue. Sua complice, insieme alla Mascino, Lady:
una subdola cagnetta bianca per cui ogni occasione è buona per
imboccare la porta principale – per fortuna, la riportano a casa a
turno tre aitanti gemelli monozigoti –, peccato soltanto sia
imbalsamata. Trasposizione per il cinema di una pièce che Timi ha
scritto e interpretato qualche anno fa – sì, uno dei migliori
attori del panorama italiano, stimato dai registi più impegnati di
casa nostra, ha in realtà un ingegno acuto e una sorprendente anima
queer –, Favola è una commedia grottesca, nera, unica nel
suo genere, che potrebbe trovare più di qualche difficoltà a
imporsi in sala. Come far circolare questo delirio irresistibile di
danze, amori impossibili e costumi sgargianti, se il surreale lo si
accetta più a teatro? Come rinunciarci però? Applausi e risate in
sala, per un'accoglienza sorprendentemente calorosa che ha
inorgoglito e imbarazzato quel Timi seduto tre file davanti a me.
Per la regia di Sebastiano Mauri, che gioca e stranisce, e che il
teatro sa come metterlo in camera. Per la cornice finale, che dà una
spiegazione a un nonsenso forse già appagante così. Per un piccolo grande cast di trasformisti,
che ti invitano a mantenerti affamato e strano. (7,5)
Ormai sei lanciatissimo come critico cinematografico radical-chic da festival! ;)
RispondiEliminaIl regista di The Florida Project con il precedente pur valido Tangerine non è che mi avesse entusiasmato del tutto, però il potenziale c'era e con questo nuovo film a quanto pare è esploso in pieno. Sicuramente da recuperare quando arriverà, probabilmente prima in rete che nei cinema del resto d'Italia.
They mi sa troppo di film da Festival, però la produzione di Jane Campion dopo l'ottima serie Top of the Lake mi fa ben sperare.
Daphne, nonostante il voto, a sentire quello che dici pare piuttosto interessante. Al contrario di Into the Badlands, che almeno dal pilot fa abbastanza pena. :)
Il troppo teatrale Favola invece mi sa che non fa per me, sorry.
Tangerine mi manca, ma è in rampa di lancio.
EliminaThey, troppo festivaliero, vero, secondo me potrebbe piacerti.
Daphne nì.
Favola, a malincuore, lo stesso.
Ormai mi sei utilissimo sia per conoscere libri che per conoscere film :D
RispondiEliminaNon sapevo niente di The Florida Project e They, ma li vedrò sicuramente *^*
Grazie mille, Kate!
EliminaThe Florida Project arriva prestissimo, complice la stagione dei premi; They chissà, lo spero. In ogni caso, fammi sapere. :)
The Florida Project mi ha un po'deluso, era forse il film che aspettavo di più a questo TFF,e invece non mi ha entusiasmato. Mi è spiaciuto non riuscire a incastrare Favola, che spero di recuperare prima o poi, mentre Daphne mi ha detto davvero poco. Lei è fastidiosa e il film si adegua.
RispondiEliminaUh, quanto mi dispiace.
EliminaAnche da me attesissimo e, per fortuna, l'ho trovato il più bello in programma davvero. Anche il Fratello l'ha adorato.
Altri film per cui ti invidio tantissimo la trasferta torinese. Inutile dire che segno e aspetto tutto, e che cercherò di organizzarmi per il prossimo anno. Speriamo.
RispondiEliminaAh, come ti piacerà Baker secondo me!
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