È stato un bravo bambino, non faceva né i capricci né piangeva. È diventato grande in maniera serpentina e sfuggente, incomprensibile ai suoi stessi parenti: silenzioso, selvatico, con la bocca serrata e gli occhi spalancati, tutt'uno con la natura circostante. Si è trasformato, a diciassette anni, in un brivido lungo la spina dorsale: il ragazzo è una presenza quiescente ai piedi del letto, con un cacciavite stretto nel pugno. Le mie parole, come diapositive in rapida successione, spererebbero di mettere in ordine il puzzle di questa crescita spaventosa. E di farvi luce. Quale speranza ho di comprenderne il disagio esistenziale – le irruzioni, i furti, gli atti vandalici, le tendenze voyeuristiche –, se perfino chi l'ha messo al mondo brancola a tentoni appresso al suo mistero? Lo scriveva anche Donato Carrisi nel suo ultimo romanzo, riflettendo su una questione spinosa: quando la cronaca nera ci racconta di una gioventù criminale, quanta responsabilità dovrebbero assumersi i genitori del minorenne? Come possono una mamma e un padre perdonare loro stessi, se non hanno saputo leggere i segnali della catastrofe incombente? Discreta e minimalista come i migliori autori americani – ho pensato a Elizabeth Strout per le somiglianze con le vicende della sfortunata famiglia Doyle, presente in Olive Kitteridge –, l'autrice di La vita felice indaga con decoro le inquietudini degli incompresi e di chi non li comprende, gli estinti e i superstiti, i fantasmi che il bosco libera di notte.
Facciamo tutti cose orribili, anche se non vogliamo.
Ogni capitolo segue un membro della famiglia e, costruito tra passato e presente, costituisce quasi un racconto a sé stante. Come in Lacci di Domenico Starnone, la storia di una famiglia italiana annientata dalla tragedia e dal peso della vergogna prende vita grazie all'alternanza dei punti di vista. Perché nessuno è nella testa di nessuno, scrive l'autrice, e allora tanto vale prestare ascolto alle storie di Sara, Pietro, Angela e Amelia: quattro derelitti che orbitano attorno a un'unica assenza, allo stesso buco nero. Ex infermiera, Sara è una madre anziana e sconfitta, con la mente e il cuore fragili: durante una tormenta di neve, con il Natale alle porte, crede di vedere il figlio redivivo sotto un cappuccio scuro. Pietro, il marito prigioniero di un matrimonio votato all'incomunicabilità, si è rifugiato nell'insegnamento: professore stacanovista e integerrimo, conosce una bidella dal trucco pesante e accarezza l'idea del tradimento. Le loro figlie, Angela e Amelia, si confrontano invece in un campeggio in riva al fiume: divorate dai sensi di colpa, confrontano i ricordi falsati legati al fratello più piccolo e dicono basta alle bugie. Le illusioni, il sesso, gli ansiolitici, la religione sono soltanto alcuni dei palliativi più frequenti per mettere a tacere le coscienze. Nell'ultimo capitolo, struggente e originalissimo, ne sapremo di più del ragazzo del titolo. Un adolescente dalle tendenze sociopatiche, con frequenti pensieri cattivi e il sogno di vivere da eremita.
Lui è gentile e buono e sorridente. È il primo della classe. È un piccolo ladruncolo, un bugiardo, un tipo strano. Un guardone del cazzo, un'ombra che si aggira in un parcheggio. È tutte queste cose e insieme non è niente.
Poco più che un'ombra ai margini della carreggiata e delle vite altrui, il ragazzo spicca comunque. Perché le assenze si notano, e urlano a squarciagola. Mentre ambienta il romanzo in una località fittizia che ricorda le suggestioni del Midwest – le atmosfere placide, gli stili di vita sonnacchiosi, i portici, i torrenti e le vallate –, Elena Varvello fa apparire semplicissimo ciò che è difficile. Ci sono piccoli dettagli stridenti a rendere sinistri i suoi scorci verdeggianti. I personaggi hanno alibi oscuri e cuori misteriosi. Il tempo del racconto, in maniera sorprendente, si piega, si plasma e si scioglie in una scansione cronologica degna del film A Ghost Story. Molto più che un thriller, oltre il dramma, Solo un ragazzo è una presenza fantasmatica che regala qui e lì fantasiose tinte horror. Selvatico ma poetico come il soggetto di un dipinto di Ligabue, il non protagonista di questo romanzo è una creatura sorpresa da un passante nel proprio habitat naturale. Elena Varvello gli tende la mano. Descrive le profondità dell'insondabile, e non tenta di illuminarlo a ogni costo. Quando il ragazzo fugge via, no, lei non lo insegue. Si rifiuta di braccarlo, di abbassargli a forza il cappuccio, di affibbiargli un nome proprio. Il suo rispetto – la sua resa – appartiene alla pietas degli autori bravissimi.
Non credo possa piacermi, ma è molto bello ciò che hai scritto 🤗🤗
RispondiEliminaMi fai scoprire sempre letture interessanti e particolari! Di questo mi piace molto il modo in cui viene sfruttata l'assenza.
RispondiEliminaTi ringrazio, è un romanzo bellissimo.
EliminaSembra un romanzo molto international. A questo punto attendo più un'eventuale trasposizione HBO che non Rai. A meno che non decidano di collaborare come con L'amica geniale...
RispondiEliminaQuesto possono intitolarlo L'amico mortale. 😂
Eliminaio penso che potrebbe proprio piacermi!! sarà che più i protagonisti sono complessi, problematici ecc... e più ci vado a nozze :-D
RispondiEliminabuone feste! :))
Penso anche io, buone feste!
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