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sabato 9 dicembre 2017

Mr. Ciak - Torino Film Festival: The Florida Project, They, Daphne, Favola

Un conglomerato di palazzine lilla a un passo da Disneyland. Che carino, dici tu: i colori delicati, un cortile con piscina, i cartelli stradali che parlano di Sette Nani e altri personaggi da fiaba. In una scena, però, una coppietta di sposini porta i bagagli nella hall e subito fa dietrofront, fra l'indignazione di lei e la mortificazione di lui. Il parco divertimenti, infatti, è vicino ma non abbastanza. Il complesso di appartamenti gestito da un dolcissimo Willem Dafoe ospita brutta gente, brutte storie. Gli sfrattati dalla vita che si arrangiano – facendo lavori a tempo determinato, truffando chi capita, spesso prostituendosi con i figli chiusi giusto nella stanza accanto – ed esistono ai margini delle strade a scorrimento veloce, del sogno di una America per turisti che non sanno o non vogliono guardare da vicino. Nell'equivalente delle nostre case popolari, gli ospiti di Dafoe – che non pagano puntuale, si azzuffano, lo invischiano in disastri grandi e piccoli – lasciano che d'estate i loro bambini scorazzino qui e lì. Mamme single, soprattutto, mamme adolescenti, con uomini che, richiusa in fretta la patta, sono scappati altrove. La Florida di Sean Beaker, di cui dopo questo gioiello indie mi toccherà rimediare il rimediabile, con la bella stagione diventa la terra dei più piccoli. Gelati condivisi, ché un po' lecco io e un po' lecchi tu; facciamo a gara a chi sputa più lontano, centrando magari la macchina parcheggiata nel vialetto e la sua proprietaria arrabbiatissima; diamoci ai cibi spazzatura, alle parolacce, agli atti di piromania, tanto è tutto un gioco, e non c'è pericolo alcuno. The Florida Project, con una fotografia che contempli con occhi grandi così, mostra le giornate di tre sboccate e adorabili canaglie a cui non si resiste – Brooklynn Prince in particolare è di una naturalezza straordinaria, in gesti e dialoghi che ho immaginato improvvisati al momento. L'estate non finisce mai, come i loro sei anni. Gli adulti non vegliano. Quando si accorgono di qualcosa, quando finalmente guardano, vorrebbero infervorarsi ma scoppiano a ridere davanti a quella tenerezza tanto sfacciata. Allo stesso modo, quando potrebbe farsi più furbo e pesante – non scordiamoci del degrado tutt'attorno, di educazioni pessime che mettono sul chi va là gli assistenti sociali –, Sean Baker sdrammatizza con il filtro di infanzie in presa diretta che, nonostante la durezza del contesto, mi hanno ricordato la magia di quella di Boyhood e un po' la mia. I piccoli di The Florida Project, che poi sono il suo tutto, sono limpidi e incorruttibili. Non dovrebbero diventare mai uomini. Perciò, se il dramma irrompe, si prendono per mano e corrono più veloce del pensiero di crescere allontanandosi. Ti porto via io, promettono, e puntano all'arcobaleno. A prendere l'oro nascosto in una pentola, stando alla leggenda. A uccidere i folletti che lo sorvegliano. A riprendersi l'infanzia che spetta a noi, bambini grandi. (8)

Si fa chiamare J. Così, con un punto netto alla fine. La protagonista di They rifiuta infatti generi e pronomi. A volte indossa vestitini a fiori, altre pinocchietti da maschiaccio. I capelli corti, un visino bello e indefinibile, un foglio sul comodino su cui appuntare se nel giorno in questione si sente maschio o femmina. Nel dubbio, lascia parlare di sé alla terza persona plurale: loro. Loro deve passare qualche giorno con la sorella e il fidanzato di lei, entrambi artisti, se mamma e papà sono via per badare a una zia che sta perdendo la memoria. Loro ha poco tempo per sospendere la cura ormonale che ne rallenta lo sviluppo e per scegliere, in presenza del suo dottore, chi e che cosa essere da grande. Non si può rimanere bambini per sempre? Senza nome di battesimo, senza età, senza sesso? L'iraniana Anahita Ghazvinizadadeh sceglie per il suo primo film americano una storia difficilissima, di crescita e identità, a cui per fortuna conferisce con tocchi essenziali la delicatezza di un cinema indipendente che sa come non appesantire. A una prima parte sommessa e poetica, in cui ho sentito quasi che avrei potuto amarlo, il film prodotto da Jane Campion sceglie di parlare doppiamente di pluralità. Da una parte, la confusione di una protagonista ancora incapace di dare confini alla propria anima e al proprio corpo. Dall'altra, nel secondo tempo, la coralità dell'accogliente famiglia iraniana del cognato di J., più vicina alle origini della regista che alle necessità di una storia che di scorci d'oriente, di volti in più, non aveva affatto bisogno. Discreto, prezioso, irrimediabilmente irrisolto, They è sospeso fra scelte, fra sentieri, come certi bei film da festival. Come certe sessualità. (6,5)

Vive a Londra. Ha amanti di una notte e via, mai innamorati da presentare ai parenti. Ha un buon lavoro in centro, ma minaccia di licenziarsi un giorno sì e l'altro pure. Vorrebbe mangiare meglio, andare a correre regolarmente, smettere di fumare. Non desidera che un po' di felicità. Non sto parlando di Bridget Jones. Il film porta il nome di un'altra: Daphne. Una trentunenne sempre di corsa, rossa e segaligna, allergica alle frecce di Cupido. Non crede all'amore, descritto come una malattia degenerativa. Nel finesettimana, non va a cena da una mamma che ha combattuto contro un tumore alla tiroide. L'energica protagonista interpretata da una Emily Beecham da tener d'occhio – mio fratello giura di essersi invaghito di lei negli episodi della sottovalutata Into the Badlands – è preda del senso di inquietudine di chi si è perso in una grande città e porta sulle spalle un'armatura pesante di indifferenza. La corazza si infrange non quando trova banalmente l'uomo giusto – ne incontra diversi, ma non è interessata a nessuno di loro –, ma assistendo suo malgrado a un atto di violenza. Una rapina finita male di cui raccontare il trauma a uno psicologo. Ma Daphne non sente niente, o così crede. Da bambina desiderava la morte dei genitori per essere un'orfana servita e riverita, da adulta spezza cuori senza neanche accorgersene. Meccanismi di difesa che me l'hanno resa umana, antipatica: simile a me in maniera esasperante, in giorni in cui non mi piaccio, no. Ci si aspettava, in generale, più brio. Più divertimento da una anti-eroina di oggi a metà tra l'incallita zitella della Fielding e la dissacrante protagonista di Fleabag. Realistico, quotidiano, Daphne sembra aprirsi tardi al gusto del sarcasmo britannico e alla mano tesa del prossimo. Amareggiando troppo, con la differenza tutt'altro che sottile che passa tra l'essere single e l'essere soli. (5,5)

Gli anni '50 di quel cinema intramontabile a cui Todd Haynes, con grazia esemplare, ama rifarsi. I colori pastello, tutti elegantissimi, una finestra in soggiorno da cui si scorgono la cura del giardino e la bandiere americana. A casa, davanti a un drink, si scambiano chiacchiere e confidenze intime Miss Fairytale e l'inseparabile amica Emerald. Discorsi da casalinghe di quel tempo, lontane dalla parità dei sessi. I mariti traditori e a volte violenti, il sogno di vivere in una commedia con la Day, scappare insieme come una versione retrò di Thelma e Louise. Per quel che vale, potrebbero essere la Moore e la Blanchett, la Davis e Kim Novak. L'ospite è Lucia Mascino, bravissima attrice teatrale. La padrona di casa, invece, un Filippo Timi en travesti. Che interpreta non un personaggio transessuale, ma una donna con le gonne a campana e la messa in piega. Che non rende acuta la voce con cui ha doppiato Tom Hardy in Nolan, eppure ci appare scena dopo scena un esilarante e bellissimo angelo del focolare. Con gli UFO avvistati nel suo ridente sobborgo statunitense, un cambiamento a cui abituarsi dall'oggi al domani, un omicidio a sangue freddo da pianificare con la fuga che naturalmente ne consegue. Sua complice, insieme alla Mascino, Lady: una subdola cagnetta bianca per cui ogni occasione è buona per imboccare la porta principale – per fortuna, la riportano a casa a turno tre aitanti gemelli monozigoti –, peccato soltanto sia imbalsamata. Trasposizione per il cinema di una pièce che Timi ha scritto e interpretato qualche anno fa – sì, uno dei migliori attori del panorama italiano, stimato dai registi più impegnati di casa nostra, ha in realtà un ingegno acuto e una sorprendente anima queer –, Favola è una commedia grottesca, nera, unica nel suo genere, che potrebbe trovare più di qualche difficoltà a imporsi in sala. Come far circolare questo delirio irresistibile di danze, amori impossibili e costumi sgargianti, se il surreale lo si accetta più a teatro? Come rinunciarci però? Applausi e risate in sala, per un'accoglienza sorprendentemente calorosa che ha inorgoglito e imbarazzato quel Timi seduto tre file davanti a me. Per la regia di Sebastiano Mauri, che gioca e stranisce, e che il teatro sa come metterlo in camera. Per la cornice finale, che dà una spiegazione a un nonsenso forse già appagante così. Per un piccolo grande cast di trasformisti, che ti invitano a mantenerti affamato e strano. (7,5)

8 commenti:

  1. Ormai sei lanciatissimo come critico cinematografico radical-chic da festival! ;)

    Il regista di The Florida Project con il precedente pur valido Tangerine non è che mi avesse entusiasmato del tutto, però il potenziale c'era e con questo nuovo film a quanto pare è esploso in pieno. Sicuramente da recuperare quando arriverà, probabilmente prima in rete che nei cinema del resto d'Italia.

    They mi sa troppo di film da Festival, però la produzione di Jane Campion dopo l'ottima serie Top of the Lake mi fa ben sperare.

    Daphne, nonostante il voto, a sentire quello che dici pare piuttosto interessante. Al contrario di Into the Badlands, che almeno dal pilot fa abbastanza pena. :)

    Il troppo teatrale Favola invece mi sa che non fa per me, sorry.

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    1. Tangerine mi manca, ma è in rampa di lancio.

      They, troppo festivaliero, vero, secondo me potrebbe piacerti.

      Daphne nì.
      Favola, a malincuore, lo stesso.

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  2. Ormai mi sei utilissimo sia per conoscere libri che per conoscere film :D
    Non sapevo niente di The Florida Project e They, ma li vedrò sicuramente *^*

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    1. Grazie mille, Kate!
      The Florida Project arriva prestissimo, complice la stagione dei premi; They chissà, lo spero. In ogni caso, fammi sapere. :)

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  3. The Florida Project mi ha un po'deluso, era forse il film che aspettavo di più a questo TFF,e invece non mi ha entusiasmato. Mi è spiaciuto non riuscire a incastrare Favola, che spero di recuperare prima o poi, mentre Daphne mi ha detto davvero poco. Lei è fastidiosa e il film si adegua.

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    1. Uh, quanto mi dispiace.
      Anche da me attesissimo e, per fortuna, l'ho trovato il più bello in programma davvero. Anche il Fratello l'ha adorato.

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  4. Altri film per cui ti invidio tantissimo la trasferta torinese. Inutile dire che segno e aspetto tutto, e che cercherò di organizzarmi per il prossimo anno. Speriamo.

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